Il PROCESSO PENALE TELEMATICO DAL PUNTO DI VISTA DELLA DIFESA [1] di Maurizio Bozzaotre
Sommario: 1. Avvocatura e processo penale telematico: un punto di vista necessario - 2. Un processo penale che sia realmente telematico - 2.1. L’avvocato e l’accesso telematico agli atti del fascicolo - 2.2. L’avvocato e le notifiche del processo penale - 2.3. L’avvocato e il deposito di atti a mezzo p.e.c. - 2.4. Occasioni perse e innovazioni da introdurre - 3. Un processo penale che sia telematico ma che rimanga “giusto” - 3.1. Ruolo e funzioni dell’avvocato: dall’analogico al digitale - 3.2. La telematica e le sue insidie: tre sentenze - 4. Conclusioni: una comunità giuridica che sia coinvolta e consapevole
1. Avvocatura e processo penale telematico: un punto di vista necessario
I mezzi tecnici derivanti dalla imperante digitalizzazione dominano ormai quasi ogni momento della nostra esistenza. Si tratta di un aspetto che dovremmo sempre tener presente tutte le volte in cui si affronti il tema dei fenomeni telematici, a maggior ragione quando di tali fenomeni si persegua un’applicazione assai maggiore di quanto oggi non accada, come è appunto il caso del “processo penale telematico” (PPT) [2]
Orbene, l’assunto di tutto questo scritto è che, tra le voci da ascoltare in quel laboratorio di idee e competenze che oggi ragiona di PPT e ne auspica la sua introduzione, non possa mancare quella dell’avvocatura. A tale proposito occorre purtroppo notare che in materia di informatizzazione giudiziaria non siano certo frequenti luoghi di confronto aperti anche agli avvocati. Ed invece, ogni “finestra” in cui si possa esprimere il punto di vista dell’avvocatura dovrebbe essere vista come un’opportunità di potenziale ricchezza per il dibattito, anche perché - come si cercherà di dimostrare in queste pagine - si tratta di una visuale differente rispetto alle esigenze - sacrosante - di carattere organizzativo, logistico, ecc.
Questa esigenza nasce dalla costatazione che le caratteristiche del (progettando) PPT non sono immediatamente sovrapponibili a quelle del(l’ormai realizzato) PCT [3], e ciò per l’ovvia ragione che non lo sono quelle del processo penale rispetto a quelle del rito civile.
Non potendo né volendo toccare ogni possibile momento di contatto tra i vari aspetti in cui si articola il procedimento penale e le possibilità frutto della odierna tecnologia, questo scritto si articolerà in due parti, grossomodo corrispondenti alla duplice veste che l’avvocato assume nell’ambito del sistema penale.
Da un lato, infatti, egli (in rappresentanza del suo assistito) è utente di un servizio reso dell’Amministrazione della Giustizia, ponendosi dunque all’esterno del sistema Giustizia (ma in questa sede sarebbe più corretto definirlo “Dominio Giustizia”); dall’altro, egli è compartecipe di una funzione - quella giurisdizionale -, concorrendo, mediante lo strumento della difesa tecnica esercitata nel contraddittorio in base alle regole del giusto processo, alla legalità formale e legittimità sostanziale degli atti e dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria. È allora di fondamentale importanza che la “voce dell’avvocatura” si faccia sentire con forza nel(la costruzione del) PPT sotto entrambi questi aspetti.
La prima parte - quella più “materiale” e anche facilmente intuibile - elenca alcuni dei maggiori desiderata pratici, ossia le utilità che gli avvocati (in quanto utenti nel senso di cui si diceva) si aspettano dal PPT che verrà.
La seconda parte di questo scritto avrà invece un carattere meno pratico e più “politico”, nel senso di evidenziare alcune potenziali fattori di criticità intrinsecamente e inevitabilmente connessi alla struttura giuridica del processo penale; fattori che nella progettazione dell’architettura del PPT sarà bene tenere in gran conto.
2. Un processo penale che sia realmente telematico
Iniziamo allora da cosa gli avvocati si aspettano dal PPT del prossimo futuro.
È chiaro che per rispondere alla domanda in chiave prospettica non possiamo fare a meno di partire da ciò che l’attuale stato dell’arte del telematico penale offre all’avvocatura (in quanto utenza)
Ebbene, dalla letteratura oggi fruibile in materia nonché dalla osservazione quotidiana degli uffici giudiziari sembra di poter dire che oggi la magistratura e gli ausiliari siano stati messi in grado di trarre significativi benefici da una serie di strumenti e istituti, che potremmo definire scampoli di PPT. Del pari, sembra altrettanto - e drammaticamente - evidente che tali benefici in questo momento non possano dirsi appartenere anche all’avvocatura.
Non è questa la sede per approfondire le implementazioni interne apportate alla dotazione infrastrutturale del “dominio Giustizia”: SICP e i vari applicativi collegati quali TIAP, “Atti e Documenti”, “Consolle del Magistrato” [4]. Quel che si può rilevare è che l’esistenza di un portale telematico delle notizie di reato, la possibilità per il magistrato di gestire il ruolo con una propria “console” nonché di gestire la compilazione di atti e documenti forniscono alla difesa un’utilità soltanto riflessa del migliorato sistema di funzionamento dell’ufficio giudiziario con cui si interagisce. È chiaro che il vantaggio non è da poco. E però si tratta di un vantaggio che non tiene sufficientemente conto che l’avvocato/utente ha anche altre esigenze, anche in forza della sua qualità di parte nel processo.
In altri termini, sotto l’aspetto dell’avvocato/utente, le utilità che la comunità forense deve attendersi (anzi: pretendere) dal PPT sono similari a quelle assicurate dal PCT, che si è in breve tempo dimostrato un utilissimo strumento tecnico che oggi ci consente di interagire con il giudice e con le altre parti del processo, operando da remoto nella comodità dello studio professionale e riducendo notevolmente le necessità di accesso fisico alle cancellerie e agli altri uffici giudiziari.
2.1. L’avvocato e l’accesso telematico agli atti del fascicolo
Eccoci dunque alla primissima esigenza: l’accesso agli atti e documenti del fascicolo penale.
Non è chi non veda l’assoluta necessità di provvedere quanto prima all’avvento di una modalità di lavoro - che sia identica in tutta Italia - che consenta e garantisca un accesso telematico e da remoto al fascicolo e agli atti, risolvendo - come è certamente possibile fare - anche la questione legata al pagamento dei diritti sulle copie estratte (rectius: “scaricate”). È inutile chiarire che quel quid pluris di efficienza organizzativa sul piano del servizio reso agli utenti, apportata dall’informatizzazione di un ufficio giudiziario, influirebbe in modo significativo sulle capacità e possibilità dell’avvocato di assicurare un diritto di difesa che sia realmente adeguato. Tanto per fare un esempio banale, un ufficio giudiziario che sia in grado di rilasciare in tempo reale e per via telematica le copie di una corposa ordinanza di custodia cautelare (e documentazione posta a corredo) farà in modo che la difesa possa essere elaborata e delineata meglio di quanto usualmente accade oggi a causa dei tempi - a volte notevolmente dilatati - di richiesta e rilascio copie in forma analogica.
Naturalmente, quanto appena detto sul piano dell’accesso ad un fascicolo è solo un primissimo passo. Occorre bene intendersi sul fatto che il PPT rettamente ed esaustivamente inteso è - deve essere - ben altro.
