di Rosita D’Angiolella
Sommario: 1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo. 2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto. 3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo.
L’incalzare delle trasformazioni digitali e la capacità delle macchine di riprodurre alcuni meccanismi intellettuali del pensiero umano ha posto e pone interrogativi circa la possibilità di affidare alle macchine alcuni processi decisionali anche nell’ambito dell’attività giurisdizionale.
Il tema è molto delicato, anzitutto perché intimamente connesso con l’essenza dell’argomentazione giuridica, la quale è sempre frutto di processi intellettuali ed emotivi del decidente che non sono facilmente riproducibili attraverso un linguaggio simbolico numerico; ma soprattutto perché ogni processo decisionale, che ha la finalità di rinvenire nel sistema il rimedio più appropriato per la soluzione di un contrasto di interessi tra soggetti, implica a monte l’assunzione da parte del giudicante di un metodo che consenta, in primo luogo, di districarsi nell’articolato sistema delle fonti e, quindi, di dettare in concreto la soluzione più appropriata per il caso concreto.
Come è noto la scienza giuridica contemporanea coltiva, rispetto al metodo, almeno due approcci: uno legato, tutt’ora, alla teoria della fattispecie, alla quale ricondurre attraverso procedimenti logico-sillogistici gli elementi qualificanti del fatto; l’altro che, viceversa, muovendo dal fatto, si rende conto che l’applicazione rigida di certe categorie dogmatiche, all’esito di un processo che privilegia rigorosamente la logica sillogistica e la tecnica della sussunzione, può mettere capo a risultati non rispondenti alla migliore tutela degli interessi.
Il problema di fondo, quindi, nasce prima della riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale nell’ambito dei processi decisionali, in quanto involge questioni e scelte tra metodi in dialettica tra loro.
In relazione a tale dialettica tra metodi, l’immediata suggestione è che il metodo che privilegia l’uso della razionalità sillogistica è quello su cui si potrebbe fondare, portandolo alle estreme conseguenze, il riconoscimento di un ruolo alla capacità decisionale dei sistemi di intelligenza artificiale.
Si tratta infatti, come ognuno può avvertire, di una esasperazione della razionalità simbolica attraverso il linguaggio binario. Di quella stessa razionalità, del resto, che ha ispirato recenti orientamenti, anche normativi, tesi a valorizzare automatismi decisionali, a svilire il ruolo della motivazione nell’ambito del provvedimento giurisdizionale, a privilegiare in modo non sempre appropriato il tema della prevedibilità della soluzione mirando, per ragioni troppo spesso legate anche alle patologie del nostro sistema legislativo[1], ad un’identificazione non sempre appropriata tra il prioritario principio della certezza del diritto e la ripetitività della soluzione legata ai sistemi di intelligenza artificiale. Emblematico al riguardo è il tema della responsabilità civile per le lesioni a beni giuridicamente protetti causate dalla tecnologia robotica (es. driveless cars, sistemi di telemedicina per la cura delle malattie), ove le categorie civilistiche tradizionali che per natura esigono un approccio metodologico attento alle sollecitazioni che provengono dalla società e dalla storia, risultano poco adattabili alla razionalità simbolica.
Già da questi cenni si trae, dunque, l’assoluta centralità, del problema del metodo, sempre, ma più che mai oggi, nell’epoca della tecnocrazia, della tecno-economia e del disimpegno di un legislatore che produce leggi incomplete, formulate in modo ambiguo, delle quali spesso sfugge la razionalità e dalle quali altrettanto spesso si percepisce un disinvolto uso delle categorie della tradizione; nell’epoca del pluralismo e della molteplicità di livelli delle fonti (che spaziano da quelle sovranazionali a quelle contenute in atti di rango amministrativo), si richiede lo sforzo dell’interprete di concentrarsi sulla ricostruzione della unitarietà del sistema mettendo al centro del ragionamento la “Persona”.
