ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nota Trib. Agrigento, 2 luglio 2019
Sommario: 1. – La capitana della Sea Watch 3 non è una delinquente – 2. I fatti – 3. La decisione del Gip di Agrigento – 4. Antigone e i ‘porti chiusi’ – 5. Il rispetto dei diritti fondamentali come fondamento della legalità democratica.
1. La capitana della Sea Watch 3 non è una delinquente.
Carola Rackete non andava arrestata, né deve essere sottoposta ad alcuna misura cautelare: a questa conclusione giunge con il provvedimento qui in commento il Gip di Agrigento nella vicenda relativa alla capitana della nave Sea Watch 3 che, in violazione del divieto di ingresso in acque italiane intimatogli dal Ministro dell’interno, aveva deciso comunque di approdare nel porto di Lampedusa per farvi sbarcare i migranti soccorsi due settimane prima al largo delle coste libiche.
I bellicosi proclami del Ministro dell’interno – che assicurava che non avrebbe mai concesso alla nave di approdare sulle nostre coste e minacciava “manette e galera” (per usare la terminologia consueta del Ministro) qualora il divieto di ingresso fosse stato violato – vengono dunque clamorosamente smentiti dalla decisione del giudice agrigentino; Carola Rackete non è “una delinquente”, come era stata in più occasioni apostrofata dal Ministro dell’interno, perché la sua condotta era giustificata dall’adempimento al dovere di trovare un porto sicuro ove far sbarcare i migranti soccorsi in mare.
Di seguito andremo rapidamente a ripercorrere le argomentazioni del Gip, per svolgere poi qualche considerazione di natura generale sulla complessiva vicenda in cui tale provvedimento si inserisce.
2. I fatti
I fatti sono stati oggetto di grande attenzione da parte dei media, e ci si può limitare qui a fornirne solo una sintesi assai stringata.
Il 12 giugno la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, effettua il soccorso di 53 persone presenti su un natante in condizioni precarie a 47 miglia dalle coste libiche. Operato il soccorso, la comandante procede subito a richiedere l’indicazione di un POS (place of safety) alle autorità italiane, maltesi, olandesi e libiche. La prima risposta giunge dalle autorità libiche, che indicano Tripoli quale porto sicuro ove condurre i migranti. Considerate le tragiche condizioni in cui versano i migranti nei campi di detenzione libici, la comandante ritiene che la Libia non possa essere considerata un porto sicuro per i naufraghi soccorsi, e si dirige verso le coste europee, benché le autorità italiane e maltesi si rifiutino di indicare un POS affermando la propria incompetenza rispetto al soccorso operato nella cd. zona SAR libica. Dopo che la Sea Watch 3, pur restando in acque internazionali, si era portata a poche miglia da Lampedusa, il 15 giugno il Ministro dell’interno, sulla base dei poteri conferitigli dal cd. decreto-sicurezza bis appena entrato in vigore, formalizza il divieto di ingresso della nave in acque italiane. Nei giorni successivi vengono evacuati dalla nave 10 soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità, ma per gli altri 43 la situazione continua a non sbloccarsi. Il 26 giugno la comandante si risolve infine a violare il divieto e ad entrare nelle acque nazionali, ritenendo non più sostenibile la condizione di stallo venutasi a creare. Dopo qualche giorno di ulteriore attesa di una soluzione concordata con le autorità italiane, nella notte del 29 giugno la nave entra nel porto di Lampedusa, dirigendosi verso l’unica banchina adatta all’attracco di un natante delle dimensioni della Sea Watch 3; nel tentativo di impedire l’attracco, una motonave della Guardia di finanza si frappone tra la banchina e la nave, e viene urtata da quest’ultima nelle manovre di ormeggio, prima di riuscire a sfilarsi e mettersi al sicuro. Ormeggiata la nave, la capitana viene immediatamente arrestata dalla Guardia di finanza, ed il giorno successivo la Procura della Repubblica di Agrigento chiede la convalida dell’arresto e la contestuale applicazione della misura cautelare del divieto di dimora.
3. La decisione del Gip di Agrigento
Le richieste della Procura non si fondano sulla contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (per cui il Procuratore di Agrigento ha reso noto l’apertura di un diverso fascicolo) né sulla violazione del divieto di ingresso nelle acque nazionali emanato dal Ministro dell’interno (il decreto-sicurezza bis prevede per tale violazione solo l’applicazione di una sanzione ammnistrativa pecuniaria), ma riguardano solo i reati che secondo la Procura sarebbero stati compiuti dalla capitana nell’ultimo frammento temporale della vicenda, quando in fase di approdo sulla banchina vi è stato il contatto tra la nave (di dimensioni imponenti) dei soccorritori e la piccola imbarcazione dei finanzieri, che intendeva impedire l’attracco. La Procura ritiene sussistente nella condotta della capitana, che decideva di procedere all’approdo nonostante l’interposizione fisica sulla banchina del natante della Guardia di finanza, gli estremi di due figure delittuose: il delitto di violenza contro nave da guerra di cui all’art. 1100 cod. nav. (punito con la reclusione da tre a dieci anni) e il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. (reclusione da sei mesi a cinque anni).
Il Gip decide di inserire l’analisi dello specifico episodio oggetto di contestazione all’interno della vicenda complessiva, e prende le mosse da una considerazione delle disposizioni internazionali e nazionali che regolano i soccorsi in mare. Il provvedimento fa riferimento in particolare alla Convenzione sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, alla Convenzione SOLAS del 1974 ed alla Convenzione SAR del 1979 (tutte ratificate e rese esecutive nel nostro Paese dalle rispettive leggi di esecuzione); per quanto riguarda poi il diritto interno, il Gip rammenta il disposto dell’art. 10 ter TUI (per cui “lo straniero (…) giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi”), da cui secondo il Gip “deriva l’obbligo, in capo alle autorità statali, di soccorrere e fornire prima assistenza, allo straniero che abbia fatto ingresso, anche non regolare, nel territorio dello Stato”.
Dopo avere riportato l’informativa della Guardia di finanza che ricostruisce la cronologia degli eventi (dal momento del soccorso in mare all’approdo sulla banchina del porto di Lampedusa), il provvedimento passa poi ad analizzare le dichiarazioni rese da Carola Rackete a giustificazione della propria condotta. Il GIP ritiene innanzitutto che la decisione di non riportare i migranti in Libia, come richiesto dalle autorità libiche e italiane, “risultava conforme alle raccomandazioni del Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa e a recenti pronunce giurisprudenziali (v. sentenza del GUP di Trapani del 23 maggio 2019)”. Legittima era anche la scelta di escludere “i porti di Malta, perché più distanti”, e quelli tunisini, perché “la Tunisia non poteva considerarsi un luogo che fornisse le garanzie fondamentali ai naufraghi (…), e la Tunisia non prevede una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo politico”. Il giudice conclude dunque che “alla luce del suddetto quadro normativo, delle sue conoscenze personali in ordine alla sicurezza dei luoghi, ed avvalendosi della consulenza dei suoi legali, il Comandante Carola Rackete si approssimava alle acque di Lampedusa, ritenendola “porto sicuro” e più vicino, per lo sbarco e chiedeva, invano, alle autorità di poter entrare”.
La decisione ricorda poi come, una volta entrata in acque italiane, la capitana della Sea Watch 3 abbia atteso ancora oltre due giorni prima di fare ingresso nel porto di Lampedusa, e si sia decisa all’attracco nonostante il diniego della Guardia di finanza solo quando ha ritenuto che le condizioni fisiche e psicologiche dei migranti non consentissero l’ulteriore prosecuzione del trattenimento sulla nave. Secondo il giudice, tale decisione risulta conforme tanto al diritto internazionale, quanto alla normativa interna, che come visto sopra all’art. 10 ter TUI prevede il dovere di prestare soccorso nei punti di crisi agli stranieri anche irregolari soccorsi in mare. Quanto poi al divieto di sbarco emanato dalle autorità italiane, “ritiene questo Giudice che, in forza della natura sovraordinata delle fonti convenzionali e normative richiamate, nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3 potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del 15 giugno del Ministro dell’interno, che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave Sea Watch 3 nel mare territoriale italiano".
Posto questo quadro di riferimento, il Gip passa rapidamente ad analizzare le due specifiche contestazioni mosse alla Rackete.
Per quanto riguarda il delitto di cui all’art. 1100 cod. nav. (violenza o resistenza a nave da guerra), il giudice ne esclude in radice la sussistenza, aderendo all’interpretazione della nozione di nave da guerra fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 35/2000, secondo cui “le unità navali della Guardia di finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare”.
Quanto invece alla contestazione della resistenza a pubblico ufficiale, il giudice ritiene che “sulla scorta delle dichiarazioni rese dall’indagata (a tenore delle quali ella avrebbe operato un cauto avvicinamento alla banchina portuale) e da quanto emergente dalla visione del video in atti, il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva, rispetto alla ricostruzione accusatoria fondata sulle rilevazioni della p.g”. Il Gip ritiene comunque che la condotta della Rackete integri gli estremi della resistenza a pubblico ufficiale, ma reputa altresì che il reato sia scriminato ai sensi dell’art. 51 c.p., posto che “il descritto segmento finale della condotta dell’indagata, come detto integrativo del reato di resistenza a pubblico ufficiale, costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dover di soccorso, il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione sino al più volte citato porto sicuro”.
