Tre domande per un’intervista multipla
LA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA
di Angelo Costanzo
La crisi della rappresentanza politica ridimensiona il potere legislativo e questo può avere riverberi anche sulla legittimazione dei giudici a esercitare la loro funzione che (nel nostro sistema giuridico e culturale) ha il suo fondamento nell’essere interprete della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà popolare.
Per avviare una esplorazione di alcuni profili di questo tema (assai complesso) è parso utile rivolgere tre domande a tre noti studiosi che da decenni contribuiscono alla formazione di magistrati e avvocati nelle università italiane-– anche svolgendo molteplici ruoli in autorità indipendenti, nell’amministrazione giudiziaria, in commissioni pubbliche - e la cui influenza culturale, pertanto, supera i confini delle discipline di provenienza e dell’ambito accademico:
il prof. Mario Barcellona, civilista
il prof. Alessandro Corbino, romanista,
il prof. Antonio D’Atena, costituzionalista.
Alcuni loro contributi più recenti sul tema oggetto dell’intervista sono richiamati nella formulazione delle domande.
- Sappiamo da tempo che la tirannia della maggioranza può risultare equivalente a quella di un autocrate. Secondo una tesi [Zakaria, The Future of Freedom. Illiberal Democracy at Home and Abroad, New York-London, 2007], senza costituzionalismo liberale la democrazia tende alla semplificazione delle decisioni, può portare alla erosione della libertà, all’abuso del potere, alle divisioni etniche, al nazionalismo e, quindi, anche alle guerre. Nel nostro sistema, la declinazione orizzontale della separazione dei poteri fra il circuito mosso dalla rappresentanza e quello fondato sulla imparzialità (che si sposa alla competenza tecnica) e quella verticale fondata sul principio di sussidiarietà e sulla possibilità che le maggioranze politiche territoriali siano diverse da quelle centrali è ispirata alla logica dello Stato di diritto che argina possibili derive della democrazia.
Come valutare la situazione attuale, in Italia e in Europa, alla luce di questa prospettiva?
Antonio D’Atena
La Costituzione italiana non ha optato per un sistema di democrazia “assoluta”, ma per un sistema di democrazia liberale, nel quale si contrappongono, bilanciandosi, due componenti: una componente schiettamente democratica ed una componente liberal-garantistica. La prima trova espressione nella rappresentanza politica e nel principio maggioritario, la seconda, nella separazione (orizzontale e verticale) dei poteri e nell’esistenza di apparati pubblici sganciati dal circuito della rappresentanza (e della responsabilità) politica.
L’equilibrio tra le due componenti è essenziale. Si pensi ad esempio che, se l’unico principio di struttura accolto in Costituzione fosse il principio democratico, la legge – come pone in evidenza Carl Schmitt – potrebbe fare tutto; essa non dovrebbe limitarsi a porre regole, ma potrebbe anche assumere contenuto individuale e concreto, usurpando, tra l’altro, il ruolo, che, nello Stato di diritto, è proprio della giurisdizione: potrebbe, ad esempio, assumere il contenuto della sentenza.
È proprio lo Stato di diritto, il quale costituisce l’elemento centrale della componente garantistica del sistema, a richiedere che la legge si faccia regola, assumendo un contenuto generale astratto, e che gli atti individuali e concreti siano adottati da organi dello Stato in posizione di imparzialità (o, addirittura, come avviene per la magistratura, in posizione d’indipendenza). Si tratta – come noto – di organi, la preposizione ai quali avviene mediante concorso, non attraverso l’investitura elettorale. Il che consente di affermare che, a questo riguardo, la nostra democrazia liberale sia più avanzata di quella nord-americana, caratterizzata dalla presenza di organi giudiziari eletti.
Questo il quadro costituzionale.
È, tuttavia, da rilevare che, oggi, nel dibattito politico italiano, il modello liberal-democratico non viene sentito da tutti come un elemento irrinunciabile dell’organizzazione statale. Si pensi alla forza di attrazione esercitata da Stati che conoscono derive illiberali (o che, come accade in Ungheria, si fanno addirittura un vanto della democrazia illiberale). Si pensi, ancora, alle suggestioni della democrazia diretta (nella versione contemporanea della web-democracy), la quale presenta un aspetto largamente mistificatorio. Si pensi, infine, all’idea – inconcepibile, fino a pochi anni fa – secondo cui, in prospettiva, potrebbe mettersi in discussione la funzione (e, addirittura, l’esistenza) di parlamenti rappresentativi.
