ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
«Nei casi in cui già siano stati emessi l'ordine di carcerazione e il provvedimento di contestuale sospensione e sia stata avanzata dal condannato richiesta di concessione di misure alternative alla detenzione, l'atto complesso costituito dalla sospensione dell'ordine, dalla proposizione dell'istanza e dalla decisione del Tribunale di sorveglianza è stato già compiuto, al momento dell'entrata in vigore della l. n. 3/2019, in alcuni dei suoi tasselli essenziali, sicché la sopravvenienza normativa che aumenta il novero dei delitti di cui al catalogo contenuto nell'art. 4-bis ord. pen., richiamato dall'art. 656, comma 9, c.p.p. ai fini del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione, non può comportare la revoca della sospensione già disposta e il mutamento delle regole per la eventuale concessione delle misure alternative richieste» (Cass. pen., sez. I, 3 maggio 2019, n. 25212)
Sommario: 1. Generalità. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza: tra formalismo e sostanzialismo. – 3. Il caso di specie. – 3.1. Atti con effetti istantanei e atti strumentali e preparatori. – 3.2. Tempus commissi delicti e passaggio in giudicato della sentenza da eseguire. – 4. Il “moto riformista”. – 5. Presunzione assoluta di pericolosità, principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. – 6. Conclusioni.
1. Generalità.
L’art. 1, co. 6, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – evocativamente definita “spazzacorrotti” – ha inserito alcuni dei reati contro la pubblica amministrazione nel novero delle fattispecie ostative di cui all’art. 4-bis ord. penit.
Ciò comporta che gli autori dei delitti contemplati in tale “tragico elenco”[1] sono esclusi dall’accesso alla quasi totalità dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che non abbiano collaborato con la giustizia nella forma “canonica” dell’art. 58-ter ord. penit. oppure dell’art. 323-bis, co. 2, c.p., che delinea un’ipotesi di ravvedimento operoso finalizzata ad ottenere una collaborazione c.d. “processuale” applicabile ai soli reati di corruzione e di induzione indebita[2].
Inoltre, in forza del richiamo operato al detto art. 4-bis ord. penit. dall’art. 656, co. 9, lett. a), la riforma sottrae a quei condannati la possibilità di vedersi sospeso l’ordine di esecuzione della condanna nei limiti previsti dall’art. 656, co. 5, c.p.
In assenza di una norma transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, era facile prevedere la problematicità delle scelte ermeneutiche poste all’interprete e direttamente ricadenti sul piano della libertà personale del condannato.
Più difficile da pronosticare era, invece, l’atteggiamento con cui la giurisprudenza avrebbe reagito alla «pioggia di strali lanciati dalla dottrina (oltre che dall’avvocatura), avverso l’estensione del regime penitenziario differenziato ai delitti contro la P.A.»[3].
2. Gli orientamenti della giurisprudenza: tra formalismo e sostanzialismo.
2. Nel giro di breve tempo si sono sviluppati principalmente due orientamenti giurisprudenziali: l’uno, di tipo formalistico, muove dalla consolidata giurisprudenza della Supreme Corte[4] secondo cui le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene e le misure alternative alla detenzione non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, soggiacciono al principio del tempus regit actum; l’altro, di tipo sostanzialistico, è invece teso a valorizzare un approccio ermeneutico convenzionalmente orientato delle modifiche apportate dall’art. 1, co. 6, lett. b) della legge “spazzacorrotti”.
All’interno di quest’ultimo orientamento si riscontrano, poi, due correnti distinte: da un lato si collocano quelle pronunce che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della modifica dell’art. 4-bis ord. penit., lamentando la mancanza di una disciplina transitoria che escluda l’operatività della novella per i fatti commessi precedentemente la sua entrata in vigore[5]; dall’altro, alcuni giudici hanno ritenuto di poter risolvere autonomamente il problema dell’operatività intertemporale della legge ‘spazzacorrotti’ optando per un’interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata delle norme[6].
3. Il caso di specie.
La pronuncia in esame si inscrive nel filone interpretativo formalistico e affronta, in particolare, la questione se la novella in materia di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva sia applicabile anche in procedimenti relativi a fatti compiuti prima della sua entrata in vigore, e in ipotesi in cui la sospensione fosse già stata disposta prima di tale momento.
La vicenda di specie trae origine da un provvedimento del Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, con il quale era stato annullato un ordine di esecuzione per la carcerazione emesso nei confronti di una condannata per il reato di cui all’art. 322 c.p.[7]
Più nello specifico, a seguito di condanna definitiva a due anni e tre mesi per detto delitto, la Procura - nel mese di agosto del 2018 – aveva emesso nei confronti della condannata l’ordine di esecuzione della sanzione detentiva, con contestuale sospensione ex art. 656, co. 5, c.p.p.. Successivamente, nel mese di ottobre, la condannata presentava istanza di ammissione alle misure alternative alla detenzione ma, una volta entrata in vigore la nuova legge (in data 31 gennaio 2019), la Procura revocava la sospensione in precedenza concessa e ordinava la carcerazione.
Il Tribunale di Napoli, adito quale giudice dell’esecuzione, in accoglimento del ricorso della condannata, emetteva ordinanza con cui annullava la revoca della sospensione sulla base della considerazione che il provvedimento originario, nel rispetto del principio tempus regit actum, era stato regolarmente adottato in conformità alla normativa all’epoca vigente.
Nel rigettare il ricorso avverso il provvedimento del Tribunale proposto dal Procuratore della Repubblica, la decisione in commento conferma la validità dell’approccio del Tribunale, ribadendo anzitutto come la norma che dispone la sospensione dell’ordine di esecuzione abbia natura processuale, con la conseguenza che il fenomeno di successione temporale della sua portata prescrittiva, in assenza di una disciplina transitoria, è regolato dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
In particolare, il principio vuole dire «che la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall'escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti»[8].
Ne consegue, precisa la Suprema Corte, che la risoluzione della questione posta con il ricorso non richiede una rinnovata riflessione sulla natura della disposizione normativa di cui all’art. 4-bis, co . 1, ord. penit., così come modificata dalla legge n. 3 del 2019. E ciò, nonostante tale disposizione sia richiamata dall’art. 656, co. 9, lett. a) c.p.p., ovverosia la norma che pone il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione.
