ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Regolamento Dublino III nella interpretazione della giurisprudenza europea e nazionale
Commento a Tribunale di Firenze, decr. n. 2988 del 23/05/2024
di Rita Russo
Sommario. 1. La “questione Dublino” e le sue interferenze con il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione. 2. Il caso concreto e la sua soluzione. 3. Considerazioni conclusive.
1. La “questione Dublino” e le sue interferenze con il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione.
Il Tribunale di Firenze si è pronunciato in un caso paradigmatico che riassume e ricapitola le principali questioni controverse sulla applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013 (regolamento Dublino III) in tema di competenza degli Stati membri ad esaminare la domanda di protezione internazionale.
Il regolamento Dublino III è uno dei pilastri portanti del comune sistema di asilo europeo (CEAS) disegnato in attuazione dell’art. 78 TFUE, secondo il quale l’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea (con quest’ultima intendendosi la protezione temporanea degli sfollati di massa). Il Dublino III costituisce, unitamente al regolamento Eurodac, il solo strumento normativo del CEAS per il quale l’Unione ha scelto la forma regolamentare, affidandosi per il resto alle direttive.
Il diritto europeo poggia sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca (mutual trust) tra gli Stati membri nel riconoscimento di tali valori, e nel fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali. Il principio della reciproca fiducia impone a ogni Stato di presumere che, tranne in circostanze eccezionali, gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, in particolare, i diritti fondamentali sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Carta di Nizza). Questo principio è pienamente operante anche in ambito CEAS, perché trattandosi di un principio fondante non è necessario che venga richiamato in ogni specifica norma del TFUE o di strumenti ulteriori; si deve quindi presumere che in qualunque Stato della UE il richiedente asilo riceverà una protezione conforme agli standard definiti dal diritto dell’Unione.
Su questa presunzione si fondano i criteri regolamentari di determinazione della competenza a decidere la domanda di protezione internazionale e le procedure di presa e ripresa in carico del richiedente, vale a dire le procedure di trasferimento del richiedente asilo dallo Stato membro in cui ha presentato la domanda (per la prima volta o dopo averne già presentata una in altro Stato UE), allo Stato membro competente ad esaminare detta domanda, che di regola è lo Stato membro di primo ingresso, salvo taluni casi specificamente previsti dal regolamento stesso, in ordine gerarchico (ad es. minori, relazioni familiari, visto di ingresso o titolo di soggiorno già rilasciato, ipotesi previste dagli artt. 8-15 del regolamento).
Il regolamento Dublino III persegue infatti l’obiettivo di dare un solo giudice alla richiesta di protezione internazionale[1]e di non consentire il forum shopping, tramite la rigida e gerarchica determinazione di criteri di competenza, secondo quanto previsto nell’art.7.
Nondimeno, questo rigido sistema di determinazione dei criteri di competenza presenta due rilevanti eccezioni. La prima è legata alla possibilità che nello Stato in cui il soggetto debba essere trasferito in quanto Stato competente, esistano carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, (art.3 del Regolamento). Quando il giudice dispone di elementi, prodotti dall’interessato, per dimostrare l’esistenza di un tale rischio, è tenuto a valutare, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati, e alla luce del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione, l’esistenza non solo di carenze sistemiche o generalizzate, ma anche di carenze che colpiscono determinati gruppi di persone[2]. La seconda è la facoltà riconosciuta a ciascuno Stato membro di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel regolamento (art.17, clausola discrezionale). L’Unità Dublino, autorità amministrativa istituita ex legepresso il Ministero dell’interno, che si occupa della determinazione del giudice competente e decide sui trasferimenti, può avvalersi o meno di questa clausola.
Il sistema di determinazione delle competenze è poi assistito da garanzie informative specifiche molto incisive, stabilite dagli artt. 4 e 5 del regolamento Dublino III, i quali impongono che l’autorità competente consegni al richiedente asilo un opuscolo informativo, redatto secondo un modello comune, sui criteri di determinazione della competenza, sulle informazioni rilevanti da fornire a tal fine, sulle modalità di impugnazione e sul trattamento dati personali; inoltre l’autorità competente deve provvedere ad un colloquio personale con il richiedente che permetta la corretta comprensione delle informazioni già fornite tramite la consegna dell’opuscolo.
L'applicazione del regolamento Dublino III presenta talune difficoltà interpretative sulle quali sia i giudici di merito italiani -e tra questi il Tribunale di Firenze- sia la Corte di Cassazione hanno richiesto l'intervento della Corte di giustizia europea (CGUE), cui sono state sottoposte essenzialmente due questioni problematiche.
La prima questione riguarda il diritto di informazione, di cui all’art. 4 del regolamento Dublino III e all’art. 29 del regolamento Eurodac, nonché lo svolgimento del colloquio personale, previsto dall’art. 5 del regolamento Dublino III. In particolare riguarda le conseguenze che si devono trarre, per la legittimità della decisione di trasferimento, dalla mancata consegna dell’opuscolo comune menzionato dall’art. 4, paragrafo 2, del regolamento Dublino III e dall’art. 29, paragrafo 3, del regolamento Eurodac, nonché dal mancato svolgimento del colloquio personale previsto dall’art. 5 del regolamento Dublino III.
La seconda questione riguarda la possibilità per il giudice incaricato dell’esame della legittimità della decisione di trasferimento, di valutare il rischio di refoulement indiretto dell’interessato e, di conseguenza, di violazione del principio di non-refoulement da parte dello Stato membro competente; vale a dire la possibilità che nelle procedure di ripresa in carico, quando esiste già una decisione (negativa) adottata dal giudice di un altro Stato membro, il trasferimento verso questo Stato membro esponga il richiedente al rischio, in esecuzione della decisione, di essere rinviato verso uno Stato ove possa subire un trattamento inumano e degradante.