4. Antigone e i “porti chiusi”
La decisione del Gip di Agrigento mostra come, in uno Stato costituzionale di diritto, il sacrificio di Antigone non sia più necessario per tutelare i valori supremi del diritto di fronte all’ingiustizia del potere. Se le pubbliche autorità impongono un comportamento che comporta la violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, colui (o colei) che decida di trasgredire l’ordine dell’autorità non commette alcun illecito, perché la tutela di tali diritti è posta al vertice dell’ordinamento giuridico, e legittima l’opposizione ad ordini ingiusti dell’autorità. Poco importa che il Ministro dell’interno invochi il carcere per chi non rispetta i suoi ordini: se tali ordini sono contrari a norme di diritto internazionale che il giudice italiano è tenuto ad applicare in virtù del vincolo sancito all’art. 10 Cost., le condotte che pure trasgrediscono tali ordini non sono punibili, quali che siano i desiderata del Ministro dell’interno o della (supposta) maggioranza della pubblica opinione
E’ questo il messaggio che emerge dalla lettura del provvedimento. Posto che le coste italiane erano il “porto sicuro” più vicino ove sbarcare i naufraghi della Sea Watch 3, il diritto internazionale del mare attribuiva ai naufraghi-migranti il diritto a sbarcare sulle nostre coste, ed alla capitana che ha agito al fine di consentire l’esercizio di tale diritto non può essere rimproverato di essere stata costretta ad opporsi alla pubblica autorità che cercava di impedirle l’adempimento al proprio dovere.
In effetti, il punto decisivo della vicenda – e dei molti episodi simili di rifiuto delle pubbliche autorità italiane di concedere l’approdo delle navi delle ONG (anche di quelle battenti bandiera italiana: quando si scrivono queste note è in corso l’ennesimo episodio di rifiuto di un POS alla nave Alex della ONG italiana Mediterranea) – riguarda la legittimità della strategia governativa dei “porti chiusi” per le ONG che operano attività di soccorso nelle acque della cd. SAR libica. Qualora si ritenga, come il giudice agrigentino, che il diritto internazionale (oltre che la normativa interna) imponga alle autorità italiane di fare sbarcare gli stranieri soccorsi in mare, anche se irregolari, è logica conseguenza ritenere non punibili comportamenti che si pongono come necessari per il rispetto di tale dovere, anche se essi implicano la trasgressione ad un ordine dell’autorità, o sinanco (come nel caso in commento) il contrasto fisico all’autorità medesima.
Il ragionamento è il medesimo che ha condotto poche settimane orsono il Tribunale di Trapani, nel pressoché assoluto silenzio dei media, a riconoscere la legittima difesa ai migranti che avevano impedito con la forza al capitano della nave che li aveva salvati di riportarli in Libia, come gli era stato indicato dalle autorità italiane e libiche (Trib. Trapani, 23.5.2019 -dep. 3.6.2019-, in Dir. pen. cont., 24.6.2019, con nota di L. Masera). Anche in questo caso, il giudice anzitutto motiva (con argomenti che sono stati ampiamente ripresi dalla decisione qui in commento) la contrarietà al diritto internazionale della decisione delle autorità (italiane e libiche) di ordinare al capitano della nave lo sbarco in Libia dei migranti soccorsi; dall’illegittimità del rimpatrio verso la Libia, la sentenza ricava poi la conclusione che la condotta del capitano configurasse per i migranti il pericolo di una offesa ingiusta, alla quale legittimamente essi hanno opposto resistenza.
Nel caso di Trapani, il giudice, riconoscendo le legittima difesa agli imputati, arriva a qualificare come una vera e propria aggressione ingiusta la condotta delle pubbliche autorità, mentre il giudice agrigentino, decidendo di applicare l’esimente dell’adempimento di un dovere, si limita a constatare che la condotta della capitana era conforme ai doveri su di lei incombenti ai sensi della normativa nazionale e internazionale, senza espressamente pronunciarsi sull’illegittimità della condotta tenuta dai pubblici agenti. L’iter logico rimane comunque lo stesso: in tanto la capitana può invocare l’esimente dell’art. 51 c.p., in quanto la condotta dei pubblici ufficiali cui con la sua condotta si è opposta sia da ritenere un illegittimo impedimento all’adempimento dei doveri su di lei incombenti.
La situazione che viene alla luce è allora quanto mai preoccupante. Tanto i due provvedimenti in questione, quanto le diverse pronunce (tutte di natura cautelare) che hanno sempre sinora escluso profili di responsabilità ex art. 12 TUI per le ONG che, in violazione delle indicazioni ricevute dalle autorità italiane, hanno condotto in Italia i migranti soccorsi in mare, hanno in termini molto chiari affermato che contrasta con il diritto internazionale la prassi delle nostre autorità di ostacolare in ogni modo lo sbarco dei soccorsi sulle nostre coste, favorendo il rimpatrio dei migranti in Libia ad opera della Guardia costiera libica o di natanti privati (nel caso Sea Watch 3, le autorità italiane hanno a più riprese esortato la capitana ad aderire all’indicazione di Tripoli come porto sicuro fornita dalla Guardia costiera libica, e proprio l’inottemperanza a tale indicazione è stata a fondamento dell’interdizione ad entrare nelle nostre acque territoriali). E’ vero poi che si tratta di decisioni di merito, e che sul punto non vi è ancora stata una pronuncia della Cassazione. Tuttavia, la contrarietà della strategia dei porti chiusi ai doveri imposti dal diritto internazionale è stata sostenuta da una pluralità di fonti autorevoli: basti por mente, per limitarci agli interventi più recenti, alle Raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa in relazione ai soccorsi in mare, del giugno scorso (Lives saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean: il testo è disponibile su Dir. pen. cont., 20.6.2019, con una nota di commento di S. Zirulia) o al documento sottoscritto da 21 professori di diritto internazionale(Ampi stralci del testo sono stati pubblicati sul Corriere della sera del 4 luglio c.a.
), che in replica alle osservazioni di uno dei consulenti giuridici del Ministero dell’interno individuano le ragioni per cui il rifiuto di concedere lo sbarco alle ONG deve ritenersi illegittimo.
Nonostante dunque le censure che alle politiche governative in materia di soccorsi in mare sono state mosse dalla giurisprudenza e dalle istituzioni sovranazionali di tutela dei diritti, il Governo continua pervicacemente a portare avanti tali politiche, con le gravi conseguenze che proprio i provvedimenti di Trapani e Agrigento mettono bene in luce. Perseverando nella politica dei porti chiusi, infatti, l’autorità di governo impone a chi agisce sul campo (il capitano della nave cui era stato ordinato di riportare i migranti in Libia, nel caso di Trapani; o i finanzieri cui era stato ordinato di impedire l’attracco della Sea Watch 3, nel caso di Agrigento) di tenere condotte che secondo la magistratura sono illegittime, e rispetto alle quali risultano di converso legittime le condotte che vi si oppongono.
Non vi è dubbio che si tratti di una situazione insostenibile, specie se si protrae nel tempo. I pubblici ufficiali chiamati ad implementare le (illegittime) politiche governative sono esposti al rischio che i destinatari degli ordini impartiti si ribellino (legittimamente) a tali ordini, e in tale eventualità i pubblici ufficiali rimangono privi delle tutele che l’ordinamento predispone a garanzia del loro operato (come l’art. 337 c.p.), e che presuppongono l’agire legittimo delle autorità.
Non solo, i pubblici ufficiali che agiscono in conformità a direttive che la magistratura ritiene contrarie al diritto internazionale si espongono anche alla possibile contestazione di reati eventualmente ritenuti integrati dalle condotte in cui si estrinseca l’impedimento dell’approdo in Italia. Nel caso di Trapani, il giudice che aveva riconosciuto le legittima difesa ai migranti aveva escluso la responsabilità penale del capitano per il fatto illegittimo di aver cercato di riportarli in Libia, sulla base della considerazione che il capitano doveva ritenersi scusato perché aveva agito nell’erronea convinzione di adempiere ad un ordine legittimo dell’autorità. E’ evidente, tuttavia, che, una volta qualificata come illegittima la politica dei porti chiusi, non è affatto da escludere che le concrete modalità in cui essa si esplica possano integrare gli estremi di fattispecie di reato: pensiamo prima di tutto all’abuso d’ufficio, posto che i pubblici ufficiali, impedendo l’attracco in Italia a navi che ne hanno diritto, cagionano intenzionalmente ai migranti un danno ingiusto, in violazione di norme di diritto interno ed internazionale(Per qualche approfondimento circa i possibili profili di responsabilità penale delle autorità italiane per le politiche volte ad impedire il trasferimento in Italia dei migranti soccorsi in mare, sia consentito il rinvio alla nostra nota -citata sopra- alla decisione del Tribunale di Trapani).
