ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il procedimento per la decisione accelerata (art. 380-bis c.p.c.)
di Elena Bruno
L’art. 380 bis c.p.c. oggi prevede che nei casi di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso il Presidente di sezione o un Consigliere da lui delegato comunichi alle parti una proposta di definizione accelerata del giudizio. Il ricorrente ha, a questo punto, quaranta giorni per ribellarsi alla proposta e, munito di una nuova procura speciale, può depositare un’istanza con cui può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’art. 391 c.p.c. Se entro i quaranta giorni la parte chiede la decisione e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96 c.p.c. In molti commenti all’art. 380 bis si legge che esso si pone in linea di continuità con i tentativi di deflazionare l’accesso alla giustizia, il cui abuso causa un appesantimento del lavoro dei giudici, specialmente di quelli di Cassazione. Io per la verità ho un’idea parzialmente diversa. È senz’altro vero che il legislatore, in ciò compulsato dalla stessa Corte, stia cercando di ridurre le pendenze in Cassazione. Ma a me pare che questa misura abbia qualcosa in più rispetto a quelle passate, dal momento che lo Stato scarica sul cittadino gli effetti delle proprie inefficienze. Lo Stato non ce la fa a rispondere alla domanda di giustizia, sicché tale domanda va scoraggiata.
Difatti mi pare volersi in qualche modo colpevolizzare quanti accedono alla Corte perché non si sentono soddisfatti della pronuncia che hanno avuto in appello, senza minimamente considerare che il problema potrebbe essere l’insoddisfacente risposta alla domanda di giustizia che viene offerta nei gradi di merito. Anzi: con l’introduzione del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. è stata compiuta un’operazione che, dal punto di vista economico, è magistrale. Prevedendo che in caso di lite temeraria si debba corrispondere una somma anche a favore della cassa delle ammende, dunque dello Stato, è stato fatto di ciò che era un minus, cioè una giustizia inefficiente, un plus, cioè un apparato che (proprio per essere inefficiente) produce denaro. Io, Stato, ti offro un prodotto con difetti e poi, sul presupposto che quel prodotto abbia dei difetti e debba essere usato con cautela, traggo profitto dall’uso che se ne faccia (ove tale uso sia “sconsiderato” perché non tiene in conto i difetti del prodotto). In buona sostanza, lo Stato guadagna dai difetti del servizio che offre. Eccezionale.
La riforma si è sin da subito palesata come poco gradita agli operatori del diritto e devo dire che non è stato fatto nulla per renderla, per quanto possibile, digeribile. Mi riferisco in particolare al fatto che, come noto, nella relazione illustrativa si legge che la previsione dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c. “non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”. Tale concetto è richiamato in maniera pressoché identica dalla relazione del Massimario del 6 ottobre 2022. Purtroppo, però, la natura sanzionatoria della condanna ex art. 96 c.p.c. era già stata affermata dalla Cassazione (v. pronuncia Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601) ed è stata anche successivamente affermata più volte (per es. Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195).
Dunque, francamente è parso che il legislatore e la relazione del Massimario semplicemente non volessero chiamare le cose con il loro nome, ben consci del fatto che una sanzione a carico del ricorrente sarebbe stata mal vista, con il risultato di rendere la riforma, se possibile, ancora più indigesta.
Ulteriore profilo che caratterizza l’istituto – e che contribuisce a non renderlo popolare - è che l’intento deflattivo che anima la riforma dell’art. 380 bis è realizzato in ottica se così si può dire “di respingimento”, con buona pace della CEDU. Difatti la Sezione Sesta decideva anche i ricorsi manifestamente fondati, cui era così riservata una corsia accelerata, mentre con l’art. 380 bis ciò non è più possibile. Eppure, è proprio il ricorso manifestamente fondato che merita di essere definito quanto prima, sia perché c’è un cittadino che ha ragione e merita di avere risposta nel tempo più breve possibile, sia perché evidentemente è stato emesso un provvedimento ingiusto che deve essere rimosso quanto prima dal nostro ordinamento. Stranamente, invece, in appello è stata introdotta una corsia più veloce per le impugnazioni manifestamente fondate, al terzo comma del 350 c.p.c.
Né a mio avviso vale – per giustificare la riforma – dire che l’art. 380 bis c.p.c. è il rimedio alle esagerazioni di quanti si ostinano a proporre ricorsi in maniera spregiudicata.
Difatti una sanzione per il mancato rispetto delle regole del gioco - perché chiaramente tutti i requisiti di ammissibilità e procedibilità attengono al patrimonio di regole del gioco – può essere prevista solo se le regole del gioco sono chiare e certe. Ed invece più e più volte abbiamo visto che sulla stessa questione una sezione è in contrasto con l’altra ed una pronuncia è in contrasto con la pronuncia del giorno dopo.
E dunque già non è accettabile perdere un ricorso perché si è avuta la sfortuna di capitare con un collegio orientato in un certo modo invece che con il collegio orientato in altro modo; certamente è ancora meno accettabile essere per questo condannati anche alla lite temeraria. Ed è ancora meno accettabile che lo Stato lucri su questo.
Ciò a maggior ragione ove si consideri che con l’art. 380 bis abbiamo subito un vulnus significativo alla nomofilachia sull’ammissibilità e sulla procedibilità. Difatti, quando c’era la Sesta Sezione, io potevo studiare le pronunce della Sesta e capire con un certo margine di certezza – nei limiti dati da una nomofilachia che con i numeri che ci sono oggi in Cassazione non può essere esatta - come approcciarmi al giudizio di cassazione. Potevo avere contezza di quali fossero le regole del gioco. Oggi, invece, la proposta non è pubblicata e nel decreto di estinzione non si dà atto delle ragioni per cui quella proposta avesse ritenuto il ricorso inammissibile o improcedibile. Ragion per cui oggi mi trovo nella situazione di conoscere le regole del gioco meno di prima e di rischiare di pagare un prezzo più alto per la loro violazione.
Si sentiva il bisogno di una tale impostazione? Credo proprio di no, sinceramente. Scaricando sul cittadino i costi delle inefficienze statali non si fa che ampliare la distanza fra lo Stato ed il cittadino. Senza contare che le modalità di deflazione adottate si risolvono in una grossa difficoltà per gli avvocati che, al di là dei casi estremi, si trovano fra l’istanza del cittadino che chiede giustizia e la necessità di spiegare al cittadino che - magari per questioni di forma- egli non avrà una pronuncia e che, se insiste nel chiederla, sempre per quelle stesse questioni di forma, magari nemmeno condivise dal Consigliere della porta accanto, sarà condannato anche alla lite temeraria. Inoltre, mentre per le questioni di improcedibilità vi è una maggiore chiarezza su cosa si debba fare e come farlo – con il limite anche in questo caso dettato dal cambiamento di orientamento dimostrato proprio di recente dalla Terza Sezione sulla questione del glifo della sentenza (ordinanza 5204 del 27.02.2024 e sentenza 12971 del 13.05.2024) - non tutte le inammissibilità sono uguali. Un conto è proporre un ricorso chiaramente tardivo ed un conto è proporre un ricorso tardivo nel caso in cui - ad esempio - sia discussa l’applicabilità della sospensione feriale alla causa. Non vedo in quest’ultimo caso la possibilità di addossare al ricorrente una qualche forma di colpa grave nell’aver proposto il ricorso.
Pertanto, sono d’accordo con quella parte della dottrina che ha fatto notare che l’art. 380 bis quantomeno si sarebbe dovuto applicare, per quanto riguarda l’inammissibilità, solo ai casi di inammissibilità manifesta, così come è previsto per l’infondatezza, che è rilevante ai fini del 380 bis solo quando è manifesta.
In ogni caso, trovo in generale inaccettabile la presunzione di colpa grave in capo al ricorrente per questioni attinenti all’ammissibilità. Posso capire che si voglia punire chi porti avanti delle ragioni manifestamente infondate, magari a fini meramente dilatori, ma per questo bastava l’impostazione precedente al 380 bis perché l’art. 96 era già nel codice. Certo, forse la Cassa delle ammende non avrebbe guadagnato abbastanza.
Devo ancora notare che l’esperienza della Sesta Sezione ci aveva dimostrato che il meccanismo della proposta funzionava.
Si trattava forse del miglior strumento decisorio attuato nel nostro ordinamento, visto che essa consentiva il pieno contraddittorio e probabilmente il miglior esercizio della giurisdizione. Essa riduceva al minimo gli errori di giudizio (che sono gravi in generale, ma lo sono di più quando vengono commessi dal giudice di ultima istanza), consentendo alle parti di segnalare ciò che la relazione aveva sbagliato, o semplicemente di far emergere degli aspetti che forse non erano stati considerati, o non lo erano stati adeguatamente. I casi in cui il collegio ha fatto marcia indietro rispetto alla proposta del relatore ed ha rimesso la causa alla Sezione Semplice – seppure numericamente nettamente inferiori rispetto a quelli di conferma – rappresentano probabilmente la migliore essenza dell’esercizio della giurisdizione, del diritto di difesa delle parti e della collegialità della decisione. Ciò vale anche per i casi in cui la causa, la cui trattazione era stata originariamente fissata dinnanzi alla Sesta Sezione, sia poi stata rimessa alle Sezioni Unite (Cass., Sez. VI-3, 2 marzo 2022, n. 6947 e Cass., Sez. un., 8 marzo 2022, n. 7514) o alla Corte costituzionale (Cass., Sez. III, 9 dicembre 2019, n. 32033) e per i casi in cui il ricorso chiamato dinnanzi alla Sesta Sezione con la previsione di un determinato esito sia stato poi deciso in senso notevolmente difforme (Cass., Sez. VI-3, 23 settembre 2022, n. 27929 ha dichiarato l’improcedibilità di un ricorso di cui il relatore aveva proposto l’accoglimento per manifesta fondatezza; Cass., Sez. VI-2, 6 maggio 2021, n. 11867 ha dichiarato inammissibile un ricorso che era stato avviato alla trattazione con proposta di manifesta fondatezza); con ciò rivelandosi che la decisione, che pure al relatore sulle prime era apparsa facile, non lo era affatto.
A me pare, come detto, che questo istituto funzionasse bene ed anzi meritasse di essere esteso a tutte le decisioni, comprese quelle di merito: quante impugnazioni si sarebbero evitate se i giudici avessero sottoposto alle parti una sorta di bozza del provvedimento, pronunciando poi la sentenza vera e propria dopo delle brevi memorie dei litiganti ?
Oggi invece, con lo strumento della proposta, il contraddittorio con la proposta del relatore è consentito solo assumendosi il rischio di essere condannati al risarcimento danni per lite temeraria ed al pagamento in favore della Cassa delle ammende.