La Corte di giustizia, come è noto, si è pronunciata con sentenza del 30 novembre 2023, nelle cause riunite C‑228/21, C‑254/21, C‑297/21, C‑315/21 e C‑328/21, a distanza di due anni dai rinvii pregiudiziali, con decisione che, se sembra aver fatto sufficiente chiarezza sugli obblighi informativi, ha però lasciato in qualche misura aperto il problema del respingimento indiretto o meglio delle domande che si agitavano al fondo di esso: quid iuris se il giudice italiano non condivide la decisione di diniego del suo collega europeo? O meglio, se il giudice italiano ritiene che nonostante la decisione negativa resa dal suo collega europeo il richiedente asilo non dovrebbe essere rimpatriato perché sarebbe esposto nel suo paese di origine a trattamento inumano e degradante ovvero ad altro rischio di lesione dei diritti fondamentali?
L’argomento presenta stretta attinenza con il tema che lo stesso Tribunale di Firenze aveva in precedenza sottoposto alla Corte di giustizia, basato sulla maggior estensione del diritto di asilo costituzionale nazionale riconosciuto dall’art.10, comma 3, della Costituzione italiana rispetto alla tutela accordata dal diritto dell’Unione, trattato nell’ordinanza anche con riferimento alla dottrina dei controlimiti, e con l’ulteriore tema dell’ammissibilità per il diritto dell’Unione delle tutele complementari attribuite da normative nazionali che accordino il diritto d’asilo in misura più ampia rispetto alle norme europee.
Non bisogna infatti dimenticare che la determinazione dello Stato competente ai sensi del regolamento Dublino III costituisce non un diverso e autonomo procedimento, bensì una fase, necessariamente preliminare, all'interno del procedimento di riconoscimento dello status di protezione internazionale e che la situazione giuridica soggettiva dello straniero che chiede protezione internazionale ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali [3].
Pertanto, pur nel rispetto del principio del mutual trust, il procedimento della determinazione della competenza rifugge da automatismi, e di ciò è ben consapevole la GCUE la quale ha ben messo in evidenza che non è a soluzione obbligata neppure la procedura di ripesa in carico, ragion per cui anche in questa fase bisogna assolvere gli obblighi informativi, perché la questione della determinazione dello Stato membro competente non è necessariamente definitivamente chiusa, e anche in questa fase possono opporsi, oltre che vizi procedurali, anche questioni che attengono al rispetto dei diritti fondamentali (par. 94 e ss.).
Il rapporto tra il principio della fiducia reciproca e la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti, del resto, era già stato considerato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia la quale ha cautamente ampliato la portata della eccezione legata al rischio di trattamenti inumani e degradanti da carenze sistemiche stabilendo, con la sentenza 16 febbraio 2017 (CK e altri), che il trasferimento di un richiedente asilo nel contesto del regolamento Dublino III deve essere operato soltanto in condizioni che escludano che tale trasferimento comporti un rischio reale che l’interessato subisca trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta di Nizza, anche nell’ipotesi in cui il suddetto rischio non derivi dalla presenza di carenze sistemiche nello Stato membro competente, bensì dipenda esclusivamente da una condizione di particolare vulnerabilità del richiedente. Nel caso esaminato dalla Corte di giustizia con la citata sentenza CK, il rischio che il trasferimento dell’interessato l’esponesse a un trattamento inumano e degradante era legato al probabile deterioramento significativo e irrimediabile del suo stato di salute, poiché persona presentava già un disturbo mentale e fisico particolarmente grave.
Tuttavia la Corte di giustizia, pur confermando i propri precedenti, nella citata sentenza ha con fermezza ha ribadito che il principio del mutual trust è ostativo all’esercizio di qualsivoglia forma di revisione del giudizio già espresso in altro Stato membro, affermando che il giudice dello Stato membro adito da un ricorso avverso una decisione di trasferimento non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro di destinazione, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro o in conseguenza di questo. E, per essere ancora più chiara, la Corte europea ha aggiunto che divergenze di opinioni tra le autorità e i giudici dello Stato membro richiedente, da un lato, e le autorità e i giudici dello Stato membro richiesto, dall’altro, in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale non dimostrano l’esistenza di carenze sistemiche.
Ne consegue il divieto per i giudici italiani, per i quali la decisione della Corte di giustizia è vincolante, di rivalutare direttamente o indirettamente le decisioni rese dal giudice di altro Stato membro dell'unione europea, nel senso di ritenere che esse non rispettino gli standard di tutela dei diritti fondamentali enunciati dalla Carta di Nizza e per tale motivo rifiutare il trasferimento allo Stato membro competente.
Tuttavia, per quanto si debba presumere, iuris tantum, che le tutele siano equivalenti, l’Unione europea riconosce la facoltà degli Stati membri di accordare, tramite legislazione nazionale, tutele maggiori e più ampie agli stranieri, purché non confliggano con la normazione europea. Nella stessa Direttiva qualifiche, ad esempio, l’art. 3 stabilisce che gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone ammissibili alla protezione sussidiaria purché siano compatibili con le disposizioni della direttiva stessa. Sul punto la Corte di giustizia ha però dovuto fare chiarezza, specificando che non si può riconoscere lo status a cittadini di paesi terzi che si trovino in situazioni prive di qualsiasi nesso con la logica della protezione internazionale, e che i permessi di soggiorno legati a ragioni umanitarie (nel caso di specie una grave malattia) non sono qualificabili come protezione internazionale cui è applicabile la direttiva, bensì come forme di protezione nazionale[4].
Inoltre, occorre operare una distinzione tra le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e le procedure di rimpatrio, dove maggiore discrezionalità è riservata a ciascuno Stato membro. Le procedure di rimpatrio riguardano infatti tutti gli stranieri il cui soggiorno è irregolare e quindi anche, ma non soltanto, gli stranieri cui è stata definitivamente negata la protezione internazionale. In questa materia la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 (direttiva rimpatri) riconosce che vi sono ambiti di normazione – e di conseguente giurisdizione – riservati alle autorità nazionali. L’art. 6.4 della direttiva rimpatri, prevede infatti che «in qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare».
