ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nuova circolare sulla organizzazione degli uffici di procura. Il punto di arrivo di un percorso difficile
di Giuseppe Cascini
Il Consiglio Superiore della Magistratura nella seduta del 3 luglio 2024 ha approvato il nuovo testo della circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura.
Si è trattato di un intervento dovuto in attuazione delle disposizioni introdotte dall’articolo 13 della legge 17 giugno 2022 n.71 e dall’art. 4 del decreto legislativo 28 marzo 2024 n.44.
La riforma, nota a livello giornalistico come “riforma Cartabia” (ma in realtà su questo argomento la prima proposta fu avanzata durante il Ministero Bonafede), si è posta in netta controtendenza rispetto all’impianto della riforma “Castelli” del 2006, la quale aveva fortemente accentuato il carattere unitario e gerarchico delle procure e aveva drasticamente ridotto i poteri di verifica e di controllo da parte degli organi di governo autonomo sulle scelte organizzative del dirigente dell’ufficio.
Con la novella del 2022, infatti, viene reintrodotta la cd. “tabellarizzazione” degli uffici di procura: i provvedimenti organizzativi degli uffici requirenti, al pari di quelli degli uffici giudicanti, rientrano nel circuito di valutazione/approvazione da parte degli organi di governo autonomo.
Di qui la necessità di una nuova circolare, parallela a quella sulle tabelle degli uffici giudicanti.
Si completa, così, con la riforma del 2022 e la approvazione della nuova circolare, un percorso avviato all’indomani della approvazione della riforma Castelli, con le risoluzioni consiliari del 2007 e del 2009, e poi con la circolare del 2017, modificata nel 2020, finalizzato a mantenere le scelte organizzative degli uffici di procura all’interno di un circuito di valutazione da parte degli organi di governo autonomo.
A leggere il dibattito che ha accompagnato la riforma e la approvazione della nuova circolare si ha l’impressione che non vi sia una piena consapevolezza da parte di molti commentatori (e anche di alcuni protagonisti) della importanza della novità (re)introdotta dalla riforma del 2022.
Tanto è vero che il dibattito si è incentrato per lo più su aspetti marginali, o di costume, quali la necessità di raccogliere le opinioni dei magistrati dell’ufficio nella assemblea (istituto che è sempre stato previsto da tutte le circolari organizzative storicamente approvate in materia e che risponde banalmente alle regole minime di buona organizzazione di strutture complesse), riproponendo una contrapposizione tutta “ideologica”, sovente anche a prescindere dal dettato della normativa primaria e secondaria, tra i fautori della piena libertà e autonomia dei sostituti da un lato e i fautori del “potere assoluto” in capo al procuratore dall’altro. Una polarizzazione che dura da decenni (e sulla quale alcuni hanno costruito la loro identità e le loro piccole carriere) e che rende impossibile (o estremamente difficile) ogni approccio di tipo razionale.
Con la delibera del 3 luglio 2024 il Consiglio ha deciso di procedere ad una integrale riscrittura del testo della circolare, che aumenta in dimensioni (da 29 a 65 pagine) e in numero di articoli (da 47 a 86).
Molte disposizioni sono state ricollocate in altri articoli, in alcuni casi senza variazioni, in altri con variazioni formali e stilistiche, in altri ancora con variazioni anche di contenuto sulla cui portata sarà necessario un approfondimento di riflessione.
Questo metodo rende certamente difficile il lavoro dell’interprete e dell’operatore, che è costretto ad esercitarsi in una nuova versione del gioco “trova le differenze”, non sempre utilissimo. Inoltre, le modifiche formali o di stile, anche se migliorative, possono porre problemi sul piano interpretativo, in quanto impongono di interrogarsi sulle ragioni di una modifica e sulla sua portata rispetto alla interpretazione formatasi sul testo previgente.
Sarebbe pertanto auspicabile, per il futuro, provare a garantire una certa stabilità dei testi normativi, lasciando inalterato l’impianto e limitandosi ad introdurre solo le modifiche ritenute necessarie sul piano dei contenuti.
Un esempio può essere utile a capire. Nella circolare previgente, modificata sul punto nel 2020, l’art.7 lettera c) prevedeva espressamente che i criteri di assegnazione degli affari da esplicitare nel progetto organizzativo dovessero individuarsi preferibilmente sulla base di meccanismi automatici. Nella nuova circolare all’articolo 11 comma 3 n.11 si mantiene come contenuto necessario del progetto la individuazione dei criteri di assegnazione degli affari, ma la precedente dizione è sostituita dalla seguente: con espressa specificazione dei procedimenti e delle tipologie di reato per i quali i meccanismi di assegnazione sono di natura automatica. Nella relazione alla nuova circolare nulla si dice riguardo a tale innovazione, per cui l’interprete è costretto ad interrogarsi in merito al significato della nuova previsione e alla eliminazione dell’avverbio preferibilmente. Ad una prima lettura sembrerebbe doversi prendere atto del passaggio da una indicazione di preferenza per il metodo automatico di distribuzione degli affari ad una manifestazione di indifferenza, essendo solo necessario specificare in quali casi si adotti un tale meccanismo.
Va detto, però, che anche nella nuova circolare è previsto l’obbligo del dirigente di assicurare l’equa e funzionale distribuzione del carico di lavoro (articolo 15 comma 2), nonché, tra i principi generali, un dovere di imparzialità e di trasparenza nell’attività dell’ufficio (articolo 1 comma 2).
Appare difficile immaginare la predeterminazione di criteri generali di distribuzione degli affari diversi dal criterio automatico che siano ugualmente idonei a garantire l’equa e funzionale distribuzione del carico di lavoro e ad assicurare un esercizio trasparente dell’azione del dirigente.
Inoltre, va sottolineato che tra le previsioni della circolare è rimasto l’obbligo di adeguata motivazione dei provvedimenti di assegnazione degli affari in deroga ai criteri generali. Disposizione che è chiaramente scritta pensando ad un criteriogenerale di distribuzione automatica degli affari e alla sua deroga in casi particolari, con uno specifico provvedimento adeguatamente motivato.
Probabilmente, quindi, i criteri automatici di distribuzione degli affari, peraltro inseriti negli applicativi informatici cui molte procure fanno ricorso, continueranno ad essere il criterio generale prevalente in tutti gli uffici, così come è stato anche negli anni più bui della riforma Castelli.
Resta un po’ di amaro per la abolizione di quell’avverbio che per molti di noi, che abbiamo vissuto gli anni in cui le procure erano davvero uffici verticali, è stato per molto tempo una vera e propria chimera.
Passando all’esame di alcune delle più significative modifiche introdotte con la nuova circolare, si segnalano quella relative alla figura del sostituto procuratore che viene espressamente disciplinata dall’art. 8, la introduzione di specifici criteri per la assegnazione dei magistrati alle unità organizzative (art.10), una dettagliata disciplina in materia di comunicazioni e informazioni dai sostituti al procuratore; una più analitica disciplina del procedimento di revoca della assegnazione di un procedimento al sostituto.
Nella nuova circolare compare, per la prima volta, una disposizione specifica sul sostituto procuratore. Le disposizioni, introdotte con l’articolo 8, intitolato appunto “Il sostituto procuratore”, non dicono moltissimo, ma servono certamente ad attribuire una collocazione del sostituto all’interno dell’ufficio. Sicuramente significativo è il richiamo alla partecipazione alla organizzazione dell’ufficio secondo canoni di leale collaborazione, in quanto sottolinea il fatto che il contributo alla elaborazione del progetto organizzativo è un onere del sostituto, prima ancora che un suo diritto e ci ricorda che tutti i magistrati, non solo i dirigenti, sono responsabili della organizzazione e del buon funzionamento degli uffici.
La tabellarizzazione del modello organizzativo delle procure si fa sentire molto nelle disposizioni dettate dall’art. 10 della circolare in tema di mobilità interna. La nuova disciplina, infatti, sulla falsariga di quanto previsto dalla circolare sulle tabelle degli uffici giudicanti, impone di indicare nel progetto organizzativo i criteri per la individuazione dei posti vacanti da pubblicare; le modalità di presentazione delle domande; i criteri di assegnazione; i criteri per le assegnazioni di ufficio.
Da segnalare, ancora, le innovazioni introdotte agli articoli 20 e 21 in tema di comunicazioni e oneri informativi. L’articolo 20 prevede la possibilità per il procuratore di indicare atti, diversi da quelli per i quali è previsto il visto preventivo, dei quali il sostituto deve dare comunicazione al procuratore aggiunto o al procuratore, successivamente al loro compimento. Si tratta di disposizione utile ad assicurare una conoscenza sulle iniziative dell’ufficio da parte dei dirigenti, senza appesantire l’attività dei sostituti, mediante l’eccessivo ampliamento delle ipotesi di “visto”. L’articolo 21, invece, recepisce le variegate ipotesi conosciute dalla prassi sotto forma di obblighi di “riferire”, “conferire” etc., prevedendo che il procuratore o il procuratore aggiunto possono individuare, al momento della assegnazione o anche successivamente, i procedimenti per i quali è opportuna una periodica interlocuzione informativa. Pensiamo, ad esempio, ad una indagine per omicidio, per la quale, al di là delle previsioni sul visto o sull’assenso per la adozione di specifici atti, può essere utile e opportuna una interlocuzione tra il sostituto e il procuratore o il procuratore aggiunto.
L’articolo 23 della nuova circolare disciplina in maniera completa l’istituto della revoca della assegnazione, aggiungendo le nuove ipotesi previste dalla legge per i casi di violazione degli obblighi imposti dal cd. “codice rosso”. Per il resto, ma sul punto torneremo tra un attimo nel commento agli emendamenti non votati, le disposizioni in materia sono rimaste sostanzialmente invariate. Da segnalare, infine, l’articolo 26 che, colmando una lacuna della precedente circolare, prevede la sostituzione, con provvedimento motivato del procuratore, del magistrato che versi in una delle situazioni previste dall’art. 36 lett. a), b), d) e) c.p.p., che impongono la astensione.
Da segnalare, infine, la abolizione della disposizione contenuta nella precedente circolare che prevedeva, all’articolo 9, una procedura semplificata per la adozione dei provvedimenti attuativi. Tali provvedimenti, infatti, in quanto meramente esecutivi (non modificativi) dei criteri indicati nel progetto, dovevano essere comunicati direttamente al CSM, senza passare dal Consiglio Giudiziario, se riguardanti le assegnazioni ai gruppi ovvero se incidenti sulla assegnazione dei procedimenti, mentre in tutti gli altri casi la trasmissione al CSM da parte del procuratore o del magistrato interessato era facoltativa.
Nella nuova circolare non vi è più traccia di una tale disposizione. L’inserimento nel comma 3 dell’articolo 12, che disciplina le variazioni del progetto organizzativo, di una disposizione che prevede la immediata esecutività dei provvedimenti di assegnazione dei magistrati alle unità organizzative induce a ritenere che tale tipologia di provvedimenti attuativi sia oggi da considerarsi a tutti gli effetti (salva la previsione della immediata esecutività) come variazioni al progetto organizzativo. Restano dubbi, invece, con riferimento agli altri provvedimenti attuativi, ed in particolare a quelli, particolarmente delicati, in materia di assegnazione degli affari, non espressamente richiamati nelle disposizioni dell’articolo 13.
In assenza di una disposizione espressa sul punto si corrono due rischi opposti: o una deregulation di tutta la materia dei provvedimenti attuativi, ivi compresi quelli in tema di assegnazione degli affari, che non sarebbero più sottoposti nemmeno ad obbligo di comunicazione al CSM ovvero una iperregolazione derivante dalla riconduzione al procedimento tabellare (comunicazione ai magistrati/osservazioni/parere Consiglio Giudiziario/approvazione CSM) di tutti i provvedimenti attuativi del progetto organizzativo adottati dal procuratore (ivi compresi, solo per fare qualche esempio: tutti i turni di udienza e dei servizi; ogni sostituzione di un magistrato designato per una udienza o per un servizio; ogni cambio di qualsiasi turno di servizio, anche se concordato dagli interessati etc.).
Merita, infine, di essere segnalato il contenuto di tre emendamenti presentati in Plenum e dichiarati inammissibili dal Vicepresidente.
Con il primo emendamento si proponeva di inserire nella disposizione relativa al pubblico ministero (articolo 8) la seguente frase: Al singolo sostituto è garantita la sfera di autonomia professionale, di dignità e di responsabilità decisionale per le funzioni esercitate in conseguenza dell'assegnazione del procedimento.
Il secondo emendamento interveniva sull’articolo 20 in tema di “visti”, chiarendo che in caso di perdurante contrasto il procuratore o l’aggiunto appone il visto, dando atto, con separato provvedimento, delle interlocuzioni intervenute.
Il terzo emendamento incideva sull’esito del procedimento di verifica della legittimità del provvedimento di revoca della assegnazione, introducendo l’annullamento del provvedimento di revoca da parte del CSM nei casi di insussistenza dei presupposti, di violazione delle regole procedimentali o di incongruità della motivazione della revoca prevista dai commi 1 e 6.
Gli emendamenti, come si diceva, non sono stati posti in votazione in quanto dichiarati inammissibili.
Dall’ascolto della seduta le ragioni della dichiarazione di inammissibilità risultano essere le seguenti:
Dalla lettura degli emendamenti emerge che questi intendono modificare la disciplina della circolare in maniera sostanziale e in punti qualificati. Essi determinano una fuoriuscita dal perimetro dell’assenso nei termini esposti nella prima parte della missiva a me trasmessa dal Presidente della Repubblica e di cui ho dato lettura alla scorsa seduta di plenum. Infatti, questi emendamenti appaiono non conformi al quadro normativo secondo quanto indicato proprio dal Presidente della Repubblica.
Sembrerebbe di cogliere una ragione di metodo e una ragione di merito.
Nel metodo si è ritenuto che gli emendamenti si ponessero al di fuori del perimetro dell’assenso espresso dal Presidente della Repubblica sull’ordine del giorno.
Nel merito si è ritenuto gli emendamenti fossero non conformi al quadro normativo.
Entrambe le ragioni non appaiono condivisibili.
Sul piano del metodo la fuoriuscita del contenuto degli emendamenti dal perimetro dell’assenso del Presidente della Repubblica doveva essere colmata, come è sempre avvenuto nella prassi, sottoponendo anche gli emendamenti all’assenso del Presidente. In questo modo si sarebbe salvaguardato il potere di controllo preventivo della Presidenza sulla legalità delle deliberazioni del Plenum senza però privare i componenti della assemblea plenaria che non facciano parte della commissione proponente della possibilità di intervenire sul testo sottoposto alla assemblea.
Quanto al merito va premesso che l’articolo 48 del regolamento interno[1] non contempla tra le ipotesi di inammissibilità degli emendamenti la eventuale contrarietà degli stessi a norme primarie. In ogni caso l’affermazione secondo la quale gli emendamenti proposti non sarebbero conformi al quadro normativo non appare condivisibile.
Il primo emendamento richiamava letteralmente il contenuto di una decisione delle Sezioni Unite della Cassazione in merito ai rapporti tra il procuratore e i sostituti, che peraltro risponde ad un principio pacifico sul piano costituzionale e della normazione primaria. Nessuno, infatti, ha mai sostenuto che le disposizioni in materia di unitarietà degli uffici di procura e di uniformità della loro azione dovessero determinare una compressione della autonomia e della dignità professionale dei sostituti, essendosi anzi sempre sostenuto il contrario, e cioè che quelle previsioni erano compatibili con l’autonomia dei sostituti e con la loro dignità professionale.
Il secondo emendamento si limitava a codificare una prassi consolidata nella gran parte degli uffici di procura.
Invero, che l’esito della interlocuzione sul visto informativo debba concludersi, nel caso in cui il sostituto ritenga comunque di adottare il provvedimento, con la apposizione del visto, salvo i casi di revoca della assegnazione o di rinuncia alla assegnazione da parte del sostituto, sembrerebbe dato acquisito nella prassi degli uffici. A ragionare diversamente si finirebbe, infatti, per attribuire al visto informativo una funzione uguale a quella dell’assenso, ma per ipotesi diverse da quelle previste dalla legge. Non c’erano dunque ragioni per non esplicitarlo nella circolare. Anzi si sarebbe trattato di un chiarimento utile.
Per quanto riguarda, infine, la revoca della assegnazione è la disposizione approvata, identica sul punto a quella della circolare previgente, ad apparire in contrasto con la normativa primaria per come è stata modificata con la riforma del 2022, che ha abolito del tutto l’istituto della presa d’atto con rilievi da parte del CSM di provvedimenti organizzativi in contrasto con la normativa primaria e secondaria, sostituendolo con il ben più incisivo istituto della approvazione/non approvazione.
I criteri e le modalità per la revoca delle assegnazioni sono contenuto essenziale del progetto organizzativo (art. 1 comma 6 lett. e) del d.lvo 106/2006 come modificato dall’art.13 della legge n.71 del 2022). La abolizione, con la nuova circolare, come si è detto sopra, di una disciplina semplificata dei provvedimenti attuativi, impone di considerare il provvedimento di revoca come una variazione del progetto organizzativo, andando ad incidere sui criteri di assegnazione degli affari con la sottrazione del procedimento all’originario legittimo assegnatario. Ed è sicuramente un provvedimento che deve essere sottoposto alla verifica del CSM, come espressamente previsto anche dall’art.23 della nuova circolare.
Non sembra, perciò, compatibile con il nuovo sistema di controllo dell’organo di governo autonomo sui provvedimenti organizzativi degli uffici di procura, la previsione, come esito del procedimento di verifica, di una presa d’atto con rilievi nei casi di ritenuta insussistenza dei presupposti, di violazione delle regole procedimentali o di incongruità della motivazione della revoca.