Noi potremo dire di aver raggiunto uno stadio sufficiente di PPT dove la “parola” corrisponda realmente alla “cosa” quando avremo fatto in modo di sostituire con il mezzo telematico ogni momento di “trasmissione dati” (qualunque veste assumano: documenti cartacei, filmati, files, ecc.) che oggi si svolge nel mondo fisico (e il pensiero corre a pesanti carrelli spinti faticosamente a mano...).
Noi avremo un PPT degno di questo nome quando, ad esempio, un p.m. presenterà per via telematica una richiesta di misura cautelare al g.i.p., e quest’ultimo depositerà la sua ordinanza in un fascicolo telematico che successivamente - ad ordinanza eseguita, ovviamente - sarà accessibile da remoto al difensore, il quale potrà eventualmente impugnare il provvedimento con un’istanza di riesame, anch’essa depositata telematicamente, con conseguente trasmissione del fascicolo telematico al Tribunale della libertà, e via procedendo.
È evidente che non tutti i momenti del processo potranno essere sostituiti dalla telematica. Da un lato, alcuni “passaggi” nel mondo fisico resteranno ineliminabili (non si potrà certo “scannerizzare” un carico di cocaina sequestrata ad uno spacciatore o un coltello insanguinato trovato sul luogo del delitto, per non parlare della esecuzione di una misura cautelare personale o di un ordine di carcerazione…). Dall’altro, avremo sempre la necessità di conservare momenti di contraddittorio che si svolgano vis-à-vis in una sede fisica nel rispetto di quei principi di oralità e concentrazione che sempre dovranno contraddistinguere il rito penale: potremo decidere di avvalerci della tecnologia per sentire un teste a distanza ma non potremo mai sostituire un esame orale con domande inviate (e risposte ricevute) per via telematica.
PPT significa quindi, in primissima battuta, la possibilità di una completa discovery “telematica” da parte dell’avvocato e delle altre parti private del processo. Sarà un passo importante, ma non dovrà certo essere l’unico.
A tale riguardo, assai utile appare il paragone con l’esperienza statunitense, ove la digitalizzazione del processo penale è ormai una realtà. Ad esempio, il sistema consente alle parti di depositare elettronicamente a mezzo internet i documenti presso le Corti. L’accesso avviene con procedura di identificazione (login e password) cui può aggiungersi, a seconda dei casi, l’uso della firma digitale. Ogni aggiornamento in ordine ad un determinato procedimento provoca l’invio automatico di una email di notifica indirizzata a tutte le parti del processo: il sistema dunque assicura che tutte le parti processuali abbiano tempestiva notizia del deposito di ogni nuovo atto o documento. Per quanto riguarda la fase processuale/dibattimentale, l’informatizzazione è ancora più avanzata. Le aule di udienza sono infatti appositamente attrezzate in modo che tutta l’attività che ivi si svolga possa immediatamente tradursi in formato telematico. Ciò accade in quanto tutte le parti hanno a disposizione un PC fisso, mentre un grande schermo collegato consente a tutti di seguire le attività di udienza in maniera uniforme. Le dichiarazioni dei testimoni vengono visualizzate e trascritte in tempo reale su ciascun PC. In tal modo, ciascuna parte ha modo di ottenere contestualmente la trascrizione. I documenti vengono prodotti esclusivamente in formato pdf ed acquisiti contestualmente al fascicolo virtuale, dopo essere stati visionati pubblicamente sul maxi schermo [5].
2.2. L’avvocato e le notifiche del processo penale
Al netto di quanto precisato poco sopra, potremo affermare di aver realizzato un PPT realmente tale quando si sarà instaurata istituzionalmente - esattamente come accade nel civile - una “corrispondenza” che sia realmente biunivoca tra la parte pubblica e quella privata. Perché il PPT degno di questo nome è quello in cui l’avvocato può non soltanto accedere ma anche interagire per via telematica
Verrebbe da chiedere: quanto siamo vicini (o lontani) dalla possibilità, ad esempio, di poter presentare per via telematica una richiesta ex art. 335 c.p.p. [6]? O per l’invio telematico di una denuncia, una memoria, un’istanza, una lista testi, un’impugnazione, ecc.?
Insomma, la necessità è di accedere ad un processo telematico in maniera bidirezionale, di modo che sia possibile non solo ricevere atti ma anche poterli depositare esercitando i poteri e le facoltà previsti dalla legge processuale. Oggi purtroppo non è così: l’avvocato, rispetto alle innovazioni introdotte dalla legislazione e dalla prassi, è null’altro che un mero destinatario/recettore passivo di tecnologia ma non soggetto agente, come invece accade con il PCT.
Con ciò si giunge ad affrontare il dolente tema delle notifiche e del deposito degli atti (7).
Orbene, dovendo dirlo con la nettezza che il caso richiede, lo stato dell’arte è alquanto sconfortante. Oggi l’avvocato può ricevere tramite lo strumento della p.e.c. la notifica di atti del p.m. o del giudice (8) tramite il Sistema Notificazioni Telematiche (SNT) ([9]), con tutte le conseguenze - e responsabilità, come vedremo - del caso, ma non può assolutamente depositarli allo stesso modo.
Al riguardo, sulla scia della dottrina, converrà distinguere la questione delle notificazioni eseguibili dall’avvocato tramite p.e.c. da quella del deposito di atti e documenti utilizzando il medesimo strumento.
Sul primo versante, occorre innanzi tutto richiamare il disposto dell’art. 1 della legge n. 53 del 1994 («Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali») [10], che, nell’ammettere la possibilità di notifica a mezzo posta elettronica certificata per gli avvocati, al contempo limita tale possibilità agli «atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale».
Sembrerebbe dunque escluso l’ambito penale, ma la disciplina va adesso coordinata con le altre norme vigenti in materia.
In ambito penale la posta elettronica certificata, quale strumento di trasmissione telematica delle comunicazioni e notificazioni, è stata introdotta dall’art. 4 d.l. 193/2009, conv. in legge n. 24 del 22.2.2010. Questa disposizione prevedeva che con decreti ministeriali avrebbero dovuto essere individuate «le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui ai commi 1 e 2. Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11.2.2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino alla data di entrata in vigore dei predetti decreti, le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Successivamente, con l’art. 16 D.L. n. 179 del 2012 e con la legge n. 228 del 2012, il legislatore ha disciplinato la materia dei “biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica”. In particolare l’art. 16, comma 4, prevede l’utilizzo dello strumento p.e.c. per l’invio di “notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli art. 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La relata di notificazione è redatta in forma automatica dal sistema informatico in dotazione alla cancelleria”.
Dunque, in forza delle disposizioni surrichiamate, il ricorso alla p.e.c. è oggi esteso alle notificazioni in ambito penale, con la necessaria precisazione che la notifica mediante tale strumento è ammessa soltanto nei confronti dei soggetti che non posseggano la qualità di indagato o di imputato (i quali ultimi dovranno pertanto essere informati con le forme ordinarie di notificazione): da ciò consegue che l’uso della p.e.c. per le notifiche sia dunque destinato a trovare principale applicazione nei confronti dei difensori.
In realtà, le ipotesi in cui l’avvocato debba procedere a notificazioni nel processo penale sono, a differenza dell’ambito civile, alquanto limitate. Si pensi all’obbligo di notifica dell’atto di costituzione di parte civile fuori udienza ex art. 78, co. II, c.p.p., o della notifica alla persona offesa della richiesta di revoca o sostituzione di misura cautelare ex art. 299, co. III, c.p.p.