Motivi caritatevoli e motivi umanitari non sono sinonimi. La carità, nel significato laico del termine, è un atto di benevolenza che consiste nel donare ad altri qualcosa che ci appartiene, per libera scelta. Il termine umanitario invece richiama direttamente la salvaguardia del minimo comune denominatore solidaristico del rispetto dell’esistenza umana[5], cui si ispira l’art. 2 della Costituzione che «riconosce e garantisce» i diritti inviolabili dell’uomo; ciò significa che questi diritti appartengo all’uomo in quanto tale, e non al legislatore, e meno che mai al giudice, i quali non li attribuiscono né li «concedono», ma hanno il dovere riconoscerli e garantirli.
La differenza concettuale tra riconoscimento della protezione internazionale e rimpatrio va tenuta ferma, anche se talora le due questioni si intrecciano in un unico ricorso: chi chiede la protezione internazionale allega dei fatti che il giudice nazionale è tenuto a valutare nella loro interezza, non solo al fine di riconoscere o meno lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, anche al fine di verificare se quei fatti, pur non idonei a fondare la protezione internazionale, siano comunque ostativi al rimpatrio, nell’ottica di attuare pienamente il disposto dell’art. 10 Cost.[6]
La questione non è di poco momento dato che – come sopra si diceva – la determinazione dello Stato competente ai sensi del regolamento Dublino III è una fase preliminare, all'interno del procedimento promosso per il riconoscimento della protezione internazionale: se viene disposto il trasferimento, cessa la potestas iudicandi dello Stato che lo dispone, in caso contrario, deve procedersi all'esame della domanda.
È da chiedersi allora se il giudice nazionale può declinare la sua potestas iudicandi a fronte di una domanda di protezione internazionale sulla quale non è competente, ma che contenga in sé anche la richiesta di applicazione di normativa nazionale sulla quale è invece l’unico giudice che può pronunciarsi. Ed è da chiedersi se l’Unità Dublino non debba tenere in conto, già nella fase amministrativa della determinazione della competenza e della presa e ripresa in carico del richiedente, degli effettivi contenuti della domanda, nel caso in cui i fatti allegati abbiano attinenza al diritto di asilo inteso in senso ampio.
Secondo un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, il sistema eurounitario della protezione internazionale, unitamente alle misure di protezione nazionale attua il diritto d'asilo costituzionale contenuto nell'art. 10, terzo comma, Cost. Ne consegue che, avendo le situazioni giuridiche soggettive che sostanziano il diritto alla protezione internazionale e nazionale natura di diritti autodeterminati [7], il giudice del merito che esamina la domanda è tenuto ad accertare -nei limiti del principio dispositivo, ovvero sulla base dei fatti allegati e di quelli acquisiti al processo mediante l'esercizio del dovere di cooperazione istruttoria – se sussistono le condizioni – per il rilascio di un permesso speciale fondato sul nostro sistema di protezione nazionale, che trae la sua fonte dall'art. 10, terzo comma, Cost. e dall'obbligo, tuttora previsto dalla normativa nazionale (art. 5 comma 6 del D.lgs 286/1998, TUI) nonostante i diversi interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo, volti a modellarne il contenuto, di rispettare il sistema dei diritti umani come delineato dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali.
Il caso esaminato dal Tribunale di Firenze è – come si diceva – paradigmatico delle principali questioni problematiche.
2. Il caso concreto e la sua soluzione
Il richiedente asilo ha impugnato il provvedimento di trasferimento emesso dalla Unità Dublino nell’ambito di una procedura di ripresa in carico, avendo egli già ricevuto un diniego della sua domanda in Francia. Con il ricorso, ha sottoposto al Tribunale di Firenze le seguenti questioni:
a) ha presentato richiesta di protezione internazionale in Italia il 21/02/2022 allorquando è stato compilato il modello C/3 presso la Questura senza traduzione in lingua urdu e senza la consegna di alcun opuscolo informativo;
b) prima dell’adozione della decisione di trasferimento in Francia il richiedente non è stato ascoltato in un colloquio personale in lingua da lui conosciuta;
c) sussistono fondati motivi per l’applicazione della clausola discrezionale ex art. 17 del regolamento Dublino III, sotto il profilo del c.d. refoulement indiretto perché la Francia ha già respinto la domanda di protezione internazionale con decisione risalente che può comportare il rimpatrio e la violazione dei diritti fondamentali della persona.
Il Tribunale di Firenze rimedia alle carenze procedurali della Unità Dublino in tema di obblighi informativi eseguendo l’audizione personale del ricorrente, in conformità alle indicazioni date dalla Corte europea.
Gli artt. 4 e 5 del regolamento Dublino III impongono infatti obblighi informativi specifici e modalità di adempimento di detti obblighi che non ammettono equipollenti. L'opuscolo da consegnare al richiedente deve essere redatto secondo il modello comune, e il colloquio informativo deve avere le caratteristiche previste dall'art. 5, in modo da permettere la corretta comprensione delle informazioni fornite al richiedente con la consegna dell’opuscolo. Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, queste garanzie informative sono finalizzate a garantire l'effettività ed uniformità dell'informazione, nonché del trattamento del procedimento di trasferimento, in tutto il territorio dell'Unione. Il mancato rispetto, da parte dell'autorità dello Stato membro, delle garanzie di cui agli artt. 4 e 5 del regolamento non può essere ovviato con una conoscenza acquisita aliunde dall'interessato, poiché in tal modo si frustrerebbe l'esigenza di uniforme trattamento dello straniero in tutto in territorio dell'Unione, né il modello C/3 può considerarsi equipollente all’opuscolo informativo redatto secondo il modello comune [8].