Mario Barcellona
Il possibile sbocco tirannico di una maggioranza (quand’anche democraticamente costituita) è insito nello stesso sistema democratico e per questa ragione l’introduzione della democrazia è stata sempre accompagnata da dispositivi che la garantissero contro questo rischio.
In Europa, il costituzionalismo trae origine dal “patto costituzionale” (C. Mortati) che vale come “limite” entro il quale il sistema democratico può tuttavia liberamente dispiegarsi (M. Dogliani). Invece, negli ordinamenti anglosassoni il contenimento della democrazia è stato affidato a un sistema di “pesi e contrappesi” il cui senso, però, non è quello del “limite”, ma del “concorso” di poteri diversi che non solo si estende oltre i tre tradizionali poteri di Montesquieu (e la loro gerarchia), ma soprattutto è concepito come emendamento permanente e ordinario dello stesso processo democratico secondo un modello che vuole la democrazia corretta da una sorta di policentrismo oligarchico che si vorrebbe “imparziale” perché attingerebbe la sua legittimazione dalla nuda tecnica.
L’attuale prevalere di questa seconda strategia e la crescita della sua articolazione nel duplice livello nazionale e sovranazionale non solo impoveriscono la democrazia, ma soprattutto inducono la formazione di élite, che si sviluppano secondo logiche autoreferenziali, rischiano di far secessione dal “popolo” (C. Larsch) e diffondono una percezione diffusa della società come distinta in insider e outsider. Molti dei malanni solitamente attribuiti alla “tirannia della maggioranza”, oggi si presentano, piuttosto, come cascami di questa strategia e della reazione populista che essa innesca, in Italia, in molti altri paesi dell’Unione e nelle stesse due Americhe.
Considerazioni simili valgono per l’articolazione territoriale della democrazia, alla quale, nel contesto di una divisione del mondo in blocchi contrapposti, si affidava la funzione di aprire la politica nazionale ad equilibri più avanzati ma non troppo allarmanti rispetto alla dislocazione internazionale dell’Italia (P. Ingrao). Nell’odierno diverso contesto, l’autonomia, da forma di organizzazione e gestione ravvicinate dei servizi erogati dal Pubblico, si muta in strumento di cattura e conservazione al territorio del gettito fiscale in esso prodotto, luogo di un conflitto sulla ripartizione della ricchezza agito dal deperimento della solidarietà nazionale e dallo sviluppo di un nuovo egoismo regionale.
Se queste considerazioni sono in qualche misura fondate, allora si deve riconoscere che l’attuale crisi della democrazia non può superarsi potenziando i contrappesi “imparziali” (che in realtà, spesso servono non a fronteggiare il rischio di una “tirannia della maggioranza” ma ad immobilizzare qualsiasi maggioranza entro gli assetti di potere consolidati), ma solo ricostituendo le condizioni, oggi latenti, di una reale democrazia rappresentativa, ove gli interessi si confrontino apertamente e trovino, sempre dentro il quadro costituzionale, quella mediazione politica che è la sola coerente con l’idea democratica, sia in Italia che nell’Unione.
Parimenti, i principi di eguaglianza e solidarietà, intrinseci all’idea democratica, si salvano non tanto mediante il pur necessario pluralismo politico del sistema regionale ma garantendo la ripartizione delle risorse pubbliche secondo il paradigma del 2° comma dell’art. 3 e attivando, al contempo, efficaci e repentini sistemi di controllo e di intervento sostitutivo delle amministrazioni centrali nel caso di inefficienti gestioni regionali delle risorse trasferite dallo Stato o, comunque, di sbilanciamenti rispetto ai livelli medi nazionali.
