Il giudice è garante della dignità della persona? di Carmela Salazar
1. Il giudice è garante della dignità della persona? Il bel volume di Roberto Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. n. 219/2017, Roma, 2019, mostra come rispondere a questa domanda risulti facile e difficile al tempo stesso.
Appare facile rispondere positivamente, considerando il rapporto privilegiato che, nel nostro ordinamento, la magistratura intrattiene con i diritti fondamentali, i quali – come afferma la sent. n. 85/2013 della Corte costituzionale, la prima sul “caso Ilva” – «nel loro insieme costituiscono espressione della dignità della persona». Essi, «infatti, si tengono ed alimentano da quella, come da una fonte inesauribile dalla quale sgorghi acqua purissima; allo stesso tempo peraltro, realizzandosi, la rigenerano e confermano, dandovi pratico senso, forma sempre varia e nondimeno uguale a se stessa» [A. Ruggeri, La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi, in ConsultaOnline, III/2018, 401].
Tuttavia, l’immediata risposta positiva alla domanda necessita di ulteriori precisazioni e svolgimenti: affiora, qui, la parte difficile della risposta, poiché il rapporto tra i giudici e i diritti fondamentali – e dunque, tra i giudici e la dignità della persona – si rivela particolarmente complesso ed articolato.
Esso si inscrive nella rivoluzione prodotta dall’avvento della Costituzione rigida sulla forma di Stato e sulla forma di governo, con particolare riguardo alla ridefinizione del rapporto tra autorità e libertà, per un verso, e alla individuazione dei compiti dei poteri dello Stato e delle loro relazioni reciproche, dall’altro. In estrema sintesi, può dirsi che nello Stato costituzionale restano fermi i pilastri dello Stato di diritto: il principio di legalità, la separazione dei poteri, la contemporanea tutela di libertà ed uguaglianza (G. Silvestri Lo Stato di diritto nel XXI secolo, in Rivista Aic, 2/2011, , 2). Al tempo stesso, però, la legittimazione dell’azione dei poteri pubblici riposa non soltanto nel rispetto delle norme procedurali e di quelle competenziali, bensì si ritrova anche – se non soprattutto – nell’adempimento del ruolo che ogni potere è chiamato a svolgere con riguardo all’attuazione dei princìpi costituzionali. Come è stato osservato, «tutto il complesso meccanismo di checks and balances, che contrassegna la vita delle istituzioni dello Stato costituzionale, per non girare a vuoto, deve essere orientato alle finalità fondamentali per cui è stato predisposto» (G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 4/2017, 21).
Ora, è noto che i principi costituzionali – in particolare, quelli volti a riconoscere e garantire i diritti fondamentali – sono caratterizzati da una inesauribile capacità nomogenetica: una “forza generativa” che risulta ulteriormente – ed enormemente – potenziata dal continuo processo di integrazione tra la Costituzione, le norme internazionali ed il diritto dell’Unione europea. Tale processo ha condotto, come si sa, al rinsaldarsi dei meccanismi della tutela multilivello dei diritti fondamentali basata sul “dialogo” che la Consulta, la Corte dell’Unione e la Corte EDU intessono, nella prospettiva della massima espansione delle libertà (o della tutela più intensa dei diritti).
Si dischiude qui, un tema al centro di un dibattito ampio e tuttora molto acceso su cui non è possibile soffermarsi, se non per evidenziare che, da un lato, è evidente la fortuna riscossa tra gli studiosi dalla metafora del “dialogo” tra le Corti, ma dall’altro non sono poche le visioni critiche sul concreto funzionamento di questa peculiare “interlocuzione”, anche in relazione alle incertezze sul concreto funzionamento dei meccanismi del costituzionalismo multilivello, alcuni dei quali risultano tuttora in fieri. Basti pensare, solo per fare un esempio, a come la “triangolazione” tra la Corte costituzionale, la Corte di giustizia e il giudice nei casi di “doppia pregiudizialità” che coinvolgano la Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea abbia subito un progressivo assestamento negli orientamenti della Consulta, a partire dal famoso obiter contenuto nella sent. n. 269/2017 ed a finire (per ora), alle precisazioni formulate nelle sentt. n. 20, 63 e 112/2019, nonché nella recente ord. n. 117/2019 (da ultimo, v. A. Ruggeri, Una corsia preferenziale, dopo la 269 del 2017, per i giudizi di “costituzionalità-eurounitarietà”, in COnsultaOnline, 3/2019, 474 ss.).