Conformandosi a quanto già stabilito nella pronuncia n. 24831 del 2010 in tema di reati sessuali, in particolare, la Suprema Corte precisa che l'atto va inteso nella sua autonomia all’interno della fase procedimentale, per cui una legge successiva non può inibire la validità di una sospensione dell’ordine di esecuzione e di una istanza avanzata ai sensi dell’art. 656, co. 5, c.p.p., rispettivamente emesso e presentata prima dell’entrata in vigore della nuova legge[9].
Diversamente opinando, come già posto in luce nella citata decisione n. 24831 del 2010, lungi dal dare attuazione all'art. 11 preleggi, si conferirebbe alla nuova legge processuale valore irrimediabilmente retroattivo, «arbitrariamente considerandola capace di travolgere effetti già prodotti prima dell'entrata in vigore della medesima legge. Con evidente violazione di elementari valori di affidamento e certezza che devono regolare i rapporti giuridici anche in caso di mutamenti normativi».
3.1. Atti con effetti istantanei e atti strumentali e preparatori.
Pur ritenendo tale ricostruzione interpretativa “non discutibile”, la Suprema Corte ha comunque ritenuto opportuno fugare ogni dubbio relativo alla sua fondatezza.
Si potrebbe, infatti, obiettare che tale soluzione lascia senza risposta ragionevole l’interrogativo su quale possa essere il senso di sospendere un ordine di esecuzione quando la concessione di una misura alternativa è decisamente preclusa dalla legge.
Tale perplessità tuttavia, ad avviso della Corte, può essere superata muovendo da una considerazione sul tipo di atto a cui ricondurre il provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione, al fine di fare buon uso del criterio del tempus regit actum.
Da qui la necessità di distinguere tra atti con effetti istantanei e atti che hanno carattere “strumentale e preparatorio”: categoria, quest’ultima, alla quale sarebbe riconducibile la sospensione dell’ordine di esecuzione. Tale atto, infatti, «si inserisce in più ampia fattispecie, di natura complessa, costituita anche dalla decisione sulla eventuale richiesta di misure alternative alla detenzione entro il termine assegnato dalla legge, e scandito in trenta giorni per la proposizione dell’istanza e quarantacinque giorni per la decisione della magistratura di sorveglianza». Così ricostruita la natura complessa dell’atto, si evitano – ad avviso della Cassazione - le irragionevolezze derivanti dalla divaricazione tra legittimità della sospensione disposta sotto la vigenza della legge precedente e impossibilità di concessione della misure alternative in applicazione della legge successiva.
Se, infatti, «si ammettesse l’incidenza della legge sopravvenuta sull’atto finale della fattispecie complessa, affermando che le regole sulla concedibilità delle misure alternative precedentemente richieste sono costituite dalle nuove disposizioni, si consentirebbe a queste ultime di incidere, in senso retroattivo, sull’atto di sospensione e sulla domanda di concessione delle misure extramurarie in precedenza compiuti, nella misura in cui li si priverebbe a posteriori del fondamento giustificativo costituito dalla prospettiva di una decisione favorevole. In tal modo si avrebbe una rivalutazione dell’atto di sospensione già emesso che diverrebbe inutiliter datum».
3.2. Tempus commissi delicti e passaggio in giudicato della sentenza da eseguire.
Nell’ottica dalla valorizzazione del canone tempus regit actum in luogo del principio di irretroattività in malam partem, muove anche la Direttiva orientativa della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria dell’11 marzo 2019, secondo la quale è dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che si intende eseguire e non dall’emissione dell’ordine di esecuzione che dovrebbe farsi riferimento per stabilire la disposizione applicabile, giacché le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva «quando sono divenuti irrevocabili» (art. 650, co., 1, c.p.p.) e l’ordine di esecuzione – che il pubblico ministero deve emettere «quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva» - rappresenta un fatto meramente amministrativo[10].
Analogamente, l’ordinanza della Corte d’Appello di Catania, sez. II, del 22 marzo 2019, ha precisato che è al «momento del passaggio in giudicato del provvedimento da eseguire che si apre il rapporto processuale di esecuzione e si cristallizza il contesto normativo che definisce le modalità di esecuzione della pena. È in tale momento, inoltre, che il condannato viene a conoscenza del fatto che la pena a lui inflitta dovrà essere eseguita e matura il diritto a che l'esecuzione della pena detentiva, limitativa della libertà personale, avvenga con le modalità previste dalla legge in allora vigente. Diversamente opinando, le modalità dl esecuzione di una sentenza di una pena detentiva sarebbero rimesse al caso (si pensi all'ipotesi in cui il P.M. delegato all'esecuzione sia in ferie o in malattia) o, peggio, all'arbitrio dell'organo esecutivo due potrebbe decidere se emettere l'ordine di esecuzione prima o dopo l'entrata in vigore dello novella legislativa»[11].
4. Il “moto riformista”.
Come già accennato, accanto all’approccio formalistico si è sviluppato nella giurisprudenza di merito un consistente “moto riformista”[12] - di recente, come si dirà a breve, avallato dalla Suprema Corte - teso a porre in discussione l’assunto secondo cui le norme che concernono le modalità di esecuzione della pena non soggiacciono al principio costituzionale di irretroattività.
La pronuncia della Corte Edu Del Rio Prada contro Spagna[13], ha invero ricordato che, ai fini del rispetto del principio dell’affidamento del consociato circa la prevedibilità della sanzione penale, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione.
D’altronde, è difficile negare che il passaggio dal carcere alla libertà e viceversa attenga al grado di afflittività della pena e non possa quindi essere considerato riduttivamente una mera modalità esecutiva della medesima sanzione[14]. L’ambito delle garanzie della legalità penalistica dipende, infatti, dal contenuto degli istituti: anche gli istituti sostanziali dell’ordinamento penitenziario concorrono a modellare il sistema delle risposte al reato, considerato che ne limitano i contenuti afflittivi (la durata e/o la modalità carceraria); e tali limitazioni sono collegate a valutazioni relative alla persona del condannato, allo stesso modo di quelle relative a tipologia e durata della pena[15]
In particolare, sulla base della considerazione per cui – al di là dell’etichetta formale – l’art. 656, co. 9, c.p.p., così come integrato dall’art. 4-bis ord. penit., a sua volta modificato dalla l. 3/2019, nella sostanza ha un contenuto afflittivo e sanzionatorio, alcuni giudici hanno ritenuto di non poter applicare tale disposizione per i reati commessi prima della sua entrata in vigore[16].