Sul punto la Corte di giustizia con la sentenza del 30 novembre 2023 è stata molto chiara, affermando che si tratta di incombenti necessari anche nella procedura di ripresa in carico, che l'opuscolo deve corrispondere al modello comune e che il colloquio personale, a differenza dell'opuscolo comune che è volto a informare l'interessato in merito all'applicazione del regolamento Dublino III, «costituisce il modo per verificare che tale interessato comprenda le informazioni contenute in tale opuscolo e rappresenta un'occasione privilegiata, se non la garanzia, per esso, di poter comunicare all'autorità competente elementi d'informazione che possono portare lo Stato membro interessato a non rivolgere a un altro Stato membro una richiesta di ripresa in carico e persino, se del caso, a impedire il trasferimento di detta persona» (par. 105).
La CGUE ha quindi rimarcato l’importanza centrale del colloquio, che è un momento di interazione tra il richiedente asilo e l’autorità, e rappresenta quindi lo strumento per superare le asimmetrie informative tramite un approccio individualizzato, come è regola generale nell'esame di domande di protezione internazionale; in mancanza del colloquio personale, la decisione di trasferimento deve essere annullata a meno che la normativa nazionale consenta all'interessato, nell'ambito del ricorso avverso la decisione di trasferimento di esporre di persona tutti i suoi argomenti avverso tale decisione nel corso di un'audizione che rispetti le condizioni e le garanzie enunciate nell’art. 5. In tal senso, anche la Corte di Cassazione ha di recente dato seguito al principio enunciato dalla CGUE[9].
Gli oneri probatori, in questo caso, sono a carico dell'amministrazione la quale, a fronte della contestazione di omesso colloquio, deve dimostrare che il colloquio è avvenuto: altrimenti la decisione sarà annullata a meno che non vi sia stata la possibilità di recuperare le garanzie del colloquio nel processo davanti al Tribunale. Diversamente invece, nel caso di mancata consegna dell'opuscolo, se il colloquio è regolarmente avvenuto; in tal caso il giudice può pronunciare l'annullamento di tale decisione solo se ritiene, tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto specifiche del caso di specie, che, nonostante lo svolgimento del colloquio personale, la mancata consegna dell'opuscolo comune abbia effettivamente privato tale persona della possibilità di far valere i propri argomenti in misura tale che il procedimento amministrativo nei suoi confronti avrebbe potuto condurre a un risultato diverso (par. 125-128). In questi casi, pertanto, il ricorrente ha l'onere di fornire la cosiddetta prova di resistenza e cioè che il risultato avrebbe potuto essere diverso se il colloquio si fosse svolto nella pienezza delle informazioni preventivamente acquisite.
La questione, nel caso concreto, viene superata dal Tribunale di Firenze, il quale ritiene che nonostante le carenze della fase amministrativa, l'audizione personale abbia consentito di recuperare tutte le garanzie informative imposte dal regolamento Dublino.
Il nodo maggiormente problematico non è tuttavia quello degli obblighi informativi, ma l’allegazione che il trasferimento in Francia e il prevedibile conseguente rimpatrio nel paese di origine comporterebbero grave lesione dei diritti fondamentali del richiedente, oltre per le condizioni di rischio cui egli sarebbe esposto data la situazione nel paese d'origine, anche perché le sue condizioni di salute verrebbero pregiudicate già dallo stesso trasferimento e comunque perché nelle more egli si è radicato sul territorio nazionale avendo avviato un percorso di integrazione linguistica e lavorativa.
Il Tribunale di Firenze focalizza l’attenzione sul diritto del ricorrente a vedere decisa dal giudice nazionale la domanda di protezione completare, poiché in definitiva, di questo si tratta, e non di rivalutare la decisione – negativa – del giudice francese sulle due protezioni maggiori.
Analoga questione, ed il Tribunale di Firenze ne tratta ampiamente nella motivazione della ordinanza, è stata posta alla attenzione delle sezioni unite dalle ordinanze interlocutorie della prima sezione della Corte di Cassazione nn. 10898 - 10903 del 23/04/2024.
In queste ordinanze si è rilevato che le risposte fornite dalla Corte di giustizia devono essere esaminate tenendo conto delle peculiarità del sistema giuridico italiano di protezione nazionale cui il richiedente protezione internazionale può accedere pur in mancanza delle condizioni di riconoscimento dei diritti riguardanti le protezioni maggiori, o perché sussistono condizioni ostative soggettive (artt. 9, 20,15 e 16 del D.lgs. n. 251 del 2007) o perché la vulnerabilità soggettiva accertata rientra nelle fattispecie astratte contenute nell'art. 19 del TUI ratione temporis applicabili o in quelle fondate sulla violazione dei diritti fondamentali della persona riconosciute dalla Convenzioni internazionali cui lo Stato italiano aderisce e i cui obblighi è tenuto a rispettare ex art. 5 comma 6 del TUI nella parte ancora vigente. Si è quindi osservato che è cruciale stabilire se, senza incrinare il sistema di fiducia reciproca, si possa consentire al cittadino straniero che abbia manifestato inequivocamente la volontà di richiedere la protezione internazionale, di non essere trasferito nello Stato membro richiesto per effetto dell'accettazione della ripresa in carico, dal momento che, all'interno della domanda più ampia, nel nostro ordinamento devono essere vagliate le condizioni di riconoscimento del diritto alla protezione nazionale, quando sulla base delle allegazioni di fatto acquisite, si debba procedere anche ex officio a questa specifica verifica, in attuazione di obblighi costituzionali ed internazionali in tema di protezione dalle violazioni dei diritti umani.