Eppure non sono rari i casi in cui le proposte di definizione accelerata hanno dimostrato la loro fallacia. Io ho rinvenuto una nutrita casistica in proposito: abbiamo casi in cui, pur essendo stata formulata la proposta di definizione accelerata, la Corte, dopo la richiesta di decisione, ha cassato la sentenza impugnata e addirittura deciso nel merito (Cass. civ., Sez. V, Ord., 27/05/2024, n. 14717).
Casi in cui, nonostante la proposta, la Corte, decidendo poi il ricorso a seguito della ribellione del ricorrente, lo ha accolto: Cass 20237 del 14.07.2023; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10556; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10555; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10531; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10519; Cass. civ., Sez. II, Ord., 26/04/2024, n. 11213; Cass. civ., Sez. II, Sent., 22/05/2024, n. 14342; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord.,17/05/2024, n. 13822.
Vi è poi un caso che ha avuto un iter particolarmente tortuoso: Cass., sezione II, sentenza n. 14342 del 22 maggio 2024.
Vi sono altri casi in cui addirittura la Corte, nonostante la proposta e dopo l’istanza di decisione del ricorrente, ritenuta la valenza nomofilattica della pronuncia, rinvia la causa alla pubblica udienza: Cass. civ., Sez. II, Sent., 16/04/2024, n. 10272.
Senza contare naturalmente i casi in cui il ricorso viene rigettato o dichiarato inammissibile o improcedibile per ragioni diverse da quelle prospettate nella proposta, il che, come noto, esclude l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.
Segnalo, però, un paio di pronunce che mi paiono interessanti. Parto dall’ordinanza Civile Ord. Sez. 3 Num. 28574 del 13/10/2023, in cui era stata fatta una Proposta di Definizione Accelerata per la ritenuta inammissibilità del ricorso ed invece, a seguito dell’istanza di decisione, esso è stato dichiarato improcedibile. In questa ordinanza la Corte afferma che il ricorrente debba essere condannato per lite temeraria “in particolare, ai fini dell’applicazione delle richiamate norme la decisione di improcedibilità del ricorso è assimilabile (ed è anzi connotata da una più marcata connotazione di violazione di norme processuali, la cui valutazione era appunto pregiudizialmente fatta salva nella richiamata proposta)a quella di inammissibilità, che costituiva il fulcro della proposta originariamente formulata”. La stessa operazione è compiuta dal collegio che ha pronunciato l’ordinanza 16899/2024: in quel caso la proposta evidenziava un profilo di manifesta infondatezza mentre il collegio ravvisa l’inammissibilità del ricorso. Nonostante l’esito decisorio non sia conforme alla proposta, viene applicato l’art. 380 bis c.p.c.
Vi è poi un’altra questione: alcune volte, nonostante ve ne siano i presupposti, il ricorso sfugge alle maglie del filtro dell’art. 380 bis. Si sono verificati casi in cui il ricorso era affetto da improcedibilità manifesta eppure esso è stato trattato in camera di consiglio, senza che fosse formulata una PDA: Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 04/06/2024, n. 15611. In quel caso in particolare il ricorso era fondato su un unico motivo che atteneva la violazione del CCNL e il ricorrente non aveva depositato il contratto collettivo. Si tratta di un caso di improcedibilità piuttosto semplice e lampante eppure non è stata formulata la proposta ex art. 380 bis c.p.c. È ben vero che ciò accadeva già prima, tuttavia prima ciò non incideva sulla tasca del ricorrente. A me non pare giusto che il costo della giustizia cambi sulla base della strada che prende il ricorso.
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Dopo le considerazioni generali appena svolte sull’istituto, vorrei focalizzare l’attenzione sul compito e sulla posizione dell’avvocato che deve confrontarsi con la proposta di definizione accelerata, anche perché se guardiamo più da vicino il meccanismo congegnato con l’art. 380 bis c.p.c. emergono alcuni problemi applicativi.
Come noto, il legislatore delegato ha introdotto, con il nuovo filtro, due elementi di enorme rilevanza: il necessario rilascio di una nuova procura speciale al difensore ad opera della parte che voglia comunque ottenere la decisione e la condanna ex art. 96 c.p.c. (nella formulazione modificata dal decreto delegato).
In primo luogo vale la pena di evidenziare che il presupposto per la proposta di definizione accelerata è che non sia stata fissata l’udienza o l’adunanza, senza nessun’altra specificazione applicativa. Lo strumento è stato dunque utilizzato sin da subito anche nei giudizi davanti alle Sezioni Unite: all’uopo segnalo le ordinanze 28550/2023 Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195 e Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433.
Ne deriva che chiunque si trovi a dover affrontare il giudizio di cassazione, anche davanti alle SS.UU., corre il rischio di doversi misurare con la proposta ex art. 380 bis c.p.c.
Con riferimento alla necessità di munirsi di nuova procura speciale per ottenere la decisione della causa, la previsione ha suscitato immediatamente indignazione fra i commentatori perché appare un evidente segno di sfiducia nei confronti della classe forense, come se l’avvocato potesse non comunicare al cliente l’esistenza della proposta o, peggio, potesse ignorare la volontà del cliente che intendesse rinunciare.
A parte ciò, il problema concreto per l’avvocato esiste ed attiene, innanzitutto, al fatto che in genere l’esame del ricorso da parte della Corte interviene dopo un tempo significativo dalla sua proposizione, anche quattro o cinque anni. In questo lasso di tempo l’avvocato potrebbe non aver avuto nessun contatto con la parte assistita. Ciononostante, si lasciano a disposizione del legale solamente quaranta giorni per fare una serena disamina della situazione, rintracciare la parte, spiegarle tutto, aspettare le sue valutazioni, farsi rilasciare nuova procura e, infine, chiedere la decisione.
Si pensi ai casi, frequenti nelle controversie di lavoro, di ricorsi proposti da numerosi ricorrenti, che magari fisicamente si trovano in diverse parti d’Italia.
Ma essa appare poi del tutto eterodossa rispetto al sistema generale del giudizio di legittimità dato che, come sappiamo, il processo di cassazione è dominato dall’impulso d’ufficio, tanto che le cause interruttive non operano; sono irrilevanti il fallimento della parte, l’estinzione della persona giuridica, la morte della persona fisica e per certi versi finanche quella del difensore. Il giudizio di cassazione, una volta avviato, va avanti da sé fino alla sua naturale conclusione.
A parte i disagi nel raccogliere la procura, deve dirsi che sin da subito ci si è interrogati su cosa sia la nuova procura speciale di cui all’art. 380 bis e come debba essere conferita. In verità il testo della norma non pare essere felice, poiché la nuova procura speciale sembra essere una procura non dissimile dalla prima procura speciale conferita per la proposizione del ricorso ma semplicemente successiva alla proposta. In realtà un’interpretazione che tenga in debito conto il fine a cui è teso il conferimento della nuova procura non può non condurre a ritenere che la nuova procura speciale sia una procura a compiere l’atto che è necessario compiere, ovvero la proposizione dell’istanza di decisione.
Chiarito ciò - e su questo pare che pochi dubbi possano residuare - ci si è posti il problema di dove possa essere collocata la procura in esame e se l’avvocato possa attestare l’autografia della firma del conferente. Il problema è posto da un difetto di coordinamento dell’art. 380 bis con l’art. 83 c.p.c., dal momento che, come tutti sappiamo, l’art. 83 elenca gli atti al cui margine o in calce ai quali può essere apposta la procura specificando che, quando essa acceda a tali atti, il difensore può certificare l’autografia della firma. Dunque il potere del difensore di attestare l’autografia è strettamente dipendente dal fatto che essa corredi uno degli atti menzionati nell’art. 83 c.p.c. L’inghippo sta dunque nel fatto che fra gli atti a margine o in calce ai quali può essere apposta la procura elencati nell’art. 83 non vi è l’istanza di decisione. E, conseguentemente, il testo della norma non dà al difensore il potere di certificare l’autografia della firma della procura che correda la detta istanza.
In realtà se dopo la proposta la parte decidesse di munirsi di un nuovo difensore il problema non si porrebbe, dal momento che l’art. 83 prevede che uno dei loci ove può trovarsi la procura sia proprio la memoria di nomina del nuovo difensore. Dunque un escamotage per evitare tutti i dubbi connessi alla regolarità della nuova procura speciale potrebbe essere quello di nominare un nuovo difensore che poi proponga l’istanza di decisione.
Ma se il difensore resta lo stesso? Qualcuno ha sostenuto che, con la proposta, la nomina del difensore originario perda efficacia, ragion per cui, proponendo l’istanza di decisione, in realtà egli diventerebbe un nuovo difensore. Da ciò potrebbe discendere la possibilità che la procura sia in calce all’istanza di decisione, che sarebbe quindi qualificabile come nomina di nuovo difensore. Conseguentemente l’avvocato potrebbe attestare l’autografia della firma del conferente. A me pare un’interpretazione un po’ forzata.
L’idea che mi ero fatta in sede di prima interpretazione della norma, e che confermo, è che innanzitutto il requisito della novità fosse da ricondursi alla posteriorità della procura rispetto alla PDA. Ma su questo credo che possano esserci pochi dubbi. Il problema che si poneva era chiaramente la specialità. Che cosa significa procura speciale? Io credo che la specialità della procura richiesta dall’art. 380 bis sia da ricondurre al concetto di specialità della procura in Cassazione che è diverso dalla specialità della procura nel merito, come predicato sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1161 del 1961 (citata ampiamente in SS.UU. 35466/2021). Nel merito, specialità significa specificità, cioè conferimento del potere a rappresentare e difendere la parte in quel singolo giudizio. In Cassazione la specialità è invece intesa nel senso di ricondurre il conferimento della procura ad una scelta consapevole e meditata della parte, che deve essere ben conscia di ciò che va a fare. Vi sono dunque degli indici attraverso i quali si estrinseca la consapevolezza della scelta della parte, e qui si apre tutta la problematica ormai nota - e si spera risolta - della collocazione topografica della procura, della data, del grado di specificità del testo della stessa etc., di cui già si è approfonditamente parlato nel primo incontro di questo ciclo. Dunque, a mio avviso, la specialità della nuova procura di cui all’art. 380 bis c.p.c. significa consapevolezza e riferibilità all’atto da compiere, per cui secondo me hanno agito bene quei colleghi che si sono premurati di inserire nella procura anche il testo della proposta. Ciò non solo garantisce la sicura riferibilità della procura alla richiesta di decisione, ma è anche utile per evitare eventuali contestazioni da parte del cliente, che non potrà dirsi non informato dei fatti processuali.