Altri giudici, invece, senza sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della modifica all’art. 4-bis ord. penit. nella parte in cui ha mancato di prevedere un regime intertemporale, ponendosi così in contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117 Cost. come integrata dall’art. 7 Cedu[17].
In queste ordinanze vengono, in particolare, ripresi argomenti svolti dalla Cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019, la quale – pur dichiarando la questione non rilevante - ha ritenuto che, alla luce dell’approdo della giurisprudenza di Strasburgo, «non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione […] secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 Cedu e, quindi, con l’art. 177 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del disposto degli artt. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. e 4-bis ord. penit. D’altronde, in precedenza, il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. […] limitandone l’applicabilità ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge»[18].
Tale pronuncia ha inevitabilmente aperto una breccia nell’ambito del ferreo orientamento giurisprudenziale secondo il quale – in virtù di un autentico “bizantinismo classificatorio”[19] – le disposizioni concernenti l’esecuzione penale non sarebbero norme penali sostanziali, in quanto estranee all’accertamento del reato e all’irrogazione della pena.
Ed infatti, stando all’informazione provvisoria, la Prima Sezione Penale della Suprema Corte ha, di recente, sollevato d'ufficio «questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1 co. 6 lett. b) della l. n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis co. 1 l. n. 354 del 1975 il riferimento al delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen.»[20].
Sembra, a questo punto, evidente come il “moto riformista” inaugurato dalla giurisprudenza di merito e ora avallato alla Prima Sezione della Cassazione, sia destinato a dare nuova linfa ad una rivisitazione giurisprudenziale dello statuto di quelle disposizioni che, pur attinenti alla materia penitenziaria e all’esecuzione penale, influiscono sull’essenza stessa della pena irrogata[21].
5. Presunzione assoluta di pericolosità, principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena.
Non è, infine, superfluo evidenziare come la Corte costituzionale sia stata chiamata a pronunciarsi non solo con riguardo alla mancata previsione di disciplina intertemporale da parte della legge “spazzacorrotti”, bensì anche in ordine alla (ir)ragionevolezza dell’estensione dell’art. 4-bis ord. penit. a taluni reati contro la P.A.
In particolare, secondo la Corte d’Appello di Palermo[22], tale estensione si porrebbe in conflitto – appunto - con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza, perché in tal modo si prevede una presunzione assoluta di pericolosità non fondata su dati di esperienza generalizzati.
L’ostatività invero, osserva il remittente, «sembra contrastare con il principio costituzionale di cui all’art. 27 comma III Cost., ossia la finalità rieducativa della pena nella precipua prospettiva di una indebita compressione di tale principio e del principio del “minimo sacrificio necessario” che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale, in quanto priva di alcuna indicazione specifica che avvalori la necessità di un forzoso “assaggio di pena” e di una previa osservazione in carcere».
Sotto questo profilo si riscontra un’evidente tendenza, nell’orientamento più recente della Corte costituzionale, a restringere le preclusioni legate ai reati ostativi. Con le recenti pronunce n. 149 e 174 del 2018, ad esempio, la Corte è pervenuta a dichiarare l’illegittimità di taluni automatismi preclusivi fondati sulla assoluta presunzione di pericolosità sociale di cui all’art. 4-bis, in quanto contrastanti con alcuni preminenti principi costituzionali.
In particolare, con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte ha censurato la norma di cui all’art. 58-quater per violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., mettendo in luce il ruolo cardine svolto dai benefici contemplati nell’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. nell’ottica della progressività trattamentale e della flessibilità della pena. La finalità general-preventiva della pena, ha infatti specificato la Corte, non può operare - nella fase esecutiva - in chiave distonica «rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società».
Più in generale, inoltre, nel dichiarare incostituzionale l’art. 216, ult. co., della l. fall., nella parte in cui, prescindendo dalla pena principale irrogata, imponeva di applicare ai soggetti condannati per il delitto di bancarotta le pene accessorie temporanee in misura rigida di dieci anni, la Consulta ha specificato come simili meccanismi presuntivi siano del tutto incompatibili «con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio»[23].
Si deve, peraltro, considerare come l’onere collaborativo richiesto dall’art. 4-bis ord. penit. appaia viziato da “irragionevolezza intrinseca” se rapportato ai reati contro la P.A.[24]
Ed infatti, «una differenza fra collaboranti e non collaboranti, ai fini dell’accesso a benefici e misure alternative, ha senso con riguardo ad appartenenti a un mondo di criminalità organizzata, che si può supporre abbiano qualcosa da dire su quel mondo, al di là dei delitti per i quali siano sotto processo o già condannati»[25]. L’inserzione di corruzione, concussione e peculato nel sistema 4-bis appare invece irragionevole, per l’assenza di evidenze empiriche sulla possibilità stessa di una collaborazione utile post condanna, tale da prevalere, in caso di mancata collaborazione, sulle ragioni su cui normalmente poggia l’accesso a benefici e misure alternative[26].
Appare, quindi, evidente come il legislatore abbia deciso di ricorrere a misure pervase da una logica di mera deterrenza sacrificando plurime garanzie di rango costituzionale. Si tratta di un legiferare che affonda le radici nella (“populistica”) assimilazione tra il mafioso e il corrotto (inaugurata con l’inserzione dei delitti di corruzione nel c.d. codice antimafia)[27], e che ha progressivamente portato alla progressiva inclusione di quest’ultimo nella logica del doppio binario, ampiamente sperimentata (e criticata) rispetto a quella perenne emergenza rappresentata, nel nostro Paese, dalla criminalità organizzata[28].