Sono stati quindi sottoposti alla attenzione delle sezioni unite due questioni problematiche e segnatamente: a) se la deroga ai principi generali di determinazione della competenza di uno Stato membro ai sensi del regolamento Dublino III, fermo restando il divieto di valutare il rischio di non refoulement indiretto, non comporti la necessità di valutare la legittimità dell'interferenza del nostro sistema di rango costituzionale di protezione nazionale con la decisione di trasferimento, sulla base di un'indagine caso per caso o per determinate categorie di persone, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, all'interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale; b) se il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato sulla necessità di portare a compimento l'attuazione del diritto d'asilo costituzionale, può essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell'autorità statale che ha la facoltà di applicare la clausola di sovranità, evidenzi un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta la sindacabilità.
Il giudice fiorentino, nella consapevolezza di questo rinvio alle sezioni unite, offre una soluzione, osservando che non è consentito precludere al ricorrente il diritto a veder decisa la domanda di protezione complementare, per la sola ragione che il sistema normativo europeo – basato su un’armonizzazione solo parziale e che lascia alla discrezionalità degli Stati membri alcune opzioni – prevede regole che sottraggono all’autorità italiana la competenza in merito alla domanda di protezione internazionale. Se nella domanda di protezione internazionale si profila anche una questione di protezione complementare (nazionale) l’amministrazione deve valutare se esercitare la facoltà discrezionale di cui all’art. 17 del regolamento, assumendo la competenza ad esaminare tale domanda; e l’accertamento del corretto esercizio della clausola discrezionale e, per l’effetto, della competenza italiana, può essere sindacato dal giudice.
Si precisa infatti che il ricorso alla «clausola discrezionale» è di natura facoltativa, ed è attribuito all’amministrazione (e segnatamente all’Unità Dublino) in ragione della natura delle considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico che ne determinano l’esercizio, e non può essere direttamente compiuto dal giudice ordinario; ma al tempo stesso l’esercizio della facoltà in parola, per quanto discrezionale, non rimane, tuttavia, al di fuori di qualsiasi controllo[10] sicché il rifiuto dell’amministrazione di farne uso, risolvendosi necessariamente nell’adozione di una decisione di trasferimento, può essere contestato in sede di ricorso avverso quest’ultima, al fine di verificare se l’esercizio della discrezionalità amministrativa sia eventualmente avvenuto in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo [11].
Il giudice fiorentino conclude nel senso che ha errato l’Unità Dublino a non esercitare la clausola discrezionale, perché nel caso di specie avrebbe dovuto essere esaminata la domanda di protezione completare che, peraltro, nel lasso tempo che ha impiegato la Corte di giustizia a decidere la questione pregiudiziale (due anni, durante i quali il processo italiano è rimasto sospeso) si è arricchita di ulteriori allegazioni, in particolare in ordine al radicamento nel territorio nazionale.
Pertanto, il Tribunale di Firenze in riforma della decisione amministrativa e in applicazione della clausola discrezionale di cui all’art. 17.1 del regolamento Dublino III, afferma la competenza dello Stato italiano a decidere la domanda di protezione internazionale e complementare del richiedente, dando anche una serie di indicazioni molto specifiche sull’oggetto dell’accertamento e ricapitolando tutti gli elementi che l’amministrazione sarà tenuta a considerare nella successiva fase di merito, e quale la normativa ratione temporis applicabile. Indicazioni a prima vista superflue, in un procedimento volto solo ad accertare la competenza, ma in verità del tutto coerenti con la impostazione data e la soluzione offerta. La coerenza si apprezza, in primo luogo, perché se la affermazione della competenza dipende dall’accertamento di un claim (protezione complementare) che non è stato e non potrà essere esaminato dal giudice dello Stato di trasferimento, è necessario che si verifichi, in cognizione sommaria, il fumus della pretesa. In altre parole, è necessario che si verifichi che la domanda di protezione complementare -ovvero l'allegazione di elementi che possono portare a qualificare la richiesta come domanda di protezione complementare piuttosto che di protezione internazionale – abbia una qualche consistenza e non si tratti una mera enunciazione strategicamente usata per contrastare la decisione di trasferimento. Sembra inoltre di potersi ravvisare anche una ragione di opportunità nella scelta di rendere noti gli elementi di cui la amministrazione, secondo il giudice che può rivedere la sua decisione, dovrà tenere conto; questi procedimenti, che avrebbero dovuto concludersi con la massima rapidità, sono rimasti sospesi a lungo in attesa della decisione della Corte di giustizia e adesso necessitano di una accelerazione, che però non ne comprometta la qualità, per giungere ad una decisione di merito adeguata e che possa stabilizzarsi in tempi rapidi.
3. Considerazioni conclusive
Il Tribunale di Firenze si muove sulla linea della autonomia processuale nazionale; il principio è richiamato anche dalla CGUE nella sentenza del 30 novembre 2023, la quale afferma che in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta, in virtù del principio di autonomia processuale, all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la salvaguardia dei diritti dei singoli, a condizione tuttavia che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).
La complicata «questione Dublino» può forse semplificarsi ove si consideri che il sistema normativo europeo di protezione internazionale è centrato su due misure tipiche (status di rifugiato e protezione sussidiaria) ma nella consapevolezza che occorrono strumenti di compensazione per lasciare agli Stati membri margini di discrezionalità al fine di attuare il loro sistema costituzionale e verificare, caso per caso, le condizioni del rimpatrio. Pertanto, sembra superfluo invocare la dottrina dei controlimiti, secondo la quale di fronte ad una possibile violazione di un principio fondamentale dato dalla Costituzione nazionale non possono invocarsi le esigenze primarie dell'applicazione uniforme del diritto eurounitario[12], dal momento che è lo stesso diritto dell’Unione ad aprire questi spazi di discrezionalità.
E, poiché alla norma di diritto sostanziale deve corrispondere uno strumento processuale, così come nella direttiva rimpatri è lasciata agli Stati membri la facoltà di prevedere permessi di soggiorno per motivi «caritatevoli e umanitari» e nella direttiva qualifiche si riconosce la facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in materia di protezione internazionale, nel regolamento Dublino III esiste la clausola discrezionale, cioè la facoltà per lo Stato membro di dichiararsi competente in deroga ai criteri fissati dall'art. 7; non si tratta di un ulteriore criterio per la determinazione di competenza, ma della facoltà di derogarvi.