È del tutto evidente che in questi casi (insussistenza dei presupposti, violazione delle regole procedimentali, incongruità della motivazione) il provvedimento deve essere annullato (rectius non approvato), così come accade per tutti gli altri provvedimenti del dirigente che presentino vizi del genere. La presa d’atto con rilievi era l’esito, voluto dalla legge previgente, per il procedimento di verifica su tutti i provvedimenti organizzativi del dirigente. E per questo anche la verifica sulla revoca si concludeva, nel previgente regime, con una presa d’atto. Ma una volta (re)introdotta la disciplina della approvazione/non approvazione di tutti i provvedimenti organizzativi del procuratore, davvero non si capisce come possa conservarsi in vita, al di fuori di qualsiasi previsione di legge, un unico caso, in cui la accertata (da parte del CSM) illegittimità di un provvedimento del procuratore (insussistenza dei presupposti, violazione delle regole procedimentali, incongruità della motivazione) non produce alcuna conseguenza sulla efficacia del provvedimento.
[1] Art. 48 Proponibilità e ammissibilità degli emendamenti, degli ordini del giorno e delle proposte all’esame del Consiglio 1. Sono improponibili emendamenti, ordini del giorno e proposte che sono estranei all’oggetto della discussione o formulati in termini sconvenienti. 2. Sono inammissibili emendamenti, ordini del giorno e proposte in contrasto con deliberazioni già adottate dal Consiglio nel corso della medesima discussione, oppure privi di ogni effettiva portata modificativa rispetto all’oggetto principale cui si riferiscono. 3. Il Presidente della seduta può altresì stabilire che gli emendamenti intesi ad apportare correzioni di mera forma siano discussi e votati, per alzata di mano, in sede di coordinamento finale.
Immagine: U.S. Patent Office, National Portrait Gallery, Smithsonian Institution.
Una stupefacente decisione dei giudici federali della F.I.S. e una nuova concezione del (non) habeas corpus
di Maurizio Fumo
A stunning decision by F.I.S. federal judges and a new understanding of (non) habeas corpus
(nota alla decisione della corte federale di appello della federazione italiana scherma, depositata 26/1/2024, nel procedimento 2/2023 CFA)
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ABSTRACT: La corte federale di appello della federazione italiana scherma ha confermato la condanna di un maestro di scherma, accusato di avere violentemente rimproverato una sua allieva minorenne e di averla aggredita fisicamente, afferrandola per gli indumenti e scuotendola energicamente. I giudici tuttavia hanno ritenuto di non esaminare la ragazza partendo dal presupposto, non dimostrato ma meramente ipotizzato, che la stessa, se interrogata, non avrebbe detto il vero, perché in stato di shock postraumatico per la presunta aggressione subita. La giovane atleta non è stata neanche convocata in giudizio. Tali decisioni sono commentate negativamente in quanto basate su petizione di principio ed espressive di un evidente cortocircuito logico. Esse, oltretutto, rischiano di costituire un pericoloso precedente.
Keywords: maestro di scherma – aggressione verbale e fisica – vittima minorenne – testimonianza – shock postraumatico – mera presunzione dei giudici – rifiuto di ammettere la testimonianza della presunta vittima – petizione di principio – pericolo del precedente.
ABSTRACT: The Federal Court of Appeal of the Italian Fencing Federation confirmed the conviction of a fencing master who was accused of violent rebuke against a minor girl fencer and of physical aggression. Indeed, according to the indictment, he grabbed her fencing uniform shaking it vigorously. Despite this, the judges thought it was useless to question the girl, because she would not have correctly described what happened. In fact they thought she had suffered post-traumatic shock. But this was a simple assumption, made by people not qualified as psychologists. Moreover the young athlete was not even summoned to the hearing. The author of the article comments negatively on such decision, as he thinks it is based on a petition of principle and on a logical short circuit. There is the risk that a dangerous judicial precedent may be established.
Keywords: fencing master – verbal and phisical aggression – minor victim – witness statement – posttraumatic shock – mere presumption of the judges –refusal to admit the alleged victim’s testimony – principle petition – dangerous judicial precedent.
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il fatto – 3. In dettaglio: la decisione del primo giudice, ovvero nolo cognoscere – 4. Il reclamo – 5. La decisione in secondo grado, ovvero diabolica perseveratio – 6. Considerazioni finali.
1. Premessa
Non è consueto che il commento a una decisione di un giudice sportivo “chieda ospitalità” ad una rivista sulla quale si disquisisce di diritto penale sostanziale e processuale.
Tuttavia tanto il contenuto quanto la motivazione della decisione del 26 gennaio 2024, assunta dalla corte federale di appello della FIS nel procedimento 2/2023 CFA, entrano in così palese e frontale conflitto con i principi che regolano qualsiasi procedura di accertamento di responsabilità, che “il caso” merita di essere segnalato (e commentato) quali che siano la natura e i poteri del giudicante e a prescindere dalla specifica procedura che lo stesso è (o sarebbe) obbligato ad osservare.
D’altra parte, è pur vero che i “codici” delle varie federazioni rimandano, per quanto non specificamente previsto, al codice di procedura civile (cfr., per la FIS, “regolamento di giustizia”, art. 1 comma 7), tuttavia è indubbio che i rispettivi procedimenti disciplinari siano modellati sul codice di rito penale (iniziativa ad opera della Procura federale, indagini preliminari, ricusazione e astensione dei giudici, potere del giudice di assumere prove o indicare mezzi di prova da esperire, patteggiamento, revisione, incidenza del giudicato penale ecc.), così come è riconoscibile la derivazione dal diritto penale sostanziale di non pochi istituti dei codici sportivi (circostanze attenuanti e aggravanti, recidiva, prescrizione, amnistia, grazia, indulto ecc.). D’altronde è frequente leggere nelle decisioni dei giudici sportivi espliciti riferimenti alla giurisprudenza penale di legittimità. Per di più, i predetti testi normativi recano a chiare lettere l’impegno alla osservanza del principio del giusto processo (art. 1, comma 3 del sopra indicato “regolamento di giustizia” della federazione scherma). In ogni caso, tutti dovrebbero osservare, applicare e rendere operanti i principi della Costituzione repubblicana. Anche dunque (e persino!) i giudici sportivi della federazione italiana scherma.
Tanto premesso, è necessario procedere con ordine perché risalti in tutta la sua singolarità l’operato dei giudici federali.
2. Il fatto
Il maestro di scherma[1] Numerio Negidio (usiamo il formulario del diritto romano per coprire la reale identità di un signore le cui generalità sono state oscurate per volere della Corte) è stato accusato di aver maltrattato, nel corso di una gara, una sua allieva quattordicenne, che chiameremo Aula Ageria (diritto romano ecc.).
A suo carico la Procura della federazione italiana scherma (FIS) ebbe a formulare il seguente capo di incolpazione:
A) nella giornata di OMISSIS, il maestro OMISSIS incitava l’atleta OMISSIS, di anni 14, da lui allenata, in modo veemente, aggressivo, inadeguato al contesto ed all’età della ragazza, proferendo altresì durante la gara parole ingiuriose nei confronti della ragazza, che appariva visibilmente scossa;
B) nella giornata di OMISSIS, lo stesso maestro reiterava la condotta del giorno precedente, incitando l’atleta suddetta, da lui allenata, in modo veemente, aggressivo, inadeguato al contesto ed all’età della ragazza, proferendo altresì durante la gara parole ingiuriose nei confronti della ragazza, che appariva visibilmente scossa; il maestro, inoltre - hanno precisato alcuni testimoni - scuoteva l’atleta in modo forte continuando ad urlare e ponendole altresì le mani sul volto; tanto in violazione di plurime violazioni della normativa federale, e segnatamente dell’art. 2 del regolamento di Giustizia della FIS, nonché degli artt. 5 e 11 dello statuto della FIS e degli artt. 6 e 10 del Codice Etico della FIS, degli artt. 2, 5 e 7 del Codice di Comportamento Sportivo emanato dal CONI, nonché dell’art. 3 del regolamento SAFEGUARDING POLICY della FIS; il tutto con le aggravanti di cui all’art. 31 lett. a e b.
Ora, a parte la singolarità di aver inserito nel capo di incolpazione un accenno, per quanto ermetico, a una fonte di prova (“hanno precisato alcuni testimoni”), resta il fatto che l’addebito, per come contestato, appare piuttosto generico. Peccato veniale, per altro, dal momento che, nel corso del procedimento, l’incolpato ha potuto apprendere di quali espressioni ingiuriose lo si accusava e quale condotta violenta gli veniva addebitata.[2]
Dalla lettura della decisione di primo grado, si deduce che, durante una gara di scherma riservata agli adolescenti, il maestro Negidio, insoddisfatto del rendimento sportivo della sua allieva, la avrebbe apostrofata in malo modo e anche insultata, a voce alta e con espressioni volgari; l’avrebbe poi strattonata, afferrandola per la “bianca divisa da scherma”; avrebbe infine avvicinato il suo volto a quello della ragazzina e (forse) avrebbe tentato (o simulato) di morderle il collo (o una guancia). Da ultimo, il Negidio avrebbe intimato alla giovane atleta (in lacrime) di salire sugli spalti e di attenderlo lì. Non contento, raggiunta la povera Ageria, avrebbe continuato a inveire contro di lei. Tali deplorevoli condotte, in base alla originaria accusa, sarebbero state tenute in entrambi i giorni in cui si era sviluppato il torneo schermistico (l’episodio verificatosi sugli spalti, per vero, il secondo giorno).
Riconosciuto colpevole del secondo episodio e “assolto” dal primo, al maestro fu applicata la sanzione di 130 giorni di sospensione “da ogni attività federale” (così il dispositivo letto all’esito del giudizio). Con successivo provvedimento integrativo, il tribunale federale, avvertito del fatto che aveva irrogato una sanzione inesistente (pena illegale!), corresse il suo decisum, aggiungendo tra parentesi, dopo la parola “sospensione”, la parola “squalifica”.
3. In dettaglio: la decisione del primo giudice, ovvero nolo cognoscere.
“Alcuni testimoni”, per quel che si legge nel capo di incolpazione e nella decisione di primo grado, furono individuati in due arbitri di gara e in tre appartenenti alla Polizia di Stato, che, incaricati (questi ultimi) di guidare i pulmini messi a disposizione degli atleti del gruppo sportivo Fiamme Oro, si intrattenevano, durante i tempi morti, sul luogo di gara. Già da tali affermazioni si deduce che esistevano anche “altri testimoni”, tenuti – tuttavia – in scarsa considerazione dai giudicanti.
Per una migliore comprensione dei fatti, va chiarito che una gara di scherma, durante le fasi eliminatorie, vede la presenza contemporanea su più pedane di varie coppie di schermitori (schermitrici, nel nostro caso). Ciascun “assalto” è giudicato da un arbitro che, avvalendosi delle segnalazioni fornite dall’apparecchiatura elettrica, dirige lo scontro e assegna le stoccate e, dunque, determina il punteggio e attribuisce la vittoria a uno dei due (una delle due) contendenti.
Nel caso in esame l’arbitro che dirigeva lo scontro ebbe a riferire di non aver notato alcun comportamento anomalo da parte del maestro Negidio, precisando che i maestri di entrambe le atlete incitavano, da bordo pedana, le rispettive allieve, fornendo loro consigli. Il tono di voce era elevato, anche per la necessità di sovrastare i rumori di fondo che caratterizzano lo svolgimento di ogni competizione schermistica.
Altri arbitri, viceversa, (i due predetti “testimoni”) resero dichiarazioni ben diverse, addebitando al maestro Negidio le condotte poi sintetizzate nel capo di incolpazione sopra trascritto. Costoro, ovviamente, erano meno vicini ai protagonisti della vicenda rispetto al loro “collega” che aveva diretto l’assalto e, tuttavia, come premesso, riferirono fatti e particolari, negati dal primo “teste”.
Quanto ai poliziotti, essi resero dichiarazioni non completamente coincidenti, ma, nel complesso, affermarono di aver notato il comportamento improprio, aggressivo, scomposto e minaccioso del maestro Negidio; aggiunsero di aver chiesto spiegazioni ad alcuni arbitri che avrebbero riferito loro che il maestro in questione non era nuovo a simili performance. Sul punto, a quanto si apprende, essi approntarono relazione di servizio, nella quale, tuttavia, gli addebiti mossi al maestro risultano alquanto attenuati, anche perché gli appartenenti alla Polizia di Stato giustificarono il fatto di non essere intervenuti assumendo che nulla di penalmente rilevante era avvenuto in loro presenza.
Il direttore di torneo (soggetto diverso dai singoli arbitri e sul quale grava il compito della intera organizzazione della gara), che si trovava fisicamente lontano dal luogo nel quale si sarebbero verificati i fatti, riferì che uno degli arbitri (sempre uno dei due “testimoni”), informandolo dell’accaduto, esclamò: “se avessi sentito l’insulto, gli avrei dato il cartellino nero”. Se ne dovrebbe dunque dedurre che l’insulto egli non lo percepì.
Nella fase delle indagini, condotte, ovviamente, dalla Procura federale, fu (doverosamente) ascoltata anche la giovane atleta, alla presenza della madre. La ragazza negò che il maestro Negidio avesse tenuto la condotta che gli veniva addebitata. La madre (in altro contesto istruttorio) chiarì che, come sua abitudine, non aveva mai perso d’occhio la ragazza durante la gara e, con particolare riferimento a quanto accaduto sugli spalti, negò recisamente, a sua volta, che il maestro avesse inveito contro la figlia. Durante una pausa della gara, secondo il suo racconto, tutti (scil: ella stessa, la figlia, le altre giovani atlete, i genitori delle stesse e il maestro di scherma) erano andati a pranzo insieme, in un clima disteso e amichevole.
Nel corso del parallelo procedimento penale, attivato su iniziativa del maestro Negidio, che aveva proposto querela per diffamazione nei confronti dell’autore della segnalazione, furono sentiti dal difensore dello stesso, nel corso delle investigazioni difensive (dunque ai sensi dell’art. 391 bis e ss. c.p.p.), proprio i genitori delle altre atlete; tutti negarono di aver assistito a intemperanze verbali da parte del maestro di scherma o a condotte aggressive tenute dallo stesso.[3]
Tale materiale probatorio fu reso disponibile per i giudicanti sportivi.
Ebbene, in presenza di un così evidente contrasto tra le deposizioni, il tribunale federale decise che non era il caso di sentire la versione della giovane Ageria.
Questa la motivazione esibita sul punto: “In merito alle dichiarazioni rese dall’atleta OMISSIS, dopo corretta ed approfondita analisi, questo Collegio ritiene che le affermazioni della giovane sportiva confermano il convincimento circa la responsabilità dell’incolpato perché dimostrano come le stesse siano la reazione conseguente alla portata traumatica dell’episodio. In tale contesto l’atleta: (i) nega i fatti: in nessuna occasione della manifestazione mi ha dato della stupida sentono [tuttavia: NDR] direttamente frasi offensive, tra cui sei una testa di cazzo oltre a darle della scema e della stupida, cinque persone OMISSIS; gli stessi testi confermano che il maestro OMISSIS si avvicina al corpo dell’Atleta prendendole il volto/collo tra le mani quando le urla le frasi offensive; (ii) riferisce [il soggetto ora è nuovamente la ragazza NDR] che giustamente, da maestro, ha il compito di farle capire dove sbaglio …. il tono di voce era alto perché attorno a noi c’erano tantissime persone … In tale contesto è chiaro che la vittima dell’abuso psicologico non percepisce la condotta lesiva della propria dignità”.
Ora, a parte la non felicissima struttura sintattica del periodo (dopo “nega i fatti” il cui soggetto è l’atleta, la frase riprende, senza segno di interpunzione e con un cambio di soggetto: “sentono direttamente i fatti ecc.” e solo, alla fine del periodo si comprende di chi si sta parlando, vale a dire: cinque persone, poi il soggetto ritorna ad essere la giovane schermitrice), resta da capire quale sia stata l’analisi (che lo stesso giudicante qualifica come approfondita e, con immotivata autovalutazione, “corretta”) e, principalmente, in base a quali competenze tecnico-scientifiche essa sia stata condotta. Le dichiarazioni cui si riferisce il brano della motivazione appena trascritto sono quelle (appena sopra ricordate) che la ragazza rilasciò il 9.5.2023, in fase di indagini, in quanto, come più volte chiarito, il tribunale prima (e la corte poi) non hanno ritenuto di convocarla e ascoltarla. Particolare non da poco, Ageria, rese le predette dichiarazioni al procuratore federale, non solo in presenza di un avvocato, ma (come pure si è detto, ma è il caso di ribadirlo), essendo minore, anche in presenza della madre.
Insomma: qui si va molto oltre la (a volte necessaria) finzione del giudice peritus peritorum; qui si ipotizza addirittura il giudice aruspice, indovino, sciamano, vale a dire il giudice fornito di qualità divinatorie che gli consentono di valutare l’attendibilità di una persona, senza averla ascoltata, esaminata e nemmeno vista e, sia detto per inciso, ma nemmeno troppo, senza avere alcuna qualificazione professionale per diagnosticare disturbi psicologici, alterazioni emotive et similia.
È insomma evidente che il principio einaudiano del “conoscere per deliberare” non è condiviso dal tribunale federale FIS, che ritiene di poter deliberare senza conoscere.