Occorre, infine, segnalare come con la sentenza della Corte Edu del 13 giugno scorso relativa al caso Viola c. Italia, in materia di ergastolo ostativo, i giudici della Prima Sezione – muovendo dall’importanza della funzione rieducativa, che deve accompagnare tutto lo sviluppo della pena dal momento della previsione legale sino alla sua concreta attuazione – hanno affermato che l’assenza di collaborazione non può essere un segnale della mancata rieducazione e che, di converso, la collaborazione non è un indice altrettanto certo di rieducazione[29]. La pronuncia, dunque, inficia la ratio stessa delle preclusioni a base premiale nell’accesso alle misure alternative e segna il profondo divario che intercorre tra i principi dalla Corte europea sul significato della pena e sui limiti del potere punitivo, da un lato, e le scelte di politica criminale dell’attuale governo[30].
6. Conclusioni.
In conclusione, la sentenza in commento ha il pregio aver evitato effetti aberranti nel momento della decisione del Tribunale di sorveglianza nel caso concreto utilizzando la categoria dell’atto “complesso”, anche se era forse auspicabile una presa di posizione in favore della natura sostanziale delle norme sull’esecuzione penale.
Non resta a questo punto che attendere gli sviluppi delle questioni di legittimità sollevate dai giudici di merito e dalla stessa Prima Sezione della Cassazione.
Peraltro, l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’inclusione dei reati contro la P.A. tra i delitti ostativi, ai sensi del combinato disposto dell’art. 656, co. 9, c.p.p. e 4-bis ord. penit., avrebbe evidenti ripercussioni anche pro futuro e non solo in relazione ai casi “ad esaurimento” relativi ai reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della legge “spazzacorrotti”, e contribuirebbe così a mitigare la draconiana (e “populistissima”[31]) opzione “punitiva” dell’attuale legislatore.
Più in generale, volgendo lo sguardo alle tendenze recenti della giurisprudenza costituzionale, sembra peraltro cogliersi un’importante evoluzione, che «vede il controllo di costituzionalità polarizzarsi sulla tutela dei diritti, ben più che sulla verifica “giurisdizionale” della costituzionalità della legge»[32]: il «“centro di interesse” principale del sistema di controllo» va infatti «spostandosi da un modello che tende ad assicurare la costituzionalità della legge mediante la giurisdizione costituzionale a un modello che tende a garantire l’effettività dei diritti fondamentali, a cui non riescono ad opporre resistenza neppure gli sbarramenti più tradizionali e granitici […]»[33].
A fronte delle sempre più marcate pulsioni repressive e general-preventive che animano la politica sanzionatoria contemporanea, dunque, c’è da augurarsi che la Corte costituzionale – anche attraverso un proficuo “dialogo” con la Corte Edu - prosegua nella sua opera di continua edificazione degli “argini” e delle “mura” a tutela di ciò che rimane del diritto penale liberale e del volto costituzionale dell’illecito penale.
[1] T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arc. pen. online, 2018, 3, p. 9.
[2] F. Tuccillo, in L. Della Ragione (a cura di), La legge anticorruzione 2019 (l. 9 gennaio 2019, n. 3), Giuffré, Milano, 2019, p. 70.
[3] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, art. 4-bis ord. pen. e regime intertemporale, in Dir. pen. proc., 2019, 5, p. 154, con riferimento, in particolare, alle puntuali osservazioni di V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in Dir. pen. cont., 2019, 2, p. 105 s.
[4] Si veda, in particolare, Cass., sez. un., 30 maggio 2009, n. 24561.
[5] Trib. Napoli, Ufficio Gip, ord., 2 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 8 aprile 2019; Corte App. Lecce, ord. 4 aprile 2019, ivi; Trib. Sorv. Venezia, ord. 8 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 16 maggio 2019; Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, in Quotidiano del dir., 17 giugno 2019; Trib. Brindisi, ord. 30 aprile 2019, in Giur. pen. web. 25 giugno 2019.
[6] Gip Trib. Como 8 marzo 2019, in Dir. pen. cont., 14 marzo 2019; Corte d’Appello di Reggio Calabria, 10 aprile 2019 e Trib. Pordenone, 15 aprile 2019, citate in L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., 166.
[7] Cfr. L. Masera, Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella c.d. legge Spazzacorrotti, in Dir. pen. cont., 14 marzo 2019.
[8] Corte Cost. n. 49 del 1970.
[9] C. Minnella, Sospensione dell’ordine di carcerazione prima della ‘Spazzacorrotti’: niente revoca successiva, in Dir. & Giust., 2019, 104, p. 10.
[10] Cfr. la Direttiva della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria sui limiti temporali di applicazione ai condannati per delitti contro la p.a. dell’art. 4-bis o.p., come modificato dalla l. 3/2019, in Dir. pen. cont., 15 marzo 2019; V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanete dell’anticorruzione, ivi, 2019, 5, p. 286.
[11] L’ordinanza è reperibile in Dejure e in Giur. pen. web, 23 marzo 2019 (nello stesso senso, Corte App. Napoli, sez. II, ord. 3 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 21 giugno 2019, con nota di C. Cataneo, L’assenza di disciplina intertemporale della legge spazzacorrotti al vaglio della giurisprudenza di merito). Avverso tale provvedimento è stato presentato ricorso per Cassazione dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Catania; v. Giur. pen. web, 30 marzo 2019.
[12] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 156 s.
[13] Corte Edu, Grande Camera, 21 ottobre 2013, in Dir. pen. cont., 30 ottobre 2013, con nota di F. Mazzacuva, La Grande Camera della Corte Edu su principio di legalità della pena e mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli.
[14] O. Mazza, La carcerazione immediata dei corrotti: una forzatura di diritto intertemporale nel silenzio del legislatore, in Arch. pen. online., 2019, 2, p. 5.
[15] D. Pulitanò, Tempeste sul penale: spazzacorrotti e altro, in Dir. pen. cont., 2019, 3, p. 242.
[16] Gip Trib. Como 8 marzo 2019, cit.; Corte d’Appello di Reggio Calabria, 10 aprile 2019, cit.; Trib. Pordenone, 15 aprile 2019, cit..