In tal senso anche la più recente giurisprudenza della CGUE ha precisato che l’obiettivo dell’art. 17 del regolamento è «di salvaguardare le prerogative degli Stati membri nell’esercizio del diritto di concedere (recte: riconoscere) una protezione internazionale»[13] rimarcando che la disposizione ha natura facoltativa e che «detta facoltà è intesa a consentire a ciascuno Stato membro di decidere in piena autonomia, in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, di accettare di esaminare una domanda di protezione internazionale, anche se esso non è competente in base ai criteri stabiliti da detto regolamento» (par. 38)[14].
La dicitura clausola discrezionale non deve trarre in inganno e far ritenere che essa conferisca all'amministrazione nazionale libertà assoluta nella decisione se dichiararsi o meno competente; la clausola è discrezionale nel senso che essa consente a ciascuno Stato membro di decidere in piena autonomia, discostandosi dai criteri indicati dal regolamento Dublino III che, diversamente, sarebbero vincolanti, e nel senso che nessuna norma europea prevede un ricorso sull’esercizio di detta clausola[15]. La Corte di giustizia pone un limite, diretto a salvaguardare il principio del mutual trust affermando che la clausola non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulementdell’interessato. Per il resto, si tratta di questioni interne sulle «considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico»fatte da ciascuno Stato nell’ambito della propria autonomia e sulle procedure per farle valere. Ed infatti si legge nella più recente giurisprudenza europea che «tenuto conto della portata del potere discrezionale in tal modo accordato agli Stati membri, spetta allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso della facoltà conferita dalla clausola discrezionale prevista dall’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III e accettare di esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale per la quale non è competente in base ai criteri definiti da detto regolamento» ed ancora che «la possibilità di contestare tale decisione in occasione di un ricorso avverso la decisione di trasferimento non può che trovare fondamento nel diritto nazionale»[16].
Ma, se la giurisdizione europea si astiene dal giudicare l’esercizio della clausola discrezionale (che diversamente non sarebbe tale) salvo quando si ponga in contrasto con il principio del mutual trust, non altrettanto il giudice nazionale poiché, nel nostro ordinamento, la discrezionalità della pubblica amministrazione non è totalmente insindacabile; il giudice ordinario non può sostituire la propria discrezionalità a quella della pubblica amministrazione e non può sindacare le considerazioni di tipo politico, ma può spettargli il sindacato sulle (omesse) considerazioni di tipo umanitario quando il rifiuto – esplicito o implicito – di avvalersi della clausola discrezionale e il conseguente provvedimento di trasferimento incida su diritti soggettivi annoverati tra i diritti umani fondamentali.
Qui può individuarsi un collegamento tra l'esercizio della clausola discrezionale e la protezione complementare.
Come sopra si è detto, il termine «umanitario» non ha lo stesso significato del termine «caritatevole»; ed infatti nella vigenza dell’art. 5 comma 6 del TUI nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 4 ottobre 2018 (decreto sicurezza), convertito in legge 132/2018, la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una misura caritevole, ma di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente un diritto umano fondamentale che «non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l'accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione»[17]. Si è quindi affermato che questa misura è una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, riferibile a un «catalogo aperto» legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano possono avere l’eziologia più varia, senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria [18].
Oggi il termine protezione umanitaria è in disuso: la protezione complementare, o speciale che dir si voglia, è il nomen iuris che deve darsi a quella forma di protezione (nazionale), residuale rispetto alla protezione internazionale, che risulta dal combinato disposto degli art. 5 comma 6 e 19 del TUI.
L’esperienza di questi ultimi anni, in convulso susseguirsi di riforme degli artt. 5 e 19 del TUI, ha insegnato che non è possibile, in Italia, configurare un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, perché non sarebbe interamente attuativo dei principi costituzionali. E, che siano menzionati o meno dalla norma di diritto positivo, gli obblighi costituzionali e internazionali sussistono comunque, come ha dovuto ricordare il Presidente della Repubblica nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza del 2018. Per questa ragione si è mantenuto, pur nel tempo modificandolo, un quadro normativo nazionale, affiancato al CEAS, che regola la condizione dello straniero non avente diritto alla protezione internazionale, ma comunque non rimpatriabile.
Quale che sia il nomen iuris dato alla misura residuale, se muoviamo dall’assunto che si tratta pur sempre proteggere diritti umani fondamentali sebbene con misure rimesse alla discrezionalità del legislatore nazionale, dovremmo sgombrare il campo dall’equivoco che il legislatore possa esercitare detta discrezionalità sopprimendo alcuni diritti o creandone di nuovi; i diritti umani sono diritti storici che, al momento attuale, sono fondati sul consensum omnium gentium, vale a dire sul loro riconoscimento e ricognizione nelle Carte dei valori fondamentali. Pertanto, per rispettare gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, si devono proteggere, in ogni caso, i diritti umani riconosciuti dalla Costituzione e dalle altre Convenzioni internazionali, restando al legislatore solo la discrezionalità su come proteggerli e attraverso quali meccanismi processuali accertarli; e ciò fermo restando che nel nostro ordinamento non vi è spazio per i «dritti tiranni» che sfuggano cioè a qualsivoglia bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette[19].
Se le superiori considerazioni sono condivisibili, potrebbe allora condividersi l’affermazione che la protezione speciale (o complementare) nazionale corrisponde alla ipotesi di più ampia tutela dei diritti che l’Unione europea lascia alla discrezione dello Stato membro; a questo spazio di autonomia legislativa – in concreto esercitato dallo Stato italiano – corrisponde uno spazio di autonomia procedimentale, che comprende la facoltà di derogare ai criteri di competenza stabiliti dal regolamento Dubino III, potere discrezionale sindacabile non già dagli organi giurisdizionali della UE, ma dal giudice nazionale, qualora incida su diritti fondamentali, comprimendoli senza operare un adeguato giudizio di bilanciamento.