Di qui la banale constatazione della essenzialità della qualità e della formazione degli interpreti. Il giurista di questi anni non può non interrogarsi circa la coerenza e la adeguatezza del metodo che adotta, nella piena consapevolezza del rischio che ognuno di noi corre, che lo strumentario concettuale abitualmente utilizzato sia sì rispettoso della tradizione, ma al contempo si presti, senza costituirne ostacolo, alla comprensione del caso concreto, alla valorizzazione delle peculiarità soggettive, ambientali e quantitative di esso.
Del resto, la valutazione giuridica di un fatto esige la considerazione tanto dell’esperienza passata, quanto di quella presente, in una stretta interconnessione tra il profilo storico e quello sociologico.
Ed infatti, se la storia della metodologia dei giuristi è parte essenziale del pensiero giuridico moderno, non può negarsi che l’esperienza che concorre all’integrazione della realtà normativa può esprimere istanze e valori anche più avanzati rispetto all’interpretazione corrente, soprattutto a quella giurisprudenziale. In questa consapevolezza risiede la presa d’atto della storicità delle nostre categorie e la perdurante utilità di molte di esse, in ragione della loro attitudine ad adattarsi all’odierna esperienza.
2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto.
Che la scienza giuridica si giovi di una pluralità di metodi, spesso concorrenti e complementari, è affermazione ovvia e quasi banale, ma l’attuazione di essi è strettamente dipendente dalle evoluzioni e dagli approdi della dottrina, dallo stato della produzione legislativa nella specificità delle materie, dalle sollecitazioni che su quelle stesse materie provengono dalla politica, dall’organizzazione istituzionale della comunità, dalle diverse sensibilità ed esperienze di chi si dedica alla ricerca. Di qui, l’altrettanto ovvia constatazione per la quale non vi sono a priori metodi giusti e sbagliati, ma soltanto metodi che più o meno si prestano all’attuazione degli obiettivi e dei valori che, in un dato tempo, una data comunità si propone di realizzare.
In tutto questo sta l’indispensabile centralità della dialettica sul metodo, sempre che, tuttavia, si convenga su una presa d’atto, altrettanto essenziale: è tempo di archiviare definitivamente il “mito” della neutralità dei concetti. Le categorie, nella loro irrefutabile storicità, vanno maneggiate criticamente e, sempre con la stessa cautela, vanno raccolte le suggestioni che la dogmatica ci ha trasmesso.
I modelli della tradizione, infatti, ancorché poliedrici, sono ancora caratterizzati dall’uso prevalente di categorie, nella loro implicazione ideologica, storicamente risalenti, non sempre adeguatamente attente agli stimoli provenienti dalla giurisprudenza e non sempre adattabili, se recepite in chiave dogmatica, ad una ricostruzione teorica in linea con le trasformazioni della società.
E i dati salienti delle attuali trasformazioni non possono che essere rinvenuti, prima di tutto, nell’incalzare dell’innovazione tecnologica che incide ormai su tutti gli aspetti della nostra quotidianità, dalla genetica alla comunicazione, dalla produzione all’internazionalizzazione dei mercati, provocando l’esigenza di un più serrato confronto tra culture, nonché nelle dimensioni mondiali dei fenomeni migratori in relazione ai quali si impongono, nel nostro mondo più che altrove, nuovi interessi e diversi valori.
La cosiddetta transizione digitale è il fenomeno più incidente, ma la rivoluzione tecnologica non può esaurirsi, nella sua dimensione giuridica, in pura tecnica di applicazione del software ai dati, dovendo implicare un’attività di comparazione ermeneutica che il giurista è chiamato a svolgere in funzione di controllo dei processi e dei risultati prodotti dai sistemi algoritmici.