[17] Trib. Napoli, Ufficio Gip, ord., 2 aprile 2019, cit.; Corte App. Lecce, ord. 4 aprile 2019, cit.; Trib. Sorv. Venezia, ord. 8 aprile 2019, cit.; Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, cit.; Trib. Brindisi, ord. 30 aprile 2019, cit.
[18] Cass., sez. VI, ud. 14 marzo 2019 (dep. 20 marzo 2019), n. 12541, in Dir. pen. cont.,, 26 marzo 2019, con nota di G. L. Gatta., Estensione del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la P.A.: la Cassazione apre una breccia nell’orientamento consolidato, favorevole all’applicazione retroattiva.
[19] G. Giostra, I delicati problemi applicativi di una norma che non c’è (a proposito di presunte ipotesi ostative alla liberazione anticipata speciale), in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2014, 3-4, p. 326.
[20] Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2019; l’informazione provvisoria è reperibile in Dir. pen. cont., 20 giugno 2019.
[21] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 182.
[22] Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, cit.
[23] Corte Cost., 25 settembre 2018, n. 222.
[24] V. Manes, L’inserzione, cit., p. 112 s.
[25] D. Pulitanò, Tempeste, cit., p. 238
[26] V. Manes, L’estensione, cit., p. 112; D. Pulitanò, Tempeste, cit., p. 239.
[27] Come evidenziato da V. Manes, L’estensione, cit., p.107, si assiste a un «allineamento normativo della criminalità white collar alla criminalità nera».
[28] F. Tuccillo, cit., p. 71.
[29] Corte Edu, I sez., Marcello Viola c. Italia (n. 2), ric. n. 77633/16, 13 giugno 2019, in Giur. pen. web, con nota di M. S. Mori e V. Alberta, Prime osservazioni sulla sentenza Marcello Viola c. Italia (n. 2) in materia di ergastolo ostativo.
[30] M. Pelissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in http://www.sidiblog.org/2019/06/21/verso-il-superamento-dellergastolo-ostativo-gli-effetti-della-sentenza-viola-c-italia-sulla-disciplina-delle-preclusioni-in-materia-di-benefici-penitenziari/
[31] C. Sotis, Il diritto penale tra scienza della sofferenza e sofferenza della scienza, in Arch. pen. online, 2019, 1, p. 9.
[32] V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del “volto costituzionale” dell’illecito penale, in Manes-Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, 38 s.
[33] V. Manes, L’evoluzione, cit., p. 38 s.
Pensieri brevi a margine degli eventi di questi giorni di Alessandro Prontera
Il momento è come si dice in questi casi drammatico ma – oso pensare – forse provvidenziale perché – seppure brutalmente e nel modo più ingeneroso – offre l’occasione di rimeditarsi e fare critica di sé. Evidentemente non siamo stati in grado di farlo per tempo, sebbene di avvisaglie ve ne fossero.
Avvilisce, però, sentire prese di pozione che sembrano voler annacquare la discussione, allorché – pure in buona fede – non si riesca proprio a concepirsi fuori da una logica di ‘appartenenza’, persino faziosa, sino all’ultimo, irriducibile difesa di comportamenti che, davvero, nulla possono più pretendere di condividere con il ‘senso della giurisdizione’. Come se l’ostinazione dei fatti, in queste giornate, a fronte di strenue e logore difese, non bastasse a tacere appelli garantisti rispetto a condotte occasionate dalla ‘magistratura’ ma che nulla più partecipano di essa, nulla più partecipano della radice giurisdizionale, tristemente recisa, da tempo.
Penso che di quanto accaduto ci saremmo potuti avvedere se solo fossimo stati meno arroganti e attinge tutti, sino a toccare la coscienza di ciascuno di noi. Nessuno si scansi, perché davvero non è più questione di pochi, di un gruppo o di chi quella ‘corrente’ – mi verrebbe da dire – ha generato. Essa investe tutti. Ed è per questo che non comprendo – peccando evidentemente di ingenuità – come ci si smarchi a fatica da condotte che eticamente non possono trovare giustificazione, anzitutto, all’interno del gruppo di appartenenza degli autori. Non è o non è solo una questione ‘penale’ – che interessa in special modo i singoli coinvolti, bensì di essenza stessa della magistratura. Non si confonda il discorso penale, tecnico se si vuole, dei singoli con il problema culturale prepotentemente alla ribalta cui nessun può sottrarsi e rispetto al quale siamo chiamati ad assumere una posizione netta, fuori da ambiguità, eccentriche auto-sospensioni, equilibrismi di sorta, sino a sospensioni ‘indotte’.
Ed è per questo che avvilisce, soprattutto i più giovani, l’ipocrisia che sottende il proclama, del quale ancora resta eco, di attendere gli sviluppi delle indagini a Perugia o di ‘leggerne’ gli atti, perché la questione è – se possibile – ancor più esiziale, poiché attiene al nostro modo di pensarci come ‘magistrati’ e al modo di ‘stare insieme’. Mi verrebbe da dire: non è più un problema penale, per noi. I germi di questa crisi, anche allo sguardo ingenuo di chi da poco muove in magistratura, affioravano nella percezione di storture, di fatto legittimate, anche con quel comodo, tacito, consenso che si alimenta della ‘utilità’ personale di carriera sperata, ambita, pure laddove l’ambizione superi i meriti.
Ho sempre avuto la percezione di una corsa in atto, diffusa e spasmodica, all’affermazione di sé cogliendo a pretesto la giurisdizione, nei fatti discostandosene alla prima occasione, per inseguire una “medaglietta”. A pensarci bene, però, se rispondessero alla loro vocazione (ma non sarebbero, comicamente, ‘medagliette’) riposerebbero su valutazioni sostanziali e di merito, il che, in radice, depotenzierebbe la famigerata ‘corsa’ o ‘caccia’ alle medagliette.
In una ingenua e inesperta visione giovanile o dei più giovani tra i magistrati si staglia forte e spiacevole la percezione di carriere verticali pre-impostate, sin dall’accesso in magistratura, come dovesse scegliersi se esercitare la giurisdizione ovvero cogliere occasione della giurisdizione per esercitare proprie – magari anche legittime – aspettative di carriera: in altre parole costruirsi, quale vocazione qualificante – una carriere di incarichi, di semi-direttivi e, infine, direttivi, disancorati dalla collettività ove si operi e a servizio della quale si è chiamati. In tutto questo il senso e il peso della giurisdizione scolora drammaticamente.