5. Il rispetto dei diritti fondamentali come fondamento della legalità democratica
Due decisioni della magistratura che riconoscono rispettivamente la legittima difesa e l’adempimento del dovere in capo a chi si è rifiutato di obbedire agli ordini dell’autorità dovrebbero, in uno Stato di diritto, indurre le autorità governative a riflettere a fondo sulla legittimità delle proprie politiche, se non altro per non esporre ai rischi che abbiamo appena delineato i pubblici ufficiali chiamati a implementare concretamente tali politiche.
La reazione del Ministro dell’interno alla decisione del Gip agrigentino va invece nella direzione esattamente opposta. Come è ormai consuetudine di fronte a decisioni della magistratura che risultano poco funzionali ai progetti politici del Governo in tema di immigrazione (pensiamo agli attacchi durissimi rivolti ai magistrati che hanno ritenuto sussistente, anche dopo il decreto sicurezza dello scorso autunno, il diritto alla residenza per i richiedenti protezione), il Ministro dell’interno reagisce auspicando i magistrati che li hanno assunti lascino la magistratura e si candidino alle elezioni, senza neppure porsi il problema di confrontarsi con le (solide) ragioni che tali magistrati hanno posto a fondamento delle loro decisioni.
Lo schema argomentativo del Ministro è molto semplice. Chiunque non rispetti gli ordini contenuti in un suo atto amministrativo deve andare in carcere, ed i magistrati che, applicando la legge, emettono provvedimenti contrari ai suoi auspici, diventano ipso facto degli oppositori politici, che gli impediscono di realizzare la volontà degli elettori. Il problema della compatibilità del proprio progetto politico con quanto previsto dal diritto internazionale viene trattato con fastidio, come un tentativo di limitare le legittime prerogative delle autorità nazionali. A chi obietta che le Convenzioni internazionali vietano il rimpatrio verso la Libia o il rifiuto di un porto sicuro a soggetti bisognosi di assistenza, si risponde con toni sprezzanti che nessuno può porre limiti al Ministro dell’interno nella tutela dei confini e della sicurezza nazionale. Ad ogni intervento della magistratura che, invocando puntualmente i doveri internazionali dello Stato in materia di tutela dei diritti fondamentali, si rifiuta di punire chi abbia portato in Italia i migranti soccorsi in mare, si reagisce in modo scomposto gridando alla sentenza politica, ed esprimendo sconcerto per il fatto che la violazione di un divieto del Ministro dell’interno non sia sufficiente per fondare l’arresto e la detenzione del colpevole.
La richiesta da parte dei consiglieri togati dell’apertura presso il CSM di una pratica a tutela del magistrato agrigentino, destinatario degli ultimi attacchi del Ministro, ci pare il giusto tentativo di non far passare sotto silenzio l’ennesimo, virulento attacco del Ministro dell’interno ai magistrati che prendono decisioni a lui sgradite. Tale episodio non è che l’ultimo di una strategia che appare ormai chiaramente delineata, e che ci pare quanto mai pericolosa. Gli attacchi ai magistrati che prendono decisioni sgradite al Ministro, invocando i diritti fondamentali dei migranti, sono infatti funzionali a veicolare un messaggio culturale di insofferenza al “buonismo” dei diritti fondamentali, che servono solo ad impedire al Ministro le politiche che davvero sarebbero necessarie per contrastare l’immigrazione irregolare. Ogni limite all’azione di governo (specie se di matrice internazionale ed europea) è un ostacolo che si frappone tra il popolo ed il Governo che ne rappresenta la volontà, ed è chiaro che in questa prospettiva il potere giudiziario, che agisce anche sulla base di principi sovraordinati alle stesse leggi dello Stato, risulti disfunzionale al disegno complessivo.
Il contrasto con la magistratura su questioni in tema di diritti dei migranti è d’altra parte una costante dei governi che si ispirano all’ideologia “sovranista”. Già nelle prime settimane del suo mandato, il Presidente Trump ha attaccato duramente i magistrati che avevano disapplicato, ritenendole illegittime, alcune disposizioni in materia di ingresso degli stranieri nel territorio americano. Oppure pensiamo, allargando lo sguardo oltre il tema dell’immigrazione, alle riforme costituzionali che sono state realizzate, in Polonia e in Ungheria, proprio al fine di limitare le prerogative e l’indipendenza della magistratura, ed hanno portato le istituzioni europee a prendere iniziative a tutela dello Stato di diritto.
A costo di apparire ottimisti, a noi pare che la nostra democrazia sia ancora abbastanza solida per impedire le derive cui abbiamo assistito in alcuni Paesi dell’Est. Almeno sino a che non verrà modificata la Costituzione, la magistratura gode di un’indipendenza tale da consentirle un controllo stringente di legalità sulle scelte dell’esecutivo, specie quando esse mettano in discussione i diritti fondamentali della persona. Alla propaganda del Ministro, e alla sua sempre più esibita insofferenza verso i vincoli che le fonti sovranazionali a tutela dei diritti fondamentali pongono al suo operato, la magistratura deve reagire come sta facendo, cioè ribadendo la cornice di legalità (anche internazionale) entro cui l’agire del Governo deve collocarsi, senza timore degli attacchi che invariabilmente seguono una decisione sgradita. Piaccia o meno al Ministro dell’interno, il nostro ordinamento giuridico pone i diritti della persona al vertice del sistema, e nessun decreto sicurezza bis o ter può sovvertire la gerarchia valoriale delineata dalla Costituzione e dal diritto internazionale.
A questa domanda (apparentemente banale) un giurista non può che rispondere compulsando i codici, e la prima risposta non può che essere “un ausiliario dell’Autorità giudiziaria”, questa è infatti la definizione che troviamo leggendo l’art. 59 c.p.c. e l’art. 1 D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ord. Uff. giud.); tuttavia questa risposta, pur essendo ovviamente corretta, è nient’affatto esaustiva, l’ufficiale giudiziario non è un ingegnere, non è un medico, non è un traduttore e neppure un commercialista in altre parole non possiede altre conoscenze tecniche se non quelle giuridiche e la risposta non è neppure quella di un mero esecutore materiale di ordini giudiziari infatti a differenza di un custode giudiziario non ha la materiale detenzione dei beni sottoposti a vincolo giudiziario e neppure in occasione di uno sfratto materialmente è lui a prender di peso eventuali soggetti che non adempiono allo sloggio ordinato dalla competente A.G. … allora, a che serve davvero un ufficiale giudiziario?
Alla superiore domanda si potrebbe quindi candidamente concludere: “un residuato storico”, una sorta di “fossile vivente”? Non c’è dubbio che purtroppo alcuni, pensando all’ufficiale giudiziario come ad un mero trasportatore di documenti giuridici, una sorta di “postino di lusso” il cui ruolo sarà presto soppiantato dalla tanto più efficiente e celere p.e.c., diano questa tanto sbrigativa quanto scorretta risposta. Se tuttavia allarghiamo lo sguardo ci accorgeremo che l’ufficiale giudiziario italiano, così come l’huissier de justice, il bailiff, il Gerichtsvollzieher (non abbiamo infatti sistema giuridico che sia di diritto continentale o di common law che non lo preveda) svolge una funzione senza dubbio ausiliaria ma non meno imprescindibile per l’intero sistema giuridico.
Poniamo mente al provvedimento giudiziario più saldo per eccellenza ovvero alla sentenza passata in giudicato, sui banchi dell’università abbiamo studiato che il giudicato “facit de albo nigrum …” e nessuno dubita della bontà di tale pur iperbolica definizione, l’azione giudiziaria umana ha la necessità di trovare un punto di caduta definitivo pena la sua inconsistenza, tuttavia tale situazione di inconsistenza si produrrebbe parimenti se tale decisum non varcasse le aule giudiziarie in cui fu pensato e prodotto, ecco quindi la necessità che il provvedimento giudiziario sia attuato nel mondo reale. A tale necessità si può rispondere in due modi: uno quello che il legislatore varò con la novella[1] dell’art. 560 c.p.c. con il ricorso a un mero missus iudicis infatti in quell’articolo si leggeva “Il provvedimento è attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare ...”, l’altro, previsto per default dal sistema, ovvero tramite l’ufficiale giudiziario ed è nella differenza tra un mero missus iudicis ed un ufficiale giudiziario che dobbiamo ravvisare la vera natura di questo ausiliario giudiziario.