Peraltro, proprio su tale ultimo punto si registra una delle poche aperture del Supremo Collegio in materia: Cass. pen., Sez. II, n. 6320, dep. 10.02.2017, ha infatti ritenuto che, nell’incidente de libertate acceso dalla richiesta ex art. 299 c.p.p. sia perfettamente «legittima la notifica, effettuata ai sensi dell’art. 299, comma 4 bis c.p.p., inviata tramite posta elettronica certificata, dal difensore dell’imputato a quello della persona offesa». Scorrendo la motivazione, viene chiarito che, essendo possibili destinatari di p.e.c. tutti i soggetti diversi dall’imputato ai sensi della legislazione vigente, ciò vale ad includere difensori, persone offese, parti civili, responsabili civili, civilmente obbligati per la pena pecuniaria. Ed allora - ritiene la Corte - tutti coloro che prendono parte ad un processo penale eccetto l’imputato possono ricevere notificazioni attraverso lo strumento p.e.c. in virtù del combinato disposto tra l’art. 152 c.p.p. (che autorizza le notifiche delle parti private mediante invio di copia dell’atto a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento) e l’art. 48 d.lgs. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale, CAD), che a sua volta equipara la trasmissione di un documento per via telematica alla notificazione per mezzo della posta. La conclusione cui giunge la sentenza è la seguente: «Nel contesto esaminato la lettera raccomandata ex art. 152 c.p.p. può essere sostituita dalla comunicazione a mezzo PEC, e tanto vale anche per l’ipotesi di notificazione riservata alla persona offesa ex art. 299 c.p.p.»
2.3. L’avvocato e il deposito di atti a mezzo p.e.c.
Diverso è invece il caso dei depositi, notevolmente più frequenti rispetto alle notifiche, nell’ambito dei quali l’atteggiamento giurisprudenziale sembra essere di ferma chiusura.
Tra le pronunzie più recenti, è stato negato l’uso della p.e.c. per proporre opposizione a decreto penale di condanna [11], per proporre ricorso per cassazione avverso un provvedimento di consegna ad autorità straniera di soggetto colpito da m.a.e. [12]; è stata altresì ritenuta “irricevibile” una memoria difensiva inviata via p.e.c. in un procedimento di impugnazione di misure cautelari pendente in Cassazione [13], e uguale sorte ha avuto un’istanza di rinvio per legittimo impedimento inviata col mezzo telematico [14] nonché un ricorso per cassazione - reputato inammissibile [15].
Ebbene, scorrendo le motivazioni delle sentenze gli argomenti a sostegno dell’indirizzo restrittivo del Supremo Collegio sembrano essere sostanzialmente i seguenti.
Da un lato, pur ammettendo l’equiparazione sul piano del valore legale della p.e.c. alla raccomandata con ricevuta di ritorno, come ormai risulta da molteplici disposizioni normative (in partic. art. 48 d.p.r. 82/2005, e succ. modif.), la Cassazione non la ritiene mezzo idoneo, in assenza di una norma ad hoc che espressamente consenta l’inoltro via p.e.c. degli atti di parte - come è invece per gli atti del processo civile.
Converrà qui ricordare il disposto del citato art. 48 CAD: «1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le Linee guida. / 2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta. / 3. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi alle Linee guida».
Il fatto che l’art. 16 d.l. 179/2012 (conv. in legge 221/2012) abbia espressamente introdotto la possibilità (poi divenuta obbligatorietà) delle comunicazioni e notificazioni a mezzo p.e.c nei confronti delle parti diverse dall’imputato viene utilizzato quale argomento a fortiori per negare tale possibilità in senso inverso (dalla parte privata a quella pubblica), stante appunto il silentio legis. Siffatta tassatività, a parere dei giudici di legittimità, non può essere superata o revocata in dubbio dalla equiparazione normativa ex art. 48 C.A.D. di cui si è detto, in virtù della clausola (“salvo che la legge disponga diversamente”) ivi contenuta a favore delle normative di settore.
In secondo luogo, secondo i supremi giudici, anche se il meccanismo di posta elettronica certificata è certamente in grado di assicurare la conoscenza legale dell’atto notificato, non è però anche in grado di «assicurare la sicura riferibilità del contenuto di quel documento informatico alla persona fisica che è legittimata ad adottarlo, assumendosene la responsabilità» [16].
Oltre al quadro normativo, la Corte evidenzia anche il dato tecnico: «l’inesistenza nel procedimento penale di un fascicolo telematico, che costituisce il necessario approdo dell’architettura digitale degli atti giudiziari, quale strumento di ricezione e raccolta in tempo reale degli atti del processo, accessibile e consultabile da tutte le parti, rende l’atto depositato a mezzo PEC di fatto anch’esso inesistente, necessitando per essere visibile in concreto dell’attività di stampa da parte della cancelleria che dovrebbe comunque inserire il documento nel fascicolo d’ufficio, di formazione e composizione esclusivamente cartacea» [17].
Pur considerando le molteplici implicazioni che comprensibilmente preoccupano gli ermellini, non sembrano tuttavia argomentazioni insormontabili [18].
Sul primo aspetto, pare evidente che la necessità di una puntuale formalizzazione delle modalità di comunicazione/notifica, con connessa disciplina sanzionatoria delle varie forme di irregolarità/invalidità, si renda assolutamente necessaria allorquando la “comunicazione” si dispieghi dalla parte pubblica/autorità giudiziaria verso la parte privata/difesa: invero, è un corollario dei principi conformativi l’intero sistema processuale penale, direttamente discendenti dall’art. 13 Cost.; che però siffatto impianto (di principio e normativo) debba necessariamente valere anche per la “direzione” inversa (dalla parte privata a quella pubblica) non sembra così autoevidente come vorrebbe la Cassazione.
In secondo luogo, è certamente vero che il C.A.D. faccia salve eventuali diverse disposizioni, ma qui il punto è proprio che… “diverse” disposizioni non vi sono, se non un silenzio legislativo che si vorrebbe “colmato” a contrario da una previsione regolativa del senso (comunicativo) inverso. Peraltro, in ordine alle impugnazioni è lo stesso art. 583 c.p.p. ad ammettere la modalità della trasmissione a mezzo raccomandata, e la forza cogente del combinato disposto di questa disposizione con il più volte citato art. 48 CAD non sembra possa essere subordinata a considerazioni di carattere pratico o tecnico, anche tenendo conto che una p.e.c. corredata di firma digitale offre le medesime (se non maggiori) garanzie di paternità dell’atto ivi allegato rispetto all’invio di un plico in busta chiusa spedito per raccomandata da un qualsiasi sportello postale (o ad una trasmissione a mezzo fax, come nel caso ormai ammesso di invio di lista testimoniale).
Si consideri anche che tale rigidità giurisprudenziale - che, come visto, ritiene irricevibili/inammissibili non solo atti “performativi” in cui si esplichi l’esercizio di un potere (impugnazioni, opposizioni a d.p., liste testi) ma anche atti “interlocutori” quali memorie, istanze di rinvio, ecc. - potrebbe avere conseguenze pratiche molto rilevanti, in ordine ad esempio alla messa in dubbio della legittimità di protocolli tra avvocatura e determinati uffici giudiziari, che si pongano nella meritoria ottica di aumentare l’efficientamento e la semplificazione mediante l’uso dello strumento telematico per notifiche o depositi effettuati dalla parte privata.
