Sommario: 1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta. - 2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici. - 3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta.
Nelle ultime ore il programma di riforme del processo penale annunciato a più riprese dal Governo si è arricchito di un nuovo tassello: l’abolizione della norma che attribuisce al Giudice delle indagini preliminari la facoltà di ordinare al Pubblico Ministero, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, di formulare l’imputazione (articolo 409, 5° comma c.p.p.).
L’idea di un intervento così specifico - ed apparentemente interessante solo per i tecnici del processo penale - scaturisce, come già altre volte accaduto negli ultimi sei lustri, da una specifica ordinanza emessa da un magistrato in un procedimento che vede coinvolto un esponente politico del Governo in carica.
In particolare, al termine di un’indagine aperta a carico di un sottosegretario del Ministro della Giustizia, il Pubblico Ministero ha avanzato una richiesta di archiviazione, ritenendo insussistenti gli elementi del reato ipotizzato; il G.I.P., di contrario avviso, ha risposto emettendo un’ordinanza di “imputazione coatta”, ordinando cioè al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale nei confronti dell’indagato.
Alla notizia del provvedimento sono seguite immediate reazioni di “fonti” governative e del Ministero della Giustizia, seguite da interviste ad esponenti politici e consiglieri giuridici della maggioranza, che hanno preannunciato l’inserimento nella ormai prossima “riforma Nordio” dell’abolizione dell’istituto azionato dal G.I.P., ritenuto anomalo ed irrazionale.
In questa sede non è possibile (né, forse, interessante) fare riferimento al merito della vicenda processuale. Suscita tuttavia qualche riflessione l’impianto teorico a cui hanno fatto riferimento i fautori della paventata abolizione normativa, poiché dai loro ragionamenti sembra emergere una concezione del nostro processo penale ed in generale del sistema accusatorio inedita e a tratti sorprendente.
2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici
Per comprendere la ratio della nuova determinazione di espungere dal sistema processuale un istituto mai fino ad ora menzionato nelle decine di ipotesi di riforma che hanno costellato la travagliata vita del Codice di procedura penale, occorre in primo luogo vincere la naturale ritrosia degli operatori del diritto ad argomentare criticamente su documenti anonimi.
È infatti esercizio insolito, per chi è abituato a non poter fare alcun uso nel processo penale di qualsiasi scritto o dichiarazione anonima (art. 240 c.p.p.), quello di prendere a base di un ragionamento giuridico frasi non riferibili ad alcuno.
Nel caso di specie, tuttavia, i primi accenni critici all’imputazione coatta da cui evincere le ragioni della possibile sua abolizione nella prossima “riforma Nordio” sono contenuti in una nota che i quotidiani hanno riportato genericamente come “diffusa dal Ministero della Giustizia”.
Pur se non attribuibile con certezza direttamente al Ministro, questa nota contiene però un articolato ragionamento giuridico che non può essere ignorato in questa sede.
In quella che è stata la prima reazione “ufficiale” del Ministero della Giustizia sui fatti di cronaca prima ricordati si è affermato infatti, per spiegare le ragioni per cui l’istituto è “irrazionale” e dovrà essere abolito, che il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
Ad ulteriore dimostrazione dell’asserita irrazionalità dell’istituto è stato inoltre osservato che, nel processo conseguente all’esercizio dell’azione penale indotto dal GIP, “l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna, non farà altro che contraddire se stesso”.
L’assunto di base da cui il ragionamento parte è condivisibile: è fuor di dubbio che nel nostro sistema il Pubblico Ministero è l’unico organo deputato ad esercitare l’azione penale.
È proprio per non intaccare questa potestà esclusiva, del resto, che è previsto l’istituto dell’imputazione coatta: anche quando il GIP non ritiene di accogliere la richiesta di archiviazione ed è convinto che si debba procedere ad una verifica dibattimentale, non potrà mai sostituirsi al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma solo imporre a quest’ultimo di procedere in tal senso.
Potestà esclusiva non vuol dire però insindacabilità, sicché non si comprende quale sia il nesso tra l’affermare che il P.M. è l’unico ad avere il potere di esercizio dell’azione penale e il fatto che l’esercizio di questo potere non possa essere soggetto a controlli.
Peraltro, una conclusione del genere sarebbe del tutto eccentrica rispetto al nostro sistema processuale, in cui tutti gli atti delle indagini preliminari più importanti sono sottoposti al vaglio costante di un giudice terzo.
Non è forse superfluo ricordare che il cardine del nostro sistema processuale è il principio di separazione delle fasi (per il quale gli atti compiuti nelle indagini preliminari non costituiscono prova, salvo eccezioni, perché non assunti in contraddittorio davanti ad un giudice terzo).