A differenza del missus che non può neppure nominare ausiliari ed avvalersi della Forza Pubblica essendo ciò di prerogativa del solo G.E., l’ufficiale giudiziario può nominare ausiliari (art. 68 c.p.c.), chiedere non solo lui direttamente l’ausilio della Forza Pubblica ma addirittura l’assistenza del P.M. (art. 475 c.p.c.) ed è inoltre dotato di poteri “officiosi”[2]. Anche la sentenza passata in giudicato ha i suoi limiti, infatti secondo l’art. 2909 c.c. "L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa" (cosa giudicata in senso sostanziale) il giudicato tra Tizio e Caio potrà valere anche verso i loro aventi causa Tizietto e Caietto, ma non verso Filano e Sempronio, terzi estranei alla vicenda processuale; pertanto allorché sia da aprire forzatamente in occasione di un pignoramento mobiliare il domicilio di Caio, l’ufficiale giudiziario dovrà stare ben attento a non forzare il portone condominiale dove accedono terzi estranei, se è previsto un escomio di un fondo rustico a cui vi si accede tramite stradella interpoderale non può e non deve esser pregiudicato il diritto di accesso dei titolari dei fondi confinanti come il diritto di questi di veder chiuso il cancello che dà accesso a detta stradella. Può sembrare lapalissiano ma lo stesso giudicato ha un limite quanto al suo oggetto, infatti Caio può essere soccombente e quindi esposto esecutivamente nei confronti delle pretese patrimoniali di Tizio ma l’esecuzione non può ledere o pregiudicare gravemente altri suoi beni giuridici quali la vita o la salute. Se quindi in occasione di uno sfratto di un immobile l’ufficiale giudiziario trova un soggetto da esecutare allettato, prima di disporre il suo forzoso allontanamento dovrà esser certo, ed è qui uno dei casi in cui entra la possibilità di far ricorso direttamente ad ausiliari nominati ex art. 68 c.p.c., che il soggetto allettato sia mobilizzabile senza porre a rischio altri beni primari come la vita e/o la salute; se l’ufficiale giudiziario è legalmente richiesto di procedere alla consegna di un minore, questo prelievo deve avvenire in modo tale che non sia messa in pericolo l’integrità psico-fisica del minore al contempo oggetto della esecuzione e soggetto terzo rispetto ad essa, ed è qui che entra in gioco la possibilità di cui all’art. 475 c.p.c. di ricorrere non solo all’ausilio della Forza pubblica, ma anche agli assistenti sociali del Comune. Il magistrato nel formare il suo provvedimento si basa su una porzione della realtà (due soggetti in contraddittorio), ma non conosce tutta la realtà con la sua complessità composta da altri soggetti, da altri oggetti, da altri interessi (pubblici e/o privati che siano) eppure quel decisum per potersi pienamente realizzare deve vivere in una realtà complessa e stratificata. Se ad esempio in un giudizio possessorio riguardante un alloggio di edilizia popolare Tizio ottiene un’ordinanza che preveda di spogliare Caio dal possesso del detto alloggio popolare ed all’accesso si presentano le competenti autorità amministrative proprietarie dell’alloggio e titolari dell’azione esecutiva di sgombero che formalmente dichiarano il soggetto istante decaduto dalla titolarità dell’alloggio e lo concedono proprio al soggetto da esecutare, si pone (problematica esecutiva che ho personalmente affrontato) il caso di esecutare Caio in virtù di un titolo civilisticamente perfetto in favore di un soggetto, Tizio, che un attimo dopo la competente P.A. avrebbe provveduto ad esecutare a sua volta, magari immettendo in quell’appartamento proprio quel soggetto che io avevo messo alla porta, un vero è proprio loop esecutivo! Il punto di caduta non poteva che essere quello per cui in un immobile pubblico è in definitiva la P.A. ad agire amministrativamente a tutela delle proprie ragioni, nel caso concreto, giusta il combinato disposto degli artt. 610, 613 c.p.c. ho sospeso le procedure esecutive rimettendo gli atti al G.E. ma appare chiaro a tutti che il solo sospendere rimettendo gli atti al G.E., quando non siano tutte le parti a richiederlo, è già una decisione non scevra di conseguenze se non validamente supportata, né un buon ausiliario si può permettere di ingolfare la scrivania del G.E. giusto per il gusto di deresponsabilizzarsi! Concludendo, se la cifra della giustizia la ravvisiamo nell’unicuique suum tribuere, tale giudizio di valore non può limitarsi solo nella fase della cristallizzazione di un decisum giudiziario, ma anche nel momento della sua concreta realizzazione e per far ciò occorre un professionista del diritto posto in posizione autonoma ma subordinata all’A.G. è questo è il minimo comun denominatore di ogni ufficiale giudiziario in qualunque parte del mondo ove si pratica il diritto e ciò non potrà mai esservi in un mero missus iudicis!
Certo, è prerogativa del legislatore scegliere la modalità esecutiva tramite il mero missus iudicis anziché quella tramite l’ufficiale giudiziario ma questa scelta è tutt’altro che priva di conseguenze, meno autonomia ha l’ausiliario più si riverberanno sulla catena di comando giudiziaria tutte le scelte esecutive e materiali concretamente attuate dai missi iudicis che non sono titolari di autonomo giudizio. In altri termini quelli che indicai come elementi caratterizzanti l’ufficiale giudiziario ovvero: la terzietà, la professionalità, l’autonomia e la necessarietà della funzione[3] non sono le roccaforti di una sorta di dinosauro delle professioni giuridiche ma tutelano in fin dei conti la funzionalità della stessa giurisdizione.
Una volta che il diritto soggettivo si sia cristallizzato in un decisum giudiziario, tale diritto sarà reale “signoria del volere” se e solo se non occorra un ulteriore passaggio giurisdizionale per essere attuato, occorre solo un professionista del diritto che, dotato degli elementi di cui sopra e sottomesso al controllo giurisdizionale in caso di irregolarità nel suo operato, lo metta in esecuzione; una tale visione rende l’ufficiale giudiziario un professionista in sincrono con le sempre nuove esigenze di un mondo in continua evoluzione.
Questo è quello che, nonostante le mille differenze fra i vari sistemi, accomuna tutti gli ufficiali giudiziari in ogni angolo del mondo, ed è proprio per rispondere alle nuove sfide che l’Italia[4] risulta come membro fondatore nel 1952 dell’Unione internazionale degli Ufficiali Giudiziari[5] che recependo le raccomandazioni di varie istituzioni internazionali tra i quali il CEPEJ ha provveduto a redigere una summa delle best practice nel Codice mondiale dell’esecuzione[6].
Solo aprendo lo sguardo oltre le incomprensibili pastoie nazionali che non rendono certo un gran servigio in efficacia ed efficienza al nostro sistema giudiziario potremo concludere augurando lunga vita alla professione di ufficiale giudiziario ed allo stato di diritto!
[1] Art. 4, I co., lett. d), n. 01) del D.L. 03. maggio. 2016, n. 59, convertito con modificazioni nella L. 30. giugno. 2016, n. 119; oggi l’art. 560 c.p.c. è stato sostanzialmente riformato grazie all'art. 4, II co., D.L. 14. dicembre. 2018, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla L. 11. febbraio. 2019, n. 12.
[2] Amedeo Sperti, I poteri officiosi dell’ufficiale giudiziario nell’esecuzione forzata ordinaria, Riv. Es. Forz. n. 1 del 2017, pagg. 136 – 187.
[3] Orazio Melita, Il problema della giustizia nel procedimento esecutivo, pagg. 41 – 42 consultabile all’indirizzo https://www.auge.it/il-problema-della-giustizia-nel-procedimento-esecutivo-brasilia-04-aprile-2019/
[4] Non essendo organizzati gli ufficiali giudiziari italiani in una Camera professionale come in 21 degli attuali membri della U.E. e come nella maggior parte degli altri paesi del mondo, l’associazione di categoria che rappresenta gli ufficiali giudiziari italiani nel seno dell’Unione è l’Associazione degli Ufficiali Giudiziari in Europa (www.auge.it).
[5] www.uihj.com
[6] http://www.uihj.com/fr/code-mondial-de-l-execution_2165010.html
di Ginevra Iacobelli
Il principio di legalità è divenuto baluardo della salvaguardia dei diritti individuali fondamentali, in tal senso si sta muovendo anche la Corte Costituzionale che, erigendo la proporzione della pena a pietra angolare della costituzione, sta definendo nettamente i limiti della discrezionalità legislativa.
È chiaro che la pena non è solo sanzione, ma anche diritti. Diviene, allora, fondamentale comprende cosa si intende per materia penale e cosa può fare il giudice comune di fronte a norme di dubbia natura sanzionatoria. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
sommario: 1. La rinnovata nozione di materia penale- 2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
1. La rinnovata nozione di materia penale
È noto che l’individuazione della materia penale è monopolio della funzione legislativa: legislatore, orientato dai principi di offensività e tassatività, nonché della materia costituzionalmente rilevante, traccia i confini del penalmente rilevante.
Ma la definizione di pena vede, ormai, una rivoluzione: si è chiarito, infatti, che qualificare la materia come penale è di rilievo anche al fine di perimetrare l’ambito di operatività delle garanzie sottese al principio di legalità.
La comprensione di cosa si intenda per materia penale appare, infatti, pregiudiziale all’analisi del principio di legalità e alle sue garanzie. Non è un caso che la Corte Edu abbia espressamente affermato che “se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare come disciplinare piuttosto che penale un illecito […] l’effetto delle norme fondamentali degli art. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una cosi ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione[1]”.
Per evitare il fenomeno della “truffa delle etichette” e scongiurare che i paesi membri si sottraggano agli obblighi convenzionali attraverso una qualificazione meramente formale, la CEDU ha inteso la nozione di materia penale come autonoma.
In particolare, per verificare se si è in presenza di un “illecito penale” ai sensi della Convenzione è necessario rifarsi a tre criteri elaborati dalla Corte in via pretoria (cd. Engel criteria):
Si è così imposta una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di istituti diversamente qualificati dal Legislatore nazionale.