La possibilità che la sottoscrizione della procura ex art. 380 bis fosse invece dichiarata autografa dal difensore non mi ha mai convinto, per due motivi: in primo luogo perché nell’art. 83, nell’elenco degli atti che possono essere corredati dalla procura, l’istanza di decisione non è menzionata e quindi, specialmente nel giudizio di cassazione, connotato da un rigore formale superiore rispetto agli altri procedimenti, non mi sembra possibile sostenere che la procura possa accedere anche ad atti diversi dal ricorso, dal controricorso e dalla memoria di nomina del nuovo difensore. Dunque in primo luogo la procura non può essere apposta in calce all’istanza. In secondo luogo, ove anche fosse apposta in calce all’istanza, il difensore non potrebbe dichiarare l’autografia di quella firma, proprio perché egli può attestare l’autografia della firma solo quando essa si trovi sugli atti menzionati nell’art. 83. Di recente è intervenuta la Terza Sezione, con una pronuncia in cui si sente chiaro il senso di solidarietà nei confronti degli avvocati e per quale il Collegio merita di essere ringraziato. Mi riferisco alla sentenza n. 13555 del 15/05/2024. In questo caso il ricorrente aveva proposto l’istanza di decisione munito di una nuova procura speciale conferita in modo generico e depositata unitamente alla busta telematica contenente l’istanza di decisione. La Corte ritiene che il requisito della novità sia integrato dalla data successiva a quella della proposta; quello della specialità, da intendersi in questo caso come procura conferita per il compimento di un singolo atto (si parla di procura ad actum, diversa da quella ad litem di cui al 365 c.p.c., così per vero avvicinandosi più al concetto di specialità di cui all’art. 83 c.p.c.), può essere integrato dalla collocazione topografica che, in questo caso, è assicurata dalla congiunzione materiale tra procura e atto cui accede. Quanto alla possibilità di attestare l’autografia della firma, si legge: “Ritiene il Collegio, in primo luogo, che debba condividersi l’opinione che non esclude il potere del difensore di autenticare la sottoscrizione della parte relativa a tale procura e, dunque, non implica la necessità in ogni caso di una procura notarile. Anche se l’art. 83 c.p.c. non include l’istanza di decisione di cui all’art. 380 bis c.p.c. tra gli atti in calce o a margine dei quali il difensore può autenticare la sottoscrizione della parte in relazione alla procura difensiva, è possibile giungere ad escludere che sia richiesta, sempre e necessariamente, una procura notarile a tal fine, anche sulla base di una interpretazione "costituzionalmente orientata" della disposizione, in base ai seguenti argomenti sistematici: a) il rilievo che, nella legge delega sulla base della quale è stata introdotta la nuova formulazione dell’art. 380 bis c.p.c. non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione; b) la considerazione che una interpretazione eccessivamente rigorosa del suddetto requisito potrebbe costituire, in qualche modo, una ingiustificabile limitazione al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.; c) l’indirizzo consolidato secondo il quale viene comunemente ritenuta possibile l’autenticazione da parte del difensore della sottoscrizione della parte che personalmente effettua la dichiarazione di rinuncia, ai sensi dell’art. 306 c.p.c. e anche dell’art. 390 c.p.c., in calce alla rinuncia stessa, sebbene anche in tal caso non vi sia una previsione espressa che consenta tale autentica in calce a quell’atto”.
Ebbene, per quanto apprezzi lo sforzo del Collegio, non posso dirmi d’accordo. Ciò in quanto la prima argomentazione svolta non mi pare dirimente: se anche nella legge delega non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione, una volta che tale procura sia prevista, essa deve essere conforme a legge. Quanto alla seconda argomentazione, essa è certamente apprezzabile, ma a mio avviso sono ben altri i profili del nuovo filtro che ledono il diritto di difesa. In riferimento al terzo argomento, non credo che esso si attagli al caso, in cui si tratta di valutare le modalità di conferimento di un potere all’avvocato (senza contare che parte della giurisprudenza non ritiene necessaria l’autentica della firma nei casi di rinuncia) e soprattutto non risolve il problema della tipicità degli atti previsti nell’art. 83 c.p.c.
In conclusione, pur ringraziando il Collegio, io continuo a consigliare la procura notarile perché fare diversamente mi pare un modus agendi rischioso, almeno finché non vi sarà un orientamento consolidato.
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In riferimento all’applicazione dell’art. 96 c.p.c. vorrei solo evidenziare che, sebbene in molte pronunce si legga che la conferma della proposta sia idonea a radicare in capo al ricorrente una presunzione di colpa grave, vi sono pronunce che escludono l’automatica applicazione del detto art. 96 c.p.c., ritenendo che debba operarsi una valutazione caso per caso (Cass. civ., Sez. V, Sent., 19/06/2024, n. 16899; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; SS.UU.36069/2023). Sull’applicazione automatica dell’art. 96 c.p.c. segnalo invece le seguenti pronunce: Cass. civ. 33468/2023 che richiama Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433; Cass. civ., Sez. I, 11.07.2023, n. 19749; Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195.
Infine, un paio di casi degni di nota. Ci siamo molto concentrati sulla procura speciale, ma non bisogna dimenticare che è necessario proporre anche l’istanza. Segnalo, all’uopo, il decreto del 13.06.2024, n. 16562 della Sezione Terza in cui si dichiara l’estinzione del giudizio perché il ricorrente aveva depositato soltanto la procura speciale senza, tuttavia, chiedere la decisione.
Inoltre, segnalo una recente ordinanza, la n. 10131 del 15 aprile 2024. In quel caso il ricorrente, ritenendo che fosse stata dichiarata ingiustamente l’estinzione del giudizio, aveva proposto istanza per la revoca del provvedimento di estinzione. La Corte ha riqualificato la detta istanza come opposizione ex art. 391 c.p.c. dichiarandola poi inammissibile perché proposta oltre i dieci giorni.
Credo che le mie riflessioni sull’art. 380 bis c.p.c. possano concludersi qui, convinta come sono che, come si usa dire, “the best is yet to come”.
Immagine: particolare di Giacomo Balla, Velocità d'automobile (Velocità n. 1), china acquerellata su carta foderata, 1913, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.
Il 2 agosto di 44 anni fa nella Stazione di Bologna 85 persone venivano uccise e oltre 200 ferite nel più grave attentato terroristico del dopoguerra italiano.
In questo Paese siamo affezionati alla retorica dei misteri irrisolti, anche quando alcune risposte giudiziarie e storiche sono arrivate, ma forse questo costringerebbe da un lato a fare i conti con i fatti accertati e dall’altro a non potersi più accontentare di retorica e slogan, merce assai più facile da vendere al mercato delle opinioni sui media.
“A un certo punto del suo intervento Francesco Crispi aveva detto: penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come sono avvenute. Si preparava così a governare l’Italia” (L. Sciascia).
Proviamo a mettere ordine in modo sintetico ai capitoli giudiziari di questa vicenda.
Il primo processo (terminato nel 1995) è quello che portava alle condanne all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, dei neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, appartenenti ai NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari furono un’organizzazione terroristica italiana neofascista di estrema destra). Contestualmente venivano condannati per depistaggio l’ex leader della loggia massonica P2 Licio Gelli, due ufficiali del SISMI (Servizio Informazione Sicurezza Militare, il servizio segreto dello Stato italiano) ed il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI stesso).
Nel secondo processo, terminato nel 2007, è stato condannato quale esecutore materiale Luigi Ciavardini, altro esponente dei NAR, mentre il terzo capitolo giudiziario è quello che ha visto la condanna di Gilberto Cavallini nel 2020, anch’egli legato ai NAR. Durante questo terzo processo erano emersi possibili elementi di contatto fra i NAR ed i servizi segreti italiani, come dei numeri di telefono annotati da Cavallini riconducibili a una struttura del SISDE, e la presenza di due covi dei NAR in via Gradoli a Roma, dove durante il rapimento Moro erano basate le Brigate Rosse di Moretti, in entrambi i casi in stabili di proprietà di agenzie immobiliari collegate al SISDE.
Nelle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna veniva riconosciuto che i servizi segreti deviati e la P2 avevano avuto un coinvolgimento diretto nella pianificazione della strage: si era trattato di “un’operazione complessa con una micidiale sinergia volta a destabilizzare l’ordinamento democratico”.
Il quarto ed ultimo processo ha appena visto (lo scorso 8 luglio 2024) la conferma della condanna di Giovanni Bellini all’ergastolo da parte della Corte d’Assise d’Appello. L’indagine è stata condotta dalla Procura Generale di Bologna che aveva avocato questo ennesimo filone, ritenendo che Bellini (ex di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata nel 1960 e disciolta formalmente nel 1976) fosse stato tra gli esecutori della strage e avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, oltre agli ex NAR già condannati: tesi accolta in primo e secondo grado.
Bellini è una figura paradigmatica degli intrecci delle trame più oscure che hanno attraversato la storia criminale del potere in Italia: militante neofascista di Avanguardia Nazionale, ladro, assassino del giovane Alceste Campanile di Lotta Continua, latitante, infiltrato in Cosa Nostra, killer della ‘ndrangheta… indagato dalle Procure di Firenze e Caltanissetta per le stragi del 1993.
Come ha scritto Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano, questa sentenza “consolida la lettura della strage come progetto dell’intera galassia della destra neofascista”.
Il ruolo di Licio Gelli, seppure oggetto di un accertamento per così dire incidentale, non è solo quello di un depistatore, bensì di colui che diede l’impulso iniziale e fondamentale. Non è un dettaglio secondario, considerato l’elenco imbarazzante di politici, imprenditori, militari, membri dei servizi segreti e diplomatici iscritti alla loggia P2 (elenco scoperto da Gherardo Colombo il 17 marzo 1981 nell’ambito delle indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona, ovvero il banchiere e faccendiere riconosciuto come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, a proposito di intrecci torbidi…).
La recente sentenza bolognese evoca un “diritto soggettivo alla verità” che interpella tutti i cittadini nel chiederne il rispetto, ma soprattutto delinea un dovere di ricerca per le istituzioni e tra queste in primis per la magistratura.
Forse vorremmo vedere ancora “tutto più chiaro che qui” (come cantava De Gregori), ma gli approdi processuali di questa grave e cruciale pagina della storia italiana non sono briciole di cui accontentarsi, ma mattoni importanti di un percorso che peraltro non può essere delegato solo alle sentenze, ma che dovrebbe essere un patrimonio di ricostruzione della memoria collettiva condivisa.