2.4. Occasioni perse e innovazioni da introdurre
Comunque la si pensi, si può concordare sul fatto che una p.e.c. utilizzabile solo in uscita per gli uffici giudiziari (e solo in ricezione per i difensori) sia stata una grossa occasione persa. Se, nella progettazione dell’architettura complessiva, si fosse immaginato il modo di consentire agli avvocati non solo di ricevere ma anche di trasmettere via p.e.c. atti agli uffici, oggi noi avremmo una fortissima semplificazione dell’interazione interno/esterno del mondo Giustizia, con notevoli benefici per tutti i soggetti interessati.
Certo, tutto ciò indubbiamente rende necessario, quale presupposto, un’organizzazione mirata in tal senso dell’ufficio ricevente, il quale dovrà esercitare un controllo costante, per poi acquisire, stampare, smistare. Le difficoltà indubbiamente ci sono, ma non sono certo tali da risultare insuperabili.
Insomma, nel chiudere la prima parte di questo scritto, la richiesta non può essere che quella di riuscire finalmente ad aprire una porta telematica di “ingresso” anche ai difensori in termini di accesso, notifiche e deposito di atti. Fino a quel momento, sarà assai difficile che per la parte privata il discorrere di PPT sia molto diverso da un mero esercizio di fantasia.
3. Un processo penale che sia telematico ma che rimanga “giusto”
La profonda differenza tra processo civile e processo penale impone la necessità di tener conto delle peculiarità di quest’ultimo laddove esso debba essere trasfuso in una architettura telematica.
Nel processo civile, telematico o meno che sia, vi sono due (o più) parti private a fronte di un’unica parte pubblica, in una cornice normativa retta tendenzialmente dal principio dispositivo e dell’istanza di parte (privata). Non così nel processo penale, laddove la parte privata (imputato) si trova essenzialmente “di fronte” due parti (p.m. e giudice) pubbliche.
Questa diversa struttura cambia notevolmente il disegno e l’assetto da dare al PPT rispetto al suo “gemello” civile. Qui siamo nel campo non delle scelte tecniche bensì delle scelte a carattere lato sensu politico. Sarà bene che, in un assetto che sta rapidamente modificandosi grazie ai ritrovati della tecnica, le esigenze di quest’ultima rimangano subordinate alle scelte di valore da assumersi nella sede che le è propria, quella politica. Mai come in questo settore occorre subordinare il mezzo al fine, soprattutto quando si è di fronte ad un mezzo tecnico.
Affrontando dunque il tema da questa visuale, è abbastanza scontato che da parte della magistratura si affermerà come prioritaria l’esigenza di assicurare la segretezza delle indagini e, dunque, la massima sicurezza nella trasmissione dei dati e delle informazioni tramite il mezzo telematico. E non v’è dubbio che di questa esigenza si dovrà tenere conto, se necessario anche adeguando il catalogo dei reati informatici (o, se si preferisce, dei reati contro l’amministrazione della giustizia) con specifiche previsioni - in termini di nuove fattispecie o di circostanze aggravanti - aventi ad oggetto le possibili forme di intrusione o aggressione reziarie di dati contenuti in fascicoli giudiziari telematici, facendo magari leva sul piano delle sanzioni accessorie e/o introducendo forme di responsabilità “amministrativa” sul modello del d.lgs. 231/2001 per aziende e internet providers, che saranno così costretti ad adeguare i propri protocolli interni di sicurezza ([19]).
Si tratta di preoccupazioni sacrosante. Ma non dovranno certo essere le uniche, giacché dovranno essere tenute ugualmente (se non maggiormente) presente anche altre esigenze.
Dobbiamo avere sempre ben presente la necessità di non indebolire in alcun modo la salvaguardia di principi irrinunziabili quali libertà e presunzione di innocenza, che si esprimono non solo nella necessità di esercitare una difesa nel merito, in termini di fatto e di diritto, ma anche e soprattutto nella verifica della legittimità delle forme dell’esercizio dell’azione penale e dell’attività giurisdizionale sotto il profilo della conformità dell’atto alla norma che lo regola. Il processo penale è anche e soprattutto questo: controllo del rispetto delle regole da parte dei vari apparati del sistema penale.
Non si tratta di una lotta di posizione in cui le esigenze della magistratura sono da una parte e quelle dell’avvocatura dall’altra, come in una sorta di tiro alla fune, ma di assumere l’idea che tutti i punti di vista sono necessari affinché un processo penale telematico rimanga un giusto processo penale telematico, che rimanga massimamente rispettoso di tutte le garanzie sostanziali e processuali attribuite all’imputato (e alle altre parti private), alla cui salvaguardia è deputata l’attività del giudice terzo.
3.1. Ruolo e funzioni dell’avvocato: dall’analogico al digitale
Il processo penale è un processo ricco di scadenze, termini, preclusioni. Come ogni altra forma di processo, del resto. E però il rito penale contiene peculiarità uniche rispetto alle altre forme processuali: vi sono infatti, ad esempio, termini la cui decorrenza è collegata ad attività tutte interne alla parte pubblica - un insieme variabile a seconda dei casi, che nella sua massima ampiezza può eventualmente giungere a ricomprendere il circuito “p.g./procura/g.i.p.”. Si pensi alla iscrizione di un soggetto nel registro degli indagati, oppure al deposito di un verbale di sequestro di cui venga chiesta la convalida: si tratta di attività la cui veridicità sotto il profilo temporale è garantita, oggi, dall’apposizione di un timbro che fa fede fino a prova contraria, che però solo in un momento successivo diverrà ostensibile alla parte privata.
Ora, è evidente che fra i doveri dell’avvocato rientri anche quello di operare una verifica sul momento in cui tali attività siano state svolte, atteso che da tale dato temporale decorrono termini la cui inosservanza può avere conseguenze notevoli. Ed allora, se si vuole - come si deve - salvaguardare quei diritti e quelle garanzie, si dovrà necessariamente immaginare e costruire un processo telematico che renda (in maniera immediata o differita, a seconda delle esigenze procedimentali) ostensibili anche agli avvocati atti ed eventi cui sono collegate conseguenze giuridicamente rilevanti. Oggi il difensore può compiere queste verifiche abbastanza agevolmente, controllando l’appunto scritto in calce dal segretario o del cancelliere, corredato di timbro e firma. Ma domani? Ecco allora l’assoluta necessità che il PPT fornisca le stesse garanzie di verificabilità e (soprattutto) veridicità rispetto ad un’annotazione che avrà natura non più analogica ma digitale - che sia l’iscrizione di un indagato o il deposito di una richiesta di proroga di intercettazioni in corso [20].
L’avvocatura deve pertanto rivendicare con forza un ruolo attivo e significativo nella elaborazione del disegno del PPT: lo impone la necessità di introdurre un punto di vista che rappresenti le esigenze di controllo e verifica del rispetto delle regole da parte delle parti pubbliche del processo penale. Sarà dunque necessario che, nella definizione dell’architettura di ciò che sarà, anche l’avvocatura sia fatta partecipe, non solo per esprimere dei desiderata sulla facoltà di notifiche e depositi per via telematica, ma soprattutto per offrire una diversa visuale rispetto alle esigenze - legittime e rispettabilissime - che presumibilmente verranno sollevate dalla magistratura.