[1]In ambito CEAS, per protezione internazionale si intendono lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria come precisato dall’art. 2, lettera a), della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13/12/2011 (Direttiva qualifiche).
[2] Corte di Giustizia UE 19/03/2019, Jawo, C‑163/17; Corte EDU 05/12/ 2013, S. v. Austria; Corte EDU, Grande Camera 21/01/2011 M.S.S. v. Belgio e Grecia; Corte EDU 02/10/2014, S. v. Italia e Grecia.
[3] Cass. sez. un. n. 8044 del 30/03/2018.
[4] Corte di Giustizia UE, Grande sezione 18/12/2014 nella causa C‑542/1 (M’Bodj).
[5] Acierno M., La protezione umanitaria nel sistema dei diritti umani, in Questione Giustizia 2/2018.
[6] Cass. civ. n. 19176 del 15/09/2020; Cass. civ. n. 20218 del 15/07/2021.
[7] Cass. civ. n. 10686 del 26/06/2012; Cass. civ. n. 25459 del 29/08/2022; Cass. civ. n. 30365 del 31/10/2023.
[8] Cass. civ. n. 37044 del 17/02/2021; Cass. civ. n. 16828 del 17/06/2024; Cass. civ. n. 12170 del 06/05/2024.
[9] Cass. civ. 12170/2024 cit.
[10] Corte di Giustizia UE C-661/17 M.A., S.A., A.Z/ Ireland, par. 77, 78 e 79.
[11] Cass. civ. n. 23724 del 28/10/2020.
[12] Corte Cost. 21/04/1989 n. 232; nella giurisprudenza costituzionale tedesca analoga teoria è nota come “principio Solange” in virtù del quale su ammette la prevalenza del diritto dell’UE anche sul diritto costituzionale nazionale a condizione che l’Unione europea e la giurisprudenza della CGUE garantiscano una protezione efficace dei diritti fondamentali che sia paragonabile, nel suo contenuto essenziale, a quella prevista dall’ordine costituzionale nazionale.
[13] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 nella causa C‑359/22 (HAY / Min. Giust. Irlanda) par. 37.
[14] Corte di Giustizia UE, HAY cit.; negli stessi termini la sentenza del 30/11/2023.
[15] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 HAY, cit. par 46/47; così anche nella sentenza del 30/11/2023 ove si richiama la sentenza del 23/01/2019, M.A. e a., C‑661/17, par 58.
[16] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 HAY, cit. par. 39-46.
[17] Cass., sez. un., n. 19393 del 09/09/2009.
[18] Cass. civ. n. 23604 del 09/10/2017; Cass. civ. n. 28990 del 12/11/2018; Cass. civ. n. 1104 del 20/01/2020.
[19] Corte Cost. n. 85 del 09/05/2013.
Vivere e morire nella modernità: la fulminante lezione di Luciano Violante
Recensione al libro "Ma io ti ho sempre salvato". La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri, 2024).
di Andrea Apollonio
Da tempo Luciano Violante si interroga sulle cause della "scomparsa" della politica, che si è trascinata dietro i corpi intermedi, e sulle conseguenti mutazioni delle strutture sociali. Egli ha proiettato le sue riflessioni sul principale nomosdell'Occidente, la democrazia (solo da ultimo: "La democrazia non è gratis" è dello scorso anno), sulla giustizia (ben noto il suo pamphlet "Magistrati" del 2009), sull'etica individuale ("Il dovere di avere doveri", del 2014, inaugurava l'approfondimento di un tema fin lì molto poco esplorato, a dispetto della sua centralità); tutti lavori che, a valle di una biografia scientifica e istituzionale senza termini di paragone, e assieme a molti altri dall'ampio respiro civile (pensiamo agli innumerevoli testi, dall'angolatura sempre diversa, sulla lotta alla mafia), si saldano e formano la trama di un pensiero coerente tutto incentrato sull'uomo e permeato di un umanesimo mai retorico, sempre vigoroso e franco.
Le riflessioni di Luciano Violante transitano adesso – parallelamente – per l'ultima tappa "terrena" dell'uomo: la morte; ma in realtà è il nomos di segno opposto a caratterizzarle: quello della vita. "Ma io ti ho sempre salvato". La maschera della morte e il nomos della vita" (Bollati Boringhieri, 2024 – una casa editrice, lo si tenga a mente, che ha pubblicato tra i più importanti testi della moderna filosofia) non è infatti un libro sulla morte, ma sulla vita. «Riprendere il senso della vita per governare la tecnica e dare un senso anche alla morte»: questa è forse la felice sintesi di un messaggio che, senza essere trattato come una questione di fede, viene lanciato guardando ad una realtà paradossale, centrata sul predominio della morte e – ciò che è ancora più tragico – alla sua banalizzazione.
È paradossale che «per un complesso di tabù, per abitudine, per la terribilità che la circonda, per il vuoto di pensiero, non si parla della morte», sebbene tutt'attorno a noi, attorniati da guerre sempre più insensate e micidiali, da dittature sempre più sanguinose, da migrazioni sempre più disperate, «la morte domina». E «resta singolare la contraddizione di un bene come la vita, che è sacro in quanto tale, e che poi nella concretezza della vita quotidiana, se appartiene a un immigrato irregolare, a un povero, a un debole, è abbandonata a ogni sorta di aggressione in un vuoto di diritti». D'altro canto, gli ultimi, nelle pagine di Luciano Violante, trovano ampio spazio: sono enumerate molte colpevoli indifferenze del nostro tempo, e quando si richiama il disastro di Cutro, viene ricordato ciò che in pochi hanno voluto ricordare: e cioè che è parte del mestiere di uomo, del faber, la ricerca, la lotta e la speranza, in vista di condizioni migliori di vita, anche per quelli che verranno; un mestiere la cui traduzione costituzionale sembra rintracciarsi all'art. 4 della nostra Carta. Eppure, in questo nostro sistema costituzionale e democratico, la vita degli ultimi vale sempre di meno. Forse va posto un problema morale?