“Il risultato è la crescita di un “diritto globale”, di “giustizia e democrazia oltre lo Stato”, che contribuisce a creare un sistema giuridico nuovo, formando e selezionando i principi generali di base, a garanzia dei diritti delle persone, oltre la dimensione più ristretta della cittadinanza (ancora legata al rapporto tra stato, giurisdizione e territorio) (…). In questo nuovo scenario occorre prendere atto che la Giustizia italiana non può più essere considerata un “sistema a sé stante”, ma diventa elemento “formante” del sistema-Europa”[2].
In tal senso, la dottrina[3] individua nel principio di legalità più di un’istanza. Nel principio di legalità convivono diversi contenuti: “un’istanza di matrice liberale che conduce tendenzialmente al monopolio dell’organo rappresentativo-parlamentare nella produzione del diritto. Vi è, poi, un’istanza di matrice costituzionale che pone al centro, quale asse irrinunciabile dell’esperienza giuridica, la salvaguardia dei diritti individuali fondamentali con tutto il loro séguito dei necessari bilanciamenti”.
Tali istanze convivono e la misura con cui la legalità risponde all’una o all’altra varia nel tempo. Attualmente si assiste al crescere della seconda istanza legalitaria: il rafforzamento dei diritti fondamentali. Il potenziamento dei diritti, come un tempo è avvenuto ad opera della Costituzione, oggi avviene soprattutto a Strasburgo.
In tal senso, si distingue [4]tra il piano del precetto penale, che si rivolge all’individuo, e il piano delle garanzie costituzionali e convenzionali, rivolte piuttosto agli organi statali deputati alla produzione e all’applicazione delle norme penali.
Non è in discussione che l’art 25, co. 2, Cost. pone solo in capo al Legislatore il compito di individuare i confini della materia penale, stabilendo cosa è e cosa non è reato. Si discute, piuttosto, a chi spetti determinare l’ambito di applicazione delle garanzie previste.
Non può ritenersi che sia il Legislatore ordinario a decidere sull’estensione delle garanzie costituzionali dalle quali è vincolato; deputata a delineare l’ambito applicativo delle garanzie costituzionali è, allora, l’autorità giudiziaria.
Più chiaramente, la Corte Costituzionale è tenuta a controllare la compatibilità delle scelte legislative con la Carta Costituzionale; i giudici comuni sono tenuti a risolvere le antinomie tra legge e Costituzione con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente orientata, ove possibile, o diversamente a sottoporre quelle antinomie al giudizio della Corte Costituzionale.
2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
Così chiarito ne consegue una questione: cosa deve fare il giudice comune dinanzi ad un istituto che il Legislatore nazionale qualifica come non penale, sottratto alle garanzie del principio di legalità, ma che a seguito della sua attività interpretativa assume i connotati della sanzione penale alla luce dei criteri Engel?
Può il giudice comune, che ha il primario compito di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata, qualificare autonomamente in termini sostanzialmente penali l’istituto, non operando un rinvio alla Corte Costituzionale?
Attualmente il tema appare discusso e oggetto di decisioni contrastanti. Il tutto aggravato da una denunciata liquidità e vaghezza dei criteri Engel, pur contrastanti con la stessa necessità di prevedibilità della sanzione penale.
Con la sentenza n. 68 del 2017 la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in relazione alla legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, che disciplina un’ipotesi di confisca per equivalente, in relazione all’art. 9, co. 6, della l. n. 62 del 2005 che prevede, limitatamente agli illeciti depenalizzati, che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge del 2005, purché il procedimento penale non si definitivo, ha dato vigore alla questione.
Limitatamente a quanto qui di rilievo, la Corte Costituzionale, accogliendo l’interpretazione del giudice a quo, afferma che “non ha motivo per discostarsi dalla premessa argomentativa da cui muove il remittente, sulla natura penale, ai sensi dell’art. 7 CEDU, della confisca per equivalente… è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battura ai giudici degli Stati membri (C.Cost. 49 del 2015 e 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu, specie quando il caso sia riconducibile ai precedenti di giurisprudenza del giudice europea (C. Cost. 276 e 36 del 2016). In tale attività interpretativa, che gli compete ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice incontra solo il limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tal caso la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in nessun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato”.
All’opposto, con la sentenza 109 del 2017, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di talune norme del d.lgs n. 8 del 2016 (legge di depenalizzazione) ricondotte dal giudice a quo a sanzioni in tutto e per tutto penali secondo i criteri engel, evidenzia il “ criterio casistico cui sarebbe in tal modo consegnata l’identificazione della natura penale della sanzione (che potrebbe porsi in problematico rapporto con l’esigenza garantistica tutelata dalla riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.)”.
Dottrina maggioritaria, dal canto suo, esclude la possibilità di riqualificazione di un fatto qualificato dal Legislatore come non penale in termini di sanzione penale ad opera del giudice comune: il nomen iuris e il dato formale costituiscono ostacolo insuperabile dal giudice con la sua attività interpretativa.
Si finisce diversamente per attribuire, nei fatti, al giudice penale un potere disapplicativo della norma interna contrastante con l’interpretazione delle norme convenzionali, fino ad ora fortemente contrastato dalla stessa Corte Costituzionale. In tal senso il giudizio di costituzionalità pare l’unica soluzione percorribile per arrivare ad una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di un istituto qualificato dal Legislatore nazionale come non penale.
La questione non è di pronta soluzione, specie per la difficoltà di innestare le garanzie del processo penale in procedimenti che penali non sono. Ancora una volta, sarà solo l’opera della giurisprudenza a chiarire quale sarà la tenuta del concetto convenzionale di materia penale nel nostro diritto interno.
[1] Corte EDU, GC, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976
[2] Relazione del Primo Presidente della Corte di cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009
[3] F. Palazzo
[4] F. Viganò
La crisi istituzionale scatenata dalle indagini perugine rischia di travolgere il sistema dell’autogoverno ma anche può trasformarsi in una grande opportunità, se sapremo interpretare il desiderio di cambiamento con scelte concrete ed impegni verificabili.
Il rischio maggiore è quello di un esito gattopardesco: grande indignazione di tutti, grande ipocrisia da parte di non pochi, retorica a fiumi… e poi si riparte. Come se nulla fosse cambiato.
Ma le cose sono cambiate.
Si è definitivamente strappato un velo e chi non se ne renderà conto si condannerà ad un inesorabile declino e isolamento, lasciando il cambiamento in altre mani.
È vero che non tutti i gruppi e non tutti i membri togati del CSM sono stati direttamente coinvolti nelle trame rivelate (almeno in parte) dal famigerato “trojan”, tuttavia sappiamo che quel tipo di degenerazione è cosa diversa ma non separata dalle pratiche di lottizzazione delle correnti.
Anzi, proprio l’opacità degli accordi e degli scambi è stato il perfetto humus per manovre ancor più spregiudicate e gravi.
Non basta invocare la natura collegiale del CSM: è vero che il dialogo e l’accordo non possono essere genericamente demonizzati, ma è anche vero che un accordo è difendibile solo se può essere spiegato all’esterno nei suoi criteri, e quindi frutto di un confronto nel rispetto delle regole e del merito.
Quando il campo degli accordi si sposta dalle motivazioni scritte al non detto e al non dicibile, si scivola verso condotte consociative nel senso deteriore del termine, in cui in tempi e luoghi non conosciuti e non conoscibili si fanno compromessi che nulla hanno a che vedere con i criteri legali e di merito.
Non basta nemmeno dire che queste pratiche di lottizzazione non avverranno più e che si sceglieranno candidati indipendenti e professionalmente credibili. Una generica dichiarazione d’intento per quanto fosse sincera sarebbe insufficiente: il problema è di sistema e non legato a singole mele marce.
Inoltre simili retoriche promesse non possono in alcun modo suonare credibili né ai colleghi sfiduciati né alla politica e all’opinione pubblica: “perché questa volta le cose dovrebbero andare diversamente?”…
Il danno più grave, infatti, di questa vicenda (e più in generale del sistema di lottizzazione) è l’aver minato la fiducia interna ed esterna che un autogoverno indipendente e autorevole della magistratura sia davvero possibile.
Così si spiegano le invocazioni del sorteggio quale unico rimedio al sistema malato.
Un rimedio non solo incostituzionale (con riferimento all’art. 104 Cost.), ma soprattutto umiliante e illusorio.
Umiliante perché certificherebbe la nostra incapacità di scegliere dei membri degni al CSM: tale esito non solo non è accettabile, ma mi pare a sua volta figlio di una generalizzazione che non riconosce il fatto che certamente non tutti gli eletti del passato si sono dimostrati inadeguati!
Così come non tutte le nomine e le decisioni del CSM sono state negative o figlie di compromessi al ribasso.
E d’altronde chi si ricorda dei tempi in cui il direttivo era legato solo alla c.d. “anzianità senza demerito”, potrebbe citare il finale di Blade Runner per descrivere le cose viste... Lo so, non sempre la discrezionalità è stata usata bene, ma la mera anzianità è figlia di una logica a cui non possiamo tornare, di un appiattimento nel quale il direttivo è solo un piedistallo, un oscar alla carriera spesso per persone ormai prive di energie e tanto meno capaci di dare contributo organizzativo all’ufficio.