In sintesi: dobbiamo assolutamente evitare che l’introduzione di potenti innovazioni tecnologiche sortisca in qualche modo l’effetto (magari involontario!) di “bypassare” le garanzie del giusto processo. Come avvertono i massimi esperti del fenomeno informatico, una caratteristica precipua del mezzo in questione è quella di palesare gli aspetti benefici ma al tempo stesso di occultarne i pericoli.
3.2. La telematica e le sue insidie: tre sentenze
Per chiarire meglio queste considerazioni, sarà forse il caso di fare qualche esempio, riportando alcuni recenti casi affrontati dalla giurisprudenza di legittimità.
Il primo caso è quello deciso da Cass. pen., sez. III, n. 54141, dep. 1.12.2017 ([21]). Vertendosi in un procedimento cautelare reale, il difensore si doleva della mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di discussione dell’istanza di riesame (in violazione dunque dell’art. 324, co. VI, c.p.p.). Dagli atti era emerso che le notifiche dell’avviso al difensore fossero state effettuate tramite p.e.c. con il seguente esito: “mancata ricezione”, e che la notifica fosse stata operata mediante deposito in cancelleria; da successivi accertamenti era emerso che la “mancata ricezione” fosse da attribuirsi al fatto che la casella p.e.c. del destinatario fosse “piena”, il che aveva comportato il rifiuto del messaggio da parte del sistema.
Ciò accertato, la Corte ricorda come il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, nel disciplinare i “requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno”, imponga una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica [22], fra i quali quello di dotarsi di un servizio di avviso dell’imminente saturazione della casella e comunque di verifica dell’effettiva disponibilità dello spazio disposizione. In altre parole, è onere del difensore assicurarsi che la casella p.e.c. abbia spazio sufficiente ad accogliere le notifiche e le comunicazioni dirette al professionista. Viceversa, nel caso in cui l’avvocato non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l’efficienza - venendo così meno agli obblighi impostigli dal citato d.m. 44/2011 -, sarà ad esso imputabile la mancata consegna, anche ai sensi di quanto previsto dal sesto comma dell’art. 16 del già citato d.l. n. 179/2012 [23]. Pertanto, nel caso in esame la Corte rigettava la questione sollevata dal difensore ritenendo regolarmente perfezionata la notifica dell’avviso di fissazione udienza in cancelleria a seguito della “mancata ricezione” della p.e.c.
Questo caso dimostra in modo evidente come la mera trasposizione nel processo penale di norme e istituti telematico/processuali previsti e disegnati per il settore civile - dove ben diverse sono le discipline e le implicazioni, anche sul piano dei requisiti della presunzione di conoscenza/conoscibilità degli atti - possa comportare un obiettivo indebolimento dei diritti e delle garanzie, addossando al difensore obblighi di carattere essenzialmente tecnico (nel senso: informatico) che egli non è (o potrebbe non essere) in condizioni di rispettare, non avendo le cognizioni necessarie per poter operare direttamente le verifiche del caso e dovendo necessariamente affidarsi ad un soggetto (informatico) terzo. Invero, gli uffici giudiziari beneficiano di un’assistenza tecnica, efficiente o meno che sia, continua e di default, mentre il professionista non ha tale possibilità. In altre parole: la normativa obbliga i professionisti a dotarsi di un “sistema di allarme” per la propria casella p.e.c.; bene, ma come si fa a verificare se l’installazione sia corretta o risponda ai requisiti del d.m. 44/2011? E, in caso di disfunzioni derivanti da un’erronea installazione, tale per cui un atto (magari un ordine di esecuzione per la carcerazione) inviato alla p.e.c. di uno studio legale venga “respinto”, che strumenti avrà il professionista per “riparare” il danno subìto dal suo assistito?
Ecco, dovremmo avere ben presente la preoccupazione di evitare, per quanto possibile, che dai sistemi informatizzati possa in qualche modo discendere una responsabilità oggettiva da (mal)funzionamento che venga addossata alla difesa, e dunque al cittadino.
Ben diverso - e anche alquanto rasserenante, per quanto si dirà - è il tenore della seconda decisione che sembra utile riportare in questa sede.
Si tratta di Cass. pen., sez. III, n. 57105, dep. 1.12.2017. La questione verteva sulla notifica all’imputato - rimasto contumace - del decreto di citazione nel giudizio di appello. Era infatti accaduto che la notifica fosse stata eseguita - tramite p.e.c. - presso lo studio del difensore nonostante l’imputato avesse eletto domicilio presso la propria residenza e il difensore avesse espressamente dichiarato di non accettare le notifiche, ai sensi dell’art. 157 comma 8-bis, c.p.p., al momento dell’accettazione dell’incarico defensionale. In udienza la difesa aveva tempestivamente eccepito il vizio di notifica, ma la corte d’appello aveva respinto l’eccezione, in base al rilievo che l’eventuale vizio derivante dalla notifica presso il difensore dell’imputato e non presso il domicilio da questo eletto o dichiarato fosse comunque suscettibile di essere sanato allorché risultasse provata la conoscenza o conoscibilità dell’atto dal suo destinatario e non gli fosse stato per tale motivo impedito di diritto di difesa [24].
La Cassazione non accoglie tale impostazione, con una motivazione ampia e articolata. Ai nostri fini, pare di grande interesse esaminare in particolare il punto in cui la S.C. si ponga il problema se, a seguito dell’apertura del messaggio inviato con p.e.c., la dichiarazione del difensore di ricusare la ricezione di comunicazioni e notifiche destinate al suo assistito possa ritenersi revocata per facta concludentia, come si ritiene accada nei casi di notifica eseguita brevi manu laddove il difensore abbia accettato l’atto destinato al suo assistito senza nulla opporre [25]. La Corte dà risposta negativa a tale domanda, svolgendo un percorso argomentativo ampiamente condivisibile, a partire sin dalle premesse.
Secondo la sentenza in commento, infatti, la questione della revoca dell’iniziale dichiarazione di ricusazione delle notifiche da parte del difensore può porsi solo nel caso in cui il destinatario dell’atto, cioè il difensore, sia stato nella materiale possibilità di optare fra il ricevere l’atto oppure il rifiutarlo formalmente. Ma questo - afferma la Corte - non accade e non può accadere nell’ipotesi di notifica tramite posta elettronica. In tal caso, infatti, «le concrete modalità di trasmissione dell’atto precludono al destinatario di esso di esercitare una scelta fra il riceverlo ed il rifiutarlo, posto che lo stesso viene automaticamente recapitato presso l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (il quale può decidere se aprire o meno il messaggio ma non se riceverlo o meno essendo la fase della ricezione gestita in termini di automatismi informatici)»; la conseguenza ultima è allora nel senso di «escludersi la possibilità di desumere la tacita rinunzia alla facoltà precedentemente esercitata sol perché l’atto è stato materialmente ricevuto».
Si tratta di una decisione da valutare in termini estremamente positivi, giacché perviene alle conclusioni di cui si è riferito all’esito di una notevole comprensione nonché corretta interpretazione dei meccanismi di funzionamento dei sistemi telematici. Nello stabilire che la ricezione di una p.e.c., in quanto atto non espressivo di alcuna volontà, non possa valere quale tacita revoca di una dichiarazione precedentemente resa, la Corte ha giustamente “ammonito” dall’evitare di attribuire ad un fatto obiettivamente neutro quale l’apertura di un messaggio di posta elettronica una valenza “negoziale” processualmente rilevante (revoca tacita di precedente dichiarazione). Ecco allora un terreno in cui appare essenziale l’apporto dei cultori dell’informatica applicata al diritto: con lo sviluppo degli strumenti telematici applicati alle varie forme di rito processuale, assumerà crescente rilevanza stabilire quale valore giuridico si possa/debba attribuire a “gesti” apparentemente neutri quali l’apertura di un messaggio di posta, il “click” ad un web link sconosciuto, ecc.