Ciò nonostante, un dato innegabile si ritrova nella circostanza che «la fertilizzazione costante operata dai princìpi costituzionali (oggi, a loro volta, integrati da quelli della Ue e della Cedu) su tutte le norme, primarie e secondarie, da applicare fa ruotare velocemente il circolo della produzione-attuazione del diritto, ben al di là di quanto si potesse supporre sino alla metà del XX secolo» (G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura, cit., 23). Ed è in questa prospettiva che possono inserirsi le ampie riflessioni di Roberto Conti sui “tre cappelli” che il giudice è chiamato ad indossare, in quanto tenuto – alla luce dell’art. 117, c. 1, Cost. – ad attingere alle norme costituzionali, a quelle internazionali e a quelle eurounitarie dinanzi a ogni domanda di giustizia che gli venga rivolta in relazione alla asserita lesione di un diritto fondamentale. L’A., peraltro, segnala come «i risultati che l’agire giudiziario produrrà in tali circostanze – recte, soprattutto nelle vicende in cui si discorre di temi eticamente sensibili – difficilmente si prestano ad operazioni di generalizzazione, proprio perché la soluzione concreta del caso assume connotati non sempre passibili di operazioni di astrazione. Ciò che in definitiva distingue in modo netto e preciso l’attività del giudice da quella del legislatore» (pag. 87).
2. Se soffermiamo l’attenzione sull’art. 117, c. 1, Cost., possiamo notare come esso tratteggi l’impalcatura essenziale del “sistema multilivello”, confermando che nello Stato costituzionale l’attività legislativa non è più “libera nel fine”, dovendo esprimersi non soltanto nel rispetto della Costituzione, ma anche degli obblighi internazionali e dei vincoli dell’ordinamento comunitario. La vis prescrittiva delle norme collocate ai diversi “livelli” indicati dalla norma si esprime, dunque, in primo luogo nei riguardi del legislatore: sennonché, è noto che quest’ultimo non brilla per la prontezza negli interventi a tutela dei diritti fondamentali, soprattutto quando entrino in gioco le problematiche “eticamente sensibili” afferenti al biodiritto. Regolare tali questioni si rivela inevitabilmente – come suole dirsi – un’operazione “divisiva”, nel senso che qualunque disciplina su di esse finisce per farsi portatrice di un’elevata capacità di scissione: da qui l’impressione che in molti casi il legislatore, per non rischiare una cospicua perdita di consenso, preferisca rifugiarsi nella “decisione di non decidere”. Una tale via di fuga resta, invece, notoriamente preclusa ai giudici, “costretti” a decidere – dinanzi a domande di giustizia che siano poste ritualmente dalle parti nel processo – anche quando essi si trovino a fare i conti con il “silenzio” del legislatore (G. Silvestri, Scienza e coscienza. Due premesse per l’indipendenza del giudice, in Dir. pubbl., 2/2004, 411 ss.). Proprio questa “coazione a decidere” si pone, a mio avviso, alla base della trasformazione della giustizia in «una sorta di muro del pianto al cui cospetto reclamiamo la garanzia di aspettative che avevamo riposto nello Stato sociale di diritto» (A. Garapon, Del giudicare (2001), tr.it. a cura di D. Bifulco, Milano, 2007, 276).