Intanto abbiamo sacrificato qualcosa di noi per strada, tutti intenti a rincorrere prospettive di giudizio per così dire ‘moderne’, ma in realtà burocratiche. La ricerca spasmodica del ‘titolo’, poi, da spendere al momento giusto ha di fatto generato una separazione tra magistrati di giurisdizione e magistrati di carriera. Ciò ha anche snaturato il senso dell’associazionismo, delle c.d. ‘correnti’, sempre più esposte al rischio di atteggiarsi a imperdibili ‘ascensori’ sociali o di carriera, ovvero, nella migliori delle ipotesi, ‘protettorati’, quando mai si avesse bisogno, tant’è lo spauracchio del disciplinare e non solo. Corollario inevitabile uno sfrenato e vuoto proselitismo: non importa chi, basta recuperare numeri, come fosse un bacino elettorale da rimpinguare, in futuro spendibile. Capita sin dall’inizio dei primi momenti in magistratura di interrogarsi sul senso dell’associazionismo, non in astratto, ma come lo si vive oggi, una sorta di ‘costituzione’ materiale della magistratura. Se l’associazionismo non sia diventato una nomenclatura vuota così privo di una vocazione pratica alla giurisdizione e ai suoi problemi, di come essa possa interpretarsi e coltivarsi quotidianamente. Se di questo si tratta, è ormai ineludibile che i gruppi associativi reiterino medesime logiche – tanto vituperate – partitiche e purtroppo non politiche, nel senso ‘alto’, della locuzione, nel senso più ‘laico’, proprio rispetto a qualsivoglia pretesa lettura partitica o pregiudiziale ideologica. Gli stessi c.d. ‘giovani’, senza neppure aver avuto il tempo di maturare una coscienza critica – e mi preoccuperebbe il contrario – sono spesso preda degli appetiti delle correnti che in essi vedono nuovi adepti. Non importa che condividano o meno il senso di quel gruppo associativo, le premesse culturali, lo slancio ideale: se ancora ci fosse. Il tutto mascherato da una logora retorica dei ‘giovani’, di tutela, di coinvolgimento, di valorizzazione. Mi chiedo se, al contrario, non occorra intanto e silenziosamente offrire ‘testimonianze’ da parte dei più anziani, nella giurisdizione. A tempo debito si affronterà ogni discorso associazionistico e di gruppi associativi.
C’è chi, però, sceglie l’esercizio della giurisdizione, dando spazio all’attitudine spontanea dell’essere magistrato, non avendo intanto avuto cura di coltivare rapporti, relazioni, strategie: è forte il rischio d’essere un giorno pretermessi in favore di chi, invece, sin dall’inizio, intessendo rapporti, ha fatto incetta di ‘medagliette’ e di conoscenze. Costui avrà senz’altro sacrificato l’esercizio della giurisdizione sull’altare di una carriera brillante e di vertice. E avvilisce che la pre-costituzione di titoli e medagliette si riverberi contro lo stesso corpo di magistrati ordinari nel momento in cui si offre il fianco alla magistratura amministrativa di dover poi, magari formalisticamente, annullare decisioni del CSM proprio in ragione della omessa valutazione di ‘primazia’ che a quelle ‘medagliette’ burocraticamente consegue. In tal caso, il magistrato apprezzato, stimato, che ha sempre lavorato per l’ufficio e per il territorio, avrà magari l’affetto e la stima postuma di chi, sorprendendosi anche un po’ di maniera, assiste inerme a un ribaltamento del giudizio in favore del concorrente che quella stessa stima non ha, ma medagliette da esibire sì, al momento giusto. Oggi, più che mai, occorre avere il coraggio di non temere per la propria carriera; occorre avere il coraggio di recuperare la bellezza dell’esercizio della giurisdizione, con l’orgoglio di chi, sia pure faticosamente e senza clamori, è chiamato a farsi carico delle istanze di giustizia che si levano in una comunità di persone, assicurando, almeno, l’impegno di una risposta plausibile e umana di e tra noi magistrati. Occorre non temere per l’esercizio della giurisdizione e per i ‘rischi’ che essa fisiologicamente comporta. La filosofia della paura indebolisce, nutrendo degenerazioni correntizie.
Abbiamo ora o mai più l’occasione di riappropriarci del senso della giurisdizione e con ciò del senso dell’associazionismo, in tutta la ricchezza delle sue declinazioni, sino a immaginare i gruppi associativi ritornare a essere ‘comunità’ di pensiero, nel senso più nobile, non circoli chiusi, vittime di pregiudizi e diffidenza nei confronti di ciò che è altro da sé. Da ciò passa, inevitabilmente, il ripensamento di noi stessi. Ricorderemo come fummo, tutti, almeno una volta, tra code e lunghe attese, a Roma, con indosso il peso di codici, spaventati da un futuro incerto, ma con indosso anche la levità di sogni, speranze e idealità che quel peso alleggerivano sino a non più sentirlo. E attingendo con un po’ di fanciullesca freschezza a “il mondo come lo vedo io” di Enstein del 1931, mi verrebbe da dire che “chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’”. Ecco, questo credo possa essere un realistico auspicio e insieme un impegno serio.
Sir – Cenerentola a Mumbai recensione di Franco Caroleo
Una difficile storia d’amore nell’India delle caste. Una critica sussurrata all’ipocrisia di un sistema sociale, nella contraddizione tra progresso e tradizione.
In questi giorni in sala c’è un film genuinamente indiano. Ma se state pensando a Bollywood siete fuori strada.
Sir - Cenerentola a Mumbai (titolo originale Sir, ma i titolisti italiani, invece di lasciarlo semplicemente così, non hanno perso la ghiotta occasione di giustapporre questa discutibile evocazione fiabesca), opera prima di Rohena Gera, tratteggia la difficile storia d’amore tra un ricco benestante di città (Ashwin) e la sua domestica (Ratna) che viene dai villaggi.
Ma, attenzione, niente strizzatine d’occhio alla commedia romantica improntata all’omnia vincit amor. No, qui la differenza di ceto tra i due protagonisti non cerca riparo nei sentimenti.