Ebbene, uno dei corollari del predetto principio di separazione della fasi processuali è costituito dalla previsione del ruolo del giudice delle indagini preliminari, che, a norma dell’art. 328 c.p.p., “provvede sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato”, in alcuni casi previsti dalla legge.
In particolare, si tratta di tutti i casi in cui, durante le indagini preliminari e pur in assenza di prove (perché queste devono ancora essere formate) è consentita la compressione di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la proprietà privata (art. 42 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): in queste evenienze è previsto che intervenga un giudice terzo ed imparziale per verificare che la predetta compressione dei diritti sia necessaria e bilanciata da effettive esigenze di indagine.
È dunque previsto che non sia il Pubblico Ministero procedente ad emettere le ordinanze di custodia cautelare, i sequestri preventivi, i decreti di intercettazione ma un Giudice la cui potestà viene attivata in seguito a specifiche richieste del magistrato inquirente: anche questa previsione discende dunque dalla separazione della fasi e delle funzioni di cui si è detto.
In tutte le menzionate ipotesi è consentito all’indagato una sorta di diritto al contraddittorio (al limite, nelle forme dell’impugnazione), sebbene differito ad un momento successivo all’atto in relazione alla segretezza che di norma caratterizza la fase delle indagini preliminari.
Proprio come in tutte le fasi più delicate delle indagini preliminari è previsto l’intervento di un giudice ed una forma di contraddittorio compatibile con la segretezza delle indagini, a maggior ragione tale esigenza è avvertita per il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale.
È dunque connaturata al sistema processuale accusatorio ed alla divisione in fasi l’immanenza di un controllo giurisdizionale su tutti i momenti di particolare rilevanza nella fase precedente al dibattimento, in cui pur non essendosi ancora formalmente aperta la “contesa” tra accusa e difesa la persona sottoposta ad indagini può subire rilevanti conseguenze negative anche dalla semplice esistenza di un procedimento penale a suo carico.
Tra questi momenti, va sicuramente annoverata proprio la scelta del Pubblico Ministero di intraprendere - o non intraprendere - un processo pubblico e con accuse formalizzate a suo carico, che comporta l’assunzione della qualità di imputato e la sottoposizione ad un giudizio.
In merito, va ricordato che le determinazioni che il Pubblico Ministero può prendere all’esito delle indagini sono immancabilmente o l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Nel primo caso dunque, in ossequio ai principi esposti, il Pubblico Ministero non può direttamente determinare l’apertura di un processo a carico dell’imputato ma solo sollecitare il controllo del giudice terzo in contraddittorio tra le parti.
Come è evidente dunque, potestà esclusiva di esercitare l’azione penale non vuol dire assenza di controlli.
Per incidens, se per scelta legislativa – dettata da criteri di mera economica processuale - fino a poco tempo fa tale verifica era riservata ai procedimenti per reati più gravi (dove è prevista un’apposita fase, quella dell’udienza preliminare), con la riforma Cartabia il vaglio del giudice terzo sull’esercizio dell’azione penale è stato esteso a tutti i reati, poiché per quelli a citazione diretta è oggi stata introdotta l’udienza predibattimentale, che tra i suoi compiti più importanti ha proprio quello di affidare a un giudice terzo il vaglio sulla scelta del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.
Anche laddove il Pubblico Ministero ritenga che non vi siano i presupposti per processare l’imputato, tuttavia, non si può tenere aperto indefinitamente un procedimento penale che porta, per la sua stessa esistenza, conseguenze potenzialmente dannose per l'indagato: il procedimento penale deve dunque essere "archiviato", cioè inviato materialmente nell'archivio della Procura.
Il diritto dell'indagato di vedere la sua posizione definita e di non essere più considerato, a termini di legge, sottoposto ad indagini, costituisce dunque il fine principale a cui tende l'istituto dell'archiviazione.
Accanto a questo diritto vi è l'interesse dello Stato a sottoporre comunque a verifica l'operato del magistrato inquirente, che potrebbe -per colpa o addirittura dolosamente - evitare di esercitare l'azione penale pur in presenza dei presupposti per affrontare un processo.
Non va dimenticato infatti che l'azione penale è nel nostro ordinamento, per disposto costituzionale, obbligatoria (articolo 112 della Costituzione), il che implica tra l'altro che non sono consentite stasi o inerzie in tema di azione penale nè che si possa rinunciare alla stessa[1].