«ll ricordare è più di un semplice riepilogo e catalogo di fatti. I ricordi che i gruppi sociali si tramandano influenzano la nostra identità sia come singoli, sia come comunità e, nel loro complesso, vengono chiamati "memoria collettiva"» (https://www.geopop.it/cose-la-memoria-collettiva-e-perche-abbiamo-bisogno-di-ricordare-insieme/).
Le sentenze della magistratura italiana, e tra queste quelle che hanno riconosciuto la responsabilità di Bellini, assumono un ruolo importante per la faticosa e necessaria ricostruzione di questa memoria collettiva.
Non ci sono quindi solo i misteri e la retorica di una verità inaccessibile, bensì un cammino faticoso ma ostinato per dare nomi alle responsabilità e per aiutarci a comprendere sempre di più le trame oscure della nostra storia (sul tema suggerisco la puntata finale de “Il buco nero”, di Flavio Tranquillo, https://video.sky.it/news/cronaca/video/il-buco-nero-puntata-8-conclusione-886673).
E come non dubitare che processi come quelli istruiti dalle Procure di Bologna e celebrati dalle Corti d’Assise non si sarebbero realizzati senza uffici del Pubblico Ministero davvero indipendenti e al tempo stesso ancorati alla cultura della giurisdizione che caratterizza la magistratura disegnata dalla Corte Costituzionale.
Forse anche questa è una delle tante riflessioni che dovremmo fare, con gratitudine verso quella parte della magistratura che ha assolto il suo compito ma anche sentendoci tutti interpellati da questo diritto-dovere alla verità.
Danni, danni a cascata nell’interdittiva antimafia illegittima (nota a CGRS n. 233/2024)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini***
Sommario: 1. Cenni sulla vicenda contenziosa e prime valutazioni; 2. Gli elementi del risarcimento del danno e interdittiva antimafia; 3. Riflessioni conclusive: garanzie necessarie ed indifferibili
1. Cenni sulla vicenda contenziosa e prime valutazioni
Le questioni relative al momento applicativo delle misure interdittive antimafia sono le più disparate e impongono una costante attenzione al fine di garantire un corretto bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti e scongiurarne l’eccessiva compressione [1].
In questa sede si vuole segnalare la recente pronuncia in materia di interdittiva antimafia illegittima e richiesta di risarcimento. In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa della regione Sicilia è stato chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da una società avverso la sentenza con cui veniva respinta la richiesta volta ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subiti in conseguenza dell’adozione dell’informazione interdittiva antimafia, successivamente annullata con sentenza del TAR Sicilia - Palermo.
Come noto, il provvedimento interdittivo antimafia emesso dalla Prefettura provocava inevitabilmente delle conseguenze negative per l’impresa destinataria, la quale impugnava detto provvedimento e ne otteneva l’annullamento dal giudice amministrativo.
L’odierna appellante, altresì, proponeva ricorso per il risarcimento dei danni subiti in costanza di interdittiva antimafia successivamente dichiarata illegittima. Il giudice di prime cure respingeva la richiesta poiché non risultavano congruamente provati i danni che si intendevano subiti.
Così, l’impresa ha inteso appellare la pronuncia, riproponendo anche i motivi che il primo giudice riteneva assorbiti, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza all’emissione del provvedimento interdittivo dichiarato illegittimo dall’autorità giudicante.
Il CGRS pronunciandosi respingeva l’appello della pronuncia appellata.
Sicché, la sentenza in commento spinge ad alcune riflessioni per le motivazioni che seguono e necessita di alcuni preliminari osservazioni in fatto al fine di coglierne la portata.
In particolare, il provvedimento interdittivo adottato dalla prefettura e, poi, annullato dal Tar veniva motivato sul presupposto che l’appellante – nonché presidente del consiglio di amministrazione - “ha stretti legami di parentela con persone pregiudicate per reati di associazione di tipo mafioso essendo nipote di: -OMISSIS- -OMISSIS-, in atto detenuto, per essere stato condannato all’ergastolo per i reati di associazione mafiosa, omicidio ed estorsione, già sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno....; -OMISSIS- - OMISSIS-, classe -OMISSIS-, deceduto nel 1997, ritenuto probabile fiancheggiatore della locale famiglia -OMISSIS-”.
Al contempo, in sede di istruttoria la Prefettura aveva emesso in favore di un’altra società una informativa favorevole, nonostante la presenza nella medesima impresa del padre dell’appellante, già destinatario - in prima persona - di provvedimenti penali.
Così, in primo grado, l’odierna appellante sottolineava la contraddittorietà della valutazione formulata dalla prefettura sui medesimi rapporti di parentela per l’una e per l’altra società ed il TAR annullava l’interdittiva emessa nei confronti dell’appellante per vizio di motivazione, in quanto risultava fondata solo su un rapporto di parentela con un soggetto considerato fiancheggiatore di una cosca locale. Inoltre, il giudice di primo grado aggiungeva come emergesse “una oggettiva ed irrimediabile insufficienza motivazionale dell’atto prefettizio, viziato pure da eccesso di potere per contraddittorietà nell’esercizio del potere: pochi anni prima, infatti, la Prefettura appellata risulta aver considerato irrilevanti, ai fini del giudizio di condizionamento mafioso, gli stessi elementi poi viceversa valorizzati in senso negativo per la appellante nell’atto qui gravato”.
Dunque, è evidente come, in questo caso (come in tante altre occasioni), la Prefettura, fondando le proprie ragioni sul principio del più probabile che non, espelle per effetto diretto delle sue determinazioni, operatori economici dal mercato, causandone la “morte economica” con effetti devastanti.
Talvolta, ponendosi dal lato prospettico del soggetto privato, è evidente come le proprie aspirazioni a vedere garantito un diritto costituzionale e la successiva estrema compressione a fronte di esigenze di sicurezza pubblica che ampliano estremamente la discrezionalità prefettizia, abbia determinato una sorta di sfiducia nei confronti del potere pubblico.
Allora, il privato che ritiene di aver subito danni ingiusti in conseguenza di un provvedimento illegittimo deve ottenere, almeno in sede giudiziaria, la possibilità di ottenerne il riconoscimento.
Un altro è il quesito che si svela: su chi ricade l’onere della prova per il risarcimento del danno che si ritiene causato da un provvedimento interdittivo antimafia illegittimo? È sull’amministrazione che ricade l’onere della prova circa le sue determinazioni oppure, come meglio si tratterà nei paragrafi seguenti, è il privato a dover provare gli elementi di responsabilità della P.a.?
2. Gli elementi del risarcimento del danno e interdittiva antimafia
Come detto, il CGRS è stato chiamato a pronunciarsi sul risarcimento del danno conseguente all’emissione del provvedimento interdittivo successivamente annullato dal TAR.
Il risarcimento del danno non costituisce ex se una conseguenza diretta ed automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo. In sede di risarcimento del danno è necessario procedere alla verifica non solo della lesione della situazione giuridica soggettiva, ma anche del nesso causale tra illecito e danno subito e, altresì, della sussistenza della colpa o del dolo dell’amministrazione.
Pare, dunque, utile soffermarsi preliminarmente sulla posizione dell’appellante che individua due indici al fine di provare la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa grave in capo all’amministrazione procedente:
- la mancata osservanza della normativa e dell’unanime giurisprudenza formatasi in relazione ai rapporti di parentela in sé considerati;
- l’incoerenza e la contraddittorietà nella valutazione delle medesime circostanze in due procedimenti differenti.
I giudici a quo ritengono, contrariamente all’orientamento del Consiglio di Stato, che i suddetti elementi devono essere provati dalla parte ricorrente e la mancanza soltanto di uno solo di essi determina l’infondatezza della pretesa.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo, al fine di addivenire alla configurazione della responsabilità aquiliana della p.a. per l’illegittimo esercizio del potere e, dunque, allo scopo di accertare l’illegittimità del provvedimento successivamente annullato, è opportuno, secondo il CGRS verificare la sussistenza di un ulteriore elemento: la “rimproverabilità soggettiva” della P.A[2].
Trattasi di elemento soggettivo che diventa di difficile individuazione posta l’ampia discrezionalità riservata all’autorità prefettizia in materia di interdittiva antimafia.
Così, si rende necessario procedere all’individuazione dei caratteri della colpa della pubblica amministrazione, con specifico riferimento alle attività amministrative nel contesto delle informative antimafia, previste agli artt. 90 ss. del d.lgs. n. 159 del 2011.
Dunque, il Collegio tenta una ricostruzione degli estremi della configurabilità della colpa dell’amministrazione in materia di provvedimenti interdittivi, ritenendo di dover considerare il fine ultimo dell’informazione ovvero quello di frontiera avanzata nel contrasto all’infiltrazione mafiosa nell’economia legale.
Sul punto è ormai consolidata la giurisprudenza amministrativa[3] che ritiene come “la misura dell’interdittiva antimafia obbedisce a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso, potendo, perciò, restare legittimata anche dal solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale”.
L’elasticità della misura è scelta consapevole del legislatore che affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “… di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società …” (art.84, comma 3, Cod. Ant.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Seppur le fattispecie considerate impongono misure elastiche, chi scrive - da tempo - auspica una maggiore partecipazione del destinatario e maggiori garanzie, al fine di evitare di trasformare la lotta alla mafia in uno stato di polizia che finisce, inevitabilmente, per bloccare l’iniziativa economia, così violando i principi fondamentali [4].
Anche i labili limiti posti dal legislatore sono da ricercare già nella scelta delle parole utilizzate: “eventuali”, “tentativi”, “probabile”, “possibile”.
Tutto ciò si riversa nell’attività degli operatori che devono applicare la norma alla fattispecie, trovandosi nella circostanza di dover fronteggiare un fenomeno molto più ampio della propria discrezionalità.
Dunque, la scelta condiziona l’intero procedimento, il quale si conclude con il provvedimento interdittivo che si allontana dalle tipiche garanzie che connotano l’agéreamministrativo. Sulla spinta di quanto detto, il Collegio fa discendere la difficile configurazione dell’elemento soggettivo nel giudizio di risarcimento del danno.
Le valutazioni del prefetto sono, dunque, volutamente opinabili: non si tratta di valutare un fatto, bensì valutare la probabilità di un determinato evento senza alcun elemento o criterio fermo e di facile individuazione. Tutto ciò finisce per mettere in difficoltà le imprese, le autorità prefettizie e, in un successivo momento, anche l’autorità giudiziaria [5].
Più volte siamo ritornati sul tema della funzione cautelare e preventiva [6] della misura antimafia, evidenziando come proprio detta natura imponga l’evasione da schemi rigidi e parametri stagnanti, incapaci di fronteggiare una realtà mutevole e camaleontica: è opportuno operare un costante bilanciamento con le garanzie di partecipazione al procedimento e per il tramite di indicatori chiari e predeterminati [7].