La petizione di principio, per altro, è evidente: il quod erat demonstrandum (la inattendibilità di Ageria, perché quasi plagiata dal suo maestro, non meno della connivenza della madre), diventa la base “logica” (si fa per dire) della demonstratio. In altre parole: A) per sposare la tesi accusatoria, è necessario che sia smentita la ricostruzione dei fatti che la diretta interessata potrebbe esporre, B) per ritenere smentita tale ricostruzione, occorrerebbe esaminare la diretta interessata, accertandone la inattendibilità, ma C) poiché la diretta interessata è da presumere inattendibile, non occorre esaminarla e quindi D) la tesi accusatoria è fondata.
Una fantastica (fantasiosa?) scorciatoia probatoria, potremmo dire; e infatti, dopo la prova storico-fattuale, dopo la prova logica, dopo le presunzioni legali, dopo le massime di esperienza, il tribunale sportivo introduce una nuova categoria di prova, vale a dire – appunto – la petizione di principio.
Sembra l’applicazione al rovescio di un consolidato assunto elaborato dalla giurisprudenza penale di legittimità, in base al quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, previa verifica (corredata da idonea motivazione) della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto; verifica che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.[4]
Nel caso che occupa, la situazione è inversa, ma, per così dire, parallela. Ma dove sono la previa verifica e la idonea motivazione? La prima manca del suo oggetto vale a dire le dichiarazioni (in dibattimento) della presunta vittima dell’abuso; la seconda è meramente apparente.
4. Il reclamo
Contro la decisione di primo grado ha proposto reclamo, tramite il Difensore, il maestro Numerio Negidio, deducendo, innanzitutto, la intrinseca contraddittorietà della motivazione, atteso che, riguardo al primo episodio, egli si è visto prosciogliere senza alcuna giustificazione motivazionale. Ciò è stato ritenuto - nel reclamo - particolarmente rilevante in quanto le fonti di accusa sono le medesime che hanno convinto i giudicanti della colpevolezza del maestro in ordine al secondo episodio. Dunque sarebbe stato necessario che il tribunale avesse chiarito perché in un caso “alcuni testimoni” sono stati, evidentemente, giudicati poco credibili e, nell’altro, perché le dichiarazioni provenienti dalle medesime persone, pur contraddette da altre, sono state poste alla base della decisione che ha ritenuto fondato l’addebito.
Quanto alla sanzione si faceva notare che la “sospensione” era sanzione inesistente, che la tardiva “correzione” del dispositivo era irrituale e che, conseguentemente, in danno di Numerio Negidio nulla era stato correttamente deciso.
Peraltro, sotto il profilo che in questa sede maggiormente interessa, la Difesa del reclamante aveva scritto che le espressioni utilizzate dal tribunale per descrivere le (presunte) condizioni psicologiche della giovane atleta sottendono “quello che la scienza medica qualifica come disturbo post traumatico da stress, individuato qui dal Tribunale nella sua forma più grave che è la negazione dell’evento. E tuttavia, si tratta di un accertamento che può essere condotto soltanto da psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili o altre figure professionali appartenenti dell’area sanitaria autorizzate a formulare diagnosi clinica. Concludendo sul punto che, “in assenza di diagnosi proveniente da soggetto abilitato, al giudicante era, ed è, precluso formulare affermazioni gravi quale quella contenuta nella decisione reclamata”.
In altre parole: su quali basi e con quali competenze, voi giudicanti (il collegio era composto da tre avvocati) avete - di fatto - emesso una diagnosi di disturbo postraumatico a carico della giovane schermitrice, cui è seguita la decisone di non ammetterla a testimoniare sulla vicenda che direttamente la riguardava? Il tutto senza averla nemmeno vista.
Naturalmente è stata formulata richiesta istruttoria di ascoltare – finalmente – la presunta vittima.
Di fronte ad una richiesta così stringente, precisa e determinante ci si sarebbe aspettati una risposta puntuale, dettagliata, compiutamente argomentata e una coerente decisione di ammettere finalmente la signorina Ageria a fornire la sua versione dei fatti.
E invece.
5. La decisone in secondo grado, ovvero diabolica perseveratio.
La corte di appello federale ha solo in parte accolto il reclamo del maestro di scherma. Ha innanzitutto sostenuto che avere (il tribunale) utilizzato l’espressione “sospensione” invece di “squalifica” è stato un mero errore materiale e che, da un punto di vista sostanziale, la squalifica comporta una sospensione. Dunque si poteva, sul punto, annullare e “correggere” la decisione di primo grado (il giudice sportivo può farlo). Per altro, la corte ha rimodulato in melius la sanzione (100 giorni di squalifica, invece di 130).
Ma sul punto relativo alle presunte competenze psichiatrico-psicologiche dei giudicanti di primo grado, la corte è stata quanto mai evasiva, sostenendo, come si può leggere nella decisone che si annota: “questo collegio ritiene di dover riesaminare le risultanze istruttorie, che appaiono già idonee e tali da offrire una ricostruzione completa delle vicende che sono oggetto del procedimento in corso, senza accogliere l’istanza istruttoria del reclamante di rinnovare l’audizione della minorenne atleta ….”.
Ora, a parte il fatto che “rinnovare l’audizione” appare espressione del tutto impropria, in quanto Ageria, come si è ampiamente premesso, non è mai stata “audita” nella fase del giudizio, resta il fatto che, con una giustificazione motivazionale, più che apparente, inesistente, i giudici di secondo grado hanno eluso quella che era la principale censura formulata dal reclamante, avallando, in tal modo, il grave cortocircuito logico che aveva afflitto la prima decisione.
Al proposito è agevole ribadire che il procedimento disciplinare sportivo presenta evidenti analogie col processo penale; e allora, forse, non è del tutto fuori luogo “una incursione” chiarificatrice nel codice di rito penale, il cui art. 603 prevede - come è noto - che, quando l’appellante richiede l’assunzione di nuove prove, il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.[5] Nel caso di specie, infatti come ormai detto e ripetuto, la “nuova” prova invano richiesta era nientemeno che l’esame della presunta persona offesa, pretestuosamente omesso dal primo giudicante.
In un procedimento “normale” (civile o penale) nessun giudice avrebbe osato fare a meno di tale audizione, tanto che l’eventuale mancanza costituirebbe valido motivo di ricorso per cassazione (art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., art. 606 comma 1 lett. d c.p.p.). Ma nel procedimento disciplinare sportivo – a quanto pare – tutto è possibile, anche “l’invenzione”[6] di criteri di valutazione della prova (rectius: di esclusione di una prova per non valutarla).
Orbene, le domande (retoriche) che poniamo per l’ennesima volta (il lettore ci scuserà) sono: è mai possibile che il giudice decida di non esaminare la presunta persona offesa? È mai possibile che ciò faccia in presenza di versioni contraddittorie provenienti dagli altri testi? E - principalmente - è mai possibile che il giudice si arroghi la competenza ad emettere una diagnosi psicologica, per altro senza aver avuto alcun contatto con la persona nei cui confronti emette la diagnosi?
A queste domande la corte di appello federale non fornisce alcuna risposta, in questo sottraendosi a un suo preciso dovere, in quanto il giudicante dovrebbe indicare le emergenze procedimentali determinanti per la formazione del proprio convincimento, così da consentire l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata.[7]). E, se pure non è necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese, è tuttavia richiesta una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita delle stesse, senza lasciare spazio a una valida alternativa. Il fatto è, tuttavia, che, come ampiamente premesso, l’impugnante aveva lamentato nientemeno che l’omessa audizione delle presunta persona offesa, audizione che i giudici (di primo e secondo grado) hanno ritenuto inutile (e, forse, potenzialmente inquinante) perché avevano “deciso” che la stessa non era (né sarebbe stata) credibile.
Il che, è il caso di dire, ha dell’incredibile!
In sintesi i giudici di appello, secondo quanto si deduce dal testo stesso della loro decisone, hanno qualificato come corretta la motivazione del primo giudicante pur in presenza di non trascurabili divergenze tra diverse narrazioni, senza ritenere necessaria (rectius: indispensabile!) l’audizione della principale “spettatrice” (e presunta vittima minorenne) delle malefatte addebitate al maestro Negidio, ipotizzando (ma su quali basi? e in virtù di quale competenza tecnico-scientifica?) la presenza di fattori distorsivi mnestici e/o emotivi che avrebbero inquinato la sua deposizione, se mai fosse stata assunta. Ma il tutto, si badi bene, semplicemente a seguito a un esame delle “carte”, senza aver avuto (neanche essi) alcun contatto diretto con la ragazza, oggetto delle presunte intemperanze del maestro di scherma.
Sembrerebbe allora il caso di invocare il principio dell’habeas corpus, non solo in vantaggio dell’accusato, ma anche nei confronti della vittima (o presunta tale).
Insomma: non siamo semplicemente in presenza di “sentenze sportive” (quella che si annota e quella che l’ha preceduta) criticabili (come tutte le sentenze): non si tratta solo di non condivisibili ricostruzioni dell’accaduto e nemmeno di discutibile applicazione di principi di diritto o di massime di esperienza. Si tratta, appunto e come anticipato, della invenzione di un nuovo (e stupefacente!) criterio di valutazione a-valutativa e del conseguente canone decisorio.
6. Considerazioni finali
Se Numerio Negidio, maestro di scherma, abbia effettivamente tenuto nei confronti della sua allieva la condotta descritta nel capo di incolpazione è questione che, almeno in questa sede, non rileva affatto.
Ciò che rileva e che ci ha spinto a commentare la decisione della corte di appello federale della FIS e, di riflesso, quella del relativo tribunale, è il principio di diritto che, non sappiamo quanto consapevolmente, viene affermato in relazione all’ascolto della persona offesa (o presunta tale) e in relazione alla sua capacità/possibilità di ricordare un presunto episodio psichicamente traumatico.
Trattandosi di decisione che potrebbe “fare giurisprudenza” (ma chi scrive si augura il contrario), proviamo a estrarre una massima che cristallizzi il principio di diritto elaborato dai giudicanti. In tal modo emergerà, con ancora maggiore evidenza, la natura davvero singolare della decisione assunta (e reiterata) dai giudici chiamati a decidere “un caso” tutt’altro che infrequente nella prassi giudiziaria: il contrasto tra diverse deposizioni testimoniali.
Ebbene “il principio di diritto” potrebbe essere il seguente:
“In tema di mezzi di prova, è corretta la valutazione negativa delle dichiarazioni che la persona offesa - se fosse ascoltata - potrebbe rendere, atteso che il giudice, pur senza aver avuto contatto alcuno con la stessa, può desumerne aliunde la inaffidabilità sulla base del disturbo cognitivo post traumatico subito dalla vittima, disturbo congetturalmente diagnosticabile dal giudicante stesso.”
Il medesimo concetto potrebbe essere espresso anche così:
“È corretta la decisione del giudice che, nel selezionare il materiale probatorio sul quale fondare la sua decisione, scelga di non ascoltare la persona offesa, sul presupposto che la stessa - in quanto vittima di disturbo cognitivo post traumatico, diagnosticato dal giudice stesso sulla base di una mera presunzione – affermerebbe il falso o comunque negherebbe il vero. (In motivazione si sostiene implicitamente la inutilità di un contatto diretto, quanto meno visivo, tra giudicante e persona offesa, attesa la presupposta inattendibilità delle dichiarazioni che la stessa potrebbe rendere).”
Ma nulla vieta di adottare, in alternativa la seguente formula:
In tema di prove, il giudice non è tenuto ad ascoltare la persona offesa, né ad avere con la stessa contatto alcuno, quando, sulla base di sua insindacabile opinione, ritenga aprioristicamente che essa, in quanto vittima di disturbo cognitivo postraumatico - non accertato da soggetto professionalmente qualificato, ma diagnosticato dallo stesso giudicante – negherebbe l’accaduto, contraddicendo quanto affermato da altre persone presenti ai fatti.”
Quale che sia la “massima” che si intende scegliere (si tratta di costrutti verbali diversi, ma che esprimono il medesimo concetto), appare di tutta evidenza che ci si trova di fronte ad asserzioni surreali, in quanto si è deciso di affermare la responsabilità dell’incolpato, non solo prescindendo dalla parola della presunta persona offesa, ma, addirittura, negando a quest’ultima il diritto di parola.
Dunque una decisione “a prescindere”, come avrebbe detto uno dei più grandi comici del secolo XX, nei cui confronti, evidentemente, i giudicanti sportivi non hanno voluto essere da meno. Tuttavia tale decisione non predispone al buon umore. Invero, si parva licet componere magnis, è inevitabile pensare che, come nel pessimistico capolavoro di Orwell[8] è presente la psicopolizia, così sembrerebbe che negli organi di giustizia della federazione italiana scherma si stia facendo strada la figura professionale degli psicogiudici.
[1] Si diventa, in Italia, maestri di scherma, conseguendo il relativo diploma presso l’Accademia Nazionale di Scherma, ente costituito nel 1861, cui, a far tempo dal 1880, in base al regio decreto datato 21.11.1880, fu assegnato il compito di esaminare e, appunto, diplomare gli aspiranti al conseguimento di tale titolo professionale. Si sono poi succeduti altri interventi dell’autorità statale che, anche previo parere del Consiglio di Stato, hanno sempre confermato tale prerogativa in capo all’Accademia. Da ultimo, nell'ambito delle iniziative volte a completare e rafforzare il mercato del lavoro interno, la direttiva 2013/55/UE, recepita nel d.lgs 15/2013, che, riformulando la direttiva 2005/36/CE recepita le d.lgs. 206/2007, ha introdotto numerose modifiche alla disciplina relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali nell'Unione. L’Italia, quale Stato membro dell’Unione Europea, in ottemperanza all’art.59 della direttiva da ultimo citata, ha trasmesso alla Commissione Europea il “Piano nazionale di riforma delle professioni” che prende in considerazione, appunto, le professioni regolamentate in Italia. Fra queste, è riportata quella di “maestro di scherma”. Si chiarisce al proposito che: “Per diventare maestro di scherma professionista, quale Maestro d’Armi di cui al d.lgs .C.P.S.n.708/1947, la normativa italiana prevede che il candidato, in possesso di un diploma di istruzione secondaria superiore, superi l’esame abilitativo presso l’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli, al quale è possibile accedere dopo la frequenza con esito positivo di corsi di istruzione e formazione tecnica della durata di 10 semestri comprensivi di tirocinio non inferiore a 36 mesi, coerenti con le attività professionali connesse all’istruzione nella lotta e nel combattimento, con il controllo dell’uso delle armi bianche”. Sul punto in dottrina: CANGELLI F., Riflessioni sulla natura giuridica dell’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli, in Diritto dello sport, 3/4/2010, p. 307 ss. e, sulle origini storiche dell’Ente: CUTOLO P., Esercito e milizie a Napoli nel passaggio all’unità d’Italia: la funzione dell’Accademia Nazionale di Scherma. Atti del convegno per i 150 anni dalla fondazione dell’Accademia Nazionale di Scherma, 4.5.2001, Napoli – Scuola Militare Nunziatella.
[2] E qui il riferimento alla giurisprudenza penale di legittimità [operato da chi scrive] “conduce” a Sez. III, 2341/2013, Sez. V, 23609/2018 e altre, così come interpretato, per altro, nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia.
[3] In particolare la madre della minore ebbe a dichiarare: “Mia figlia ha appena 14 anni e non consentirei mai che chiunque, anche il suo maestro, possa toccare anche con un dito, mia figlia e analogamente non tollererei atti di maleducazione nei suoi confronti … posso dire che sia sabato che domenica non ho notato atti violenti nei confronti di mia figlia, né lei mi ha riferito qualcosa ….Il sabato, subito dopo la gara, mia figlia ci ha raggiunto in tribuna, ove ero con altri genitori e poi è arrivato anche il maestro …. era molto contrariata perché era convinta di vincere quella gara … quando il maestro OMISSIS ci ha raggiunto in tribuna, insieme l’abbiamo consolata e incoraggiata a fare meglio l’indomani e in effetti la domenica, che era molto più distesa, ha vinto diversi incontri, classificandosi tredicesima che è un ottimo risultato, considerato che gareggiava in una categoria superiore”.
[4] Cass. Sezioni unite, sent. 41461 del 19/7/2012, dep. 24/10/2012 e, da ultimo, Cass. sez. III, sent. 3239 del 4/10/22, dep. 25/1/2023.
[5] In realtà la giurisprudenza si occupa della mancata rinnovazione di prova dichiarativa – cfr., da ultimo, Sezioni unite 11586/2021 – ma mai ha avuto occasione di intervenire, per quanto a nostra conoscenza, sulla mancata audizione della persona offesa.
[6] “Invenzione”, come si sa, è una parola polisensa. Intesa in senso etimologico, è espressione con la quale si vuol significare il ritrovamento, anche casuale, di qualcosa che già esiste (es., nel linguaggio giuridico, la res inventa in litore maris o, in quello liturgico, la celebrazione della “Invenzione della Croce”, che cade il 3 maggio). Nel significato corrente, invece, invenzione sta a indicare “un progetto risolutivo originale nell’ambito di una funzionalità determinata” (Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana). Gli esempi sono infiniti: invenzione della ruota, della scrittura, del fucile ad ago prussiano, del telegrafo, del personal computer ecc. Ma sta a significare anche “un suggerimento dell’immaginazione”, ovvero “l’individuazione e definizione degli elementi fantastici che costituiscono la trama di un’opera d’arte” (ibidem). E dunque: invenzione di una storia, di personaggi teatrali o cinematografici, di un mondo fantastico e parallelo, fino, ad esempio, al fantacalcio: invenzione di una squadra di football composta dai migliori giocatori di tutto il mondo. La fantasia, si sa, è libera fino al paradosso. E allora perché non anche la fantagiustizia (e magari il fantadiritto)? Invenzione ex nihilo di regole di giudizio e criteri di decisione che non troverebbero (e non hanno trovato) ospitalità in alcun ordinamento giuridico. L’invenzione del diritto, dunque, ma non come l’ha intesa Paolo Grossi (Laterza 2017), ma come libera creazione delle menti dei giudicanti, svincolati da regole pre-date e autofacultati ad inventarle.