Alessandro Corbino
L’esatto rilievo (la tendenza del metodo “democratico” a favorire la semplificazione e, con essa, la decisione “emozionale” invece di quella “ponderata”) non deve orientare verso una limitazione della “democrazia”. Non è introducendo elementi di “tecnocrazia” che si migliora l’efficacia della forma di governo in discussione, insuperabilmente legata alla percezione dei singoli di avere effettiva influenza sui processi decisionali. È ricostituendo piuttosto le materiali condizioni di una tale possibilità. L’obbiettivo da perseguire mi sembra quello di un sistema “politico” che (ben definito l’ambito della “sovranità”: nel nostro contesto contemporaneo, ne vedo, dal nostro punto di osservazione, solo uno “europeo”) si articoli (abbandonate logiche “nazionali”, insostenibili in un tempo che esige libera circolazione delle persone e riguardo per il multiculturalismo complesso e diffuso che ne consegue) attraverso “cerchi territoriali concentrici” coordinati (per esempio: macro-regioni transnazionali e sub-distretti via via più limitati, sino ad una dimensione di sostenibile “partecipazione”: “insiemi” di non oltre 15/20 mila persone), nei quali sia perciò praticabile nei fatti una interazione costante dei soggetti politici, individuali (singoli cittadini “radicati”) e collettivi (partiti, movimenti, associazioni), che alimenti i meccanismi partecipativi (che potrebbero prevedere – in ragione della limitatezza dimensionale dei contesti – anche un concorso di metodologie: “rappresentative” e “dirette”). Nell’ambito di “definite” risorse (legate ad una “fiscalità” complessa, misurata anche sui contesti) e di competenze territoriali di decisione (in alcune materie) e di proposta (in altre), si dovrebbe mirare a mantenere permanentemente attivo un circuito virtuoso “multilivello”. L’autonomia dei distretti darebbe modo di articolare un “pensiero politico” differenziato localmente (e non verticalmente coordinato secondo una logica “discendente”). Le decisioni generali maturerebbero (almeno tendenzialmente) attraverso un percorso “ascendente” (di progressive sintesi “inclusive” del condiviso, con conseguente attenuazione/contrasto delle barriere indotte dalla “distanza”). La strada a me sembra, insomma, quella di una ridisegnata convivenza ispirata ad “uguaglianza” politica (universale suffragio e accesso alle cariche) ed attenzione alle “diversità” culturali, economiche e sociali (legate a tradizioni, risorse e costumi).
2. Nel nostro sistema, il generale e astratto disporre è prerogativa della politica, l’individuale e concreto provvedere va affidato a organi imparziali non rappresentativi [lo ricorda: D’Atena, Tensioni e sfide della democrazia, in: Giurisprudenza costituzionale, 6, 2017, pp. 3120-3137].
A questa costruzione si va periodicamente contrapponendo l’idea che il potere non è divisibile e che, pertanto, anche quello esercitato dalla magistratura dovrebbe ricevere una legittimazione non solo tecnico-culturale ma anche politica [Corbino, Rigore è quando l’arbitro fischia. Il mito della legalità, Jovene 2018 ].
E’ quest’ultima un’idea condivisibile e, se accolta, mediante quali forme potrebbe essere concretizzata. Con quali esiti in termini di vantaggi e rischi?
Mario Barcellona
Che il potere non sia divisibile è vero nel senso che il potere di una struttura deve rendersi compatibile con quello delle altre e questo può perseguirsi solo secondo due paradigmi, quello della distinzione delle competenze e quello della gerarchia.
Di entrambi questi due paradigmi si avvale(va) lo Stato di diritto: da un lato la distinzione tra il fare la legge, il darvi esecuzione e l’applicarla, che presiede alla distinzione delle competenze tra Parlamento, Governo e Giurisdizione; dall’altro, la sovraordinazione della legge, e dunque del Parlamento.
Ovviamente, questa distinzione delle competenze e la divisione dei poteri cui sono assegnate vanno comprese in modo adeguato: i giudici non sono mai stati bouche de la loi, e quando si sono sforzati di esserlo non hanno mai reso un buon servizio alla legge. Ma questo non impedisce affatto che – contrariamente a quanto proclamano molte teorie dell’interpretazione ingenue e miopi – non si dia una “fedeltà” dell’interprete al testo (H.G. Gadamer), la quale attiene al suo “senso” ed alla sua “funzione”, concepiti, rispettivamente, come “orizzonte” di un’epoca o di una sua fase e come “prestazione” che il sistema giuridico è chiamato a svolgere per il sistema sociale verso la complessità che lo insidia (M. Barcellona).
Alcuni giuristi, fraintendendo l’operato della giurisprudenza, proclamano l’avvento del “governo dei giudici” (N. Lipari) e anche alcuni giudici che, fraintendendo il loro stesso operato, si dicono investiti di una generale supplenza della politica. In realtà, il rapporto tra la sentenza e la norma non è di rottura, ma di sviluppo del senso e della funzione che la seconda trova nella prima.