Pertanto, l’attività provvedimentale relativa alle informative antimafia viene configurata, dallo stesso legislatore, come attività fondata su valutazioni opinabili, in quanto relative all'apprezzamento di rischi (di possibili condizionamenti) e non all'accertamento di fatti.
L’ampiezza del perimetro in cui si muove il prefetto imporrebbe maggiori garanzie per il destinatario del provvedimento, sia in fase procedimentale che nell’eventuale successiva fase processuale. È evidente che bilanciare l’interesse privato (tutelato anche a livello costituzionale) e l’interesse pubblico al contrasto dell’infiltrazione mafiosa, sia attività tendente verso il secondo; pertanto, è necessario irrobustire l’apparato di garanzie nei confronti del primo, il quale sovente diviene semplice destinatario di un destino che, talvolta, non è il proprio.
In aggiunta, il Collegio richiama la giurisprudenza che ha evidenziato come il paradigma dell’attività provvedimentale generale sia differente dall’attività provvedimentale in materia di interdittiva antimafia e dunque, “si può quindi tracciare una essenziale divaricazione rispetto al modello dell’attività provvedimentale di carattere generale, poiché quest’ultima è strutturata e regolata dalla definizione esatta, ad opera della disposizione legislativa attributiva del potere, dei presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione, che, per quanto connotato da scelte discrezionali, resta strettamente vincolato alla preliminare verifica della sussistenza delle condizioni che ne autorizzano l’assunzione;
- l’attività provvedimentale attinente alle informative antimafia risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, di consistenza magmatica siccome attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi, ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata [8].
Invero, è dalla funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che discende l’ampiezza della discrezionalità dell’autorità prefettizia e, a cascata, gli effetti sul soggetto privato.
Allora, posti i danni che possono conseguire ad un provvedimento interdittivo pare necessario equilibrare l’ago della bilancia e prevedere maggiori garanzie per il soggetto privato che, talvolta, si trova travolto in primis dall’interdittiva antimafia e poi a cascata da ogni conseguenza ad essa connessa.
3. Riflessioni conclusive: garanzie necessarie ed indifferibili
A valle di quanto ricostruito, il Collegio ritiene che discendono due conseguenze sistemiche.
La prima è quella di sottoporre i provvedimenti prefettizi in materia di antimafia a una effettiva verifica giurisdizionale, pena la loro illegittimità costituzionale.
In effetti, con il sistema attuale, soltanto in tal modo è possibile fronteggiare l’ampia discrezionalità ovvero sottoponendo i provvedimenti antimafia ad un altrettanto ampio margine di valutazione da parte del giudice amministrativo.
Sicché, si può sostenere - come affermato più volte dalla giurisprudenza - che tale ambito “sarebbe del tutto incompatibile con la moderna configurazione dell’oggetto e della funzione del processo amministrativo, ispirato al canone dell’effettività della tutela, dotato di un sistema rimediale aperto e conformato al bisogno differenziato di tutela. La tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice un controllo penetrante in tutte le fattispecie sottoposte alla sua attenzione”[9].
Invero, prevedere un’ampiezza d’azione maggiore per la magistratura, seppur ex post, potrebbe rappresentare un momento di tutela e garanzia per il soggetto privato dinnanzi ad una estrema compressione dei propri diritti.
Secondo il Collegio, la seconda diretta conseguenza attiene alla configurabilità della colpa dell’amministrazione nell’ambito dei provvedimenti prefettizi antimafia, proprio in ragione della discrezionalità (senza confini) che deve coniugare la funzione, la natura e i contenuti dello stesso.
Allora, come sostenuto in modo consolidato dalla giurisprudenza amministrativa: “Non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione. Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n.159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art.84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso” [10].
Così, nel caso che qui ci occupa, il Collegio (e dunque come in ogni altra circostanza del medesimo genus), ritiene di invocare le cause esimenti enucleate in via generale dalla giurisprudenza per escludere la colpa dell’amministrazione nella sua libera valutazione.
In aggiunta, il Collegio intende scindere la valutazione di legittimità della informativa antimafia ed il giudizio di colpevolezza dell’amministrazione, poiché attinenti a presupposti differenti e, pertanto, non automaticamente sovrapponibili.
Il Collegio, inoltre, invoca “il beneficio dell’errore scusabile con conseguente esclusione della colpa e, quindi, della responsabilità dell’amministrazione procedente nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio probabile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate, in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la misura dell’interdittiva”.
Così, nella fattispecie in commento viene esclusa la responsabilità dell’amministrazione prefettizia, non ritenendosi fondata la doglianza della appellante, secondo cui “nel caso di specie l’Amministrazione odierna appellata ha certamente agito con negligenza ed imperizia nell’adottare il provvedimento interdittivo successivamente annullato e gravemente pregiudizievole degli interessi dell’odierna appellante, ponendo in essere un comportamento così negligente da superare la soglia della scusabilità”.
Pertanto, il giudice non ritiene fondato il motivo di ricorso, in quanto assume i rapporti di parentela della destinataria dell’informazione antimafia idonei a supportare la determinazione del provvedimento prefettizio, seppur successivamente annullato dal giudice.
Dunque, secondo il CGRS l’assunto del quadro indiziario successivamente valutato inidoneo dal giudice con diretta declaratoria di illegittimità del provvedimento non è argomento validamente spendibile e automaticamente concludente in sede di giudizio di responsabilità [11].
Non pare condivisibile la posizione del massimo organo di giurisprudenza della Regione Sicilia che contrasta con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “spetta pertanto all’Amministrazione dell’interno, in caso di informativa antimafia illegittima, provare che il proprio errore sia frutto di cause oggettive o della “complessità delle questioni da esaminare al fine di ricostruire un quadro indiziario attendibile, in presenza di diversi elementi sui quali si fondano comunemente i provvedimenti di cautela antimafia (frequentazioni, parentele, rapporti di affari, contatti da parte di soci con soggetti controindicati)” [12].
Anzi, lo stesso CGRS in altra pronuncia afferma che “la giurisprudenza ormai consolidata ha ritenuto superfluo gravare il danneggiato di un ulteriore e autonomo onere di provare l’elemento soggettivo dell’illecito, atteso che in linea di principio e ordinariamente, la colpa può ritenersi presunta una volta che sia accertata l’illegittimità del provvedimento.
Si tratta di una esemplificazione dell’onere della prova, che grava pur sempre sul danneggiato, esemplificazione che si fonda sulla duplice circostanza che il danneggiato ha già provato l’illegittimità del provvedimento e che, ordinariamente, l’adozione di un atto illegittimo costituisce di per sé un indice sintomatico plausibile di una colpa dell’apparato amministrativo.
Tale esemplificazione probatoria si traduce in una presunzione, tuttavia non assoluta ma relativa, che consente la prova contraria, con una inversione dell’onere probatorio.
Ribaltate le posizioni, spetta alla Amministrazione autrice dell’atto illegittimo dimostrare l’assenza di colpa nonostante l’adozione di un atto di cui sia comprovata l’illegittimità” [13].
Dunque, porre l’onere della prova a carico della P.a. procedente, pare più conforme ad un assetto delle posizioni pubblico- privato. La pronuncia in commento offre la possibilità di riflettere su un sistema che necessita di una urgente riforma, al fine di evitare la morte di imprese in un contesto di ripresa dell’economia del paese.
Essere destinatari di interdittiva antimafia vuol dire essere fuori da un’ampia fetta di mercato e, sovente, significa non garantire, non solo la continuità aziendale ma anche e soprattutto il lavoro ai dipendenti dell’azienda interdetta.
La pronuncia in commento si conclude con la condanna alle spese per l’appellante, così determinando l’ennesimo danno a carico dell’impresa.
Siamo sicuri che il sistema per come oggi formulato garantisce il rispetto dei principi minimi del nostro ordinamento? Siamo sicuri di poter continuare ad assistere a danni a cascata a carico di imprese che già agiscono in contesti aridi soltanto attraverso valutazioni probabilistiche e non predeterminate?
Questi problemi, insieme ad altri, impongono costante ed attenta osservazione da parte della dottrina giuspubblicistica.
*** Seppur frutto di un lavoro congiunto è possibile attribuire il 3 paragrafo al Prof. Renato Rolli e i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini
[1] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, Dura lex, sed lex. Scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, interdittive prefettizie antimafia e controllo giudiziario” in Istituzioni del Federalismo, n. 1/2022
[2] E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi (nota a sentenza: Consiglio di stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482), in Urb. app., 6/2012, 694 ss.; M.C. Cavallaro, La rilevanza dell’elemento soggettivo nella struttura dell’illecito della pubblica amministrazione: un ulteriore chiarimento del Consiglio di Stato, nota a Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in Nuove autonomie, 4-5/2005, 741 ss.; O. Ciliberti, L’elemento soggettivo nella responsabilità civile della pubblica amministrazione conseguente a provvedimenti illegittimi, in La responsabilità civile della pubblica amministrazione, E. Follieri, (a cura di), Giuffrè, Milano, 2004, 251; S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2008; F. Fracchia, L’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione, in Atti del Convegno di Varenna 2008, Giuffrè, Milano, 2009, 211; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa. Questioni attuali, Giappichelli, Torino, 2009, spec. 87 e ss; Sul risarcimento ampiamente: M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011; F. Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi; e ancora: A. G. Orofino, L’irrisarcibilità degli interessi legittimi: da giurisprudenza «pietrificata» a dogma in via d’estinzione?, in www.giustamm.it, 1999.
[3] C.d.s Adunanza plenaria n. 3 del 2018; Cons. St., sez. III, 15 settembre 2014, n.4693; Cons. St., sez. III, 1 settembre 2014, n.4441
[4] Ampiamente M.A. Sandulli, Il contraddittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, in questa rivista, 2023
[5] sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustizia insieme, 2020
[6] Cfr. A. Longo, La ‘massima anticipazione di tutela’. Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, Federalismi, n. 19/2019
[7] Cfr. R. Maria e A. Amore, Effetti «inibitori» delle interdittive antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta (5 maggio 2021), in Federalismi.it, n. 12/2021; G. D’Angelo, Il tentativo d'infiltrazione mafiosa ai fini dell'adozione dell'informazione interdittiva, tra garanzie procedimentali, tassatività sostanziale e sindacato giurisdizionale, in Foro it., 2021
[8] Cons. St., sez. III, 9 ottobre, 2023, n. 8765
[9] Cons., St., sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624
[10] Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3707/2015
[11] ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2157 del 2019
[12] Cons. St., sez. III, 5 giugno 2019, n. 3799
[13] CGRS n. 372/2020, 3 giugno 2020
La lettera dei detenuti del carcere Canton Mombello – Nerio Fischione di Brescia
di Claudio Castelli
La lettera dei detenuti del Carcere Canton Mombello – Nerio Fischione di Brescia è stata citata dal Presidente della Repubblica nel suo discorso del 24 luglio come esempio della drammatica situazione carceraria. Una citazione significativa e preziosa, perché la lettera dei detenuti del carcere di Brescia merita una lettura per la forza della denuncia (una “descrizione straziante” come ha sottolineato il Presidente della Repubblica) e per la loro scelta matura e non facile di scegliere la strada del confronto istituzionale e della protesta civile.