[7] Tra le tante, la risalente Sezioni unite 6402/1997 e poi fino a Sez. I, 45331/2023.
[8] Ci riferiamo ovviamente a “1984”, scritto nel 1949.
Immagine: Dirck Volckertsz Coornhert after Maarten van Heemskerck, Two Fencers, from Fencers, plate 5, 1552, incisione, The Elisha Whittelsey Collection, The Elisha Whittelsey Fund, 1949, Metropolitan Museum of Art, New York.
Natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo e riparto di potestà legislativa (Nota a Corte Cost., sentenza n. 19 del 10 gennaio 2024)
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive – 3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento. – 4. La decisione della Corte - 5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative – 6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
1. Premessa
Su rimessione del T.a.r. Lombardia – Sezione distaccata di Brescia, la Corte Costituzionale affronta il tema dell’attribuzione della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative e delle conseguenti limitazioni in capo alle Regioni.
Un’analoga questione di legittimità costituzionale, peraltro, era già stata sollevata in una diversa controversa tra le medesime parti; in relazione a quel giudizio, tuttavia, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 22 del 2023, aveva dichiarato la questione inammissibile per difetto del requisito della rilevanza atteso che, all’atto della rimessione, il T.a.r. aveva già deciso i due unici motivi di ricorso, respingendoli entrambi.
La vicenda in esame, invece, si differenzia in quanto la questione costituisce il presupposto di una specifica censura di illegittimità del provvedimento sanzionatorio impugnato, dedotta con il terzo motivo di ricorso non ancora deciso dal T.a.r.; quest’ultimo, pertanto, conserva ancora integra la propria potestas iudicandi.
2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive
In via del tutto preliminare, è opportuno soffermarsi sulla vicenda fattuale e sul giudizio nel cui ambito è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.
Una società attiva nel campo dell’edilizia è proprietaria di un complesso industriale ubicato nel Comune di Mantova, in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico. In ragione dello stato di abbandono in cui versava lo stabilimento, la società ha eseguito una serie di interventi di ristrutturazione edilizia e industriale finalizzati al riavvio dell’attività produttiva.
Il Comune e la Provincia di Mantova hanno adottato provvedimenti sanzionatori in relazione ad alcuni di tali interventi, in quanto realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica o, comunque, in difformità da essa; tali provvedimenti sanzionatorio sono stati impugnati dalla società.
In dettaglio, il ricorso introduttivo dinnanzi al T.a.r. ha per oggetto l’ordinanza n. 74/2020 del 18 maggio 2020, con la quale il Comune di Mantova ha intimato alla società il pagamento della somma di 709.204,16 euro a titolo di sanzione pecuniaria, relativamente ad opere compiute negli impianti di ventilazione dello stabilimento, in quanto eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica, oltre che di permesso di costruire. Rispetto a tali opere, la società aveva presentato istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nonché domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali; sicché, una volta accertata tale compatibilità, il Comune ha emesso il provvedimento - impugnato nel giudizio a quo - con cui ha applicato la sanzione pecuniaria prevista al comma 5, terzo e quarto periodo, del citato art. 167.
Nello specifico, l’importo della sanzione veniva determinato ai sensi dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in ossequio al quale «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro»[1].
La società, dal canto suo, ha chiesto l’annullamento dell’atto impugnato e la rideterminazione della sanzione nella misura minima di cinquecento euro per ogni singola trasgressione; in particolare, con il terzo motivo di ricorso che viene in rilievo in questa sede, ha dedotto l’illegittimità derivata del provvedimento impugnato, conseguente all’eccepita illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 23, 25, 117, secondo comma, lettere l), m) e s), e 118 Cost., della disposizione regionale applicata per determinare l’importo della sanzione.
Ebbene, rispetto a tale questione, il T.a.r. rimettente osserva, innanzitutto, che l’apparato sanzionatorio previsto per un determinato settore dell’ordinamento, lungi dal costituire una materia a sé stante, accede alla disciplina sostanziale il cui rispetto intende assicurare, con la conseguenza che la definizione del regime sanzionatorio spetta al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina oggetto di violazione[2].
Inoltre, distingue la tutela dell’ambiente e del paesaggio dalla loro valorizzazione, ritenendole due funzioni diverse: la prima, mira infatti alla conservazione di un bene complesso e unitario; la seconda, a migliorarne la funzione e la conoscenza. Per quanto qui d’interesse, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguirebbero «scopi di conservazione dei beni paesaggistici» in quanto vietano espressamente qualsivoglia intervento che li distrugga o li pregiudichi, e al medesimo scopo di tutela sarebbero preordinate le sanzioni previste per la violazione delle stesse norme. Ne consegue, pertanto che, in ragione dell’appartenenza di tale ultima disciplina alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse rispetto a quelle contenute nella legge statale.
Nel giudizio a quo si è costituita anche la società, chiedendo l’accoglimento della questione sulla base delle stesse ragioni esposte dal rimettente. La parte privata, ritiene inoltre che la quantificazione della sanzione introdotta dalla norma regionale censurata sia del tutto estranea ai principi contenuti nella norma statale e «soprattutto del tutto svincolata da qualsivoglia relazione con l’interesse leso e con la finalità perseguita dagli artt. 146 e 167 D.Lgs. n. 42/2004».
La Regione Lombardia è intervenuta in giudizio chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata. Innanzitutto, la questione sarebbe inammissibile per la sua irrilevanza nella definizione del giudizio a quo, che verterebbe solo sulla quantificazione della sanzione amministrativa, e «che ben potrebbe trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale». In particolare, secondo la difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare il quantum né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima eseguita dal consulente della società, limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni» e non rendendo noti gli elementi posti a base delle differenti quantificazioni. Neppure sarebbe stata tentata un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
Nel merito, la Regione richiama il contenuto del comma 5, terzo periodo, dell’art. 167 cod. beni culturali sottolineando che l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 – nella versione originaria, che non conteneva le previsioni oggetto di censura – sarebbe stato adottato per superare le difficoltà applicative sorte in relazione a opere abusive che non arrecano alcun danno e dalle quali, parimenti, non deriva alcun profitto per il trasgressore; pertanto, la norma regionale non si sarebbe sovrapposta a quella statale ma l’avrebbe completata, colmando una lacuna che ne vanificava l’applicazione. Successivamente l’art. 27 della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018, nel ridefinire i parametri per il calcolo della sanzione paesaggistica, avrebbe introdotto nell’art. 83 una «innovazione legata alla sola quantificazione».
Quanto all’ascrivibilità della disciplina del potere sanzionatorio a tutela del paesaggio alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.[3], la Regione rileva come, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, non è esclusa la possibilità per il legislatore regionale di assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela del bene paesaggistico, qualora siffatte prescrizioni elevino il livello di tutela ambientale. Il caso in esame, del resto, ricadrebbe proprio in una di queste ipotesi in quanto, ad avviso della Regione, il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con la potestà legislativa esclusiva dello Stato, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente.
La Regione sostiene inoltre che lo stesso art. 83, nel prevedere il criterio di determinazione della sanzione in assenza di danno ambientale, potrebbe essere ascritto alla competenza legislativa concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto intenderebbe sanzionare quelle ipotesi in cui il bene, pur non essendo compromesso, ha comunque subito una alterazione. Tali ipotesi ricadrebbero nell’ambito della gestione dei beni culturali e ambientali, distinta dalla funzione di tutela riservata allo Stato, e da ascrivere a quella di valorizzazione degli stessi beni. Ancora, le stesse considerazioni riferite alla mancanza di un danno ambientale varrebbero a ricondurre la norma censurata anche alla potestà legislativa concorrente in materia di «governo del territorio», attribuita alle regioni dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost., trattandosi di potestà che, comprendendo tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività e, collegandosi trasversalmente alla materia della tutela ambientale, potrebbe essere esercitata senza violare la competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Da ultimo, la società ha depositato una memoria illustrativa nella quale innanzitutto, con riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale, osserva come il giudice a quo abbia puntualmente motivato sulla rilevanza della questione, atteso che l’accoglimento della questione determinerebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato nel processo principale.
Quanto al merito, la parte privata ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria risulti «correlata intimamente» all’istituto dell’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, il quale produce un effetto “sanante” dell’abuso e, al contempo, svolge una funzione diretta a semplificare e rendere efficiente l’azione amministrativa. In siffatto quadro, allora, risulterebbe chiara la potestà legislativa esclusiva dello Stato a determinare la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla spettanza della disciplina sanzionatoria al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile.
3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento
La questione di legittimità costituzionale investe l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali[4]. In dettaglio, la previsione oggetto di censura è quella che fissa la misura della sanzione con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.
Il giudice a quo ritiene che il legislatore regionale, adottando una disposizione difforme da quella stabilita dall’art. 167 cod. beni culturali, abbia invaso la competenza in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Il presupposto di tale ragionamento è che le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguono scopi di conservazione dei beni paesaggistici, alla cui realizzazione sarebbero preordinate anche le sanzioni (sia ripristinatorie, sia pecuniarie) previste dall’art. 167 cod. beni culturali. Con la conseguenza che, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione del citato art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse, anche solo nel quantum, rispetto a quelle fissate dalla legge statale.
In via preliminare la Corte, respingendo le plurime eccezioni sollevate dalla Regione, ritiene la questione rilevante. Innanzitutto, perché il provvedimento impugnato nel giudizio a quo ha determinato l’entità della sanzione esclusivamente sulla base del criterio previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sul presupposto dell’assenza di un danno ambientale; con la conseguenza che la definizione della controversia sul quantum non potrebbe prescindere dall’applicazione della norma regionale censurata. In secondo luogo, per quanto attiene all’asserita mancata indicazione, da parte della Regione, di elementi idonei a ricostruire il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova nonché alla paventata verifica della rilevanza effettuata solo in astratto senza tentativo di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato, la Corte osserva come trattasi di argomentazioni con cui la Regione contesta un difetto di motivazione sulla rilevanza, il quale, all’evidenza, non è un vizio censurabile.
Passando alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, la Corte prende le mosse dall’art. 167 cod. beni culturali, il quale, al comma 1 prevede che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4». In altri termini, tale articolo sancisce la regola generale secondo la quale le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali non sono suscettibili di “sanatoria” tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.
Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate dal comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente può accertare la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere - onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo” - nei seguenti casi tassativi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.
Solo in queste ipotesi, dunque, può attivarsi la procedura di cui al comma 5 in base alla quale il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi. Qualora venga accertata tale compatibilità, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione; in tal caso, l’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima. A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157, che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali[5]. Infatti, prima della novella del 2006, il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era caratterizzato dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scelta fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro[6]. Sul punto, dunque, la modifica del 2006 ha significativamente innovato rispetto alla disciplina precedente negando tale facoltà all’amministrazione, nonché relegando la misura pecuniaria ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.
Tanto premesso, quello che viene in rilievo nel giudizio de quo sono i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione», nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica.
Ebbene, secondo la Corte, ai fini della decisione, risulta di fondamentale importanza comprendere la natura della somma di denaro che qui viene in rilievo. Sul punto, sebbene la rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parli di «indennità pecuniaria», il medesimo art. 167 è inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice. Inoltre, il comma 5 dell’art. 167, nel prevedere che l’importo della somma de qua sia determinato previa perizia di stima, contiene l’espressione «sanzione pecuniaria».
Anche secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, inoltre, non si tratta di una forma di risarcimento del danno ma di una sanzione amministrativa, applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Ed in effetti, nella previsione normativa il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. In altri termini, l’assenza di un danno ambientale non ostacola, pertanto, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito[7].
4. La decisione della Corte
La Corte reputa fondata la questione. Per giungere a siffatta conclusione, precisa innanzitutto che la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali rappresenta una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria; perimenti, ritiene che la norma regionale censurata incide sulla determinazione del quantum di tale sanzione.
Se così è, richiamando la propria costante giurisprudenza in ossequio alla quale «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” [...] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile [...]» [8], rileva come, ai fini della risoluzione della questione, risulti fondamentale verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle Regioni.
In relazione a tale profilo, sulla scorta del quadro normativo sopra ricostruito, può dirsi che la sanzione consegue alla realizzazione di lavori, rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5. L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, a sua volta, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale[9].
Pertanto, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche in ragione dell’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e ad un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.
Ebbene, come evidenziato, la quantificazione della sanzione in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi» con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva ed in particolare dall’art. 167 cod. beni culturali. In siffatto contesto, le citate esigenze di uniformità di trattamento precludono allora al legislatore regionale l’intervento con norme difformi da quelle previste a livello statale.
Ancora, la Corte prosegue nel proprio ragionamento respingendo l’argomento sostenuto dalla Regione in base al quale la potestà legislativa statale non sarebbe violata in quanto l’art. 83, lungi dal porsi «in contraddizione» con essa o dal ridurre i livelli di tutela dell’ambiente, si limiterebbe solamente a colmare una lacuna della norma statale e, dunque, a completare «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004». Ed in effetti, anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono e quindi, nella specie, allo Stato. Neppure può ritenersi che la norma sanzionatoria in oggetto rispetti la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella misura in cui innalza la tutela dell’ambiente, come pure è consentito fare alle Regioni a certe condizioni: nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale, infatti, alla Regione è totalmente precluso interferire con la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio[10].
In ogni caso, ritiene la Corte, non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale abbia effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore.
Ancora, non è condivisibile la tesi, pure sostenuta dalla Regione, in base al quale l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e «governo del territorio», attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost. Sul punto, la Corte sostiene infatti che la tutela dell’ambiente e del paesaggio prescinde dalla sussistenza di un danno ambientale, sostanziandosi nella predisposizione di strumenti di protezione di tali beni comuni, come i piani paesaggistici, le autorizzazioni o i divieti, tutti previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio; nella prospettiva indicata, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica. L’atto sanzionabile, infatti, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica; la conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi indicati dal legislatore, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In siffatto contesto, pertanto, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione, senza condizionarne affatto l’applicabilità.
Così accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, la Corte dichiara dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
Il percorso logico sotteso alla pronuncia in esame sembra dare per scontati due assunti, che si tenterà di approfondire nei paragrafi seguenti.
5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative
Il primo assunto da cui parte la Corte è quello del riconoscimento di una potestà legislativa alle Regioni anche in materia di sanzioni.
Tanto è possibile in quanto, in ambito amministrativo, il fondamento costituzionale del principio di legalità in materia di sanzioni si rinviene nell’art. 23 Cost., in ossequio al quale la riserva legislativa è soddisfatta non solo dalla legge statale ma, appunto, anche da quella regionale[11].
E ciò diversamente da quanto accade in relazione alle sanzioni penali, rispetto alle quali sussiste invece la necessità di garantire allo Stato l’attribuzione di una potestà legislativa esclusiva. In tale settore, infatti, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente escluso la competenza regionale sia in funzione ampliativa sia in funzione restrittiva dall’area di punibilità; e ciò non solo per esigenze di legalità ma, appunto, anche e soprattutto di uguaglianza sull’intero territorio nazionale[12].
Riconosciuta, dunque, l’ammissibilità di una potestà legislativa regionale in materia, ai fini della individuazione dell’effettivo soggetto titolare del potere de quo occorre guardare agli ordinari criteri di riparto di competenza Stato-Regioni.
Ne consegue, pertanto, che alle Regioni è concesso legiferare in materia di illeciti e sanzioni amministrative nelle materie di loro competenza, sia concorrente (art. 117, co. 3, Cost.), sia esclusiva (art. 117, co. 4 Cost.), sebbene con limiti diversi. In particolare, nelle materie di competenza concorrente, le Regioni sono vincolate dai principi fondamentali dettati dal legislatore statale; viceversa, nelle materie di competenza esclusiva (cd. residuali), il legislatore regionale sarebbe comunque tenuto a rispettare i limiti derivanti dalle leggi statali nelle materie trasversali, nelle materie-valore, nonché nelle materie ordinamentali[13].
Conseguenza di tale ragionamento è che, laddove vengano invece in rilievo materie attribuite alla competenza legislativa dello Stato – quale è, appunto, la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – risulta preclusa ogni forma di intervento regionale, anche nell’ottica di colmare eventuali lacune della disciplina nazionale. Inoltre, il venire in rilievo di competenze attinenti alla specifica materia ambientale, fa sì che risulti ulteriormente ristretto il raggio di azione delle Regioni, e tanto in forza del divieto, sancito dal costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, di interferire sulla materia prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio finanche al solo fine di innalzarne il livello di tutela.
A fronte di tale ripartizione, un cenno a parte meritano le sanzioni amministrative “punitive”, vale a dire quelle dotate di natura sostanzialmente penale, rispetto alle quali la questione dell’eventuale competenza legislativa regionale si pone in termini parzialmente diversi. Ed in effetti, in ossequio all’ormai costante indirizzo di derivazione sovranazionale in base al quale dal riconoscimento della natura sostanzialmente penale di una sanzione dovrebbe derivare l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene, nella materia de qua non dovrebbe trovare spazio la legge regionale.