Proprio la scelta di Pignatone come Procuratore della Repubblica di Roma (per fare un esempio non a caso…) è paradigma del fatto che una buona scelta ha fatto una differenza sostanziale nella vita degli uffici giudiziari.
Il sorteggio è poi a mio avviso illusorio perché non credo che la responsabilità del CSM possa affidarsi a chiunque tra noi solo perché magistrato. Anzitutto sono richieste competenze ordinamentali non banali (come chi fa anche soltanto l’esperienza del consiglio giudiziario ben sa…). Inoltre la funzione del CSM non è solo di alta amministrazione e tecnica, ma involge anche scelte di tipo culturale rispetto all’assetto degli uffici e non solo. Non è cioè una funzione neutra e proprio per questo da elettore non mi basta conoscere curriculum e professionalità del candidato, ma ho bisogno di capire come interpreta la gerarchia in Procura, quale visione ha del disciplinare e delle valutazioni, come interpreta la giurisdizione e il confronto con la politica sui temi di giustizia e ordinamentali.
Evidentemente qualcosa non ha funzionato se da tempo parliamo di degenerazioni e di perdita di fiducia, ma credo che non si debba cadere nel rischio di un populismo a contrario che travolge tutto e che riduce anche i gruppi solo a correnti di potere, strumento di arrampicata professionale e nulla più.
Io ho aderito e partecipato alla vita prima del Movimento e poi anche e in particolare di Area senza per questo aver mai chiesto un posto, un aiuto o un piacere, senza aver mai neanche immaginato di volerne trarre un vantaggio personale o di potere per la mia carriera. E come me tanti altri in ogni gruppo.
Parlare, come qualcuno fa in modo generalizzato, di sciogliere i gruppi sarebbe come pensare che l’unico rimedio per l’abusivismo sia il terremoto.
Io non credo che il rimedio a una malattia sia l’abbattimento del malato.
Io credo nella libertà di associazione e nel fatto che dal confronto e dal percorso comune possono nascere progetti e impegni e idee che l’isolamento non consentirebbe…e nemmeno il fragoroso rumore delle mailinglist, strumento necessario ed utile ma spesso più utile a denunciare che a costruire, più idoneo alla polemica che alla riflessione e all’ascolto.
Per recuperare un briciolo di credibilità al sistema dell’autogoverno e dell’associazionismo io sono persuaso che uno dei passi necessari ed urgenti sia chiedere a tutti un impegno ad accettare (spontaneamente ma in modo poi rigoroso) delle rigide incompatibilità.
Incompatibilità che vogliono essere appunto il segno tangibile della scelta di rompere quei circuiti viziosi tra CSM, ANM, incarichi direttivi e incarichi fuori ruolo nei quali il sistema si è annidato ed ha prosperato.
Il tema più vasto è quello del carrierismo e della necessità di ridare sostanza ed effettività all’uguaglianza tra tutti i magistrati declamata dall’articolo 107 Costituzione. Questo obiettivo è di grande respiro e richiede molte riforme e molti cambiamenti, per alcuni dei quali sarà anche necessario sollecitare il legislatore.
Oggi però è indispensabile fare un primo passo per diradare almeno in parte la nebbia, per mettere un piede fuori dalla palude e cominciare a restituire a tutti noi la convinzione che esiste una magistratura diversa.
C’è una magistratura che vuole salvare l’autogoverno e la sua indipendenza ed autonomia perché riconosce che si tratta di beni preziosi per la collettività e non di nostre prerogative o privilegi.
Per iniziare a fare questo le incompatibilità sono un buon punto di partenza.
Perché possiamo chiederle e verificarle da subito, senza aspettare riforme di altri o tempi incerti.
Perché sapremo chi ha davvero intenzione di rompere con un certo passato opaco.
Perché se qualche gruppo vorrà assumerle nel proprio Statuto manderà un messaggio: quel gruppo non deve e non vuole essere uno strumento di carriera per i suoi aderenti.
Queste sono le incompatibilità che propongo al gruppo di Area ma che vorrei rivolgere a tutti i singoli colleghi e ai gruppi dentro l’ANM:
Finché perdura il loro mandato, i componenti del CDC e del coordinamento nazionale (di Area, o di altro direttivo di gruppo, ndr) si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi e per i 3 anni successivi anche dal candidarsi al CSM.
Gli eletti al CSM si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi o dall’accettare incarichi fuori ruolo per 3 anni dalla cessazione del loro mandato.
I titolari di incarichi fuori ruolo o in aspettativa per mandati elettivi si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi e dal candidarsi al CSM durante l’incarico e per 3 anni dal rientro in ruolo.
I magistrati che si candidano in elezioni politiche o amministrative non devono tornare a esercitare funzioni giurisdizionali.
Tali regole si applicano in relazione agli incarichi assunti dopo la loro approvazione.
La violazione di tali regole determina l’esclusione dal Gruppo (di Area, o di altro gruppo o dall’ANM, ndr).
Alcune di queste incompatibilità possono apparire anche troppo punitive; penso in particolare a quelle rivolte ai componenti del CDC. Mi rendo conto di questo, ma credo che la necessità di trasparenza e separatezza debba prevalere.
Io auspico che AreaDG abbia il coraggio di dare questo segnale di discontinuità e di credibilità.
Spero che comunque questa proposta possa essere raccolta e integrata e rilanciata anche da altri colleghi e gruppi.
Non vogliamo una magistratura fatta di lobby e di carriere.
Incominciamo a dire basta assumendoci l’impegno a rispettare queste incompatibilità ed avremo fatto il primo passo per evitare che la riforma sia fatti da fuori e contro di noi.
Sommario: 1.Introduzione. 2. Il Tribunale Concorsuale. 3.Il Giudice delegato. - 4.Il Curatore. -5 Il Comitato dei Creditori
1.Introduzione.
Sono ormai trascorsi più di quattro mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, introdotto dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (in attuazione della l.d. 19 ottobre 2017, n. 155), che entrerà in vigore – tranne che per poche norme, già vigenti dal 16 marzo 2019 – il 15 agosto 2020. L’attenzione di molti commentatori si è finora concentrata, oltre che sul nuovo istituto delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, sulle discipline del concordato preventivo e delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, maggiormente incise dalla riforma. Anche la trasformazione del fallimento in liquidazione giudiziale, tuttavia, al di là dell’innovazione linguistica e della portata ideologica (di indubbio rilievo) ad essa sottesa, non è consistita una mera “trasposizione” delle disposizioni sul fallimento nel nuovo Codice. Se è vero, infatti, che numerosi articoli della legge fallimentare sono stati fedelmente riprodotti nel titolo dedicato alla liquidazione giudiziale, l’occasione è stata colta dal legislatore non solo per tentare di risolvere alcune incertezze applicative mediante il recepimento di diffuse elaborazioni giurisprudenziali, ma anche per introdurre significativi cambiamenti che, “annidandosi” per lo più in brevi incisi o nell’aggiunta o modificazione di poche parole, rischiano di sfuggire ad un’analisi sommaria e superficiale del nuovo testo normativo. Il contributo che segue si pone l’obiettivo di segnalare ed esaminare sinteticamente alcuni cambiamenti che riguardano specificamente i poteri e i doveri degli organi della liquidazione giudiziale e i nuovi equilibri che verranno a determinarsi tra gli stessi, nel tentativo di fare chiarezza sul punto. La convinzione di chi scrive è che l’ampia vacatio legis voluta dal legislatore della riforma debba essere sfruttata nel miglior modo possibile da tutti gli operatori del settore per attenuare l’inevitabile sensazione di confusione e “smarrimento” ingenerata da un così ampio riassetto della disciplina ed evitare ricadute negative sulla funzionalità del servizio giustizia nel settore delle procedure concorsuali.
2.Il Tribunale Concorsuale.
L’art. 122 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’ora innanzi, per brevità: “C.c.i.” o “Codice”), nel delineare i poteri del Tribunale Concorsuale, ricalca integralmente l’art. 23 l.fall. e non introduce alcuna novità (tale non essendo la specificazione, al comma 2, che i decreti del Tribunale debbano essere “motivati”) se non quella relativa alla denominazione dell’organo: in luogo del Tribunale Fallimentare, individuato dall’art. 23 l.fall. come il Tribunale che “ha dichiarato il fallimento” ed è “investito dell’intera procedura fallimentare”, vi è appunto il Tribunale Concorsuale, ossia il Tribunale che “ha dichiarato aperta la procedura di liquidazione giudiziale” ed è “investito dell’intera procedura”.
Sotto il profilo dei rapporti con gli altri organi della procedura, merita invece di essere sottolineata la previsione di cui all’art. 49, co. 3, lett. b, del Codice, in base alla quale, nel dichiarare con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale, il Tribunale “nomina il curatore e, se utile, uno o più esperti per l'esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore”.