A fronte di condizioni insostenibili, ben rappresentate dai 60 suicidi in carcere nel solo 2024, stupisce l’inerzia sia quanto agli interventi legislativi (il recente decreto governativo non è chiaramente risolutivo), sia quanto alle iniziative amministrative.
Inerzia evidente nella situazione bresciana.
Canton Mombello è il secondo carcere più sovraffollato di Italia con 384 detenuti per 182 posti in una struttura fatiscente, con le docce sopra le latrine. Nel frattempo da anni è stato approvato un progetto per l’ampliamento dell’altro carcere di Brescia, quello di Verziano, per cui erano già stati stanziati fondi (divenuti nel frattempo insufficienti).
La situazione pareva aver avuto una svolta dopo la conferenza convocata il 27 ottobre 2023 dal sottoscritto quale Presidente della Corte di Appello, dal Procuratore Generale Guido Rispoli, e dalla Presidente del Tribunale di sorveglianza Monica Calì, per denunciare le intollerabili condizioni carcerarie e per sollecitare lo sblocco dell’inizio dei lavori a Verziano. Erano intervenuti Ministero, Comune, parlamentari e consiglieri regionali del territorio, l’avvocatura che avevano manifestato totale consonanza con l’iniziativa.
In apparenza la conferenza era stata un successo, con un impegno del sottosegretario, senatore Ostellari, che aveva assicurato che erano stati reperiti altri fondi per consentire l’ampliamento di Verziano e con una disponibilità dei politici intervenuti, di tutti gli schieramenti, ad operare per superare una situazione che tutti avvertivano come intollerabile.
Ora dobbiamo riscontrare che nonostante l’impegno della città e delle sue istituzioni tutto appaia ancora fermo e la lettera dei detenuti bresciani suoni come un appello davvero “straziante”.
Il carcere di Canton Mombello – Nerio Fischione è del tutto inadeguato ed è ben difficile che possa essere recuperato alla vivibilità con lavori di manutenzione; vanno quindi adottate con urgenza tutte le iniziative per porre termine al sovraffollamento con scelte politiche coraggiose, senza più rinvii e perdite di tempo.
Ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, evitando ulteriori ritardi ed inerzie.
Anche noi, come magistrati dobbiamo avvertire una particolare responsabilità, perché è a seguito delle nostre decisioni (misure cautelari e condanne) che un cittadino finisce in prigione. E non possiamo disinteressarci se la pena non si limita alla sola privazione della libertà, ma diventa inutilmente e gravemente afflittiva e degradante per le condizioni disumane della detenzione.
La citazione del Presidente della Repubblica ha acceso un faro su questa situazione, ma occorre darvi un seguito. La risposta deve essere data a livello politico innanzitutto prendendo misure efficaci di deflazione carceraria e per limitare i nuovi ingressi.
Spero che la lettura della lettera dei detenuti di Brescia possa essere istruttiva sia quanto alla realtà delle condizioni di detenzione, sia quanto alla maturità e dignità che vi traspare.
Chi scrive sono persone detenute, cittadini che meritano delle risposte.
LE NOSTRE RIFLESSIONI
Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch'essi di sudore come i miei panni e le nostre membra.
Si boccheggia, in cella, e l'acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d'umidità l'angusto luogo.
L'aria satura d'umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli.
Devo andare in bagno, ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il miostesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno.
Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma.
In un attimo, lenzuola e materasso s'impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito.
Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire.
La sua colpa è quella d'aver commesso un grave reato:
Bancarotta Fraudolenta.
I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L'hanno circuito, e lui, è qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell'anima, ma in fondo questo non è un nostro problema.
Il nostro problema sono gli odori.
Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando qualcosa d'incomprensibile nella sua lingua.
Probabilmente vuole mettergli le mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, è lo stress, il caldo, gli odori insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana.
È stanco arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti.
Qualcuno si alza per ragionarci, per calmarlo, ma subito l'aria s'infiamma, cominciano a volare parole grosse e i primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi,
Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi.
15 e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro è la condizione migliore, una festa, per noi, forse un po' meno.
Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne.
Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell'acqua per farsi la doccia, che d'estate scotta dannatamente, e d'inverno, è maledettamente fredda.
A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni?
In fondo però, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello.
In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno.
Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila.
Ben pensandoci però, più che mancanza d'intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza?
Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l'articolo 27 della Costituzione.
Di persone non auto sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto sopra, a malattie senili.
Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro.
E cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli Agenti per lasicurezza al personale sanitario, e che dire di quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo?
Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non.
Elevati sono i suicidi in carcere, 44 in soli cinque mesi e mezzo dall'inizio dell'anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma è quello che viviamo qui che porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono sicuramente troppe.
I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso l'anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio.
È aberrante.
Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità, definite di tortura dall'Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben spiegato.
La domanda giusta da porsi è: Come può funzionare il reinserimento? La così chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati?
Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazzi.
Sappiamo che alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto diverso.
Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero e ahinoi terribile.
Si certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno commesso reati, è altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati?
È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento.
La violenza fatta a quell'anziano prima citato, non è simile a compiere un reato, è uno dei tanti è vero, ma quanti, quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non èforse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio?
Non pensiamo sia edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla sua esistenza.
Tutti possono sbagliare, ma il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non penso che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi!
È proprio per questo che possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni.
Vedere qui oggi le Signorie Vostre per noi è fonte di speranza, voi ci rappresentate, indifferentemente dall'appartenenza politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese, l'Italia.
Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro fiore all'occhiello.
In Europa ci rimproverano (2006-2013) per il nostro sistema carcerario, perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci vive per immaginare possibili soluzioni?
Questo non vuol dire scendere a patti con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui cominciare.
Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello, il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perchè non cominciare da qui?
Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro paese venisse visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario oltre a tutto quello che di bello in Italia già c'è.
Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di Liberazione Anticipata come un fallimento dello Stato.
Noi ci chiediamo: "Perché concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone "meritevoli" sarebbe un fallimento?"
Abbiamo visto, che non è facile essere meritevoli, sappiamo, che solo chi ha fornito prova di partecipazione ad un percorso rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete, quindi, davvero sarebbe un fallimento?
Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c'è, e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono esclusi.
Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche ai suoi operatori.
Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale, passando da quello sanitario, dell'area educativa sino agli Agenti che con un giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare?
Cosi come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa.
Tutti quanti sono messi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma la loro.
Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per tutti, poiché siamo davvero tanti.
Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone, e a cosa servirebbero i Giorni aggiunti di Liberazione anticipata se non a migliorare questo sistema?
Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s'incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli.
Un ritardo voluto?
Considerazioni sulla mancata elezione di un giudice costituzionale da parte del Parlamento in seduta comune
di Francesca Biondi e Pietro Villaschi
1. Da quasi un anno ormai, la Corte costituzionale lavora a ranghi ridotti. L’11 novembre 2023 è, infatti, terminato il mandato della Presidente Sciarra e il Parlamento in seduta comune, cui la Costituzione affida l’elezione di un terzo dei quindici componenti del collegio, non ha ancora scelto il successore. Tale ritardo pare destinato ulteriormente ad aggravarsi. Andato, infatti, a vuoto anche l’ultimo scrutinio dello scorso 25 giugno, le Camere riunite si sono aggiornate a data da destinarsi.
Tra le forze politiche sembra serpeggiare l’idea di attendere la scadenza, a dicembre 2024, di altri tre giudici di nomina parlamentare (l’attuale Presidente Barbera e i vice-presidenti Modugno e Prosperetti), per procedere alla loro sostituzione in un’unica tornata. La volontà di seguire una logica “a pacchetto” è evidente spia della difficoltà delle forze politiche di trovare un accordo su un solo nome.
Come noto, per eleggere un giudice costituzionale i quorum fissati dalla Costituzione sono assai elevati (due terzi dei componenti del Parlamento in seduta comune per i primi due scrutini e tre quinti dal terzo in poi) e, dunque, un’intesa con almeno una parte delle forze di opposizione è necessaria. Anche se – va segnalato – oggi sarebbe sufficiente il “soccorso” di una decina di parlamentari di opposizione per permettere all’attuale maggioranza di scegliere “il” o “i” giudici mancanti[1].
Il rinvio dell’elezione, in altri termini, appare rivelatore della volontà di adagiarsi su una logica spartitoria, che è quanto di più lontano dal senso profondo delle maggioranze volute dalla Costituzione[2], che imporrebbero, al contrario, scelte condivise tra maggioranza e opposizione con l’obiettivo di individuare personalità di grande prestigio e competenza da far sedere a Palazzo della Consulta. Quello che se ne ricava è, come già evidenziava G. Zagrebelsky, una «concezione patrimoniale dei posti presso la Corte costituzionale»[3], da occupare con nomi che siano graditi a chi li nomina.
Non solo. Una simile scelta è gravida di ulteriori conseguenze.
Anzitutto, già da mesi la Corte costituzionale lavora con una composizione “squilibrata” e a ranghi ridotti. Mancando, infatti, un giudice di nomina parlamentare, negli equilibri interni alla Corte le altre due componenti (formate dai giudici nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature) sono numericamente prevalenti.
Inoltre, essendo l’organo di giustizia costituzionale composto da quattordici membri, il voto del Presidente diviene decisivo qualora si verifichi una situazione di parità in seno al collegio[4].
Quando ci si avvicinerà alla scadenza degli ulteriori tre giudici, tali storture si acuiranno, dal momento che questi ultimi (attuale Presidente compreso) non parteciperanno più alle udienze e alle camere di consiglio in cui si dovessero discutere cause le cui decisioni essi non farebbero in tempo a firmare[5].