In verità, pochi anni fa, la Corte Costituzionale sembra aver ammesso la competenza regionale anche con riferimento a tale tipologia di sanzioni. In dettaglio, in occasione del ricorso presentato dal Governo avverso gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25[14], nel richiamare la propria costante giurisprudenza[15], la Corte Costituzionale, pur riconoscendo in linea generale l’applicazione delle garanzie discendenti dall’art. 25, co. 2, Cost. anche agli illeciti e alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente punitivo, ha fatto salva l’eccezione «della riserva assoluta di legge statale, che vige per il solo diritto penale stricto sensu, come da ultimo precisato dalla sentenza n. 134 del 2019. Tale pronuncia ha altresì ribadito che il potere sanzionatorio amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa all’art. 23 Cost., intesa qui anche quale legge regionale»[16].
Una soluzione di tal fatta, che potrebbe essere percepita come una battuta d’arresto rispetto all’orientamento evolutivo cui si faceva poc’anzi riferimento, trova in realtà una propria coerenza alla luce del sistema delle fonti complessivamente inteso.
Per comprenderlo, basterà ricordare come le garanzie che originariamente previste nel settore penale, sono state oggetto di progressiva estensione anche alle sanzioni punitive, si identificano nelle sole riconducibili ai principi delineati dalla stessa CEDU; sicché, venendo in questo caso in rilievo un aspetto prettamente interno, quale risulta essere appunto il riparto tra potestà legislativa statale e regionale in materia penale, la sua mancata estensione anche alle sanzioni punitive non si pone in contrasto con il filone interpretativo avallato da Strasburgo.
6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
L’altro principio sotteso alla pronuncia della Corte è quello della riconducibilità del potere sanzionatorio amministrativo alla medesima materia cui la disciplina sostanziale, oggetto di violazione, si riferisce. Da tale assunto, deriva l’ulteriore corollario della compatibilità tra la funzione afflittiva, propria dei provvedimenti sanzionatori, e il perseguimento del pubblico interesse, cui l’azione amministrativa deve necessariamente tendere.
Ed in effetti, l’irrogazione di una sanzione, non risulta finalizzata esclusivamente a compensare l’illecito mediante l’inflizione di conseguenze dannose in capo all’autore, essendo funzionale altresì alla prevenzione di future lesioni da parte della generalità dei consociati[17]. La peculiarità che caratterizza la sanzione amministrativa, vale a dire il suo carattere afflittivo, non osta dunque acché attraverso di essa venga perseguito anche un pubblico interesse.
Del resto, in tal senso si è espressa ormai da tempo anche la giurisprudenza. La Cassazione ha infatti chiarito che la funzione amministrativa sanzionatoria garantisce i medesimi interessi tutelati dalla stessa p.a.; ciò avverrebbe grazie all’esercizio di una funzione cd. “sussidiaria”, che interviene cioè allorquando gli interessi perseguiti dalla funzione principale, cd. “sussidiata”, risultano lesi[18].
Nella medesima direzione, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che le sanzioni amministrative rappresentano «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’Amministrazione»[19]. Ancora, in tempi più recenti, anche la giurisprudenza sovranazionale è giunta ad analoghe conclusioni, sottolineando la non incompatibilità tra il perseguimento di un certo interesse pubblico e il carattere punitivo della sanzione[20].
In altri termini, anche la funzione sanzionatoria rientra tra gli strumenti di cui l’Amministrazione dispone per il perseguimento della propria azione specifica e, proprio in ragione della natura complementare della funzione in esame rispetto a quelle di amministrazione attiva, si giustifica il particolare interesse che la p.a. nutre all’esercizio della stessa[21].
Certo, non può nascondersi come per il tramite della funzione sanzionatoria l’interesse pubblico riceva una tutela soltanto indiretta: la sanzione rappresenta infatti uno strumento di perseguimento dell’interesse pubblico solo in via mediata, inidoneo a svolgere ex se una funzione di amministrazione attiva. Purtuttavia, nel momento stesso in cui si ammette tale profilo di complementarità, risulta difficile non attribuire anche al potere sanzionatorio una funzione di amministrazione attiva.
In tal senso, particolarmente esemplificativa sembra essere la disciplina dettata con riferimento ai provvedimenti sanzionatori emanati dalle Authorities. In questi settori, il collegamento tra funzione di regolazione/vigilanza da un lato, e funzione sanzionatoria dall’altro, emerge chiaramente grazie anche alla attribuzione di entrambe le funzioni ad un unico soggetto[22].
Si pensi ad esempio all’AGCM, i cui poteri sanzionatori risultano strumentali alla tutela della stessa concorrenza e del mercato: i provvedimenti sanzionatori, pur dotati di carattere afflittivo, divengono strumento per la cura dello specifico interesse pubblico attribuito all’Amministrazione.
Considerazioni analoghe, e per certi versi ancora più significative, valgono anche con riferimento alle sanzioni disciplinate in via generale dalla l. n. 689/1981: in tale sistema, il legislatore ha volutamente evitato di individuare una autorità amministrativa dotata di poteri specificatamente sanzionatori, attribuendo piuttosto tale competenza alle singole amministrazioni cui spetta la tutela dell’interesse di volta in volta preso in considerazione[23]. E ciò proprio a riprova della naturale strumentalità del potere sanzionatorio rispetto a quello di amministrazione attiva.
Tali considerazioni, inoltre, consentono di scongiurare l’idea che le sanzioni amministrative svolgano esclusivamente una funzione afflittiva e di prevenzione generale: se così fosse, infatti, sarebbe risultata più congeniale l’attribuzione della funzione in esame ad una Autorità amministrativa terza ed imparziale: viceversa, proprio l’appartenenza alla medesima Autorità amministrativa, consente di riconoscere la natura intrinsecamente connessa del potere sanzionatorio con quello di cura dei singoli interessi pubblici.
[1] Trattasi della versione di testo introdotta dall’art. 27 della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17.
[2] A tal proposito, cita la sentenza Corte Cost. n. 148 del 2018, nonché le precedenti sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004.
[3] «Tutela dell’ambiente, dell’economia e dei beni culturali».
[4] Nello specifico, la disposizione censurata stabilisce che «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
[5] Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».
[6] Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).
[7] Cfr, sul punto, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130. Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatorio alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).
[8] Così Corte Cost. sent. n. 121 del 2023.
[9] Sul punto v., ex multis, Corte Cost., sentenze nn. 201 del 2021, 246 del 2017, 238 del 2013 e 101 del 2010.
[10] Sul punto, v. Corte Cost. sent. n. 16 del 2024; in precedenza, anche Corte cost. sentenze nn. 163 del 2023, 66 del 2018, 212 del 2017, 210 del 2016, 171 del 2012 e 407 del 2002.
[11] In questo senso, si vedano le considerazioni di G. Corso, Sanzioni amministrative e competenza regionale, in AA. VV. (a cura di U. Pototschnig), Le sanzioni amministrative (Atti del XXVI Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione), Milano, 1982, 78. Per una completa ricostruzione del dibattito dottrinario in materia, si rinvia a G. Colla- G. Manzo, Le sanzioni amministrative, Giuffrè, Milano, 2001, 247-248.
[12] Sul punto v. L Paladin L., Il problema delle sanzioni nel diritto regionale, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova, 1975, 238.
[13] Così P. Cerbo, Sistemi sanzionatori e autonomia regionale, in Quaderni Costituzionali, 2021, fasc. 3, 271.
[14] Recante “Norme per introdurre l’istituto della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento di violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”.
[15] Cfr. Corte Cost., sentenze nn. 134 del 2019, 223 del 2018, 121 del 2018, 68 del 2017, 276 del 2016 e 104 del 2014.
[16] Così Corte Cost., sent. del 18 gennaio 2021, n. 5 punto 5.1. del Considerato in diritto.
[17] In questo senso, v. F. Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Rivista Italiana Di Diritto Pubblico Comunitario, 2013, 132. Per un approccio costituzionalistico del tema, si rinvia a L. Cuocolo, Le sanzioni amministrative tra caratteri afflittivi ed amministrazione attiva, in Quad. reg., 2003, 531 e ss.
[18] Cfr. Cass., Sez. un., 24 febbraio 1978, n. 926. Per un commento alla sentenza indicata, si rinvia a C.E. Paliero-A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 370.
[19] Così Corte cost., sent.14 aprile 1988, n. 447.
[20] Cfr. in tale direzione Corte EDU, 27 settembre 2011, caso n. 43509/08, Menarini c. Italia (spec. par. 40), in materia di tutela della concorrenza nel mercato tutelata dall’AGCM.
[21] Così A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica Amministrazione, Padova, 1983, 243.
[22] Sulla tematica, si rinvia alle considerazioni svolte da R. Lombardi, Autorità amministrative indipendenti: funzione di controllo e funzione sanzionatoria, in Dir. amm., 1995, 633.
[23] Si vedano in particolare gli artt. 7 e 17, co. 3 l. n. 689/1981.
Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Commento a Trib. Firenze, Sez. specializzata protezione internazionale, ordinanze del 15 maggio 2024
di Cecilia Siccardi
Sommario: 1. Premessa: i casi da cui ha origine il rinvio pregiudiziale; 2. Alla ricerca di una ratio della designazione di Paesi sicuri con eccezioni di gruppi di persone: evoluzione normativa e prassi degli Stati membri; 3. I rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia UE e il “punto di vista” del Tribunale di Firenze; 4. Paesi sicuri, eccezioni personali e l’art. 10, comma 3 della Costituzione; 5. Un’altra possibile via? La questione di costituzionalità.
1. Premessa: i casi da cui ha origine il rinvio pregiudiziale
Con due distinte ordinanze il Tribunale di Firenze ha proposto, nel maggio 2024[1], due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia concernenti l’interpretazione del diritto Ue su un aspetto specifico della disciplina dei Paesi sicuri.
Le due ordinanze, motivate in modo pressoché identico, sono state adottate nell’ambito di due giudizi su ricorsi avverso dinieghi delle Commissioni territoriali alle domande di protezione internazionale per manifesta infondatezza, intrapresi a seguito di procedure accelerate, ai sensi dell’art. 28-bis, comma 2 lett. c) del d.lgs. 25/2008.
Le procedure accelerate riguardano ricorrenti provenienti, in un caso dalla Nigeria e nell’altro caso dalla Costa d’Avorio, entrambi Paesi considerati di origine sicuri, ai sensi dell’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008[2].
Nigeria e Costa D’Avorio sono stati aggiunti nella lista dei Paesi sicuri dal D.M. del 23 maggio del 2023 e, pur apparendo “in possesso delle caratteristiche necessarie per essere definiti sicuri”[3], rientrano tra quei Paesi che, come consentito dall’art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. 25/2008, sono stati disegnati tali ad eccezione “di categorie di persone”[4].
Le categorie escluse dalla presunzione di sicurezza non vengono espressamente menzionate nel D.M. del 17 maggio 2023, bensì nelle “Schede Paese” redatte dagli Uffici territoriali competenti del Ministero degli Affari esteri che monitorano la situazione locale. Tali schede precisano che Nigeria e Costa d’Avorio possono essere considerati “sicuri” solo “tenendo conto di situazioni di particolare criticità e rischi di involuzione della situazione”[5].
Pertanto, le schede individuano alcune eccezioni di categorie di persone per le quali non può vigere una presunzione di sicurezza, quali i detenuti, i giornalisti, le vittime di discriminazione sulla base all’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di mutilazione genitale femminile, le persone con disabilità, gli albini e siero positivi, la comunità LGBTQ+.
La previsione di tali eccezioni ha delle conseguenze sulle procedure di riconoscimento della protezione internazionale, poiché le domande presentate da persone appartenenti a tali categorie dovrebbero evitare l’esame accelerato di cui all’art. 28-bis, comma 2 lett. c) del d.lgs. 25/2008 ed essere trattate secondo quello ordinario.
Le ragioni che hanno convinto gli Uffici territoriali del Ministero a estromettere tali categorie di persone dalla presunzione di sicurezza del Paese si comprendono immediatamente leggendo le motivazioni delle schede Paese. Basta qui riportarne alcuni stralci significativi.
Così in Nigeria:
“La violenza domestica sulle donne è diffusa nel Paese e non esiste una legislazione volta alla prevenzione ed al suo contrasto. (…) Il Governo nigeriano ha altresì approvato un piano strategico per porre fine ai matrimoni tra minori entro il 2030, tuttavia la pratica risulta ancora piuttosto diffusa.
La comunità LGBT è stata oggetto di soprusi, minacce ed estorsioni, e forme di discriminazione anche gravi continuano a persistere, in particolare nelle aree rurali. Nel 2014 è stato emanato il Same Sex Marriage (Prohibition) Act che prevede ipotesi di reato penalmente perseguibili. Sono inoltre proibite le manifestazioni pubbliche di affetto tra persone dello stesso sesso”[6]
Così in Costa D’Avorio:
“La legge non affronta specificamente la violenza domestica e la violenza del partner o impone
pene speciali per questi atti. Al riguardo, le leggi non vengono applicate in modo efficace. I membri della famiglia e i leader della comunità spesso agiscono da “mediatori” nella gestione dei seguiti alle accuse di stupro, senza sentire la vittima, anzi provando a dissuadere le vittime dallo sporgere denuncia, per evitare conseguenze negative sulla famiglia, in particolare se l'autore dello stupro è legato alla vittima da rapporti di parentela”.
“Atteggiamenti di affetto espressi in pubblico tra persone dello stesso sesso sono suscettibili di azione penale, come crimine contro la moralità pubblica, con una pena fino a 2 anni di reclusione. I membri della comunità LGBT hanno denunciato discriminazioni anche nell'accesso all'assistenza sanitaria, così come sui posti di lavoro (con rifiuto nell’assunzione, licenziamenti ingiustificati praticati o impossibilità di carriera)”[7].
Leggendo tali stralci e il lungo elenco di categorie di persone a rischio di persecuzioni e violazioni di diritti, non stupisce che i ricorrenti abbiano contestato nei giudizi in commento la qualificazione della Nigeria e della Costa d’Avorio come Paesi di origine sicuri. Una domanda, infatti, sorge spontanea: può considerarsi davvero “sicuro” un Paese dove così tante categorie, che sono poi quelle tradizionalmente perseguitate e più bisognose di protezione, sono considerate “insicure”?
Per sciogliere tale quesito il Tribunale di Firenze ha deciso di rivolgersi alla Corte di giustizia UE, domandando se il diritto dell’UE osti a normative nazionali che consentano la designazione di Paesi sicuri, con eccezioni di categorie personali (infra par. 3).
Le due ordinanze, che saranno commentante dalla prospettiva di una studiosa del diritto costituzionale, suscitano particolare interesse non solo perché aggiungono un tassello alla vivace e varia giurisprudenza sul sindacato giurisdizionale sulla lista dei Paesi sicuri[8] ma perché consentono di riflettere sulla portata attuale del diritto d’asilo alla luce del continuo evolversi del sistema comune europeo di asilo di recente oggetto di un’attesa riforma[9] (infra par. 2), e dell’art. 10, comma 3 della Costituzione italiana (infra par. 4 e 5).
2. Alla ricerca di una ratio della designazione di Paesi sicuri con eccezioni di gruppi di persone: evoluzione normativa e prassi degli Stati membri
Prima di analizzare più nel dettaglio le ragioni che hanno portato il Tribunale di Firenze a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sembra importante ripercorre l’evoluzione normativa che ha portato all’introduzione della disciplina sui Paesi sicuri, cercando di comprendere le ragioni della norma che consente la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone.
Come noto, la nozione di Paese di origine sicuro è stata disciplinata in prima battuta nell’ordinamento dell’Unione europea e poi, solo in un secondo momento, recepita nell’ordinamento nazionale[10].
A livello europeo tale concetto è stato disciplinato per la prima volta in modo vincolante dalla direttiva 2005/85/CE, la quale mirava - mediante l’attribuzione della facoltà agli Stati membri di designare una lista dei Paesi Sicuri e la creazione di una lista minima comune europea[11], poi ritenuta illegittima dalla Corte di giustizia[12] - ad armonizzare le diverse prassi esistenti in materia tra gli Stati membri[13].
Per quanto qui rileva, la predetta direttiva prevedeva una norma dedicata alla designazione di Paesi sicuri con eccezioni territoriali o personali. Con specifico riguardo alle eccezioni personali, l’art. 30 par. 3 precisava che queste potevano essere mantenute nelle legislazioni nazionali già in vigore al primo dicembre 2005. Di conseguenza, la direttiva escludeva implicitamente l’introduzione da parte degli Stati membri di nuove normative nazionali volte alla designazione di Paesi di origine sicuri con eccezioni personali, mirando a contenere il proliferare di prassi diverse tra gli Stati UE.
Tale obiettivo è stato perseguito ulteriormente mediante l’approvazione, nel 2013, dalla direttiva “procedure” 2013/32/UE.
La direttiva “procedure” - che si applica alle ordinanze in commento - pur disciplinando in termini dettagliati i contorni della nozione di Paese sicuro, la facoltà attribuita agli Stati di stilare una lista dei Paesi considerati sicuri, le conseguenze procedurali, non menziona la possibilità della designazione di un Paese sicuro con eccezioni di categorie di persone[14].
Anzi, l’allegato I della direttiva - che a norma dell’art. 37 indica i criteri per la designazione di un Paese di origine sicuro - stabilisce che un Paese è considerato sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato”. Il riferimento all’assenza generale e costante di persecuzioni sembra escludere la possibilità per gli Stati di consentire la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone a rischio; tanto più sembra escludere la designazione di Paesi sicuri con ampie liste di eccezioni, come nel caso di Nigeria e Costa di Avorio[15].