La nuova figura dell’esperto nominato dal Tribunale non è assimilabile a quella del coadiutore del curatore (dal quale quest’ultimo, anche nel nuovo assetto normativo, può farsi “affiancare” con l’autorizzazione del comitato dei creditori, e del cui compenso si deve tener conto ai fini della liquidazione del compenso del curatore: v. l’art. 129, co. 2, C.c.i., che ricalca sostanzialmente l’art. 32, co. 2, l.fall.). Si tratta, piuttosto, di una sorta di “co-curatore”, chiamato a svolgere alcuni specifici compiti tra quelli che normalmente sarebbero riservati al curatore. Ciò si evince non solo dal fatto che all’esperto, per espressa previsione dell’art. 125, co. 2, C.c.i., si applicano “le disposizioni del comma 1 e degli articoli 123 e da 126 a 136 in quanto compatibili”, ossia le disposizioni sui poteri e doveri del curatore, ma anche dalla regolamentazione del suo compenso, rispetto al quale l’art. 137 C.c.i. (nel quale è stato “riversato”, con modificazioni, l’art. 39 l.fall.), al comma 5, stabilisce che “quando sono nominati esperti ai sensi dell'articolo 49, comma 3, lettera b), alla liquidazione del compenso si applica il comma 3”, “parificando”, sotto il profilo dei compensi, la situazione di coesistenza del curatore e dell’esperto a quella della successione di più curatori nell’incarico, con liquidazione unitaria del compenso in base ai parametri dettati dal d.m. 30/2012 e suddivisione proporzionale in base al contributo apportato da ciascuno ai risultati della procedura (v. sul tema: Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26730; Cass., sez. VI, 26 giugno 2018, n. 16739; Cass., sez. VI, 31 lugio 2017, n. 19053; Cass., sez. VI, 13 dicembre 2016, n. 25532; Cass., sez. I, 4 marzo 2015, n. 4378; Cass., sez. I, 14 maggio 2014, n. 10455; Cass., sez. I, 15 marzo 2010, n. 6202; Cass., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19230).
Poiché il Tribunale dovrà nominare l’esperto “se utile”, vi è da chiedersi quando debba ravvisarsi tale utilità. Nella Relazione illustrativa al Codice si legge che “si tratta di un accorgimento che dovrebbe garantire maggiore efficienza e celerità alla procedura, ad esempio consentendo di affiancare al curatore un professionista che si occupi della liquidazione di determinati beni fin dalla fase iniziale della procedura o dell’esercizio provvisorio dell’impresa, consentendo al curatore di concentrarsi sull’attività di analisi dei crediti in vista della redazione del progetto di stato passivo, ove particolarmente complesso”. Un altro esempio può essere quello di un’impresa che al momento della dichiarazione di fallimento abbia ancora molti contratti di lavoro pendenti, rispetto ai quali, in assenza dei presupposti per disporre l’esercizio provvisorio, si rendano necessari specifici adempimenti per il cui espletamento può essere opportuna la nomina di un esperto consulente del lavoro (sempre che lo stesso curatore non sia scelto tra gli iscritti all’albo dei consulenti del lavoro, in base alla nuova previsione contenuta nell’art. 358, co. 1, lett. a, C.c.i.).
La valutazione da parte del Tribunale circa l’effettiva sussistenza della suddetta utilità appare, tuttavia, tutt’altro che agevole, tenuto conto del fatto che l’esperto può essere nominato solo con la sentenza di dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, e, dunque, in un momento nel quale, solitamente (e salva l’ipotesi in cui l’apertura della liquidazione giudiziale consegua senza soluzione di continuità all’esito negativo di un concordato preventivo), non si dispone ancora di dettagliate informazioni in merito all’entità e alla composizione dell’attivo e del passivo e alla complessità dell’organizzazione dell’impresa.
3.Il Giudice delegato.
I poteri del Giudice delegato sono disciplinati dall’art. 123 C.c.i.. nel quale è stato “trasfuso” l’art. 25 l.fall. con alcune modificazioni.
Tra queste va senz’altro evidenziata quella contenuta nella lettera f del comma 1 (corrispondente al n. 6 del medesimo comma dell’art. 25 l.fall.), in base alla quale il giudice delegato, “fatto salvo quanto previsto dall'articolo 128, comma 2” (e, dunque, fatte salve le ipotesi in cui il curatore può stare in giudizio senza l’autorizzazione del giudice delegato), autorizza il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto “quando è utile per il miglior soddisfacimento dei creditori”.
Appare necessario stabilire se il legislatore, con l’introduzione del suddetto vaglio di “utilità”, abbia inteso attribuire al giudice delegato anche un controllo di opportunità e di merito sulle iniziative giudiziali del curatore, superando l’attuale sistema in cui “l'autorizzazione del giudice testimonia l'avvenuto controllo della legittimità (e non anche del merito) dell'iniziativa” (v. Cass., sez. I, 9 giugno 2014, n. 12947).
Si tratterebbe, in tal caso, di un ritorno al sistema precedente la riforma del 2006, nel quale la valutazione dell’opportunità di promuovere un giudizio o di resistere ad una domanda giudiziale non era rimessa alla discrezionalità del curatore, e il giudice delegato, attraverso l’autorizzazione prevista dall’art. 25 l. fall., non aveva “solo il compito notarile di rimuovere l’ostacolo all’azione” ma altresì il potere-dovere di “decidere sul punto” in base ad un vaglio anche di merito, “indipendentemente dal parere del curatore” e anche “contro l’opinione del curatore” (v. Cass., sez. I, 1 ottobre 1994, n. 7993). La “restaurazione” di un così incisivo potere in capo al giudice delegato si porrebbe, tuttavia, in evidente contrasto con il ruolo che allo stesso è riservato anche nel nuovo Codice: in tal senso appare significativa la precisazione contenuta nella Relazione ministeriale proprio nel commento dell’art. 123 C.c.i., in cui si afferma che “al giudice delegato sono attribuite, in continuità con l’attuale impostazione, non più funzioni di direzione della procedura, ma di vigilanza e di controllo sulla regolarità della stessa, essendo l’amministrazione dei beni del debitore rimessa al curatore”, e che “i suoi compiti sono in parte connessi al suo ruolo di vigilanza e controllo, in parte volti ad assicurare funzionalità alla procedura”. Del resto, anche nel Codice il controllo di merito sull’opportunità e convenienza delle iniziative giudiziali del curatore è riservato al comitato dei creditori al momento dell’approvazione del programma di liquidazione, nel quale il curatore, ai sensi dell’art. 213, co. 3, C.c.i., deve illustrare – tra l’altro – le “azioni giudiziali di qualsiasi natura” che intende intraprendere, indicando “i costi per il primo grado di giudizio”.
Appare arduo, al contempo, “confinare” la valutazione di “utilità per il miglior soddisfacimento dei creditori” nell’ambito del mero controllo di legittimità. Il concetto di utilità, infatti, rimanda inevitabilmente ad un vaglio di funzionalità basato anche su considerazioni di opportunità. La stessa Relazione illustrativa afferma che l’autorizzazione in questione “presuppone un controllo sull’opportunità dell’iniziativa sia sotto il profilo della fondatezza della pretesa sia sotto quello della presumibile utilità e ciò al fine di evitare che iniziative, pur fondate sotto il profilo giuridico, non apportino reale beneficio ai creditori”, e che il giudice, ad esempio, “dovrà negare l’autorizzazione quando la situazione patrimoniale del convenuto è tale da rendere verosimilmente infruttuosa la futura esecuzione della sentenza o quando il beneficio economico conseguente all’esperimento, pur vittorioso, dell’azione, appaia insignificante in rapporto all’entità del passivo, sì da non giustificare l’attesa della sentenza ed i costi della difesa tecnica”.
A mio avviso, in realtà, anche nel nuovo sistema l’autorizzazione alla costituzione in giudizio del curatore potrà essere negata, oltre che nel caso in cui l’approvazione da parte del comitato dei creditori dell’iniziativa inclusa nel programma di liquidazione sia avvenuta sulla base di informazioni non esaustive in ordine al rapporto tra costi, rischi e benefici della stessa (avuto riguardo, in particolare, all’adeguatezza dell’illustrazione delle ragioni di fondatezza del diritto da far valere in giudizio e dell’analisi circa la presumibile solvibilità della controparte: v. App. La Spezia, 31 maggio 2010, in Il fallimento, 2010, 1215), solo nelle ipotesi in cui l’azione sia manifestamente infondata, irragionevole o “avventata” (v. Cass., sez. I, 22 novembre 2000, n. 15074), o quando il potenziale beneficio per la massa sia inferiore alle spese per la costituzione in giudizio o comunque irrisorio a fronte della necessità di addivenire in tempi rapidi alla chiusura della procedura di liquidazione giudiziale.
4.Il Curatore
Al curatore sono dedicati gli articoli da 125 a 137 del Codice.