Il silenzio del legislatore, tuttavia, non è sempre in grado di tacitare i diritti fondamentali: emblematica appare la vicenda del diritto al rifiuto delle cure, collocabile tra i “diritti senza legge” sino all’avvento della l. n. 219/2017 (A. Morelli, I diritti senza legge, in ConsultaOnline, 1/2015, 10 ss.; G. Sorrenti, Il giudice soggetto soltanto alla legge… in assenza di legge. Lacune e meccanismi integrativi, in Costituzionalismo.it, 2/2018, 59 ss). La legge – suggerisce Roberto Conti sin dall’intitolazione del secondo capitolo del suo libro – può definirsi “figlia” della sentenza della Corte di Cassazione sul “caso Englaro” (Corte. cass., sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748): un rapporto di derivazione genetica evidenziato, di recente, anche dalla Corte costituzionale nell’ord. n. 207/2018, la prima sul doloroso e controverso “caso Cappato”. Essa, peraltro, affianca alla pronuncia del Giudice di legittimità anche la decisione sul caso Welby (Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049), nonché le indicazioni elaborate dalla stessa Corte costituzionale riguardo al principio del consenso informato, qualificabile come « “vero e proprio diritto della persona”, che “trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione”, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sent. n. 438/2008), svolgendo, in pratica, una “funzione di sintesi” tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute (sent. n. 253/2009)» (Corte cost., ord. n. 207/2018, par. 8 cons. in dir.).
A mio avviso, a questo elenco si possono aggiungere anche le decisioni dei giudici amministrativi che hanno condannato la Regione Lombardia al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale procurato a Beppino Englaro dal rifiuto dell’ente di individuare, nel proprio territorio, una struttura sanitaria disponibile a dare esecuzione alla sentenza della Corte di cassazione (Tar Lombardia, sede di Milano, Sez. III, n. 650/2016; Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3058/2017). Tali pronunce, pur guardando al “caso Englaro” da una prospettiva diversa da quella della Corte di cassazione, si muovono lungo le coordinate di fondo tracciate da quest’ultima, ribadendo il fondamento costituzionale del diritto al rifiuto delle cure e la sua immediata azionabilità in giudizio, nonostante l’assenza, all’epoca, di regole legislative che ne disciplinassero il concreto esercizio.
Nella trama argomentativa che sorregge le motivazioni di tutte queste decisioni, accanto all’evocazione degli artt. 2, 3 e 13 Cost., spicca – ovviamente – l’art. 32 della Carta: l’ultimo comma di tale disposizione assume un rilievo peculiare, poiché esso attribuisce immediatamente ad ogni persona il diritto di negare il proprio consenso a qualunque terapia che non sia qualificata come obbligatoria da una espressa previsione legislativa. Nel silenzio del legislatore, pertanto, si espande il diritto di ognuno di scegliere, liberamente e consapevolmente, se sottoporsi o se sottrarsi alle cure, esercitando la libertà di autodeterminazione terapeutica, che riguarda anche i trattamenti “salvavita”, come è stato definitivamente chiarito dalla l. n. 219. Appare, insomma, difficile sostenere che tale diritto non esistesse prima dell’avvento di tale legge, sembrando invece corretto «dire che i princìpi di libertà ed uguaglianza nella cura della propria salute si sono tradotti, prima per opera della giurisprudenza, poi per intervento del legislatore, in diritti fondamentali, che si pongono in funzione attuativa di quei princìpi» (G. Silvestri, L’individuazione dei diritti della persona, in www.penalecontemporaneo.it, 2018, 6).
Se poi si considera che nell’art. 32 Cost. la salute è intesa come «completo benessere psico-fisico, parametrato e calibrato anche, e soprattutto, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, delle proprie concezioni di identità e dignità» (Cons. Stato, Comm. spec., parere n. 1991/2018), si comprende come il divieto che l’ultimo comma della disposizione rivolge al legislatore, imponendogli di non oltrepassare in alcun caso i limiti imposti dal rispetto per la persona, miri a preservare la dignità umana. Tale divieto fa sì che la discrezionalità del Parlamento risulti fortemente limitata nella individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori, giustificabili alla luce della qualificazione della salute nello stesso art. 32 Cost. (anche) quale interesse della collettività: questi ultimi sono ammissibili soltanto quando essi siano volti ad impedire che le scelte del singolo in materia di salute possano arrecare danno agli altri, sempre che l'intervento previsto non danneggi la salute di chi vi è sottoposto, ma sia per essa benefico (ex multis, v. Corte cost., sentt. n. 258/1994 e n. 118/1996).