Il terzo caso è quello deciso da Cass. pen., sez. III, n. 56280, dep. 18.12.2017. La questione portata all’attenzione dei supremi giudici era in sintesi la seguente: entrambi i difensori di fiducia dell’imputato avevano ricevuto a mezzo p.e.c. la notifica dell’udienza del processo di appello per una certa data (nella specie: 8 luglio 2016), poi rivelatasi erronea in quanto il processo si era celebrato e definito in data diversa e anteriore (22 aprile 2016) ovviamente in assenza dei medesimi e con la nomina di difensore d’ufficio ex art. 97, co. IV., c.p.p.; a riprova di quanto lamentato, si produceva in copia una comunicazione sottoscritta dal cancelliere e diretta ai difensori indicante la data errata dell’udienza di appello, ed una ricevuta della posta elettronica certificata di uno dei due avvocati.
La Corte ha respinto la questione dichiarando il ricorso inammissibile sulla base di varie considerazioni in punto di fatto [26], non evitando tuttavia di affrontare il punto nodale della vicenda, ossia il problema del «valore legale degli allegati al messaggio di posta elettronica certificata» (punto 7 della motivazione), ed in particolare come risolvere casi in cui «il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. proveniente da un ufficio giudiziario deduca che il documento allegato abbia contenuto diverso da quello che si assume essergli stato trasmesso ovvero - circostanze del tutto analoghe - che gli sia stato recapitato un atto completamente diverso ovvero un file corrotto o comunque non leggibile» (punto 9 della motivazione).
Nel rispondere al quesito, la Corte svolge alcune precisazioni preliminari di carattere tecnico-informatico, operando una distinzione tra la posta certificata “ordinaria” e quella utilizzata per le notifiche degli atti processuali mediante utilizzo del “Sistema Notificazioni Telematiche” (SNT: vedi supra) da parte di soggetti all’uopo abilitati. Alla distinzione viene attribuito significativo rilievo giacché, mentre la prima modalità non è in grado di certificare il contenuto dei messaggi e di eventuali allegati, la seconda è invece in grado di fornire tale garanzia. Pertanto, dopo aver provveduto a descrivere nei dettagli la complessa procedura di notifica mediante SNT, la Corte ritiene che tale modalità di acquisizione e notificazione, pur se inevitabilmente esposta all’errore umano, offra «adeguate garanzie di affidabilità, che non possono essere certo superate attraverso la mera deduzione della incompletezza o non corrispondenza all'originale scansionato, dal momento che, almeno per quanto è dato rilevare dalla richiamata documentazione tecnica, sembra comunque possibile procedere ad una verifica a posteriori, presso l'ufficio che ha proceduto alla notificazione dell'atto, delle operazioni compiute e dei contenuti del messaggio e degli allegati» (punto 10 della motivazione).
Come si vede, la S.C. giunge alla decisione di rigetto non perché abbia ritenuto la questione in sé infondata, ma in quanto non sufficientemente supportata dalla documentazione prodotta a corredo. In altre parole, per i supremi giudici sarebbe stato onere della difesa, una volta scoperto l’errore, effettuare le opportune verifiche presso la cancelleria interessata ed ottenere le necessarie attestazioni riguardo al documento scansionato, acquisito al sistema e successivamente notificato a mezzo p.e.c. (punto 11 della motivazione).
La lettura di questa pronunzia stimola considerazioni diverse ed ulteriori rispetto alle precedenti, tralasciando qui ogni approfondita valutazione nei confronti di una forse eccessiva rigidità che sembrerebbe scontrarsi con la natura officiosa delle verifiche da compiersi da parte del giudicante su una lamentata violazione del disposto di cui all’art. 179, co. I c.p.p.: tenendo conto delle concrete peculiarità del caso, ben poteva la Corte prendere in considerazione l’ipotesi di sospendere l’udienza al fine di far compiere i necessari accertamenti presso la cancelleria del giudice d’appello.
Proprio quest’ultima osservazione dimostra quanto l’utilizzo di applicazioni telematiche, da cui vengano fatti discendere effetti giuridici di indubbio rilievo, renda massimamente opportuna l’introduzione nel tessuto normativo del nostro codice di rito di norme di garanzia che, nel disciplinare le modalità di risoluzione di questioni giuridiche asseritamente connesse ad un errato o cattivo funzionamento delle predette applicazioni, impongano espressamente al giudice di svolgere ex officio le verifiche necessarie, quanto meno nei casi in cui siano in discussione il rispetto di diritti o garanzie “coperti” da sanzioni processuali, e comunque in tutti i casi in cui le suddette verifiche possano agevolmente svolgersi in modo celere e senza comportare un eccessivo rallentamento per la ragionevole durata della sequenza processuale.
4. Conclusioni: una comunità giuridica che sia coinvolta e consapevole
Gli esempi fornitici dalle pronunzie sopra esaminate ci offrono senz’altro una serie di spunti in ordine alle modalità con le quali la comunità giuridica dovrebbe interpretare l’informatizzazione, da considerare sempre come mezzo e mai come fine. Tracce che dovrebbero guidare la strada per la costruzione consapevole di un PPT in cui le esigenze di efficientamento del sistema vengano ad essere subordinate alle finalità del giusto processo e del rispetto delle garanzie. Ma questo potrà accadere se, accanto al PPT, noi costruiremo una comunità giuridica che sappia correttamente valutare gli effetti dei comportamenti connessi all’informatizzazione, avendo ben contezza dei principi logici e dei fattori pratici che regolano il concreto funzionamento di quest’ultima. Come si avverte efficacemente in dottrina «vi è un importante elemento unificante in tutte le questioni giuridiche a contenuto informatico: il loro studio presuppone la conoscenza dei metodi e delle tecnologie dell’informatica. Tale conoscenza è precondizione necessaria per poter correttamente interpretare le norme giuridiche. Per esempio, solo chi sappia che cos’è un programma informatico e conosca la differenza tra codice oggetto e codice sorgente può intendere la disciplina del software, solo chi conosca il funzionamento degli indirizzi di internet può intendere la disciplina dei nomi di dominio, solo chi conosca le tecniche per attaccare sistemi informatici e le relative difese può affrontare il tema degli accessi abusivi» [27].
Per tutte queste ragioni sarà fondamentale che il ceto dei giuristi nella sua interezza venga fattivamente coinvolto nel disegno e nella realizzazione delle nuove applicazioni telematiche nel rito penale nonché nella predisposizione di quelle modifiche all’impianto codicistico che si rendano consequenzialmente necessarie. Un po’ come accadde agli albori dell’informatica giuridica in Italia, del resto. Nella seconda metà degli anni ‘60, infatti, furono autorevoli esponenti della magistratura come Vittorio Novelli e Renato Borruso ad avere la felice intuizione di ricorrere all’informatica per memorizzare e ricercare le massime della Cassazione, dando così vita al sistema Italgiure. Essi, però, non si limitarono a delegare ad un’azienda informatica la progettazione e lo sviluppo del sistema, ma si preoccuparono di curare il progetto direttamente, seguendone in prima persona anche tutte le fasi successive di perfezionamento, facendo in modo che il sistema fosse adattato alle specifiche esigenze del giurista e non il contrario [28].