Nonostante il silenzio della direttiva 2013/32/UE in merito alla designazione dei Paesi sicuri con esclusioni personali, il legislatore italiano ha introdotto, di lì a poco, una previsione in tal senso nella disciplina nazionale sui Paesi sicuri.
Questa disciplina è stata introdotta in Italia, in sede di conversione del decreto sicurezza I (d.l. 113 del 2018, conv. con l. 132 del 2018), per mano di un emendamento del Governo[16], deciso ad adeguarsi ai dettami dell’Unione, mediante la previsione della lista dei Paesi sicuri e di procedure accelerate.
Leggendo i lavori parlamentari non si rinviene traccia però delle ragioni che hanno portato il Governo italiano a presentare, nel testo dell’emendamento, anche la possibilità di designazione di un Paese sicuro con eccezioni territoriali o di categorie di persone; norma che come visto non era più presente nelle direttive europee.
I rischi connessi a tale scelta sono emersi durante il dibattito parlamentare. Ciò si evince soprattutto dal tenore di alcuni emendamenti, presentanti da alcuni parlamentari dell’opposizione, e poi non approvati, durante i lavori in Commissione alla Camera dei Deputati. Tali emendamenti miravano a precisare che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone, a meno che le eccezioni non siano tali, per estensione o gravità, da compromettere la valutazione di sicurezza complessiva del Paese in questione”[17]. L’approvazione di tale specificazione avrebbe probabilmente scongiurato la designazione di Paesi sicuri, con numerose categorie escluse, come nel caso di Nigeria e Costa D’Avorio.
Analogamente all’Italia e nonostante il silenzio del legislatore europeo non sono pochi gli Stati membri che hanno mantenuto in vigore la designazione di Paesi di origine sicuri con eccezioni di gruppi di persone. Alcuni rapporti delle istituzioni europee ricostruiscono la situazione della disciplina dei Paesi sicuri tra gli Stati membri dando conto, ad esempio, che “le eccezioni per alcuni profili di richiedenti asilo sono spesso applicate a gruppi specifici e persone vulnerabili, in particolare: persone LGBTQI; minoranze come quelle religiose, persone albine, attivisti politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, donne e bambine, vittime di violenza”[18].
La varietà delle eccezioni previste dagli Stati membri dimostra come la ratio di queste previsioni nazionali resti ambigua: tali eccezioni sembrano servire agli Stati per giustificare l’estensione della lista dei Paesi sicuri anche a quei Paesi (che magari figurano tra i primi di provenienza dei richiedenti asilo) nonostante la presenza di categorie a rischio.
Forse proprio la continua permanenza di soluzioni differenti nelle normative nazionali ha indotto il legislatore europeo a menzionarle nuovamente nel Regolamento (UE) 2024/1348 del 14 maggio 2024[19]. L’art. 61 par. 2 consente che “la designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale possa essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”.
Dal momento in cui sarà applicato il regolamento, a partire dal 2026, occorrerà comprendere in quali casi una categoria può essere definita quale “chiaramente identificabile”.
La norma sembra voler limitare la previsione di eccezioni di categorie di persone la cui appartenenza non sia individuabile immediatamente e presupponga accertamenti complessi, non adatti alla procedura accelerata.
Ad esempio, potrebbero non essere classificati quali “chiaramente identificabili” l’appartenenza alla comunità lgbt+, poiché la verifica dell’orientamento sessuale è un accertamento delicato, le vittime di violenza, di tortura di tratta, i cui segni non sono sempre visibili o dichiarati immediatamente.
Al contrario sembrano “chiaramente identificabili” categorie quali le donne poiché il sesso è una caratteristica palese; o persone appartenenti ad un partito politico o ordine professionale in grado di dimostrarne l’iscrizione. La descritta novità normativa dovrebbe rendere più agevole l’individuazione di persone appartenenti a categorie “sicure” e categorie “insicure”, riducendo il margine di errore e indirizzando solo le prime alla procedura accelerata.
Nel contesto normativo descritto si collocano i rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia promossi dal Tribunale di Firenze, ai quali si applicano le norme della direttiva procedure 2013/32/UE, che nulla specificano riguardo a tali eccezioni.
3. I rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia UE e il “punto di vista” del Tribunale di Firenze
L’analisi del quadro normativo non chiarisce il dubbio interpretativo sulla compatibilità al diritto UE della designazione nazionale di Paese di origine sicuri con eccezioni personali, che il Tribunale di Firenze decide giustamente di sottoporre alla Corte di giustizia UE.
Prima di analizzare i dubbi di compatibilità tra la normativa nazionale e il diritto UE, il Tribunale di Firenze tiene a precisare alcune questioni preliminari.
Anzitutto ribadisce il potere del giudice di valutare la legittimità del presupposto della procedura accelerata, ovvero quello “della inclusione della Costa d’Avorio e della Nigeria nella lista dei Paesi di origine sicuri da parte dell’Italia”[20].
In secondo luogo, lo stesso Tribunale chiarisce le ragioni in base alle quali l’esito del predetto sindacato non è quello della disapplicazione del D.M. del 17 maggio 2023, come avvenuto in altri casi concernenti il mantenimento della Tunisia nell’elenco ministeriale.
Secondo il Tribunale la designazione di Paesi di origine sicuri, con eccezioni di categorie di persone, comporta una questione interpretativa del diritto UE, che non è possibile risolvere “senza interpellare la Corte di giustizia sulla corretta interpretazione degli articoli 36 e 37 della Direttiva”[21]. Tale questione interpretativa “non veniva in rilievo in precedenti casi esaminati da questo Collegio”[22], che hanno condotto alla disapplicazione.
Si aggiunga che nel caso della Tunisia, il Tribunale di Firenze aveva sostenuto la sussistenza di un contrasto tra il D.M. e le fonti sovraordinate, le quali avrebbero imposto un obbligo di aggiornamento alla luce dell’evoluzione della situazione del Paese, che non poteva più considerarsi “sicuro” secondo i criteri previsti dalla legge e dalle fonti europee[23]. Proprio tale contrasto aveva giustificato la disapplicazione dell’atto subordinato alla legge. Al contrario, altri Tribunali, investiti di casi analoghi, non hanno optato per la disapplicazione, non riscontrando alcun contrasto tra la fonte primaria e le scelte dell’amministrazione, essendo queste ultime non altro “che la conseguenza prevista dalla legge (europea e italiana)”[24].
Una simile divergenza non potrebbe riguardare il caso di specie in cui è incontrovertibile che la possibilità di designare un Paese sicuro con esclusioni territoriali, elencate negli atti amministrativi, trovi fondamento direttamente dalla legge (art. 2-bis d.lgs. 25/2008). L’opzione della disapplicazione del D.M. è pertanto esclusa e, a ben guardare, il Tribunale di Firenze sceglie un’altra strada, proponendo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Dopo aver chiarito tali questioni preliminari, il giudice motiva - nella sezione dell’ordinanza dedicata al “punto di vista del giudice del rinvio” - i dubbi di compatibilità tra il diritto UE e la normativa nazionale.
In modo molto efficace, i giudici mettono in luce l’illogicità della designazione di Paesi sicuri con eccezioni personali, in particolare in riferimento a due profili: la definizione stessa di Paese sicuro prevista dal diritto UE e dalla direttiva “procedure”; la funzione delle procedure accelerate.
In primo luogo, rispetto alla nozione di Paese sicuro (art. 36, 37 dir. 2013/32/UE), il Tribunale nota come una previsione così ampia di categorie di persone escluse dalla sua stessa applicazione rischi di rendere vani i criteri previsi dalla direttiva 2013/32/UE all’art. 37 e all’allegato I.
Secondo il Tribunale infatti “la possibilità di qualificare un Paese come sicuro con esclusioni di intere categorie di persone a rischio significherebbe consentire, di fatto, ai singoli Stati Membri di qualificare qualunque paese come sicuro, in quanto, in disparte le situazioni di violenza indiscriminata, appare difficilmente individuabile uno Stato dove le discriminazioni riguardano la generalità della popolazione”[25]. Questo effetto paradossale rischierebbe non solo di rendere privi di ogni senso i criteri di designazione di un Paese sicuro previsti dall’art. 37 e dall’allegato I della direttiva, ma di minare lo stesso diritto alla protezione, che si fonda proprio sul presupposto della fuga dalle persecuzioni.
In secondo luogo, la designazione di Paesi sicuri con eccezione di intere categorie di persone può vanificare lo stesso scopo delle procedure accelerate, che dovrebbe essere quello di giungere ad una decisione rapida in tutti quei casi “non problematici”[26].
Tale semplificazione non si addice, secondo il Tribunale di Firenze, alle procedure che coinvolgono Paesi di origine sicura con eccezioni di categorie di persone poiché in tale sede l’autorità procedente dovrebbe “fin dal momento dell’avvio della procedura accertare in tempi brevi che il ricorrente non rientri in una delle predette categorie escluse”.
Tuttavia, come anticipato, molte delle categorie indicate nella “Scheda Paese” presuppongono accertamenti delicati che non possono essere effettuati in tempi rapidi.
In tali procedure, come ampiamente illustrato nelle ordinanze del Tribunale di Firenze, il diritto di difesa e alla tutela giurisdizionale, è fortemente compromesso e lo sarà ancor più nei confronti dei soggetti appartenenti alle categorie escluse[27].
Il Tribunale di Firenze ricorda infatti come, nella prima fase amministrativa delle procedure di esame della domanda, non è prevista l’assistenza legale obbligatoria e pertanto “i ricorrenti vedrebbero dichiararsi la propria domanda come manifestamente infondata senza neppure poter beneficiare dell’effetto sospensivo automatico e quindi della possibilità di permanere sul territorio nazionale”[28]. Nella seconda fase giurisdizionale, che è solo eventuale, i tempi dimezzati del giudizio e la cognizione del giudice vincolata alla presunzione di non fondatezza della domanda sono incompatibili con gli accertamenti complessi di simili vulnerabilità.
In altri termini, la designazione di Paesi sciuri con eccezioni personali comporta il rischio che procedure accelerate, fondante su una presunzione di infondatezza della domanda, vengano a avviate proprio nei confronti di chi fugge da persecuzioni e violazioni di diritti, presupposto dello stesso diritto alla protezione internazionale.
Le criticità descritte inducono il giudice a dubitare della compatibilità della normativa interna non solo con le norme della direttiva “procedure” che disciplinano la nozione e la designazione dei Paesi sicuri (artt. 36, 37 dir. 2013/32/UE), ma anche con il diritto al ricorso effettivo (art. 46 dir. 2013/32/UE), messo in discussione dalle caratteristiche della procedura accelerata non adatte all’accertamento di simili situazioni di persecuzione.
Nello specifico i giudici propongono due questioni pregiudiziali[29].
In via principale, il Tribunale domanda alla Corte di giustizia se il diritto dell’UE e, in particolare, gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/UE debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro designi uno Stato come Paese di origine sicuro con esclusione di categorie di persone a rischio, nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza e se, quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva stessa.
In via subordinata, il Tribunale domanda se il diritto dell’UE osti ad una norma nazionale che designi un Paese di origine sicuro con esclusioni personali che, per numero e tipologia, sono di difficile accertamento, considerati i tempi ristretti della procedura accelerata (in particolare “Detenuti; Persone con disabilità fisiche o mentali; Albini; Sieropositivi; Comunità LGBT; Vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di MGF; Vittime di tratta; Giornalisti” ) e se, quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva.
Mediante la questione pregiudiziale in via subordinata il Tribunale di Firenze sembra mettersi al riparo dalle possibili conseguenze che potrebbe avere sui casi in esame l’approvazione del regolamento (UE) 2024/1348 del 14 maggio 2024, il quale – pur applicabile solo a partire dal 2026[30] – consente agli Stati di designare Paesi sicuri con eccezioni personali “chiaramente identificabili”.
A prescindere da tale evoluzione normativa, la Corte di giustizia avrà l’occasione di fare chiarezza sulla corretta interpretazione di norme del diritto UE, contenendo prassi statali che rischiano di minare, nel profondo, il diritto alla protezione internazionale e il diritto alla tutela giurisdizionale dei richiedenti protezione.
4. Paesi sicuri, eccezioni personali e l’art. 10, comma 3 della Costituzione
Le ordinanze in commento offrono anche l’occasione per riflettere sulla coerenza della disciplina dei Paesi sicuri e delle eccezioni personali con i principi costituzionali ed in particolare con l’art. 10, comma 3 della Costituzione, il quale oggi deve essere letto alla luce delle evoluzioni del sistema comune europeo di asilo e delle direttive che lo compongono.
A proposito è utile ricordare che il dettato dell’art. 10, comma 3 Cost. non si riferisce in alcun modo alla nazionalità del richiedente protezione, ma individua quale unico presupposto del diritto d’asilo “l’impedimento delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana”. La verifica di tale impedimento dovrebbe essere effettuata, secondo quanto ritenuto dai primi autorevoli commentatori dell’art. 10, comma 3 Cost. mediante un “paragone” “tra lo status di fatto dello straniero (e cioè della complessiva situazione in cui si trovi effettivamente tale straniero nel suo Paese) e quella che secondo la Costituzione spetta al cittadino italiano”[31]. Ciò che rileva quindi ai fini del riconoscimento del presupposto del diritto d’asilo non è la mera situazione di “sicurezza” del Paese di origine in astratto, quanto piuttosto l’esito di una valutazione in concreto, effettuata mediante il “paragone” tra la condizione individuale dello straniero nel Paese di origine e le libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana.
Tale valutazione non è del tutto esclusa nell’ambito delle procedure accelerate di cui all’art. 28-bis del d.lgs. 25/2008 che, pur riducendo fortemente la cognizione del giudice essendo fondate su una presunzione di non fondatezza della domanda, consentono al richiedente di invocare “gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova”[32].
Per quanto attiene, invece, in modo specifico a quella parte dell’art. 2-bis, comma 2 che consente di designare un Paese sicuro con eccezioni territoriali o personali, non sono poche le criticità poste dalla norma, in riferimento ai principi costituzionali.
Anzitutto, tra le problematiche in relazione all’art. 10, comma 3 Cost. vi è quella concernente il rispetto della riserva di legge prevista dalla disposizione costituzionale che impone che le “condizioni” dell’asilo siano disciplinate dalla legge. Secondo la dottrina si tratta di una “riserva di legge assoluta per la fissazione delle condizioni cui potrà essere eventualmente sottoposto il diritto in esame, essendo rigorosamente escluso che la materia sia disciplinata da norme di fonte secondaria, fatta eccezione per i regolamenti di stretta esecuzione. A maggior ragione non sono possibili provvedimenti discrezionali del potere esecutivo”[33]. Ora, non si potrebbe affermare che l’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri nel Decreto ministeriale e la previsione di categorie personali escluse nelle “Schede Paese” influenzi le condizioni del diritto d’asilo?
Anche a voler ritenere la riserva di legge meramente relativa il problema si pone ugualmente. Lo scopo della riserva di legge, seppur relativa, resta quello di limitare la discrezionalità dell’amministrazione nel riconoscimento di un diritto costituzionale.
Da questo punto di vista, è opportuno segnalare che il D.M. “Paesi sicuri” non avendo seguito la procedura di cui all’art. 17 della legge 400 del 1988 e mancando il parere del Consiglio di Stato, è di dubbia natura, potendo costituire tanto un atto normativo (fonte secondaria), quanto un atto amministrativo a contenuto generale[34].
Indipendentemente dalla natura del D.M., nel caso in esame, la fonte legislativa si limita a consentire la designazione di Paesi con eccezioni di categorie personali, senza indicare i criteri di individuazione di tali categorie.
Peraltro, né le categorie personali, né i relativi criteri di individuazione sono previsti dal D.M. di attuazione bensì in meri atti amministrativi – senza obbligo di pubblicazione - le “Schede Paese” allegate ad un Appunto del Ministero degli esteri. La discrezionalità dell’amministrazione nello scegliere i Paesi sicuri e le categorie escluse – incidendo così sulle “condizioni” di riconoscimento del diritto d’asilo - sembra ben più ampia di quella consentita dalla Costituzione.
Inoltre, la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone sembra porre criticità dal punto di vista del contenuto del diritto d’asilo (art. 10, comma 3 Cost.), del diritto di difesa e tutela giurisdizionale (art. 24 e 113 Cost.), nonché del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Su questi profili si potrebbero riproporre le convincenti argomentazioni del Tribunale di Firenze che varrebbero anche in riferimento a tali principi costituzionali.
Per quanto attiene alla ragionevolezza della scelta legislativa, l’estensione della nozione di Paese sicuro anche a Paesi con esclusioni di categorie di persone pare contraria alla stessa ratio legis, che dovrebbe essere quella di individuare i contesti “sicuri” di provenienza dei richiedenti asilo per giungere agilmente a decisioni di manifesta infondatezza. Al contrario la previsione di eccezioni sembra vanificare l’applicazione dei criteri sanciti all’art. 2-bis d.lgs. n. 25/2008 ai fini della designazione di sicurezza del Paese, nonché gli stessi presupposti del diritto d’asilo.
Le categorie ritenute particolarmente a rischio di persecuzioni, torture, violenze, violazioni di diritti, come quelle elencate nelle “Schede Paese” di Nigeria e Costa D’Avorio, si trovano con tutta probabilità in una situazione di “impedimento delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana” (art. 10, comma 3 Cost.) o in una condizione (persecuzione individuale, violazione generalizzata di diritti umani) che dà diritto al riconoscimento di una delle forme di protezione (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione speciale) che oggi attuano il disposto costituzionale (art. 10, comma 3 Cost.)[35].