La Mumbai descritta da Gera è caotica, frenetica, piena di colori, di luci e di odori.
Così dinamica, eppure disvela all’interno il contraddittorio immobilismo della sua società, visceralmente conformata alla divisione in caste.
Ecco allora che proprio la divisione diventa il prepotente perno del racconto.
Le convenzioni sociali dividono plasticamente Ashwin e Ratna, come le sottili pareti dell’appartamento dividono l’elegante camera da letto del padrone (ateo ma religiosamente assorto nel suo Mac) dalla misera stanzetta (contornata di altarini votivi) della donna di servizio.
Divide l’abbigliamento: lui, vestito all’occidentale, con capi ricercati; lei, sempre e solo avvolta nel tradizionale sari.
Divide il cibo: lui a gustare invitanti pietanze comodamente seduto a tavola e lei tenuta a mangiare per terra con le mani (e questa dei domestici resta comunque una categoria “privilegiata” rispetto ad altre, perché non contrattualizzata ma regolarmente retribuita).
C’è un chiaro riferimento a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, in questa impossibilità di vivere pienamente un sentimento, seppure nello spazio minimo di un corridoio che divide e, al contempo, unisce.
La piccola rivoluzione di Sir (che è l’appellativo con cui Ratna si rivolge ossequiosa al suo datore di lavoro) sta tutta qui. Nel sussurrare, senza enfasi o romanticismi, una riflessione su un tabù dell’India di oggi.
Nell’agiato appartamento di uno sfavillante grattacielo si apre una parentesi di sguardi, di silenzi, di non detti, di gesti semplici tra due persone che appartengono a due classi diverse. E sembra poter affiorare un amore dolce, fragile, che ispira la fiducia di darsi all’altro.
Vibra quel bacio (l’unico) strappato nella confusione emotiva. È un attimo. Ma dura giusto il tempo di rendersi conto che la barriera castale è insormontabile, che l’umiliazione per la donna è dietro l’angolo, che per la ribellione ai costumi millenari non bastano un sorriso e delle belle parole.
La magia, il sogno: è tutta roba da favole (tanto care ai titolisti italiani), buone per illudersi?
Una famiglia alto-borghese indiana non potrebbe mai accettare che il figlio convoli a nozze con una domestica, ma anche la famiglia di lei verrebbe ricoperta dal disonore.
Chi è sotto, resta sotto. Ed è bene così. Forse.
L’invasione degli zombie secondo Jim Jarmusch. Un divertissement cinefilo, aspettando (pur tra qualche sana risata) il colpo d’ala che non arriva.
Diciamolo da subito: non è il miglior film di Jim Jarmusch. E siamo lontani da quella perla horror vampirista che era stata Solo gli amanti sopravvivono.
I morti non muoiono (film di apertura del Festival di Cannes 2019) racconta della vita di un tranquillo paesino statunitense (Centerville, “davvero un bel posto” recita il cartello all’ingresso), stravolta dall’invasione degli zombie, che riemergono dalle tombe a causa della deviazione dell’asse terrestre (provocata da una spietata multinazionale).
In questa zombie comedy (perché qualche risata, e pure di gusto, la si fa) ritroviamo tutti gli stilemi tipici del cinema di Jarmusch.
Ecco così il cast stellare e feticcio con Bill Murray (l’imperturbabile sceriffo del paese), Adam Driver (il giovane e razionale poliziotto), Steve Buscemi (uno scorbutico redneck di campagna), lo zombie Iggy Pop, il saggio eremita Tom Waits e una strepitosa Tilda Swinton (nelle assurde vesti della responsabile dell’agenzia di pompe funebri, con un etereo accento scozzese e una katana à la Kill Bill).
Ecco anche la vena ironica e surreale che lambisce i dialoghi (Driver, dopo aver ribadito per l’ennesima volta che la storia finirà male, spiega candido: “Lo so perché Jim mi ha mostrato la sceneggiatura”), il citazionismo di livello (alcuni turisti di passaggio guidano una Pontiac del 1968, anno dell’uscita della Notte dei Morti Viventi di George Romero), la cinefilia ammiccante (su tutti, il gestore della pompa di benzina: un nerd con la maglia di Nosferatu che sa perfettamente come comportarsi con gli zombie) e il ricorso divertito all’intertestualità (il personaggio di Driver si chiama Peterson, con una sola vocale diversa dal precedente Paterson, e sfoggia un portachiavi di Star Wars...).
Eppure, è nel sottotesto politico che il regista pare decisamente svogliato: la polemica ambientalista assume toni piuttosto fiacchi (si parla di fracking dei poli ma il tema sembra gettato lì quasi per caso) e la critica al consumismo (gli zombie, più che desiderosi dei cervelli dei viventi, invocano insaziabilmente alcolici, dolciumi, caffè e wi-fi) rasenta il didascalismo.
No, dimenticatevi le metafore dei morti viventi di Romero.
I non-morti di Jarmusch (oltre a ispirare l’eponima canzone country di Sturgill Simpson che accompagna affettuosamente tutti i personaggi) fanno più che altro da sfondo ad un divertissement che, pur tra qualche notevole trovata autoriale e alcune battute azzeccate, langue sul piano contenutistico e ci lascia più di un rimpianto.
Spoiler per gli appassionati di splatter: le teste degli zombie non esplodono, come nella migliore tradizione, ma esalano fumo nero.
Al mondo, il 3% dei detenuti sono ergastolani, 300.000 su 10 milioni. Uguale in Italia: 1.700 su 60.000, il 2,8%. Ma esiste una differenza gigantesca. Dei 300.00 ergastolani, in 230.000 hanno la possibilità di ottenere la liberazione condizionale, da parte di un giudice o di un organo quasi-giurisdizionale (il parole board). Significa che, per l’80%, si potrà valutare se la rieducazione ha fatto il suo corso o se permane la pericolosità. In Italia, invece, dei 1.700 ergastolani, 1.200 sono ostativi, per i quali la liberazione condizionale è valutabile solo se hanno utilmente collaborato con la giustizia.