In conclusione, non sembra fuori luogo richiamare in questa sede un’immagine molto efficace che appartiene all’illustre giurista tedesco Winfried Hassemer.
In un testo di alcuni anni fa [29], Hassemer afferma che lo Stato, sotto l’aspetto della giustizia penale, è una sorta di pericoloso animale da guardia, beninteso necessario per evitare che dei malintenzionati entrino nel nostro giardino e lo danneggino. E però, proprio perché molto pericoloso, non possiamo permetterci di lasciarlo libero di scorrazzare per il giardino. Dunque - ammonisce Hassemer - è bene che questo animale così pericoloso sia tenuto ben legato alla catena, per evitare il rischio che faccia danni ancora peggiori. Fin qui l’illustre giurista.
Riallacciandoci a questa immagine, non possiamo non notare che gli “anelli” di questa “catena” sono per l’appunto i diritti e le garanzie, con tutto il corredo di norme e istituti processuali (invalidità, nullità, inutilizzabilità, termini, preclusioni, eccezioni, ecc.). E, siccome la forza di una catena è pari alla forza del suo anello più debole, basta che un solo anello si indebolisca perché si indebolisca tutta la catena. E basta che un solo anello si spezzi per spezzare tutta la catena. Orbene, ogniqualvolta vi sia un procedimento penale questa “catena” di cui si discorre finisce con l’entrare inevitabilmente in tensione. Inevitabilmente.
Ecco perché noi - noi giuristi, noi cittadini - dobbiamo costantemente vigilare e tenere d’occhio la “catena”. Ma questo noi potremo farlo soltanto se gli anelli (e le possibili crepe) siano sempre perfettamente visibili, trasparenti e accessibili a tutti - se vogliamo che la giustizia venga davvero «amministrata in nome del popolo», come sta scritto nelle aule dei tribunali, nelle sentenze, nella nostra Carta fondamentale.
Dunque, stiamo attenti. Stiamo attenti a che l’introduzione - necessaria e auspicabile, lo si è già rilevato - degli strumenti che la tecnica ci offre non produca l’effetto di rendere meno accessibili o di opacizzare uno o più anelli di quella “catena”. Tutti vogliamo vivere in un giardino che sia ben tenuto e che sia sicuro, se del caso anche utilizzando le tecnologie più avanzate, se queste contribuiscono a renderlo ancora più sicuro. Ma non smettiamo mai, neppure per un istante, di perdere di vista la “catena”.
([1]) Testo riveduto e corretto dell’intervento svolto nell’ambito del Corso “La telematica nel processo penale” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura il 7-9 febbraio 2018 nella sede di Villa Castel Pulci a Scandicci. Una prima versione di questo scritto è apparsa in www.discrimen.it.
([2]) A differenza del PCT (vedi appresso), la produzione dottrinale sui vari (pochi) aspetti in cui oggi si articola la digitalizzazione del processo penale è quantitativamente assai scarsa: si vedano F.P. Micozzi, G.B. Gallus e G. Vaciago, Processo penale telematico, in G. Cassano e F. Pappalardo (a cura di), Prontuario del processo telematico, Milano, 2016, pp. 181 ss.; I.V. Felcher, Il processo penale telematico, in G. Ziccardi e P. Ferri (a cura di), Tecnologia e diritto. Fondamenti d’informatica per il giurista, Milano, 2017, pp. 185 ss.; M.A. Senor, Processo penale telematico, i passi dopo la sperimentazione, in http://www.forumpa.it/pa-digitale/giustizia-processo-penale-telematico-a-che-punto-siamo-e-i-limiti-della-normativa.
([3]) Nella ormai smisurata produzione dottrinale sul PCT si vedano: M. Sala, Il processo telematico. Tipi e differenze, Torino, 2017; N. Gargano e L. Sileni, Il Codice del PCT commentato, Milano 2017; F. Corona e M. Iaselli, Il processo civile telematico, Pisa, 2015; E.M. Forner, Procedura civile digitale, Milano, 2015. I cultori della materia avvertono costantemente di non confondere il “diritto dell’informatica” (ossia la branca ordinamentale che disciplina i vari aspetti in cui si manifesta l’informatizzazione nella nostra vita pubblica e privata) con l’”informatica giuridica” (ossia lo studio delle possibilità di utilizzo dell’informatica nelle attività giuridiche sul piano comportamentistico-previsionale, informativo-cognitivo e logico-decisionale): si vedano G. Taddei Elmi (a cura di), Corso di informatica giuridica, Napoli, IV ed., 2016; G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione. Corso d’informatica giuridica, Torino, III ed., 2016.
([4]) Con l’introduzione del SICP (Sistema Informativo della Cognizione Penale) - entrato a pieno regime nel maggio 2016 - si è ottenuta l’uniformazione dei registri delle cancellerie e segreterie penali in un unico registro informatico, in luogo delle versioni del precedente applicativo Re.Ge. (che presentava problemi di vario genere); ciò comporta l’indubbio vantaggio di poter utilizzare un registro dei procedimenti penali identico per tutto il territorio nazionale, con una gestione uniforme dei dati e una conseguente utilizzabilità in tutto il sistema Giustizia. Il TIAP (Trattamento Informatico Atti Processuali) è un applicativo per la gestione informatica del fascicolo con possibilità di integrare i contenuti nelle varie fasi processuali con atti, documenti e supporti multimediali; l’obiettivo è pervenire alla digitalizzazione del fascicolo attraverso la scannerizzazione, acquisizione di file digitali, classificazione, codifica e indicizzazione dei fascicoli con possibilità di ricerca, consultazione, esportazione e stampa di interi fascicoli e/o di singoli atti. Per i necessari approfondimenti si rinvia ai documenti pubblicati sul sito web del CSM.
([5]) Per queste e altre utili informazioni si veda A. Cerreti, Il processo penale telematico. Esperienza italiana e americana a confronto, in http://www.unicost.eu/media/33721/contributo_cerreto.pdf.
([6]) In realtà, su questo specifico versante qualcosa si muove. È infatti in corso di attivazione un nuovo servizio telematico “p@ss” per il rilascio del certificato ex art. 335 c.p.p. Una volta a regime, il difensore, tramite il Portale Servizi Telematici (PST) del Ministero, potrà ricevere una comunicazione al proprio indirizzo p.e.c. censito sul ReGIndE con le indicazioni per scaricare, previa autenticazione e dopo le verifiche del caso, il certificato richiesto.
([7]) Per un’ampia e recente rassegna si veda L’utilizzo della posta elettronica certificata nel processo penale, relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione, red. M.C. Amoroso, reperibile in https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/studiPubblicazioni.do.