Come visto, queste eccezioni hanno l’effetto irragionevole di avviare all’esame accelerato fondato su una presunzione di non fondatezza della domanda, richieste di persone che fuggono da una situazione di impedimento delle libertà democratiche della Costituzione italiana, le quali dovrebbero essere le prime destinatarie delle procedure di asilo.
Ancora, come ben argomentato dal Tribunale di Firenze in relazione ai principi europei, in questi casi risulta particolarmente limitato il diritto alla tutela giurisdizionale e del diritto difesa, che – è bene ricordarlo – rientra tra quei diritti che attengono alla persona umana e spettano a tutti, indipendentemente dalla cittadinanza o dal titolo di soggiorno (art. 24 Cost. e 113 Cost.)[36].
Peraltro si ostacola l’accesso alla tutela giurisdizionale nei confronti di chi invece ha più bisogno di giustizia, essendo soggetto a discriminazioni e persecuzioni (art. 2 e art. 3 Cost.).
Come si accennava, dunque, le argomentazioni del Tribunale di Firenze potrebbero essere utilizzate anche per argomentare riguardo al dubbio di legittimità costituzionale sull’art. 2-bis, con una importante differenza che riguarda la questione pregiudiziale in via subordinata.
A differenza del diritto dell’UE, che nelle sue ultime evoluzioni, sembra ammettere la previsione di eccezioni personali purché “chiaramente identificabili” (reg. UE 2024/1348), la Costituzione non consente, in ogni caso, di lasciare un così ampio margine di discrezionalità all’autorità amministrativa, la quale non può avere il potere di scegliere le “condizioni” di un diritto costituzionale.
5. Un’altra possibile via? La questione di costituzionalità
Alla luce delle criticità costituzionali evidenziate si ritiene che il Tribunale di Firenze avrebbe potuto scegliere anche una strada diversa da quella del rinvio pregiudiziale. Certamente, trattandosi di una questione di interpretazione del diritto UE, ben ha fatto il giudice a proporre il rinvio pregiudiziale.
Tuttavia, come si è argomentato nei precedenti paragrafi, l’art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. 25/2008 sembrerebbe porre dubbi di legittimità sia in riferimento alle norme del diritto dell’Unione (artt. 36, 37 e 46 della dir. 2013/32/UE), sia in riferimento alla Costituzione italiana (artt. 2, 3, 10, comma 3, 24, 113, 117, comma 1 Cost.).
In simili questioni, contraddistinte quindi da una c.d. doppia pregiudizialità, secondo l’orientamento della Corte costituzionale avviato a partire dalla sentenza 269 del 2107[37] “va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato”[38].
Il giudice avrebbe potuto sollevare questione in relazione agli artt. 2, 3, 10, comma 3, 24, 113, 117, comma 1 Cost., evidenziando l’irragionevolezza della scelta legislativa, il suo impatto sul diritto d’asilo, sul diritto di difesa e alla tutela giurisdizionale, nonché il contrasto con le norme della direttiva procedure più volte richiamate.
Inoltre, è importante precisare che, anche alla luce dei principi costituzionali, ben ha fatto il giudice a non disapplicare il D.M., come avvenuto in altri casi già citati, poiché la presunta violazione dei principi costituzionali non deriva dalla mera previsione delle categorie di persone escluse per mano di atti amministrativi, ma trova giustificazione nella legge che espressamente consente all’amministrazione di prevederle.
A proposito sembra utile richiamare alcuni passaggi della sentenza n. 15 del 2024 della Corte costituzionale che - pur riguardando una questione del tutto peculiare attinente al rito antidiscriminatorio - fa chiarezza sui rapporti tra fonti. La Corte precisa che nel caso in cui il comportamento illegittimo della pubblica amministrazione “trovi origine nella legge, in quanto è quest’ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta, allora l’attività illegittima è ascrivibile alla pubblica amministrazione soltanto in via mediata, in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere illegittime sta, appunto, la legge[39]”.
In evenienze del genere, non è possibile procedere alla disapplicazione di norme “che siano riproduttive di norme legislative” (…), ma questo rimedio sarebbe subordinato all’accoglimento “della questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa che il giudice ritenga essere causa della natura illegittima dell’atto regolamentare”[40].
Ecco che allora, in conclusione si propone una riflessione.
Nell’ambito delle procedure di asilo, specialmente nell’ambito di quelle di recente introduzione accelerate e di frontiera, i giudici sono costretti a confrontarsi con discipline che limitano fortemente i diritti costituzionali della persona, come il diritto di difesa, la libertà personale, il diritto di asilo. Tali limitazioni, seppur in un settore dominato da un complicato intreccio di atti amministrativi e fonti secondarie, trovano tendenzialmente giustificazione in chiare scelte legislative, spesso di recepimento di atti dell’UE.
È innegabile, infatti, che il legislatore europeo e nazionale stiano potenziando le procedure accelerate e di frontiera, tramite misure di dubbia compatibilità con i principi costituzionali, prevedendo forme sempre più limitative del diritto d’asilo, del diritto di difesa ed estendendo i casi di trattenimento dei richiedenti protezione internazionale.
Tale contesto non può esimere i giudici dall’interrogarsi sulla coerenza di tali scelte legislative con i principi costituzionali: l’unico rimedio per non contraddire l’intenzione generale del legislatore e allo stesso tempo tentare di assicurare, con efficacia erga omnes, i diritti costituzionali, è il sollevamento della questione di costituzionalità. I tempi sono maturi?
[1] Trib. Firenze, Sez. specializzata protezione internazionale, ord. del 15 maggio 2024 (r.g. 3303/2024); ord. del 15 maggio 2024 (r.g. 3303/2024)
[2] Decreto del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, “Aggiornamento periodico della lista dei Paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale”, del 17 maggio 2023, che ha aggiornato la versione antecedente del Decreto “Individuazione dei Paesi di origine sicuri, ai sensi dell'articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25”, del 4 ottobre 2019. Di recente la lista dei Paesi sicuri è stata nuovamente aggiornata con Decreto del 7 maggio 2024.
[3] Cfr. Appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, richiamato nella premessa del D.M. del 17 maggio 2023, al quale sono allegate le “Schede Paese”.
[4] La norma consente anche la designazione di un Paese sicuro con eccezioni di parti del territorio. Su questo specifico aspetto è pendente un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE promosso dal Tribunale di Brno (C 406-22). Il presente commento si concentrerà sul tema delle eccezioni personali, oggetto delle ordinanze del Tribunale di Firenze.
[5] Cfr. Scheda Paese della Nigeria, del 3 novembre 2022, allegata all’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, pubblicata sul sito di ASGI.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. Scheda Paese della Costa di Avorio, del 21 ottobre 2022, allegata all’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, pubblicata sul sito di ASGI.
[8] Ci si riferisce ai decreti adottati in sede cautelare (ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 e 737 c.p.c.) dal Tribunale di Firenze, il quale ritenendo illegittimo l’inserimento della Tunisia nella lista dei Paesi sicuri ha disapplicato il D.M. del 17 maggio 2023 cfr. decreti del 20.9.2023 (r.g. 9787/2023) e del 26.11.2023 (r.g. 11464-1/2023; r.g. 4988-1/2022; r.g. 3773-3/2023); in senso contrario si vedano Tribunale di Milano, decreti del 1.12.2023 (r.g. 38586-1/2023() e del 6 maggio 2024 (r.g. 14740-1/2024); Tribunale Firenze, decreto del 11.1.2024. A commento di questa giurisprudenza, in particolare sul potere del giudice di disapplicazione del giudice ordinario cfr. C. Cudia, Sindacabilità e disapplicazione del decreto Ministeriale di individuazione dei “paesi di origine Sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Dir. Imm. Citt., 2/2024; A. De Santis, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. Il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2/2024.
[9] Ci si riferisce al Nuovo Patto UE sulla migrazione, del 14 maggio 2024.
[10] Per un approfondimento sull’evoluzione di tale concetto cfr. F. Venturi, Il diritto di asilo: un diritto “sofferente”. L’introduzione nell’ordinamento italiano del concetto di «Paesi di origine sicuri» ad opera della l. 132/2018 di conversione del c.d. «Decreto Sicurezza» (d.l. 113/2018), in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2/2019.
[11] Artt. 29 e 30 dir. 2005/85/CE.
[12] CGUE, 6.5.2008 (n. C-133/06). La Corte ha censurato l’incompetenza del Consiglio in materia.
[13] Cfr. Cons. 2005/85/CE n. 18: “Visto il grado di armonizzazione raggiunto in relazione all’attribuzione della qualifica di rifugiato ai cittadini di paesi terzi e agli apolidi, si dovrebbero definire criteri comuni per la designazione dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri”.
[14] Cfr. Direttiva 2013/32/UE: procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale; nella proposta e nella relazione accompagnatoria si evince la volontà della Commissione di eliminare tale previsione cfr. Com (2011)319 def., 1giugno 2011. Si veda su questo punto anche la motivazione dell’ordinanza del 15 maggio 2024 del Trib. di Firenze, p. 19.
[15] Argomenta molto bene sul punto il Trib. di Firenze cfr. ord. 15 maggio 2024, p. 18.
[16] Proposta di modifica n. 7.0.500 al DDL n. 840, 2 novembre 2018, n. 2.
[17] Cfr. Proposta emendativa pubblicata nel Bollettino delle Giunte e Commissioni del 21/11/2018, 7-bis.
[18]Cfr. A. Radjenovic, European Parliamentary Research Service, Members’ Research Service Safe country of origin’ concept in EU asylum law, may 2024, p. 7.
[19] Il Regolamento è stato approvato nell’ambito del Nuovo Patto UE sulla migrazione, del 14 maggio 2024.
[20] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 10 e p. 12.
[21] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 17 e p. 20.
[22] Ibidem.
[23]Cfr. Trib. Firenze, decreti del 20.9.2023 (r.g. 9787/2023), del 26.11.2023 (r.g. 11464-1/2023; r.g. 4988-1/2022; r.g. 3773-3/2023), cit.
[24] Cfr., ad esempio, Trib. Milano, decreto del 6 maggio 2024 (r.g. 14740-1/2024). In senso analogo cfr. Tribunale di Milano, decreti del 1.12.2023 (r.g. 38586-1/2023); Tribunale Firenze, decreto del 11.1.2024, cit.
[25] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 18 e p. 22.
[26] Cfr. cons. 20, dir. 2013/32/UE.
[27] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 11 e p. 12.
[28] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 20 e p. 24.
[29] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 22 e p. 26.
[30] Cfr. Art. 79, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348.
[31] C. Esposito, Asilo (diritto di) – Diritto costituzionale, in Enciclopedia del Diritto – Volume III, 1958, p. 223.
[32] Cfr. art. 2-bis, comma 5, d.lgs. 25/2008.
[33] R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Art. 10. Costituzione commentata, One legale, 2024, p. 22.
[34] Sulla natura dubbia del D.M. cfr. Consiglio di Stato sez. IV - 19/06/2024, n. 5476. In dottrina su questi atti cfr. F. Massa, Regolamenti amministrativi e processo, Jovene, Napoli, 2012, p. 15.
[35] È noto che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, l’art. 10, comma 3 Cost. “è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario” cfr. ex multis Cass., sez. VI, ord. 10686/2012, richiamata anche dalla Corte costituzionale nella sent. n. 194 del 2019.
[36] Cfr. C. cost. sent. n. 222 del 2004.
[37] Sulle permanenti ragioni della sent. n. 269 del 2017 si veda N. Zanon, Ancora in tema di doppia pregiudizialità: le permanenti ragioni della “precisazione” contenuta nella sentenza n. 269 del 2017 alla “grande regola” Simmenthal-Granital, in B. Carotti, Identità nazionale degli stati membri, primato Del diritto dell’unione europea, stato di Diritto e indipendenza dei giudici nazionali, Roma, ottobre 2022, pp. 79 ss.
[38] C. cost. sent. n. 20 del 2019, cons. in dir. 2.1. A commento della giurisprudenza della Corte costituzionale sulla c.d. doppia pregiudizialità sono particolarmente utili gli studi di M. D’Amico, La “resilienza” della carta dei diritti fondamentali dell’UE, in C. Amalfitano, M. D’Amico, S. Leone, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel sistema integrato di tutela, Giappichelli, Torino, 2022, pp. 243 ss., nonché di S. Catalano, Doppia pregiudizialità: una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, in Federalismi, 10/2019; S. Leone, Il regime della doppia pregiudizialità alla luce della sentenza n. 20 del 2019 della Corte costituzionale, in Rivista Aic, 3/2019: A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Osservatorio sulle fonti, 1/2020.
[39] C. cost. sent. n. 15 del 2024, cons. in dir. 7.3.2; rispetto al testo della sentenza la parola discriminatorio è stata sostituita con illegittimo.
[40] Ibidem.
Immagine: l'impiego della bussola, nella miniatura di una copia (sec. XV) del Livre des Merveilles du Monde di Marco Polo, via Wikimedia Commons.
Sullo stesso tema, si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024, Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024, Osservazioni sugli interventi in materia di Liberazione anticipata e misure in materia penitenziaria di cui al Decreto legge n. 92 del 4 luglio 2024. Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato in materia di D.L. 92 del 2024, 10 luglio 2024 di Maria Cristina Ornano, pubblicato il 15 luglio 2024.
La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. I nuovi contenuti della legge - 2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita - 3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura - 4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio - 5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse - 6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico - 7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta.
1. I nuovi contenuti della legge. Al Parlamento sono bastati appena trentacinque giorni per convertire in legge le disposizioni contenute nel decreto-legge c.d. “Carcere sicuro” n. 92/2024. Trentacinque giorni di caldo torrido, di crescente sovraffollamento carcerario, di nuovi suicidi dietro le sbarre, di critiche diffuse circa i contenuti deludenti del testo, di esortazioni, anche formalmente rese nel corso delle audizioni svolte in Senato, a correggere e integrare quanto contenuto nella decretazione d’urgenza[1].
In effetti le correzioni effettuate sono meno che sporadiche, mentre le integrazioni, invece copiose, non sembrano rispondere alle richieste largamente pervenute al Parlamento, soprattutto quelle volte a immaginare interventi di pronto risultato per mettere mano alla situazione di sovraffollamento drammatico, che sempre più si riscontra nelle nostre carceri.
Richiamandoci in questo contributo ai rilievi già svolti a prima lettura in ordine al decreto-legge[2], si proverà, nei paragrafi seguenti, a concentrarsi sulle novità che più strettamente coinvolgono le competenze dirette della magistratura di sorveglianza. È comunque necessario almeno accennare ad alcuni importanti nuovi contenuti della legge di conversione, di cui non vi era traccia nel decreto-legge 92.
Ci si riferisce in particolare ad alcune disposizioni concernenti il servizio sanitario operante presso gli istituti penitenziari e, soprattutto, all’ampio art. 6-bis, che prova a fluidificare le comunicazioni di dati in materia sanitaria delle persone detenute tra Ministero della salute e Ministero della Giustizia, sicuramente utile in un settore in cui da tempo si riscontravano criticità.
Un capitolo a parte meriterebbe poi la (ri)creazione della figura di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, di cui all’art. 4-bis della legge di conversione, “per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento” secondo l’incipit del co. 1. Si tratterà di una figura, nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e trasporti, chiamato a compiere tutti gli atti necessari a realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti”.
Si tratta, in buona sostanza, di un programma di lavoro vasto ed ambizioso, quanto meno a medio, se non a lungo, termine, del quale occorrerà seguire con attenzione il concreto sviluppo. Occorrerà monitorare attentamente obbiettivi specifici, tempistiche, modalità attuative, priorità di interventi, ben consci comunque che da tempo le raccomandazioni europee sottolineano come l’incremento di posti disponibili nelle strutture penitenziare debba costituire una misura del tutto eccezionale, per la sua incapacità di risolvere il problema e di durare: in sostanza i posti in più si saturano rapidamente.
E non è ovviamente soltanto un problema di allocazioni, come tanto gli stati Generali dell’esecuzione penale, quanto in seguito l’istituzione di una Commissione per l’architettura penitenziaria avevano sottolineato, ma dell’esistenza o meno di un progetto risocializzante connesso agli spazi detentivi e al loro significato. E c’è, non da ultimo, il problema di risorse umane già allo stato del tutto insufficienti e rispetto al potenziamento delle quali l’ampliamento degli spazi finisce per essere decisamente secondario. Il carcere è certamente assai più duro, infatti, dove diventa un mero contenitore di corpi, abbandonati ad una quotidianità deprivata di opportunità di contatto con operatori ed operatrici in grado di costruire con le persone dei credibili percorsi di rientro in società.
2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita. Come più ampiamente si è provato a dire alla prima lettura di quelle disposizioni, il decreto-legge 92 ha previsto che la liberazione anticipata venga ordinariamente concessa dalla magistratura di sorveglianza d’ufficio in occasione della valutazione di ammissibilità dei benefici penitenziari e in vista del fine pena, con una residualità dell’istanza di parte che, per essere ammissibile, deve contenere il riferimento ad un interesse specifico e ulteriore. A monte di questa rarefazione dei momenti in cui si può ottenere il provvedimento da parte della sorveglianza che sancisce la partecipazione all’opera rieducativa tenuta, è stato previsto l’obbligo per il PM che emette l’ordine di esecuzione di informare il condannato che, mediante il proprio comportamento, potrà ottenere una riduzione pena per buona condotta, così anticipando il proprio fine pena sino alla data che viene indicata (fine pena virtuale).