Se già appariva illusorio e riduttivo esaurire il ruolo dell’interprete a quello di rinvenire la norma nella singola disposizione di legge, facendo dell’interpretazione una sorta di equazione algebrica, ancor meno conducente appare oggi la pretesa di costruire la scienza giuridica esclusivamente mediante simboli numerici, avvalendosi magari di una intelligenza artificiale capace di riprodurre meccanismi intellettuali tipici della mente umana. Sono queste pretese evoluzioni a rappresentare il maggior pericolo di uniformazione del pensiero giuridico, a farci correre il rischio della rassegnazione all’esistenza di una formula obbligata di pensare, anche per il giurista.
E qui si ritorna al metodo: chi si rifà al proprio ingegno e al proprio bagaglio di cultura e di esperienze per dare corpo alle proprie scelte applica sempre un metodo. La pluralità dei metodi, la loro diversità e contrapposizione in corretta dialettica rappresentano lo strumento più idoneo a contrastare i processi di uniformazione e di omologazione del pensiero giuridico.
Non è questione, come accennato innanzi, di preferire un metodo rispetto a un altro. Se, infatti, grande valore va riconosciuto al metodo deduttivo, il quale muove dai principi, particolare funzione rivestono anche quello induttivo o quello casistico, i quali concentrandosi sulle fattispecie concretamente devolute alla valutazione degli interpreti favoriscono il superamento di pregiudizi concettuali e di costruzioni formalistiche.
E se il compito del giurista, e in particolare del civilista, è quello da più parti a gran voce e autorevolmente rivendicato, di andare al di là delle forme per comprendere appieno l’atteggiarsi delle relazioni nell’ambito della evoluzione dei sistemi sociali, individuando la ‘giusta’ soluzione del conflitto in rapporto ai principi e ai valori fondanti, alla ricerca perenne di un punto di equilibrio tra libertà e autorità, in questa prospettiva assume particolare valenza anche l’argomentare per problemi, metodologia tipica della comparazione. Personalità quali Emanuele Gianturco, Gino Gorla, Uberto Scarpelli ci hanno insegnato, infatti, che il problema va risolto nel sistema, nel pieno rispetto dei principi. E questo vale ancor più nel presente in cui si impone che buona parte della legislazione vigente, proprio perché risalente, sia interpretata, verificandone la conformità a norme sopravvenute o gerarchicamente sovraordinate, al fine di renderla applicabile a nuove fattispecie o a fattispecie che hanno acquisto, nel tempo, diversa valenza.
Ed allora l’equilibrio tra principi, e ancor più in generale tra disposizioni normative, è un equilibrio da rinvenirsi attraverso una dialettica costante tra l’ordine dei principi e la realtà dei fatti, senza che tuttavia ciò legittimi il superamento dello ius positum, che anzi ne è il presupposto. L’opzione ermeneutica, nel rispetto di regole e principi prefissati, presuppone la rilevanza di entrambi gli aspetti, senza che sia possibile rilevare in ciò alcuna contraddittorietà. Cosicché, anche la definizione “metodo induttivo” appare riduttiva e parziale, giacché quando il Giudice, nella motivazione, fa riferimento ai principi, espressi o inespressi, ne riconosce la normatività e non fa altro che applicare il diritto positivo. E questo non vuol dire che la sua sia un’attività puramente dichiarativa, come non può significare che sia attività creativa, dal nulla o dal basso, perché è pur sempre vincolata al ragionevole uso di principi e regole di cui si nutre quella legalità richiamata dall’art. 101 della Costituzione.
3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
In un sistema ordinamentale le cui coordinate rimangono quelle del personalismo solidale, l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto giammai può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica, sia pure con la dignità del sillogismo e della tecnica della sussunzione. Al contrario, siamo tutti chiamati a rifuggire gli eccessi della razionalità e della logica, spesso paludamento di visioni tendenzialmente nichiliste, per realizzare la più alta finalità dell’ermeneutica: quella di individuare, in una leale collaborazione tra teoria e prassi, dunque nel confronto anche con i fatti, la più alta modalità di concretizzazione di principi e regole. Quella che mette capo alla soluzione più rispondente ai valori giuridificati di cui l’ordinamento si nutre.