Pertanto, proprio come le determinazioni del Pubblico Ministero quando veste i panni della parte accusatrice sono sottoposte alla verifica da parte di un giudice terzo ed imparziale allo stesso modo anche la sua eventuale decisione di non esercitare l'azione penale deve essere sottoposta ad un vaglio da parte di un giudice.
Per questo motivo, l'archiviazione del procedimento è prevista come provvedimento finale di un procedimento articolato, eventualmente all'esito di un vero e proprio giudizio da svolgersi in camera di consiglio nelle forme disciplinate dall'articolo 127 del codice di procedura penale con la partecipazione delle parti.
Appare evidente che il controllo, per essere esercitato effettivamente e non ridursi ad una mera presa d’atto, deve implicare piena libertà da parte del giudice di determinarsi sia in senso conforme alle richieste del Pubblico Ministero (emettendo così un decreto di archiviazione) sia in senso difforme.
Quest’ultimo caso è disciplinato dai commi 4 e 5 dell’articolo 409 del codice di procedura penale, ove si prevede la possibilità per il GIP di non accogliere la richiesta di archiviazione e restituire il fascicolo al PM perché continui a svolgere indagini da lui individuate ed imposte o – se ritenga che non vi siano ulteriori indagini – perché eserciti l’azione penale.
Da quanto sopra descritto appare evidente che l’affermazione sopra riportata secondo cui il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” appare difficilmente applicabile al nostro sistema processuale.
Di più: essa sembra tradire l’idea di un Pubblico Ministero votato inevitabilmente all’accusa, incapace di mantenere l’equilibrio necessario a valutare con serenità la sussistenza di elementi di reato.
Solo così si spiega la sorpresa che trapela dietro l’ipotesi che un giudice possa spingersi, in questa valutazione, addirittura al di là della convinzione accusatoria di un pubblico ministero.
Anche questa ricostruzione del ruolo del Pubblico Ministero contrasta di fatto con il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e del nostro codice, che vuole invece nel magistrato inquirente un organo deputato a verificare la fondatezza delle notizie di reato ma nella piena libertà di autodeterminarsi e libero nei fini; sicché può ben verificarsi, ed appartiene anzi alla fisiologia del sistema, che egli arrivi al termine delle indagini preliminari e si determini per la richiesta di archiviazione anche in presenza di elementi che ad un altro magistrato (magari proprio il GIP che quella richiesta di archiviazione riceve) possono sembrare idonei al processo.
La stessa libertà dei fini che caratterizza l’azione del Pubblico Ministero nel corso delle indagini lo svincola dall’obbligo, pure paventato, di insistere nella sua idea, ben potendo invece egli – una volta esercitata l’azione penale su impulso del GIP – portare avanti con convinzione l’accusa e chiedere la condanna.
Tale ipotesi non vuol dire “contraddire se stesso” ma mantenere intatta fino al termine del processo la libertà dei fini, allo stesso modo in cui può accadere ed accade l’ipotesi contraria, di un PM che dopo avere chiesto il rinvio a giudizio di un imputato ne chieda poi al termine del processo l’assoluzione, dopo avere rivalutato in senso favorevole all’accusato gli elementi che in un primo momento gli erano sembrati idonei ad una prognosi di condanna.
3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
Ad arricchire ulteriormente il dibattito sull’abolizione dell’istituto in esame si sono successivamente aggiunte le dichiarazioni del consigliere Giuridico del Ministro della Giustizia, prof. Bartolomeo Romano, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’8 luglio ha dichiarato: “Una cosa è vigilare su cosa chiede il pubblico ministero in materia di libertà personale, altro è sostanzialmente sostituirsi a lui. E’ vero che la legge prevede l’imputazione coatta, ma dal mio punto di vista si tratta di una possibilità che contrasta con la natura stessa del processo accusatorio, come del resto la previsione che il PM faccia indagini a favore dell’indagato”.
Si tratta di dichiarazioni particolarmente interessanti perché provengono da fonte altamente qualificata e disvelano non solo un pensiero, del tutto simile a quelli esaminati in precedenza, sull’istituto dell’imputazione coatta ma anche sul sistema accusatorio.
La prima affermazione sembra voler limitare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero ad un potere di vigilanza che non sfoci in un potere di sostituzione: applicato alla richiesta di archiviazione – come chiarito dallo stesso Romano in un punto successivo della sua intervista – questo renderebbe ammissibile un’ordinanza con cui il G.I.P. suggerisca indagini al P.M. (istituto già previsto dall’articolo 409, 4° comma c.p.p.) ma non l’imputazione coatta.