Il nuovo meccanismo concessivo della liberazione anticipata ha superato il vaglio del Parlamento, con una sola rilevante modifica, decisamente migliorativa, ma di dettaglio. Si prevede, infatti, nell’art. 54 co. 2 ord. penit., che siano comunicate al PM dell’esecuzione le concessioni di liberazione anticipata emesse dal magistrato di sorveglianza, e non soltanto le “mancate concessioni” o le revoche, sanando così un difetto evidente della disposizione pensata con il decreto-legge, che di fatto non avrebbe consentito al PM competente di aggiornare il fine pena reale del condannato a fronte della concessione del beneficio.
Resta, tuttavia, quello che a chi scrive appare come un grave vulnus al senso stesso della liberazione anticipata come vera e propria cartina di tornasole, non a caso opportunamente semestralizzata dal legislatore, del comportamento tenuto dalla persona condannata. Un congegno dialogico che, mediante le istanze di parte, semestre per semestre, consente all’interessato di orientare il proprio comportamento, e al magistrato di sorveglianza di studiare gradualmente le evoluzioni personologiche del condannato. Un meccanismo che fornisce un riscontro importante anche all’istituto penitenziario, e una risposta, il più possibile tempestiva, rispetto alle condotte negative poste in essere, a fronte delle quali il rigetto costituisce stimolo a far meglio nel seguito.
Occorre ricordare[3] che, nei primi tempi di vigenza dell’allora nuovo istituto della liberazione anticipata, la stessa Corte Costituzionale, con la sent. 276/1990, ebbe a sottolineare come la valutazione semestralizzata della concessione della liberazione anticipata fosse “il punto di forza dello strumento rieducativo, che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica”.
Ed ancora: “(L)'aspetto sintomatico del comportamento delinquenziale è dato dall'incapacità del soggetto a risolvere i problemi della sua vita attraverso mezzi e per vie socialmente accettabili: e ciò soprattutto perché non ha attitudine a sopportare sacrifici e fatiche nella prospettiva di un bene futuro. Questo aspetto negativo della personalità, ovviamente presente quando il condannato viene sottoposto a trattamento rieducativo, gli preclude ogni incentivo a prestare una per lui sacrificante partecipazione all'azione di risocializzazione, se il premio è rappresentato da una liberazione condizionale o da una semilibertà poste temporalmente a distanza di anni, e talvolta di molti anni. Ecco allora lo strumento di grande valore psicologico rappresentato da una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in breve lasso di tempo, purchè in quel tempo egli riesca a dare adesione all'azione rieducativa. Certo, nei primi semestri la spinta psicologica sarà necessariamente eteronoma. Il condannato potrà nutrire scarsa convinzione nell'utilità etica del suo comportamento, ma intanto presterà la sua partecipazione in vista del premio a portata di mano. Poi, via via che, di semestre in semestre, moltiplicherà i suoi sforzi per accumulare benefici l'uno sull'altro, la perseveranza finirà per formare lentamente un comportamento abitudinario, su cui è possibile lo sviluppo di un diverso modo di essere, conseguente alla soddisfazione per i risultati raggiunti e alla fiducia acquisita nelle forze del proprio impegno.”
Sotto questo profilo deve dunque paventarsi una possibile frizione con i principi costituzionali, nella previsione di un procedimento che sia solo residualmente a istanza di parte, collegata alla allegazione di un interesse specifico.
3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura. Nonostante fosse stata segnalata come problematica l’assenza di disposizioni intertemporali, le stesse non hanno trovato spazio nella legge di conversione. La situazione attuale non è, perciò, particolarmente chiara, innanzitutto ai destinatari del beneficio, ma anche ai molti operatori ed operatrici che lavorano intorno alla liberazione anticipata.
Secondo il principio del tempus regit actum, la nuova normativa trova fin da subito applicazione. Anche prima, si direbbe, della necessaria messa a punto delle disposizioni del regolamento di esecuzione (che per altro meriterebbe una attualizzazione nel suo complesso, come ampiamente tentato, inascoltata, dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nel 2021). Non è più necessario, tra l’altro, chiedere il preventivo parere, in precedenza obbligatorio, al pubblico ministero della sede dell’ufficio di sorveglianza. Le Procure della Repubblica stanno emettendo ordini di esecuzione comprensivi del calcolo del “fine pena virtuale” soltanto in relazione alle pene da porre in esecuzione dall’entrata in vigore del decreto – legge, oppure quando occorre mettere mano ad un ordine già emesso, per qualche modifica, come ad esempio il sopravvenire di un ulteriore titolo. Ciò significa che la grandissima parte delle persone attualmente detenute in esecuzione pena non hanno ancora ricevuto, e forse mai riceveranno, un ordine di esecuzione con lo “specchietto” dei semestri di liberazione anticipata che possono ottenere, con relativa quantificazione del fine pena virtuale.
Rispetto a queste persone, perciò, sembra di poter dire che residui un interesse intrinseco ad avere ancora la pronuncia semestralizzata da parte del magistrato di sorveglianza, perché la nuova legge fa fronte al venir meno della possibilità di richiedere il beneficio quando si vuole, mentre si fornisce al condannato una chiara indicazione di che misura avranno via via le riduzioni pena che otterrà. Una situazione che non riguarda la grandissima parte di chi era in esecuzione penale all’entrata in vigore della legge.
Allo stato, i primi ordini di esecuzione emessi con il computo del fine pena virtuale non sono, in alcuni casi, esenti da profili critici. Il testo normativo sembra correttamente indicare che nel provvedimento debbano essere intanto contenuti certamente il fine pena reale al fianco di quello virtuale, ma anche le singole possibili detrazioni, e non dunque soltanto la sommatoria delle stesse. Il meccanismo di concessione della liberazione anticipata, infatti, prevede che l’interessato possa contare, giorno per giorno, ai fini dell’ammissibilità dei benefici penitenziari, non già di tutte le possibili detrazioni, ma soltanto di quelle per le quali ha già espiato la relativa pena. Appaiono quindi forieri di dubbi gli ordini di esecuzione che citano soltanto il fine pena virtuale “finale”, con il rischio che l’interessato ritenga di poter lucrare sin da subito un beneficio che occorre invece maturare via via.
Allo stesso modo il computo semestre per semestre fuga anche il rischio di una indicazione errata del fine pena virtuale “finale”, che deriva dal mero computo dei semestri astrattamente ottenibili (ad es.: tre anni di pena = sei semestri), perché in realtà la progressiva concessione delle riduzioni di pena da quarantacinque giorni ciascuna, determina una riduzione del fine pena che non consente il completamento di tutti i semestri astrattamente da eseguirsi (nello stesso esempio: con tre anni di pena possono completarsi soltanto cinque semestri).
Quanto agli uffici matricola degli istituti penitenziari, c’è da attendersi che l’amministrazione attui opportune modifiche, come già in qualche caso si è notato, rendendo visualizzabile in posizione giuridica entrambi i fine pena: reale e virtuale. Dove ciò non accade è infatti piuttosto grave il rischio che si faccia confusione e si tenga conto soltanto di quest’ultimo.
Una corretta informazione delle persone detenute appare una precondizione per evitare che le nuove disposizioni normative ingenerino dubbi e un profluvio di istanze inammissibili. Per il momento già iniziano a pervenire istanze volte ad ottenere dal magistrato di sorveglianza, o dall’ufficio di Procura, la concessione di tutti i semestri sino al fine pena, fraintendendo il senso della comunicazione del fine pena virtuale, e vi è il rischio di una molteplicità di istanze di beneficio penitenziario inammissibili, perché basate su computi erronei.
4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio. La legge di conversione ha introdotto, nell’art. 5 della legge, rubricato come “Interventi in materia di liberazione anticipata” un comma 9-bis all’art. 656 cod. proc. pen. La novella introduce la previsione secondo la quale il pubblico ministero, prima di emettere un ordine di esecuzione[4], trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza perché questi disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino a decisione del Tribunale di sorveglianza, in favore del condannato ultrasettantenne, ove la pena che questi deve espiare sia compresa tra due e quattro anni. La previsione non riguarda tuttavia i condannati per i delitti contenuti nell’art. 51 co. 3-bis cod. proc. pen. e per quelli compresi nell’art. 4-bis ord. penit.
L’interpretazione della nuova previsione non è ardua per la lettera del testo, ma per la difficoltà di comprendere quale obbiettivo il legislatore abbia in questo caso perseguito. Deve infatti ricordarsi che ordinariamente l’esecuzione delle condanne a pene non superiori ai quattro anni, ai sensi dell’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., resta sospesa in attesa delle valutazioni della magistratura di sorveglianza. Nel caso che ci occupa, rispetto ad una tipologia di condannato specialmente fragile, quella degli ultrasettantenni, la modifica si rivela di fatto un irrigidimento, perché l’interessato, invece di attendere dalla libertà una pronuncia della sorveglianza che in ipotesi gli conceda la più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, deve ora da subito espiare la propria pena in detenzione domiciliare, salvo l’attesa, verosimilmente piuttosto lunga, tenuto conto delle difficoltà in cui versano i Tribunali di sorveglianza, di una decisione sulla misura alternativa più ampia.
Alla sospensione di cui all’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., non possono accedere i condannati per reati di 4-bis ord. penit., ma gli stessi sono esclusi anche dalla disposizione introdotta, nonché gli autori degli altri reati indicati nell’art. 656 co. 9 lett. a). Soltanto per questi ultimi (maltrattanti, autori di incendio boschivo o di atti persecutori di speciale gravità, …), dunque, la disposizione evita che si schiudano le porte del carcere ed introduce la possibilità di una immediata concessione di misura comunque meno gravosa di quest’ultimo. Si tratta però di numeri davvero esigui, considerata da un lato la tipologia di reati e dall’altro l’età dei suoi autori al momento dell’esecuzione penale.
5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse. La conversione in legge ha costituito l’occasione per l’introduzione di una ulteriore peculiare previsione, a mente della quale, ancor prima dell’emissione dell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette al magistrato di sorveglianza gli atti perché disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza, nei confronti del condannato cui siano stati già concessi gli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.
La novella consente dunque di evitare il carcere a quei soggetti che non avrebbero potuto beneficiare del meccanismo di cui all’art. 656 co. 10 cod. proc. pen. in ragione del fine pena residuo o della tipologia di delitti per i quali si è giunti a condanna, entrambi profili che, comprensibilmente rispetto alle gravissime condizioni di salute cui si ricollega la previsione, risultano recessivi.
Resta invece ancora una volta non affrontato lo spinoso tema del condannato in condizioni di salute gravi, di cui ci si avveda al momento dell’emissione di un ordine di esecuzione, con trasmissione (ai sensi dell’art. 108 reg. es. ord. penit.) al magistrato di sorveglianza affinché decida secondo l’art. 684 cod. proc. pen.
In questi casi non sempre l’ordine di esecuzione viene contemporaneamente sospeso in attesa della, pur urgente, pronuncia provvisoria, con conseguente “assaggio” di carcere nei confronti di un soggetto dalla salute in ipotesi compromessa.
6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico. All’interno dell’art. 10 della legge 112, destinato a contenere una miscellanea di interventi dalle finalità diverse (come deducibile dalla rubrica omnibus), si leggono alcune previsioni acceleratorie specialmente onerose, contenute nel nuovo art. 658-bis e poi in un comma 1-bis dell’art. 679 cod. proc. pen.
In sostanza si prevede che, quando è disposta in condanna una misura di sicurezza da eseguirsi in REMS, il pubblico ministero deve chiedere al magistrato di sorveglianza, senza ritardo, e comunque entro cinque giorni, la fissazione dell’udienza per gli accertamenti relativi all’attualità della pericolosità sociale ex art. 679.
In quest’ultima disposizione si legge come, su tale richiesta, il magistrato di sorveglianza debba provvedere alla fissazione dell’udienza senza ritardo, e comunque entro cinque giorni dalla richiesta medesima. La previsione lascia adito a dubbi interpretativi. È chiaro che il legislatore intende sollecitare la più rapida definizione del procedimento, e tuttavia il termine di almeno dieci giorni prima dell’udienza, indicato per l’avviso alle parti dall’art. 666 co. 3 cod. proc. pen., non appare venuto meno. Deve quindi ritenersi, affinché entrambe le disposizioni siano rispettate, che il termine oggi previsto dall’art. 679 co. 1-bis ord. penit., di natura comunque meramente ordinatoria, concerna la sola fissazione dell’udienza, la cui data non potrà che essere successiva ai cinque giorni, per consentire corretti avvisi alle parti.
Fino alla decisione, comunque, la novella prevede che permanga la misura di sicurezza provvisoria, applicata ai sensi dell’art. 312 cod. proc. pen., con computo del tempo trascorso a tutti gli effetti di legge. Si prevede, altresì, che il pubblico ministero possa richiedere al magistrato di sorveglianza che questi disponga una misura di sicurezza provvisoria, nelle more della decisione.
Per come accennato, si tratta di un congegno che grava procure e magistratura di sorveglianza di una serie di adempimenti urgenti che, tuttavia, corrono il rischio di scontrarsi, ad una prova di realtà, contro il noto problema di REMS che non dispongono di spazi disponibili per accogliere chi deve eseguire una misura di sicurezza detentiva psichiatrica e che, perciò, anche a fronte di una sollecita pronuncia, potrebbero non condurre al risultato sperato. La possibilità di disporre una misura di sicurezza in via provvisoria, non già disposta nel corso del processo di cognizione, per quanto – si direbbe – non solo quella detentiva, da parte del magistrato di sorveglianza, inaudita altera parte, non è per altro privo di criticità per la forte carenza di garanzie che ne deriva.
7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta. Nella legge di conversione (art. 10-bis) è stata prevista persino una modifica dell’art. 47 ord. penit., la disposizione che concerne l’affidamento in prova al servizio sociale, il fiore all’occhiello (secondo l’arcinota definizione di Bricola) dell’ordinamento penitenziario.
Vi si chiarisce che la ampia misura alternativa non debba essere concessa soltanto a chi disponga di opportunità di reinserimento connesse alla possibilità di svolgere una attività lavorativa, sia di tipo autonomo che dipendente, ma anche quando, in sostituzione, possa accedere ad un idoneo servizio di volontariato o ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione, nelle forme e con le modalità di cui agli articoli 1, 2 e 4 del decreto del Ministro della Giustizia 26.03.2001, in quanto compatibili, nell’ambito di piani di attività predisposti entro il 31 gennaio di ogni anno, di concerto tra gli enti interessati, le direzioni penitenziarie e gli uffici per l’esecuzione penale esterna e comunicati al presidente del tribunale di sorveglianza territorialmente competente.
La giurisprudenza di legittimità già da tempo considera che ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale non sia necessaria la sussistenza di un lavoro, ad esempio perché la persona non può svolgerlo per ragioni di età o di salute (cfr. cass. 1023/2018 e, più di recente, 14003/2023), ma anche quando il lavoro non sia altrimenti disponibile, potendo questo requisito essere surrogato da un'attività socialmente utile anche di tipo volontaristico (vd., già, cass. 18939/2013).
La novella, dunque, sotto questo profilo, sembra ricalcare spazi già percorsi, ed in effetti è esperienza quotidiana che, nel merito, vengano concessi affidamenti in prova a chi dimostri di potersi impegnare, o già si impegni, in strutturate esperienze di volontariato che, non di rado, costituiscono un’occasione di risocializzazione che può far da volano anche al reperimento successivo di opportunità lavorative.
Tuttavia, deve sottolinearsi come la speciale centratura su requisiti specifici che questi servizi dovrebbero avere, ed il riferimento a piani di attività predisposti annualmente, corrano il rischio di imbrigliare l’opzione surrogatoria in maglie più strette di quelle oggi in uso, con la conseguenza di inibire iniziative di parte volte alla costruzione di credibili percorsi di volontariato che non vi rientrino. D’altra parte i servizi sono ormai da tempo chiamati ad utilizzare il volontario e le iniziative di pubblica utilità a fronte di una molteplicità di istituti, tanto da aver saturato, in alcuni territori, l’offerta disponibile.
Si tratta comunque di un profilo interpretativo che occorre rimettere al prudente apprezzamento dei tribunali di sorveglianza, che ormai da mezzo secolo maneggiano uno strumento duttile e ricchissimo, come l’affidamento in prova al servizio sociale, facendo dell’individualizzazione dei verbali prescrittivi la miglior garanzia di misure effettivamente risocializzanti. Può in tal senso immaginarsi che si valorizzi una ratio dell’intervento legislativo come volto ad aprire nuove possibilità, sensibilizzando opportunamente i territori, e non, con effetto paradossale, a irrigidire i requisiti di accesso.
[1] Vd., in sede di audizione, M. RUOTOLO, Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura, in Sistema penale, 11.07.2024 e C. ORNANO, Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024, in questa rivista, 15.07.2024. In dottrina anche M. PELISSERO, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell’emergenza carceraria, in Sistema penale, 18.07.2024 e F. FIORENTIN, Un impianto inadeguato agli obiettivi da rafforzare in sede di conversione in Guida al Diritto, 27.07.2024, pp. 92 ss.
[2] Ci si riferisce, in questa rivista, a F. GIANFILIPPI, Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, 10.07.2024.
[3] Si tratta di un rilievo già ampiamente sviluppato nell’audizione svolta dallo scrivente presso la Commissione Giustizia del Senato il 10.07.2024 nell’ambito dei lavori in vista della Conversione in legge del d.l. 92/2024, documentazione in www.senato.it.
[4] Insiste particolarmente su questo profilo, replicato anche nel nuovo co. 9-ter, come una vera e propria criticità di sistema F. FIORENTIN, Domiciliari a ultrasettantenni: necessari protocolli operativi. Le procedure di esecuzione, in corso di pubblicazione in Guida al Diritto, n. 32-33.
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