Traduciamo: per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane “sulla carta”, sanno che esiste, ma non la otterranno mai. Questo perché – per l’art. 4bis, I c., ord. pen. – tutti i benefici penitenziari, per le persone condannate per uno dei reati ricompresi nello stesso articolo, possono essere concessi solo a fronte di una utile collaborazione con la giustizia.
Sei un ergastolano? Collabora, il gioco è fatto. Vero, ma anche no. Esiste la libertà morale di non barattare la propria libertà personale con quella altrui, magari un fratello. Esiste il diritto al silenzio, un diritto inviolabile della persona, che non può evaporare solo perché il processo di cognizione è finito. Esiste la paura, vale a dire il rischio per la vita e la incolumità di chi collabora e dei propri famigliari, iniziando dai figli. E va detto che esiste anche uno Stato, il nostro, che non prende sul serio il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. A detta del Procuratore Nazionale Antimafia, è da ripensare completamente: scarse risorse finanziarie e di personale, cambio di identità concesso di rado, abbandono del collaboratore e dei famigliari, scarsa vigilanza e controllo. Del resto, una domanda ragionevole, che germoglia dalla comune esperienza: cosa può garantire che una persona che ha collaborato, in realtà, non lo abbia fatto per tornare a delinquere, per vendicarsi, per mero calcolo processuale?
In questo scenario, non certo inaspettata, è giunta, il 13 giugno 2019, la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte europea dei diritti umani. Due, tra i tanti, gli aspetti da evidenziare. Uno di merito, uno di metodo.
Il merito. La disciplina italiana dell’ergastolo ostativo, per la Corte, viola l’art. 3 della Convenzione, poiché non permette al giudice di valutare altro rispetto alla non collaborazione con la giustizia. Se la persona ha intrapreso, nel corso della detenzione, un percorso positivo – anche grazie ai direttori di carcere, alla polizia penitenziaria, agli educatori, alla famiglia – il giudice non ne può tenere conto, poiché ciò che conta è solo che, potendolo fare, non ha collaborato. Il giudice negherà sempre e comunque ogni beneficio penitenziario: è questo che, per la Corte, costituisce una chiarissima violazione dell’art. 3, che protegge la dignità umana, cardine del sistema convenzionale, che deve essere sempre garantita, indipendentemente dai reati. Qualunque cosa positiva faccia il detenuto, è come se fosse fatta per niente, perché, se non ha collaborato, il suo comportamento non può essere valutato.
La Corte si incanala nella sua giurisprudenza, inaugurata nel 2013. Ad oggi, i 10 Stati del Consiglio d’Europa che prevedono l’ergastolo senza liberazione condizionale sono stati tutti giudicati dalla Corte, tranne Svezia e Malta. A parte il Regno Unito, tutti gli Stati hanno subito la medesima sorte: violazione dell’art. 3, la pena è inumana e degradante.
Nel metodo. La sentenza Viola non è pilota, poiché non sono depositati alla Corte un grande numero di ricorsi simili a quello di Viola (in Torreggiani erano più di 3.000). E’ una sentenza quasi-pilota: dato che nelle condizioni di Viola si contano 1.200 ergastolani, la Corte, che potrebbe ricevere ricorsi da tutte queste persone, decide di indicare allo Stato le misure generali da prendere. Il problema è strutturale, si deve intervenire verso tutti, preferibilmente con una riforma legislativa, dice, giustamente, la Corte. Ma, ovvio, non è l’unica possibilità, tanto è vero che la Corte stessa richiama la questione di costituzionalità pendente alla Consulta, in attesa di essere discussa il 22 ottobre 2019. Quello che importa è che la preclusione legislativa da assoluta diventi relativa, decida lo Stato italiano come, di preferenza con una riforma legislativa (che ridisegni il regime ostativo), ma anche con un intervento del giudice costituzionale.
Due ulteriori notazioni. La sentenza Viola diverrà definitiva il 13 settembre 2019, fino allora il Governo può chiedere il rinvio alla Grande Camera. Dubito che, se chiesto, sarà accettato, il percorso giurisprudenziale della Corte, su questa importante questione, è lineare. Cosa intende fare, il Governo, insistere con la storia della grazia e del differimento della pena per motivi di salute? Libero di farlo, ma il rischio è una seria figuraccia a livello internazionale.
Per quanto riguarda il caso all’attenzione della Consulta, non resta che attendere, speranzosi. Riguarda il permesso premio e non la liberazione condizionale, tuttavia la sentenza Viola potrà aiutare (non poco) i giudici costituzionali nell’estendere la (eventuale) incostituzionalità, ricomprendendo il permesso premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Non è forse un obbligo costituzionale il rispetto degli obblighi internazionali? D’altro canto, a cosa serve, un permesso, se non per la semilibertà e la liberazione condizionale? Vi è poco da fare: oltre alla Convenzione, l’ergastolo ostativo viola la Costituzione, che si fonda sul progresso verso la rieducazione, detto altrimenti sul senso di umanità.
La Costituzione, appunto. L’impegno affinché rappresenti uno scudo per i diritti dei detenuti non si arresta mai. Si pensi alla decadenza dalla responsabilità genitoriale per gli ergastolani, alla eliminazione anche nel penale del ricorso personale in Cassazione, alla quadruplicazione dei reati contenuti nel regime ostativo, ora applicabile anche ai minori. Sono esempi. Che vanno affrontati seguendo l’insegnamento di Umberto Veronesi, per il quale “il dolore non ha senso, e non può in nessun caso costituire un valore”. Aveva “un’intima speranza che poi è un sogno: sogno un uomo e una società che abbiano dei dubbi (…) ma che non abbiano paura. Paura di dialogare, di ragionare, di cambiare”. E’ come fosse ieri quando diceva che “la forza della democrazia è non avere paura”. Qualsiasi perpetuità e qualsiasi automatismo altro non sono che una sconfitta del coraggio e della speranza. Di tutti: giudici, pubblici ministeri, avvocati, professori universitari, operatori, politici, persone, private o meno della libertà
*Scritto destinato a Ristretti Orizzonti e a Giustizia Insieme. Una versione ridotta apparirà nella rubrica Fuoriluogo de il manifesto del 19 giugno 2019
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