Molti sostengono che nel postmoderno della contingenza e della liquidità la legge non sarebbe più in grado di dare unità sistematica al mondo sociale o che il degrado della politica avrebbe privato i Parlamenti della capacità di confrontarsi con il cambiamento e di mediarne i conflitti che suscita, per cui non più alla legge ma al giudice spetterebbe ormai il compito di produrre il Diritto e di trarre dal mondo sociale i valori da implementare secondo ragionevolezza.
Solo che questa rappresentazione incappa in una serie di incongruenze:
- se il mondo è talmente complesso da non essere riducibile a sintesi da parte del legislatore, perché mai dovrebbe essere comprensibile e unificabile da parte del giudice?
- se non è più possibile distinguere tra “interpretazione vera” ed “interpretazione falsa”, cosa mai garantisce che la meta-legge, prodotta dalle interpretazioni del mondo messe in opera dai giudici, sia quella “vera” e si muova sulla strada della “giustizia”?
- se anche si ammettesse che si dia una “Giustizia” come universalità incontrovertibile, perché mai il giudice sarebbe in grado di approssimarvisi più di quanto possa la legge?
Queste incongruenze non sono superabili apprestando una sorta di legittimazione politica della magistratura. Una tale legittimazione, infatti, presupporrebbe un qualche modo elettivo del reclutamento dei giudici che si si esporrebbe all’eventualità di linee di politica del diritto differenti e contraddittore. Rispetto alle quali non si darebbe possibilità di alcun controllo di legittimità. Mentre un controllo “politico” centralizzato rischierebbe di destituire una tale legittimazione di ogni parvenza democratica.
In realtà, la prospettiva di un governo dei giudici, si lega a una ideologia che si ripropone, di depotenziare la politica e mascherare il conflitto, di dissimulare che nell’ordine giuridico si racchiude un ordine sociale il quale annovera sempre vincitori e vinti, componendone tuttavia le ragioni al fine di assicurare la pace sociale.
Antonio D’Atena
Proprio sull’idea della divisibilità del potere si sono storicamente edificate le contemporanee democrazie liberali. Le quali rappresentano un’incontestabile conquista di civiltà. Questo non significa che esse non possano essere modificate. Si pensi ad esempio all’avvento dello Stato sociale agli inizi del secolo breve. Esso ha costituito la risposta del costituzionalismo alla sfida lanciatagli dalla rivoluzione d’ottobre e dal pensiero che le era alle spalle.
Ma questa risposta non ha cancellato l’acquis precedente. E quindi essa non si è sostituita all’antico Stato di diritto, ma si è aggiunta ad esso, per riecheggiare la formula che figura nell’articolo 28 della Legge fondamentale tedesca.
Nulla, pertanto, impedisce di arricchire le acquisizioni del passato. Oggi, ad esempio, è diffusa l’idea, risalente a Peter Häberle, secondo cui, nello Stato costituzionale contemporaneo figurerebbero una serie di elementi ulteriori, che lo arricchiscono. Dello Stato sociale, ho appena detto. Ad esso non può non aggiungersi il pluralismo, che è una delle maggiori conquiste della contemporaneità.
Alessandro Corbino
Resto al mio punto di vista. Il potere politico non è divisibile. Divisibile ne è solo l’esercizio. Il quale dunque va ripartito secondo competenze distinte, ma interconnesse in modi fattuali che impediscano (per le procedure di attribuzione delle funzioni, di esercizio di esse e di controllo di tale esercizio) ogni forma di “concentrazione” e di “autoreferenzialità”. Le modalità non potranno essere ovviamente uniformi (per ciascuna funzione), se non in negativo (nella indispensabile preclusione cioè di un esercizio di ciascuna di esse che non resti esposto, direttamente o indirettamente, al controllo dei singoli appartenenti alla comunità politica “sovrana”). Per la magistratura non si dovrebbe fare eccezione (salvo a determinare le forme appropriate compatibili: un interessante modello da studiare potrebbe essere, per il reclutamento e le responsabilità, quello inglese). Mi domando piuttosto: siamo sicuri che una giustizia esercitata da giudici “professionali”, individuati soltanto attraverso la loro astratta competenza “tecnica”, sia una modalità compatibile con un ordine politico “democratico”? Non si dovrebbe riflettere bene sulle origini del “modello” (indubbiamente collegato ad una visione alternativa – imperiale – della “sovranità”)?