Nella logica della norma, il richiamo al rispetto della persona umana funziona perciò da controlimite rispetto al limite che il legislatore può porre al diritto di ognuno di decidere, in qualunque momento dell’esistenza, di sottrarsi a terapie considerate incompatibili con la propria visione della malattia, della vita e della morte. Proprio perché la norma si riferisce al singolo «in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive» (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3058/2017), essa evoca immediatamente la componente soggettiva della dignità umana. Per incidens, tenendo conto che l’art. 32 Cost. ha assunto il ruolo di parametro nella già ricordata ord. n. 207/2018 sul “caso Cappato”, non può stupire il risalto che a tale dimensione della dignità è stato tributato in questa peculiare decisione di “incostituzionalità prospettata”, per riprendere il nomen ad essa attribuito, come si sa, dal Presidente della Consulta.
Al momento in cui si scrive, non sono ancora state depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte, stando al comunicato stampa diffuso il 25 settembre 2019, ha ritenuto «non punibile ai sensi dell’art. 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Probabilmente, nella stesura della trama argomentativa della decisione, la Corte tornerà sulla relazione tra il diritto al rifiuto delle cure e la tutela della dignità della persona, ma naturalmente sul punto non è possibile azzardare alcuna ipotesi. Restando, dunque, alla trama argomentativa su cui si regge l’ord. n. 207/2018, non sembra possa parlarsi di un favor espresso dalla Corte costituzionale per la preminenza, in generale, della componente soggettiva della dignità su quella oggettiva.
Qui si tocca un argomento, come si sa, al centro di un amplissimo dibattito interdisciplinare: in questa sede, è possibile svolgere soltanto qualche limitata riflessione, sulla scia delle considerazioni formulate da Roberto Conti sull’ord. n. 207/2018 (pag. 125 ss.), ed alla luce di alcune affermazioni contenute nella recente sent. n. 141/2019 della Corte costituzionale.
Si tratta della decisione che ha rigettato le censure proposte dalla Corte di appello di Bari sulla “legge Merlin”, con riferimento alla prostituzione “volontaria” esercitata dalle escort. In tale occasione, per quel che qui rileva, la Consulta ha avuto modo di soffermarsi sull’interpretazione dell’art. 41, c. 2, Cost., secondo cui, come si sa, nessuna modalità di produzione della ricchezza derivante dall’iniziativa privata può considerarsi legittima, qualora si esprima «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La Corte ha evidenziato come tale formula alluda alla dimensione oggettiva della dignità: «non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore» (par. 6.1, cons. in dir.). L’impressione immediata è che tale ragionamento contraddica quello svolto nel “caso Cappato”: in realtà, sembra più corretto ritenere che le due decisioni mostrino come nella nozione giuridico-costituzionale della dignità la componente oggettiva e quella soggettiva convivano, assumendo ciascuna peculiare rilievo, alla luce dei diversi parametri costituzionali rilevanti, rispettivamente, nell’una e nell’altra questione.
Come si è visto, nell’art. 32 Cost. il riferimento al rispetto della persona umana mira a circoscrivere la discrezionalità del legislatore, a garanzia della massima espansione della libertà di scelta delle terapie compatibile con il riconoscimento della salute (anche) quale interesse della collettività. L’art. 41, c. 2, Cost., invece, individua nel rispetto della dignità (oltre che della libertà e della sicurezza) un limite all’espansione dell’autonomia dei singoli nell’esercizio della libertà di iniziativa economica, lasciando un ampio margine di apprezzamento al legislatore nell’individuazione delle ipotesi in cui essa si esplichi in urto con la prescrizione costituzionale. Nel primo caso, la protezione della dignità dei singoli è assicurata dalla espressa imposizione di un divieto rivolto al legislatore, che ne circoscrive il raggio d’azione; nel secondo, essa dipende dall’intervento di quest’ultimo, cui è riconosciuto un ampio margine di discrezionalità nella regolamentazione del concreto esercizio della libertà di iniziativa economica privata, al fine di evitare che essa, nelle varie modalità in cui si estrinseca, collida con la norma costituzionale, traducendosi in un’«attività che degrada e svilisce l’individuo» (sent. n. 141/2019, par. 6, cons. in dir.). Si noti, tuttavia, come in entrambi i casi l’evocazione della dignità implichi la necessità della fissazione di limiti al potere – al potere pubblico, nell’art. 32 Cost., al potere privato, nell’art. 41, c. 2, Cost. – a garanzia di quanti possano ritrovarsi in una posizione di vulnerabilità dinanzi all’uno o all’altro. Dunque, anche quando, nella sentenza sulla prostituzione, la Corte discorre apertamente della esistenza di una dimensione oggettiva della dignità, essa non lo fa al fine di offrire una giustificazione «ad interventi conformativi sul modo di vita dei cittadini, secondo l’ideologia dello Stato etico» (G. Silvestri, L’individuazione, cit., 11), bensì allo scopo di preservare la pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3 Cost.)