Se si attenderà a eleggere il giudice mancante sino a dicembre 2024, i giudici da nominare diventeranno addirittura quattro (situazione questa mai verificatasi nella storia repubblicana), e la Corte dovrà lavorare, per un periodo più o meno lungo, con undici componenti, soglia che la legge n. 87 del 1953 individua come limite minimo affinché la Corte stessa possa funzionare. Si prefigurerebbe, quindi, il rischio che l’inerzia del Parlamento si spinga sino a determinare la paralisi dell’organo supremo di giustizia costituzionale. Prosaicamente, basterebbe un’influenza che colpisca uno degli undici giudici rimasti in carica e tale scenario diverrebbe realtà.
In definitiva, il ritardo nella scelta dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune si risolve in una lesione di quel principio di leale collaborazione che dovrebbe presiedere i rapporti tra gli organi dello Stato: subordinando l’adempimento di un dovere costituzionale ai tempi e alle alchimie della politica, il Parlamento espone il collegio al rischio di funzionare a ranghi ridotti e squilibrati, se non, addirittura, di paralizzarsi[6].
2. Allargando lo sguardo rispetto alla contingente vicenda, va ricordato che l’individuazione del meccanismo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale e le problematiche connesse al possibile ritardo da parte delle Camere nella sostituzione dei posti vacanti non costituiscono una novità di questi ultimi anni. Si tratta, al contrario, di questioni dalle radici antiche, che impegnano la riflessione costituzionalistica sin dalle origini[7].
In principio, l’art. 135 della Costituzione e, soprattutto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 del 1953, regolavano l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale per mano del Parlamento in seduta comune in modo diverso da quello attuale.
Anzitutto, era richiesta la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti dei presenti negli scrutini successivi al terzo. Si trattava, quindi, di quorum più bassi rispetto a quelli odierni, ma che, comunque, richiedevano un’ampia convergenza (non fu considerata la proposta, pure avanzata in dottrina[8], di non prevedere alcuna maggioranza qualificata)[9].
Ma soprattutto, per quello che qui più interessa, differente era il sistema di rinnovo delle cariche.
L’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, optò, infatti, per un rinnovo parziale della Corte costituzionale, con l’obiettivo di assicurare il più possibile la sua indipendenza dalle forze politiche che avevano avuto modo di partecipare alla sua prima elezione. E così, era previsto che il mandato dei giudici durasse dodici anni, ma anche che, tra i giudici nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte, due per ciascuna componente (scelti mediante sorteggio dalla Corte stessa) sarebbero stati rinnovati anticipatamente decorsi nove anni, mentre i restanti nove sarebbero stati sostituiti al termine del dodicennio. Quanto ai rinnovi successivi, la disposizione conteneva un comma di dubbia interpretazione (definito in dottrina un “rompicapo”[10]), in quanto stabiliva: «successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni». Insomma, la legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, presupponeva il rinnovo contestuale dei giudici costituzionali in due “blocchi” di sei e nove e, per quanto riguarda il Parlamento in seduta comune, prefigurava, l’elezione contestuale di due giudici (dopo nove anni di attività della seconda formazione) e di tre giudici (dopo dodici anni). Questo sistema, che, nelle intenzioni del legislatore costituzionale, avrebbe determinato a regime un rinnovo scaglionato nel tempo, poteva tuttavia in concreto funzionare solo se tutti i giudici avessero terminato il mandato alla data prestabilita[11]. Invece, ben dieci giudici su quindici, per varie ragioni, si dimisero prima, tanto che ci si chiese se, per assicurare il funzionamento del congegno previsto dal legislatore del 1953, i giudici che fossero eletti in sostituzione di un giudice dimessosi anticipatamente, dovessero restare in carica per l’intero mandato oppure per il tempo residuo del mandato del giudice che venivano a sostituire.
In generale, comunque, l’obiettivo di tale complesso sistema era quello di evitare una scadenza in blocco di tutti i giudici costituzionali e di consentire, al contrario, un rinnovo parziale in tempi differenti e prestabiliti. La scelta di anticipare la scadenza di sei giudici (due di nomina presidenziale, due di nomina parlamentare, due scelti dalle supreme magistrature) mirava, inoltre, all’obiettivo di impedire proprio la logica delle nomine “a pacchetto” di più di tre giudici contemporaneamente: in altre parole, stante la disciplina originaria, non sarebbe stato possibile per il Parlamento - come accade invece oggi - procrastinare le nomina dei giudici per arrivare a eleggerne ben quattro in un’unica tornata.
Tuttavia, il meccanismo delineato dal legislatore del 1953 risultò eccessivamente rigido, complicato e di difficile applicazione pratica, tanto da sollevare, sin dal principio, più di una riserva[12]. Particolarmente significativo è che, nel settembre del 1963, il Presidente della Repubblica Segni abbia inviato un messaggio alle Camere con il quale criticava duramente proprio il sistema prefigurato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, che, riprendendo le parole del Capo dello Stato, nel disciplinare il rinnovo dei membri della Corte, poteva «produrre gravi inconvenienti», con particolare riferimento alla «durata variabile e incerta della nomina». Segni invitava, pertanto, le forze politiche ad abrogare, quanto prima, siffatta disciplina, per tornare al modello delineato originariamente dalla Costituzione, che prevedeva più semplicemente un mandato di dodici anni decorrente dalla data del giuramento[13].
Tali inviti furono recepiti pochi anni più tardi con l’approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha modificato l’art. 135 Cost.
Anzitutto, si decise di innalzare i quorum necessari per l’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, richiedendo la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti negli scrutini successivi al terzo (art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 1967). Tale ampliamento delle maggioranze necessarie per l’elezione dei giudici costituzionali è spiegato, in dottrina, con la volontà di “spoliticizzare” ancora di più la scelta dei giudici costituzionali di nomina parlamentare. È però anche possibile collegare l’allargamento delle maggioranze necessarie per eleggere i giudici costituzionali da parte delle Camere riunite con l’abrogazione del meccanismo di rinnovazione parziale-contestuale “a blocchi” previsto proprio dalla legge costituzionale n. 1 del 1953 e poc’anzi descritto.
Con la riforma del 1967, infatti, l’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953 fu abrogato per introdurre un meccanismo, più lineare, che sancisce oggi il rinnovo parziale e progressivo di tutti i giudici della Corte costituzionale al venire meno dei singoli mandati: questi, senza distinzioni, rimangono quindi in carica per nove anni decorrenti dalla data del rispettivo giuramento e alla scadenza del termine cessano dall’ufficio e dalle funzioni esercitate sino a quel momento senza poter essere rinominati (art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha riscritto l’art. 135 Cost.). Non è, quindi, prevista alcuna forma di prorogatio e, dunque, quando un giudice termina il proprio mandato, il suo posto rimane vacante sino alla nomina del sostituto.
Una norma transitoria ha poi fissato in dodici anni - decorrenti dalla data del giuramento - la durata del mandato dei giudici nominati prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1967, chiarendo che anche a questi ultimi si sarebbe applicato l’art. 135, comma 4, Cost., in base al quale alla scadenza del mandato i giudici costituzionali cessano dalle loro funzioni.
Il meccanismo entrato in vigore nel 1967 e mai più modificato prevede, quindi, un rinnovo parziale e continuo dei giudici costituzionali allo scadere dei rispettivi mandati novennali. Non è esclusa, in linea puramente teorica, una perfetta coincidenza nella scadenza dei mandati, ma si tratta di un’ipotesi limite, tanto è vero che nella prassi i vari giudici non scadono mai tutti insieme.
Queste previsioni vanno poi coordinate con l’art. 16, comma 2, della legge n. 87 del 1953, che stabilisce che la Corte non può funzionare con meno di undici giudici e con l’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che richiede il rinnovo della carica vacante entro il termine (come sappiamo rivelatosi meramente ordinatorio) di un mese.
3. Il sistema vigente, più funzionale rispetto a quello originariamente previsto, ha sin qui consentito il costante rinnovo parziale della Corte costituzionale: quando un giudice termina il mandato, quale che sia la ragione, può essere immediatamente sostituito.
Ci sono stati, per la verità, ritardi, anche consistenti, nella nomina dei giudici della Corte costituzionale di elezione parlamentare[14]. Basti ricordare che, per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli, ci vollero ben undici mesi; nel caso del giudice Caianiello, addirittura venti mesi; nel caso di Guizzi e Mirabelli, diciassette mesi; per Vaccarella, ben diciotto mesi[15].
In anni più recenti, però, la sensazione è che il rinvio dell’elezione sia stato sempre più spesso “voluto” per avere un “pacchetto” di cariche da coprire nella stessa tornata: talvolta, l’elezione del giudice costituzionale mancante è stata favorita dal fatto che le Camere o il Parlamento in seduta comune erano chiamati a eleggere i componenti di altri organi (il Csm, ad esempio); in altri casi, invece, come nel 2015, si attese che ben tre fossero i giudici della Corte da eleggere così da favorire un accordo in sede parlamentare (in un’unica tornata furono eletti i giudici Barbera, Modugno e Prosperetti).
Anche oggi, la direzione verso cui ci si sta orientando è quella di attendere la scadenza di altri tre giudici per nominarne quattro tutti insieme alla fine del 2024.
Se, quindi, il ritardo nella nomina dei giudici costituzionali da parte del Parlamento è una costante della storia repubblicana, la novità va rinvenuta nel numero elevato di giudici da eleggere contemporaneamente e, forse, nelle ragioni che sottostanno al rinvio.
Sono infatti ormai venute meno alcune risalenti convenzioni costituzionali che, pur rispondendo a logiche “spartitorie”, avevano quantomeno il pregio di regolare i rapporti tra le forze politiche, riducendo il rischio di stalli eccessivamente lunghi (e potenzialmente pericolosi per il funzionamento stesso dell’organo di giustizia costituzionale) e l’individuazione da parte della maggioranza di tutti (o quasi) i candidati da eleggere. Nel corso della c.d. Prima repubblica, si era affermata una convenzione costituzionale secondo la quale due giudici spettavano alla Democrazia cristiana, uno al Partito socialista, uno al Partito comunista ed uno ai partiti laici minori (liberale e repubblicano) a rotazione[16]. Pertanto, quando terminava il mandato un giudice indicato, ad esempio, dalla Democrazia cristiana, si provvedeva subito (o quasi) a sostituirlo con altro indicato dallo stesso partito, e così via.
In seguito, seguendo una logica “maggioritaria”, il Parlamento ha inaugurato una prassi differente, in base alla quale erano eletti due giudici indicati dalla maggioranza e due dall’opposizione “a blocchetti”, mentre il quinto giudice era indicato dalla maggioranza “del momento” con il gradimento dell’opposizione secondo una logica bipartisan[17].