Sul punto appare sufficiente richiamare quanto già detto in precedenza: con l’ordinanza che impone al PM di formulare l’imputazione il Giudice non si sostituisce al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma gli impone di rivedere le sue determinazioni, per contrastarne l’eventuale inazione o un uso (non legittimo) discrezionale della sua potestà esclusiva di esercitare l’azione penale.
Il controllo del giudice, ineliminabile per quanto detto, non potrebbe estrinsecarsi solo nella possibilità di suggerire indagini per il semplice motivo che non sempre ci sono indagini da suggerire.
A fronte di un’indagine completa e in cui sono presenti agli atti tutti gli elementi per instaurare un processo, cosa dovrebbe fare un GIP a fronte di una richiesta di archiviazione che ritiene errata? Suggerire nuove indagini anche se non servono? E se il PM, svolte le indagini prescritte, reiterasse la richiesta di archiviazione, come si eviterebbe lo stallo, e in definitiva quale sarebbe il rimedio all’inazione del Pubblico Ministero?
Ma l’affermazione che desta maggiori perplessità della ricostruzione del consigliere giuridico del Ministro riguarda l’asserita incompatibilità dell’imputazione coatta con il sistema accusatorio.
Probabilmente il mezzo utilizzato (intervista ad un quotidiano) non consentiva approfondimenti tecnici e la necessità di sintesi ha conferito alla frase un’assertività maggiore del voluto: tuttavia, non può non sorprendere l’idea che un istituto che prevede il controllo da parte di un giudice terzo, in contraddittorio paritetico tra le parti, di una richiesta di una di esse sia incompatibile con il sistema accusatorio, che sostanzialmente in questo consiste.
La sorpresa aumenta laddove il ragionamento prosegue con l’accostamento ad altro istituto ritenuto pure incompatibile con il sistema accusatorio: la norma che impone al Pubblico Ministero di svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (articolo 358 c.p.p.).
Giova ricordare che il nostro ordinamento assegna al Pubblico Ministero una funzione particolare, facendone un ibrido: egli è al contempo una parte processuale pura – portatore di una visione parziale, quella dell’accusa - ed un organo dello Stato, che rappresenta gli interessi collettivi della giustizia; per questo motivo è tenuto non solo alla ricerca degli elementi di accusa ma anche di quelli a favore dell’indagato.
Come detto in precedenza, il Pubblico Ministero è indifferente alle sorti del processo, contrariamente alle altre parti: in nessun caso egli è obbligato a chiedere il rinvio a giudizio o la condanna dell’imputato, né è titolare di un “mandato ad accusare” analogo e simmetrico al mandato difensivo, che gli imponga di sostenere le ragioni dell’accusa anche se non ne è convinto.
Al contrario, la sua funzione è di rappresentare in ogni fase l’interesse dello Stato ad un esito del procedimento penale conforme a giustizia, ciò che vuol dire sia individuare e chiedere la punizione i responsabili dei reati che sollecitare pronunce favorevoli alla persona indagata o imputata in mancanza delle condizioni per andare avanti.
Tali caratteristiche - libertà dei mezzi e indifferenza dei fini – non sono affatto in contrapposizione con il sistema accusatorio, che impone come pure si è rilevato la separazione delle fasi e la formazione della prova in contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo.
Il fatto che una delle parti sia libera nei fini e non vincolata ad accusare un imputato della cui innocenza è convinto aumenta il tasso di garantismo del processo.
Non si vede come lo svolgimento di indagini a favore dell’indagato possa dunque essere ritenuto elemento incompatibile con il sistema accusatorio, a meno di non considerare accusatorio un sistema in cui la pubblica accusa sia “costretta” a chiedere prima il rinvio a giudizio e poi la condanna dell’accusato, lasciando al solo giudice il compito di agire senza pregiudizi.
È paradossale poi che contemporaneamente ad un pubblico ministero ridotto ad accusatore non imparziale si auspichino minori controlli da parte del giudice, come avverrebbe nel caso dell’abolizione dell’imputazione coatta.
Un processo in cui l’accusatore agisce sempre e solo avendo di mira la condanna anche di un accusato che sa innocente e il giudice non ha sufficienti strumenti per limitarne gli eventuali abusi (che possono consistere, come si è visto, anche nell’esercitare l’azione penale a discrezione o scegliere di non esercitarla affatto, o per abbandonare l’accusa o per tenere un soggetto nella condizione di indagato eternamente e senza una verifica in contraddittorio) porterebbe ad un cospicuo arretramento delle garanzie ed al sostanziale tradimento del sistema accusatorio che si propugna di voler difendere.
[1] “Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale” (così Corte Cost 88/1991).