3. “La rappresentanza non si dà se gli individui sociali non si concepiscono già come rappresentabili” [Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi, 2018, p.83]. Per altro verso, la cosiddetta democrazia diretta (che è cosa diversa dalle varie vie di democrazia partecipata) e le accresciute possibilità di manipolazione del consenso politico concorrono a mettere in crisi la democrazia rappresentativa perché la privano di progettualità [Montanari, La politica fra progettualità e mera contingenza, in Filosofia in movimento 2018, http://filosofiainmovimento.it]
Questo determina uno squilibrio nel rapporto fra i poteri dello Stato che si riverbera sul ruolo della magistratura.
La perdita di legittimazione del potere politico (quando il consenso che riceve risulta in parte fittizio e alterato) quali conseguenze comporta per la legittimazione del potere giudiziario ?
Alessandro Corbino
La rappresentanza politica di milioni di cittadini non può non essere affidata alla competenza, di organismi politici, sostenuti da un pensiero “tecnico” qualificato.
Per la questione “potere giudiziario”, il discorso è un po’ più complesso.
La funzione giudiziaria è assicurata conferendo autorità “politica” al “giudicato” (tanto indispensabile quanto insuperabilmente fallibile). In un sistema democratico il “giudicato” non deve avere solo “autorità”, ma, prima ancora, una “credibilità” che deriva dall’ordinamento giudiziario adottato.
Al vincitore è necessario ottenere il giudizio in un tempo utile alle “certezze” alle quali esso è preordinato (la “definizione” della controversia, l’accertamento della responsabilità criminale ipotizzata). Al soccombente il giudizio deve apparire “oggettivo”. Questa “oggettività” investe, in particolare, la configurazione del “giudice” e la determinazione dei criteri di giudizio (norme) che egli deve adottare (non solo le “leggi”, ma anche la loro “interpretazione”). La soluzione di questi problemi è complessa (e non priva di variabili). I criteri devono apparire (a chi li subisce) frutto di valutazioni “collettive” (perciò “spersonalizzate”). Questo si è ottenuto (per due millenni, nella civiltà giuridica di ispirazione romana) affidandone l’elaborazione ad una “riflessione” di tipo “scientifico”, costruita da una “dottrina” (in senso personale) se non “aperta”, almeno “estesa” (potrebbe anche coincidere dunque – vedi esperienza di common law – con quello di un “corpo giudiziale” istituzionale) che sia composizione di un pensiero diffuso. Quanto invece al “giudice”, occorre distinguere. I giudizi privati (nei quali il giudice è “terzo”) potrebbero essere utilmente affidati sia a giudici (meglio se “collegiali”) predefiniti, sia a giudici “scelti” dalle parti (in questo secondo caso, vi sarebbe il vantaggio della maggiore tempestività con cui si giungerebbe al “giudicato”: verrebbe meno ogni necessità di appello). Nei giudizi criminali (nei quali il giudice partecipa dell’interesse collettivo alla repressione), la soluzione è meno aperta. Sicuramente preferibile (ai fini della percezione di “oggettività” in discussione) sarebbe il ricorso ad una “collegialità” molto larga del giudice (e composta per l’occasione), in grado di fare convergere sulla sua “figura” (la concreta composizione del collegio) il più largo numero possibile delle sensibilità sociali meritevoli di “attuale” considerazione. Tenuto conto del crescente rilievo delle tecnicalità anche nella materia criminale, si potrebbero distinguere le situazioni, con il ricorso a collegi di diversa composizione “tipologica” (in relazione alla accusa in discussione). Quali che siano le soluzioni resta comunque certo che “giudicare” (con valenza “pubblica”) non è un “potere”, ma una “funzione del potere (politico)” e che, dunque, la “legittimazione” a definire le modalità di esercizio di tale funzione (attribuzione, orientamento dottrinario e controllo) non può essere distinta da quella che vale per ogni altra funzione dello stesso “potere”.
Antonio D’Atena
Seguito a ritenere – come ho detto – che la democrazia diretta non possa costituire una valida alternativa alla democrazia rappresentativa.
Al riguardo, bastano pochissime osservazioni.
In primo luogo, non vanno ignorati i limiti “linguistici” della democrazia diretta, il cui lessico comprende soltanto due parole: “sì” e “no” (due parole, che, come insegnava Max Weber, non consentono di adottare decisioni politiche complesse).