La scelta del metodo è dunque scelta della soluzione più giusta, per tale dovendosi intendere quella più aderente agli interessi in gioco e ai valori identificativi del sistema, che, in quanto tali, neppure necessitano di essere, di volta in volta, espressamente richiamati.
In questa prospettiva, si comprende perché il ragionamento giuridico non è riducibile ad un sillogismo lineare e si compone sempre di passaggi teleologici ed assiologici, deduttivi ed induttivi. Così, escogitare algoritmi idonei a predire le soluzioni giurisprudenziali, utilizzando metodi probabilistici o statistici, lungi dal limitarsi a ravvisare nell’argomentazione giuridica una materia logico-matematica, appare nefasta per l’oggetto stesso dell’argomentazione in parola.
Alla soluzione corretta e giusta, come detto, non può considerarsi estraneo il ricorso a quella sensibilità necessaria a cogliere le sfumature irripetibili delle dinamiche di interessi in gioco. La giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate, valide per tutti i contesti.
La certezza del diritto non è garantita dalla ripetitività delle soluzioni, giacché altro è affermare che la prevedibilità è utile per gli operatori, altro è pensare di costruire la scienza giuridica mediante la logica simbolica, avvalendosi esclusivamente di una intelligenza artificiale capace di riprodurre solo alcuni meccanismi intellettuali. Sennonché il processo mentale dell’uomo-interprete, il percorso argomentativo che mette capo alla decisione, risente di fattori che sfuggono alla logica sillogistica che appartengono in parte alla peculiarità del fatto, in parte ai concreti interessi delle parti e ai valori della Giustizia, in un contesto mutevole per definizione, perché soggetto alla Storia prima ancora che alle trasformazioni della Società.
A questo proposito, a proposito della cosiddetta ‘giustizia predittiva’, è stato significativamente affermato che: “L’impiego dell’intelligenza artificiale amplifica le questioni che percorrono a ritmo intermittente la concezione del diritto e della giustizia, l’arte di giudicare, il senso stesso dell’incidenza delle facoltà intellettive e volitive umane nel risolvere i casi portati dall’esperienza.”[2]
Credo, in conclusione, che la totale inadeguatezza dell’intelligenza artificiale a sostituire l’argomentare giuridico derivi dalla basilare constatazione che il diritto è scienza sociale e umana, è dell’uomo e per l’uomo e che il compito dell’interprete risiede anzitutto di rendere la fredda astrattezza e generalità della legge più vicina e aderente alla concretezza, alla specificità, alla unicità ed alla umanità del fatto.
[1] Si pensi all’impressionante abuso, nell’ultimo decennio, dei decreti legislativi (che hanno superato per numero ed importanza le leggi del Parlamento), alle numerosissime delegificazioni autorizzate inserite nelle più diverse leggi, alla larghissima delega al Governo per l’adozione di testi unici in numerose ed enormi materie, al mutamento delle modalità di recepimento della normativa comunitaria, alle ricorrenti modificazioni o deroghe delle diverse norme sulle fonti.
[2] ALPA G., L’intelligenza artificiale. Il contesto giuridico, pag. 164, in “Il Poggiolo dei Medardi, collezione diretta da Aljs Vignudelli", I ed. Modena, Mucchi, 2021. L’autore a dopo aver accuratamente ricostruito l’itinerario culturale della giustizia predittiva, passando da Holmes a Max Weber, da Tarello a Llewellyn, in un paragrafo dall’eloquente titolo che riprende un noto saggio di Jerome Frank, ‘Prevedibilità ma non solo: i giudici sono umani?’ e in un altro dal titolo ‘La prevedibilità non è autosufficiente’, completando i suoi riferimenti con la citazione del pensiero di Cardoso, di Frank appunto, di Roscoe Pound ed altri, conclude col pensiero sopra riportato nel testo.