3. La ricchezza delle suggestioni offerte dal libro di Roberto Conti spingerebbe a formulare molte altre riflessioni. Ma avviandomi alla conclusione di queste mie brevi notazioni, vorrei in particolare evidenziare come il volume segnali l’importanza dell’intervento del legislatore, laddove esso sia davvero rispettoso della Costituzione, degli obblighi internazionali e dei vincoli derivanti dal diritto eurounitario, si soffermi sul ragionevole bilanciamento dei diritti fondamentali oggetto della disciplina con gli altri diritti di pari rango con cui i primi entrino in conflitto nelle diverse circostanze, e si collochi, al tempo stesso, in una prospettiva che guardi «fiduciosa alla fecondità del confronto con i giudici» (pag. 41).
Come si è visto, la l. n. 219/2017 non ha riempito uno spazio totalmente “vuoto”: ciò nonostante, essa non si presenta come un intervento pleonastico, tutt’altro. A ragione è stata definita una «buona legge buona» (S. Canestrari, Una “buona legge buona”: la l. n. 219 del 201 e la relazione medico-paziente, in Dir. salute, 2/2018, 51 ss.), pur presentando – come tutte le umane cose – ombre e luci. Tra queste ultime, assume particolare rilievo la ridefinizione del ruolo del giudice tutelare, non più visto – rileva Roberto Conti – come figura «occasionalmente indirizzata a svolgere un ruolo di sussidio, soprattutto nei confronti di persone bisognose di protezione in ragione della minore età e della incapacità di provvedere ai propri interessi», ma come «punto di riferimento costante e continuo di tutte le persone che adottano scelte in campo medico» (pag. 144). Tale «autentica rivoluzione copernicana» (ibidem) si collega a un’altra innovazione introdotta dalla legge: la valorizzazione delle molteplici relazioni in cui ogni paziente si trova (o può trovarsi) immerso, al di là del rapporto con il personale medico ed infermieristico: nella disciplina trovano spazio la relazione con i familiari, come anche quella con il rappresentante legale, con il fiduciario, con l’amministratore di sostegno. Con tali figure, il giudice – suggerisce Roberto Conti – non può che instaurare un “dialogo”, «volto a favorire l’emersione di tutte le posizioni in gioco e, al contempo, ad attingere a tutte quelle fonti, giuridiche e non, necessarie per realizzare al meglio gli interessi che è chiamato a maneggiare» (pag. 140).
Secondo l’A., nella l. n. 219/2017 il giudice si pone quale «elemento attuatore del valore personalistico che invera la Costituzione e le Carte dei diritti fondamentali di matrice sovranazionale» (pag. 139), in quanto chiamato non già a condannare e ad assolvere, bensì a risolvere i conflitti, in particolare quelli che insorgano nelle situazioni connesse al “fine vita”: la maggior parte dei quali non assurgono alla risonanza mediatica del “caso Englaro” o del “caso Cappato”, senza per questo risultare meno laceranti. Ed è «soltanto creando una rete stabile di relazioni fra tutti i soggetti coinvolti, alimentata da periodici momenti di confronto, che l’astratta protezione offerta ai soggetti bisognosi di cure potrà diventare reale ed effettiva» (pag. 140). Questo appare il modus operandi maggiormente idoneo a rendere meno gravosa la “solitudine” del giudice – pur restando a questo rimessa, naturalmente, l’ultima parola – e al tempo stesso a consentire che esso sia, nei singoli casi, realmente garante della dignità della persona: «una dignità che, in definitiva, deve riuscire ad emergere per come essa appare in relazione alla vicenda umana» che, di volta in volta, si pone al suo cospetto (pag. 61).
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”