In secondo luogo, deve rilevarsi che alla democrazia diretta manca un elemento essenziale: la responsabilità. È, infatti, fuori discussione, che, per far valere la responsabilità “politica”, sia necessaria un’istanza rappresentativa che non si confonda con la collettività da essa rappresentata: se tutti decidono, nessuno risponde. Quindi, le potenzialità tecnologiche che consentono a tutti di comunicare in tempo reale le proprie valutazioni (e, pertanto, al limite, di decidere), non sono in grado di superare questo limite, dotando la democrazia diretta della priorità assiologica propria della democrazia rappresentativa
In terzo luogo, l’esportazione nel mercato politico delle tecniche di manipolazione del consenso, che hanno trovato i loro iniziali impieghi nel mercato tout-court, espone la democrazia ad un rischio mortale. Si pensi alla carica suggestiva di messaggi individualmente calibrati sulla figura del singolo destinatario, quale risulta dagli algoritmi costruiti in base alle tracce che ciascuno lascia in rete. Si pensi al conseguente isolamento informativo in cui possono venirsi a trovare i cittadini-elettori, quando dal loro orizzonte informatico vengono esclusi tutti i contenuti che potrebbero metterne in discussione i pregiudizi. Si parla, come noto, al riguardo di bubble-democracy. Tutto questo determina la caduta di un elemento essenziale alla democrazia: l’autentico dibattito pubblico.
Mi rendo conto che la soluzione di quest’ultimo problema è di straordinaria complessità. Tuttavia, è questo un terreno sul quale diventa sempre più urgente impegnarsi.
Mario Barcellona
La ragione della crisi della democrazia rappresentativa non sta tanto nel degrado della politica (che pure è incontrovertibile) quanto nell’avvento della c.d. società liquida (Z. Bauman) e nella singolarizzazione di massa che ne rappresenta l’altra faccia (M. Barcellona) e che, dissolvendo le aggregazioni sociali e le formazioni intermedie, occulta le differenze e distrugge i presupposti stessi della rappresentanza.
La stessa manipolazione del consenso come l’appello alla democrazia diretta dipendono da questo processo: il cittadino è manipolabile perché la sua singolarità lo espone direttamente al rapporto con il potere senza le mediazioni di prima che ne decifravano il volto e l’operato e la seduzione della democrazia diretta si impianta anch’essa sulla sua singolarizzazione che gli impedisce di sentirsi rappresentato e lo fa sentire privo di voce nella disputa politica.
Ma lo squilibrio che questo certamente produce, non ha modificato né accresciuto la legittimazione del potere giudiziario.
Vero è che le decisioni della corte costituzionale e della magistratura ordinaria hanno supplito a molte inerzie del legislatore, ma lo hanno fatto, essenzialmente, in materia di diritti civili (e non a caso, visto che in questa materia non vi sono “controinteressati” chiamati a sostenere i costi dei diritti che vengono riconosciuti e vi è solo un ceto politico che con questi interventi si vede tolte molte castagne dal fuoco). Nessuna di queste decisioni, invece, viene incontro ai problemi che povertà, disoccupazione e inoccupazione, precarietà e solitudine suscitano in strati sempre più larghi della società, nessuna entra nel cuore del grande malessere che oggi la attraversa.
Nella stragrande maggioranza dei casi la giurisdizione non è in grado di farlo. Ma questo fa sì che il potere giudiziario, nonostante la crisi della politica, non abbia acquisito alcun maggior credito presso la larga maggioranza dei cittadini. Anzi, risulta in discesa negli indici di fiducia nei corpi dello Stato e – occorre averne coscienza e dirlo – accade anche che l’opinione pubblica lo inscriva tra le élite verso le quali non si possono escludere diffidenze.
Non manca certo l’apprezzamento di fronte a sentenze che sanzionano la criminalità o la corruzione. Ma non manca neanche la delusione verso sentenze che, dopo processi interminabili, prosciolgono per l’intervenuta prescrizione. Né manca, talvolta, l’attribuzione di valenza prevalentemente politica a decisioni che investono, direttamente o indirettamente, gli esponenti più in vista dell’apparato politico, le spezzano il consenso verso il potere giudiziario secondo le loro appartenenze.
Ma tutto questo significa che nessuna maggiore o diversa legittimazione viene alla magistratura dalla crisi della politica e che, anzi, questa crisi rischia di travolgere anche le altre istituzioni dello Stato, potere giudiziario incluso.