Negli ultimi anni, si assiste ad una rottura di qualunque prassi pre-definita: le forze di maggioranza, se hanno i numeri, tendono a scegliere candidati a loro più graditi, eventualmente riservando all’opposizione un posto. In questa logica, avere più posti da coprire favorisce accordi anche dentro la maggioranza.
Oltre alle conseguenze già segnalate, si può ipotizzare che questa prassi non favorisca la scelta di personalità di ampio e condiviso prestigio: un conto, infatti, è trovare un accordo su uno o più nomi condivisi, sulla cui competenza nessuno può obiettare, altro è dividersi previamente i posti da coprire e lasciare a ciascun partito la scelta del “suo” candidato.
4. Non è un caso che diversi siano stati, in dottrina, i rimedi prospettati per provare a ovviare all’inerzia parlamentare[18].
Il primo è quello di un messaggio formale alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, al fine di richiamarle all’osservanza dei propri doveri istituzionali. Il 7 novembre 1991 il Presidente Cossiga, nell’inviare un messaggio, si spinse a minacciare lo scioglimento anticipato nel caso di perdurante inerzia del Parlamento in seduta comune. Il messaggio sortì l’effetto sperato, visto che in meno di una settimana si procedette all’elezione dei giudici mancanti. Tuttavia, la minaccia di scioglimento anticipato pare davvero una soluzione limite e rischia, peraltro, di rivelarsi un’arma spuntata, non potendo garantire che le Camere procedano in tempo utile all’elezione dei giudici[19].
Richiami da parte dei Presidenti della Repubblica nella loro funzione di garanti della regolarità del funzionamento delle istituzioni non sono comunque mancati: dal messaggio di Segni del 16 settembre 1963, a quello di Ciampi del 26 febbraio 2002, al comunicato di Napolitano del 3 ottobre 2008, alle recentissime parole espresse il 25 luglio 2024 dal Presidente Mattarella in occasione della Cerimonia del Ventaglio.
Qualora il ritardo si dovesse spingere sino a rischiare di compromettere il funzionamento stesso della Consulta, è stata prospettata la possibilità che la Corte stessa, prima che la paralisi si verifichi, sollevi di fronte a se stessa un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento in seduta comune, in cui si accerti la menomazione della propria sfera di attribuzioni a causa dell’inerzia parlamentare; in quella sede, la Corte potrebbe, in ipotesi, anche auto-sollevarsi una questione di costituzionalità sulla disposizione (che però è di rango costituzionale, ossia l’art. 135, comma 4, Cost., così come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 1967) che vieta la prorogatio dei giudici costituzionali, per violazione del principio supremo dell’ordinamento che richiede la piena e costante operatività dell’organo di giustizia costituzionale[20].
Si è anche ragionato della possibilità di introdurre l’istituto della prorogatio con revisione costituzionale, modificando appunto l’art. 135, comma 4, Cost. Trattasi di una soluzione che, per un verso, scongiurerebbe il rischio di paralisi, dall’altro, però, potrebbe ulteriormente dilatare i tempi di sostituzione dei giudici, determinando nei fatti un allungamento del mandato di quelli scaduti ben oltre i limiti temporali tracciati dalla Costituzione[21].
Una ulteriore modifica consisterebbe nell’abbassamento del quorum di funzionamento della Corte oggi previsto dalla legge n. 87 del 1953. Si tratta di un requisito fissato in una legge ordinaria, che in ipotesi potrebbe essere abbassato a 10 per evitare che l’inerzia del Parlamento blocchi l’attività della Corte costituzionale: quand’anche tutti e 5 i membri di nomina parlamentare mancassero, vi sarebbero, infatti, quelli di nomina presidenziale e quelli eletti dalle supreme magistrature. Tale soluzione avrebbe, però, l’inconveniente di legittimare la prassi secondo cui l’organo supremo di giustizia costituzionale può lavorare a ranghi ridotti e con una composizione “squilibrata” e potrebbe aggravare la tendenza a procrastinare la scelta dei giudici da parte del Parlamento.
Ancora, è stata prospettata l’ipotesi di una modifica costituzionale che consenta, in via eccezionale, di avocare il potere di nomina in capo al Presidente della Repubblica e/o alle supreme magistrature o ancora alla stessa Corte costituzionale[22].
In dottrina si è infine ragionato della possibilità che il Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, convochi le Camere riunite e faccia ripetere ininterrottamente gli scrutini fintanto che non si arrivi ad una scelta condivisa, così da imporre l’adempimento di un preciso dovere costituzionale fissato dall’art. 135 Cost. In questo modo, si ritiene che, giocoforza, i gruppi parlamentari sarebbero costretti ad addivenire ad un accordo, eventualmente preceduto da una rosa di nomi che possa essere discussa tra le forze politiche[23].
5. Per concludere, il ritardo che le Camere stanno perpetuando nella scelta dei giudici costituzionali costituisce uno “strappo” del “tessuto costituzionale”, cui sarebbe necessario porre rimedio al più presto.
La Costituzione, nel definire la composizione e le modalità di scelta dei componenti della Corte costituzionale non detta, infatti, solo regole operative, ma delinea un preciso equilibrio, che mira a garantire il funzionamento dell’intero sistema di giustizia costituzionale.
Che il Parlamento, titolare della funzione legislativa e depositario della rappresentanza politica nazionale, si spinga a compromettere questo equilibrio, è atto che si pone ai limiti della scorrettezza istituzionale nei confronti di un organo, la Corte costituzionale, deputato a garantire proprio l’osservanza della Costituzione. È un po’ come se il “controllato” mettesse in discussione la legittimità e l’operatività del “controllore”, subordinando le regole costituzionali alle contingenze e alle alchimie della politica.
Non può, quindi, che auspicarsi che il Parlamento si decida ad ovviare alla propria inerzia.
L’attivazione, infatti, dei rimedi sopra prospettati costituirebbe il segno dell’incapacità delle forze politiche di cogliere il senso profondo delle regole fissate in Costituzione, che richiedono, anzitutto, che i rapporti tra i poteri dello Stato siano improntati al principio di leale collaborazione, così che l’intero sistema costituzionale si mantenga in equilibrio e possa funzionare fisiologicamente.
[1] La maggioranza di centro-destra è, infatti, complessivamente pari a circa 350 parlamentari, e la maggioranza dei tre quinti del Parlamento in seduta comune è poco più alta, ossia 360 componenti.
[2] Cfr. A. Pugiotto, «Se non così, come? E se non ora, quando?» Sulla persistente mancata elezione parlamentare di un giudice costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 22 ottobre 2008, 1-14.
[3] G. Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, 74.
[4] Cfr. art. 17, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[5] Lo evidenzia P. Faraguna, Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri, in LaCostituzione.info, 19 febbraio 2024.
[6] Evenienza questa peraltro verificatasi, per un breve periodo, nel 2002, quando la Corte dovette rinviare un’udienza per mancanza del numero legale. In quell’occasione i giudici vacanti per ritardo del Parlamento erano “solo” due, cui però si aggiunsero un giudice assente per lutto, uno per incompatibilità, uno per malattia, come ricorda M. Torrisi, La Consulta senza numero legale per la prima volta in quarantasei anni, in Dir e giur., 13/2002, 39.
[7] Sul punto, nella dottrina più risalente, si vedano G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione (A proposito delle modalità di elezione da parte del Parlamento dei giudici della Corte costituzionale), in Riv. it. sc. giur., 1954, 97 ss.; L. Elia, Durata in carica e prorogatio dei giudici costituzionali, in Giur. it., 1966, IV, 330 ss.; A. Pizzorusso, Art. 135, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1981, 147 ss.; R. Pinardi, Il problema dei ritardi parlamentari nell’elezione dei giudici costituzionali tra regole convenzionali e rimedi de jure condendo, in Giur. cost., 2003, 1819 ss. Più di recente, cfr. le acute riflessioni di A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quaderni costituzionali, 2/2024, 411-414.
[8] Ad esempio, da S. Galeotti, Sull’elezione dei giudici costituzionali di competenza del Parlamento, in Rass. dir. pubbl., 1954, 56 ss.
[9] Ricostruisce il dibattito in merito F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, La nuova Italia, Firenze, 1996, 85 ss.
[10] In questi termini A. M. Sandulli, Intervento, in G. Maranini (a cura di), La giustizia costituzionale, Vallecchi, Firenze, 1966, 428.
[11] Evidenzia tale criticità F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., 86.
[12] Cfr., sul punto, C. Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 1962, 970; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 987.
[13] V. il Messaggio del Presidente della Repubblica sulla elezione e la nomina dei giudici della Corte costituzionale e sulla non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, in Il Foro Italiano, n. 86/1963, 73-76. Di particolare interesse lo scambio di missive tra il Presidente Segni e il Prof. L. Elia antecedenti alla formulazione del messaggio, che ora possono leggersi nel volume Antonio Segni e i giuspubblicisti Carteggio sui poteri del Presidente della Repubblica, a cura di S. Mura, FrancoAngeli, Milano, 2024.
[14] Come ricorda A. Pugiotto, Come e perché, cit., 413.
[15] In quell’occasione, vi fu addirittura un’iniziativa di Marco Pannella, che per protestare contro il ritardo del Parlamento, iniziò un lungo sciopero della sete, accompagnato da un appello del 5 ottobre 2008, sottoscritto da ben 506 parlamentari, con cui si chiedeva al Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, di convocare le Camere riunite a oltranza “fino al formarsi delle decisioni necessarie”.
[16] Cfr. A. Pizzorusso, Art. 135, cit., 151 ss.; ed anche J. Luther, I giudici costituzionali sono giudici naturali?, in Giur. cost., 1991, 2478 ss.
[17] Su cui R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819 ss.; U. Spagnoli, I problemi della Corte. Appunti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1996, 20 ss.
[18] Sul punto, cfr. R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855; G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss.; A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 1-14.
[19] V. la ricostruzione di R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1840.
[20] Cfr., sul punto, le considerazioni di A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 12-14. Rileva una serie di criticità di questa soluzione R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1835-1836.
[21] Sui rischi e sui benefici dell’estensione della prorogatio ai giudici costituzionali, cfr. A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 13. Si segnala che, originariamente, la prorogatio era prevista dall’art. 18 del regolamento generale della stessa Corte costituzionale, che stabiliva che ciascun giudice restasse in carica «fino alla data del giuramento del giudice chiamato a sostituirlo».
[22] Su queste ulteriori soluzioni cfr. sempre R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855.
[23] Soluzione questa prospettata da G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss. e ripresa da A. Pugiotto, Come e perché, cit., 414.
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