([8]) In ambito penale la posta elettronica certificata, quale strumento di trasmissione telematica delle comunicazioni e notificazioni, è stata introdotta dall’art. 4 d.l. 193/2009, conv. in legge n. 24 del 22.2.2010. In particolare, l’art. 4 citato prevedeva che con decreti ministeriali avrebbero dovuto essere individuate «le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui ai commi 1 e 2. Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7.3.2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11.2.2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino alla data di entrata in vigore dei predetti decreti, le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto». Successivamente, con l’art. 16 D.L. n. 179 del 2012 e con la legge n. 228 del 2012, il legislatore ha disciplinato la materia dei “biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica”. In particolare l’art. 16, comma 4, prevede l’utilizzo dello strumento p.e.c. per l’invio di “notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli art. 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La relata di notificazione è redatta in forma automatica dal sistema informatico in dotazione alla cancelleria”. Dunque, in forza delle disposizioni surrichiamate, il ricorso alla p.e.c. è oggi esteso alle notificazioni in ambito penale, con la necessaria precisazione che la notifica mediante tale strumento è ammessa soltanto nei confronti dei soggetti che non posseggano la qualità di indagato o di imputato (i quali ultimi dovranno pertanto essere informati con le forme ordinarie di notificazione): da ciò consegue che l’uso della p.e.c. per le notifiche sia dunque destinato a trovare principale applicazione nei confronti dei difensori.
([9]) Con una circolare ministeriale dell’11 dicembre 2014, la Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) ha dato avvio al Sistema Notificazioni Telematiche in ambito penale (SNT) al fine di consentire agli uffici giudiziari l’invio delle notificazioni tramite p.e.c. Il sistema è configurato e disponibile per tutte le tipologie di ufficio giudiziario. Oltre a consentire l’invio degli atti tramite p.e.c. ai destinatari selezionabili dall’albo degli indirizzi telematici, esso permette il monitoraggio delle notifiche inviate e la individuazione dei casi in cui si renda necessario procedere attraverso deposito in cancelleria. Il sistema permette inoltre l’invio di comunicazioni e la trasmissione di documenti ad altri soggetti. SNT è installato sui server distrettuali ed è accessibile via web.
([10]) «L’avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell’art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell’ordine nel cui albo è iscritto a norma dell’art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, salvo che l’autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente. Quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente, fatta eccezione per l’autorizzazione del consiglio dell’ordine, la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata».
([11]) Cass. pen., Sez. III, n. 50932, dep. 8.11.2017.
([12]) Cass. pen., Sez. VI, n. 55444, dep. 12.12.2017.
([13]) Cass. pen., Sez. II, n. 31336, dep. 22.06.2017. Negli stessi termini quanto al giudizio di merito cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 1568, dep. 16.01.2018.
([14]) Cass. pen., Sez. II, n. 31314, dep. 22.06.2017; in termini: Cass. pen., Sez. VI, n. 5205, dep. 2.02.2018. Per un’analoga decisione su istanza di differimento di udienza camerale fissata a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione, si veda Cass. pen., Sez. II, n. 51665, dep. 13.11.2017.
([15]) Cass. pen., Sez. IV, n. 53561, dep. 27.11.2017.
([16]) Così, ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, n. 55444, dep. 12.12.2017, cit.
([17]) Cfr. la già citata Cass. pen., Sez. III, n. 50932, dep. 8.11.2017 (corsivi miei).
([18]) In dottrina aderiscono all’orientamento restrittivo della Cassazione F.P. Micozzi, G.B. Gallus e G. Vaciago, Processo penale telematico, cit., p. 204. In senso opposto invece G. Caputo, Osservazioni a Cass. pen., n. 32243, 26 giugno 2015, in “Cassazione penale”, 2016, p. 49, facendo leva sul combinato disposto tra art. 48 CAD e art. 152 c.p.p.
([19]) Peraltro, in materia di fattispecie previste dal citato d.lgs. 231/2001 si tratterebbe soltanto di operare un mero adeguamento, posto che l’art. 24-bis prevede già un’attribuzione di responsabilità per “delitti informatici e trattamento illecito di dati”.
([20]) Per avere una prima idea della rilevanza della questione, si veda la recente Cass. pen., sez. V, n. 21710, dep. 16.05.2018: in tema di impugnazione cautelare, qualora la trasmissione degli atti al tribunale del riesame avvenga a mezzo p.e.c., il termine di dieci giorni di cui all'art. 311, comma 5-bis, c.p.p., previsto per l’adozione del provvedimento a pena di inefficacia dell’ordinanza impugnata, non decorre dal momento della mera ricezione della p.e.c. da parte dell'ufficio giudiziario ricevente, ma da quello dell’effettiva e reale percezione e conoscenza degli atti, dimostrata dalla stampa della p.e.c. e dalla verifica della integralità degli atti trasmessi. Su tale pronunzia, L. Giordano, Trasmissione di atti tra uffici giudiziari in allegato a mezzo Pec: qual è la data di ricezione? in www.ilpenalista.it (11.07.2018).
([21]) Per un commento (adesivo) alla sentenza si veda M. Scarabello, Casella Pec del destinatario “piena”: conseguenze derivanti dall’impossibilità di ricevere la notificazione, in www.ilpenalista.it (23.01.2018).
([22]) Ai sensi dell’art. 20 il “soggetto abilitato esterno” - ossia, in questo caso, il difensore - «è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati» (comma 2); «è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia» (comma 3); è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che «deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34» (comma 4); «è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione» (comma 5).
([23]) «Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario».
([24]) Secondo l’orientamento prevalente, si tratta di una nullità a regime intermedio. Peraltro, vale segnalare come, a seguito di un contrasto sorto in seno al supremo organo di legittimità in ordine alla possibilità di sanatoria di una citazione a giudizio notificata erroneamente al difensore anziché all’imputato nel domicilio eletto, qualora il difensore, nel dedurre la nullità, non alleghi circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, le Sezioni Unite abbiano recentemente risolto la questione dando risposta negativa: «In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio dell’imputato, la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, produce una nullità a regime intermedio, che non è sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato». (Cass. pen., SS.UU., n. 58120, dep. 29.12.2017).
([25]) In tali casi, infatti, la giurisprudenza ritiene tacitamente revocata la dichiarazione del difensore effettuata ai sensi del citato comma 8-bis, con la conseguenza che la notifica così operata si considera perfettamente valida: da ultimo, Cass. pen., Sez. III, n. 41560, dep. 19.07.2017.
([26]) Innanzi tutto, dall’esame degli atti risultava che nella notifica dell’avviso all’imputato a mani proprie fosse indicata la data corretta dell’udienza (22 aprile 2016). La sentenza rileva poi come vi fossero altri elementi “sintomatici” della regolarità della notifica: la circostanza che nel verbale di udienza la corte di appello avesse dato atto, preliminarmente, di aver verificato la regolarità delle notifiche senza che vi fosse stata alcuna osservazione sul punto da parte del difensore (d’ufficio) presente; il rinvenimento nel fascicolo di più copie dell’avviso ai difensori di cui una - priva di sottoscrizione - recante una data (8 luglio 2016), corretta a penna il 22 aprile 2016; la presenza in atti di due attestazioni di verifica della notifica a mezzo p.e.c. ai due difensori, effettuate in date diverse e prossime all’udienza del 22 aprile 2016 (ed alla data di notifica dell’avviso all’imputato). Tutti indicatori che - a parere della Corte - non sarebbero suscettibili di venir vanificati dalla documentazione prodotta dal ricorrente (una stampa dell’archivio della casella di posta elettronica di uno soltanto dei due difensori e dell’avviso di udienza che si assumeva esservi stato allegato) che si è reputata incompleta e insufficiente per sorreggere la questione della (in)validità della notificazione dell’avviso.
([27]) G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione, cit., p. 28.
([28]) Ricorda la vicenda G. Sartor, L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione, cit., p. 29.
([29]) W. Hassemer, Perché punire è necessario. Difesa del diritto penale, tr. it., Bologna, 2009.