“Sorvolando”, in questa sede, sui profili inerenti al nuovo Albo ministeriale e agli adempimenti correlati alla nomina del curatore e all’accettazione dell’incarico, è opportuno richiamare l’attenzione sul comma 3 dell’art. 128 C.c.i., nel quale il legislatore, dopo aver stabilito (in piena continuità con l’art. 31, co. 2, l.fall.) che “il curatore non può assumere la veste di avvocato nei giudizi che riguardano la liquidazione giudiziale”, ha inserito la previsione in base alla quale “il curatore può tuttavia assumere la veste di difensore, se in possesso della necessaria qualifica nei giudizi avanti al giudice tributario quando ciò è funzionale ad un risparmio per la massa”.
Occorre anzitutto chiedersi per quale ragione la “deroga” in questione sia espressamente limitata ai “giudizi avanti al giudice tributario” (per tale intendendosi, a mio avviso, solo le Commissioni Tributarie provinciali e regionali e non anche la Sezione tributaria della Corte di Cassazione). Una convincente risposta è data dalla Relazione Illustrativa, in cui si legge che “si è inteso […] tener conto del fatto che si tratta di giudizi per i quali è importante una compiuta conoscenza della situazione contabile e delle vicende economiche dell’impresa”. In altri termini, si è inteso valorizzare il patrimonio di conoscenza che il curatore, nell’esercizio della sua funzione, acquisisce in ordine alla situazione contabile, economica e fiscale dell’imprenditore, sul presupposto che, solitamente, nessuno meglio del curatore è in grado di fornire in giudizio gli elementi necessari ad una corretta gestione del contenzioso tributario.
Ciò che appare meno chiaro è come e in quale sede vada compiuta la valutazione circa il fatto che, nel caso concreto, l’assunzione della veste di difensore da parte del curatore sia “funzionale ad un risparmio della massa”. È ragionevole ritenere che il curatore che intenda assumere tale veste debba presentare una preventiva richiesta di autorizzazione al giudice delegato, documentando (o, quantomeno, dichiarando) il possesso della necessaria qualifica e illustrando i motivi della scelta. Resta tuttavia difficile stabilire quando la scelta possa essere considerata funzionale ad un risparmio della massa, anche perché per valutare tale aspetto bisogna anzitutto stabilire se e con quali parametri la prestazione professionale svolta dal curatore in qualità di difensore debba essere remunerata, non avendo il legislatore espressamente disciplinato tale aspetto. Se al curatore spetta un compenso da liquidarsi “autonomamente” in base ai parametri dettati dalle vigenti tariffe professionali, un risparmio per la massa appare inconfigurabile, quantomeno in astratto e salva una preventiva “autolimitazione” del compenso da parte del curatore nel caso concreto al di sotto dell’importo minimo liquidabile con i suddetti parametri (ma un’analoga “autolimitazione” potrebbe in teoria essere pattuita dal curatore con un qualsiasi difensore: v. sul punto Cass., Sez. VI, 13 aprile 2018, n. 9242). Dovrebbe allora ipotizzarsi, in alternativa, che il curatore debba “accontentarsi” di un aumento del suo compenso finale liquidato dal Tribunale ai sensi dell’art. 137 C.c.i. (corrispondente all’odierno art. 39 l.fall.), ma una tale soluzione, oltre ad apparire eccessivamente penalizzante nei confronti del curatore (disincentivandolo all’assunzione della difesa nei giudizi tributari), si scontra con la difficoltà di individuare parametri obiettivi per un siffatto aumento, tenuto conto, tra l’altro, del fatto che il compenso del curatore è ancorato dal d.m. 30/2012 a percentuali da applicarsi sull’attivo e il passivo fallimentare, e che, in ogni caso, non potrebbe superarsi l’importo massimo previsto da tali percentuali.
Tralasciando (solo per esigenze di brevità) le importanti novità contenute nell’art. 130 C.c.i. sulle relazioni e i rapporti riepilogativi del curatore e le innovazioni relative alla digitalizzazione dei mandati di pagamento per il prelievo delle somme dal conto corrente intestato alla procedura (art. 131, co. 4, C.c.i.) e all’informatizzazione del “libro giornale” tenuto dal curatore (art. 136, co. 1, C.c.i.), vale la pena di segnalare le novità apportate dall’art. 135, co. 1, del C.c.i., in base al quale “i creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi possono chiedere la sostituzione del curatore indicandone al tribunale le ragioni”, e “il tribunale, valutate le ragioni della richiesta, provvede alla nomina del nuovo curatore” (il comma 2, che disciplina le modalità di esclusione dal computo dei creditori in conflitto di interessi, non contiene alcuna novità).
È noto che, nella disciplina attuale, la sostituzione del curatore su richiesta dei creditori rappresenta un’evenienza molto rara. Ciò è dovuto al fatto che tale richiesta, in base al vigente art. 37bis l.fall., può essere formulata solo al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo (e prima della dichiarazione di esecutività dello stesso) e deve provenire dai “creditori presenti, personalmente o per delega, che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi”, i quali devono indicare“le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo”. L’innovazione introdotta dall’art. 135, co. 1, C.c.i. consiste nel fatto che la richiesta in questione potrà essere invece formulata in ogni tempo, il che aumenta notevolmente le possibilità di un effettivo esercizio di tale facoltà da parte dei creditori, i quali, d’altro canto, non potranno però più “indicare” al Tribunale il nominativo del nuovo curatore proposto in sostituzione. Resta fermo che la richiesta avanzata dai creditori non vincola il Tribunale, il quale non è chiamato soltanto a verificare la regolarità formale della richiesta, ma può e deve anche valutare se sussistano effettivamente giustificati motivi per la sostituzione del curatore (v. Cass., sez. I, 13 marzo 2015, n. 5094).
5.Il Comitato dei Creditori
La disciplina relativa al Comitato dei creditori è contenuta negli articoli da 138 a 141 del Codice.
Sul fronte della nomina del comitato, regolata dall’art. 138 C.c.i., non si registrano novità di particolare rilievo rispetto a quanto già previsto dall’art. 40 l.fall. (al comma 1 si prevede che il giudice delegato deve provvedere alla nomina “tenuto conto della disponibilità ad assumere l'incarico e delle altre indicazioni eventualmente date dai creditori con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente”, anziché sentire “i creditori che, con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente, hanno dato la disponibilità ad assumere l'incarico ovvero hanno segnalato altri nominativi aventi i requisiti previsti”; il comma 5 specifica che l’accettazione della nomina da parte dei componenti del comitato deve essere “comunicata al curatore che ne informa immediatamente il giudice delegato”, sottendendo che la stessa debba avvenire esclusivamente – e non più “anche” – per via telematica; il comma 7 consente a ciascun componente del comitato di “delegare, a sue spese, a un avvocato o a un dottore commercialista, in tutto o in parte, l'espletamento delle proprie funzioni, dandone comunicazione al giudice delegato”, laddove, in base al comma 6 dell’art. 40 l.fall., la delega può essere conferita “ad uno dei soggetti aventi i requisiti indicati nell'articolo 28, previa comunicazione al giudice delegato”).
Quanto al nuovo meccanismo di sostituzione dei componenti del comitato dei creditori su richiesta dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, disciplinato dall’art. 139, co. 1 e 2, C.c.i., vale quanto sopra detto per la sostituzione del curatore, atteso che la designazione dei nuovi componenti potrà avvenire in qualsiasi momento e non più soltanto al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo, fermo il controllo del giudice delegato sulla sussistenza in capo ai nuovi designati del requisito della rappresentatività.
L’innovazione di maggior impatto sull’efficienza della procedura concorsuale è rappresentata dal comma 3 dell’art. 139 C.c.i., in base al quale “il giudice delegato, su istanza del comitato dei creditori, acquisito il parere del curatore, può stabilire che ai componenti del comitato dei creditori sia attribuito, oltre al rimborso delle spese, un compenso per la loro attività, in misura non superiore al dieci per cento di quello liquidato al curatore”. Nell’attuale assetto, infatti, l’attribuzione di un tale compenso ai componenti del comitato può essere deliberata – ai sensi dell’art. 37bis co. 3 l.fall. – solo al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo dai “creditori che rappresentino la maggioranza di quelli ammessi indipendentemente dall'entità dei crediti vantati”, e, poiché una tale “maggioranza per teste” non è quasi mai presente in adunanza (e, inoltre, il comitato risulta spesso non ancora costituito in tale fase), la circostanza si verifica molto raramente. La possibilità per gli stessi componenti del comitato di richiedere il compenso direttamente e in ogni tempo al giudice delegato, il quale provvederà previa acquisizione del parere del curatore e indipendentemente dalla volontà della maggioranza dei creditori, renderà certamente più “appetibile” l’incarico, contribuendo a superare la diffusa problematica della mancata costituzione dell’organo, soprattutto se i creditori verranno espressamente avvisati di tale possibilità al momento della comunicazione della nomina. Resta da stabilire quali siano i criteri in base ai quali il giudice delegato debba accogliere o meno la richiesta e quantificare il compenso fino al limite indicato dalla norma: dovrà aversi riguardo, probabilmente, alla complessità dell’incarico in relazione al numero e alla tipologia delle autorizzazioni, delle approvazioni e dei pareri che presumibilmente “impegneranno” il comitato, nonché all’importanza e alla “delicatezza” della procedura di liquidazione giudiziale (aspetti sui quali, pertanto, dovrà incentrarsi il parere del curatore).
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