La vita degli ultimi, sopratutto di quelli che esercitano consapevolmente il mestiere di uomo (e di quelli che non si determinano ma sono determinati, anch'essi sono tra gli ultimi: troppo spesso, ad esempio, «tacciamo delle vite dei giovani russi mandati a morire da Putin. Come se stare – giustamente – con gli ucraini ci debba rendere indifferenti di fronte alla morte dei loro coetanei russi»), è continuamente a rischio. «Sarebbe eticamente inaccettabile porre alla democrazia un problema morale?».
Ma è paradossale anche come alla morte, che ha da sempre un ruolo sociale ineludibile (e qui, come in altre parti del testo, si inseriscono a mo' di fotogrammi brevi racconti dell'adolescenza nell'assolata provincia barese, ove di fronte alla morte «si osservavano elaborati codici di comportamento»), oggi la modernità abbia dedicato i suoi non-luoghi: primi tra tutti le piattaforme social, dove «vita e morte sono mescolate insieme; reale e virtuale, il comico e il tragico, il dolore e la gioia. Il rischio è la perdita del senso del reale, con l'interruzione dei rapporti vitali che è la prima conseguenza della morte». Ci si avvia, così, verso la sua tragica banalizzazione.
Una riflessione colta e mai fine a se stessa: che da un lato pesca a piene mani nella storia e nel mito (e torna alla mente "Giustizia e mito", scritto con Marta Cartabia), che assume nel libro la valenza di una chiave di lettura, perché «i miti non sono favole; sono narrazioni che aiutano a dare un senso alla vita»; che dall'altro guarda oltre il tempo presente, agli strumenti che possano consentire la «ripresa della politica attraverso un nuovo umanesimo, come guida per un futuro a misura dell'uomo». Molto futuro e molto passato: «Mondo capitalistico e mondo sovietico avevano idee inconciliabili, ma entrambe parlavano del futuro, e per questa ragione ponevano la speranza, il progresso, la fiducia, la vita al centro dei progetti politici».
E nel mezzo? Nel mezzo ci siamo noi, impauriti; e siamo nel guado, impantanati in un presente di fatuo sviluppo che non rappresenta più una prova della nostra evoluzione ma la maschera del nostro declino – la maschera della morte, appunto.
Questo libro ultimo di Luciano Violante riesce a scuoterci, anche perché è diverso dagli altri – forse il punto non è cosa dice il libro, ma perché questo libro è stato scritto – financo nello stile, che rimane indefinibile: è uno scambio di battute fittissimo, che si espande, si dilata, davanti al quale siamo chiamati a far agire nel tempo minimo i nostri riflessi, la nostra indignazione, ma anche la nostra carica di futuro, quella che ancora rimane. Il messaggio, a questo punto, si fa ancora più chiaro: bisogna uscire dalla contemplazione, spiegare che è in gioco il valore dell'umanità e che il mondo non può dividersi tra quelli che muoiono e quelli che ne decidono la morte come danno collaterale. Le democrazie devono riacquisire la loro ragion d'essere; «produrre idee e politiche che facciano nascere speranza».
Ecco un'altra felice sintesi: «il potere politico, nella sua dimensione biopolitica, deve costruire speranza e quindi fiducia nella vita». Ma la politica non era "scomparsa"? Appunto, è necessario ricominciare, ripartire dal basso, dal «vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale», per dirla con le parole di Aldo Moro richiamate nel testo. Produrre idee e politiche che ridiano valore alla vita in un tempo di morte, che facciano nascere speranza nel futuro e ci liberino dall'illusione che la magistratura, ma sopratutto le leggi e le regole, sempre di più e sempre più inutili, possano risolvere l'enigma della vita: che va piuttosto compresa nel suo nomos.
Un libro densissimo, fulminante, necessario. Che trascina velocemente il lettore nei meandri di una modernità che non ha mantenuto le sue promesse; e che nella sua ultima parte si ferma, con l'affanno di chi, ad un certo punto, deve lasciare spazio alle parole più intime: quelle sì, davvero necessarie, davvero definitive.
L'unicità di questo libro sta infatti nell'ultimo capitolo: "Le mie morti".
Luciano Violante vi richiama con intensità le morti di sua nonna, di sua madre, infine di sua moglie: di quest'ultima, ne ripercorre gli ultimi giorni, l'agonia, e poi l'assenza. Giulia De Marco è stata una delle prime otto donne a diventare magistrato; come presidente del Tribunale dei Minorenni di Torino, ha introdotto importanti innovazioni ancora oggi ricordate dagli specialisti; ma sopratutto era «una parte di sé, quella che si era costruita attraverso il dialogo e la vita comune per 56 anni».
Perché scendere così a fondo nella propria biografia, nei ricordi, in fratture mai sanate, e da ultimo nei dolori più intensi?
Non lo so, o forse lo intuisco: Luciano Violante non ha mai accettato l'insostenibile retorica del nostro tempo, quella che gira a vuoto, che sfugge dai significati per rifugiarsi in slogan sempre più grezzi e vuoti; che è, in ultima analisi, la causa prima della scomparsa della politica. L'unico modo per opporsi alla crisi culturale (e quindi politica) della modernità è la cultura autenticamente reale – accompagnata dalla forza del proprio pensiero – della propria biografia: che configura, con il linguaggio immediato della fisicità – una fisicità che in questo caso drammaticamente svanisce – un mezzo espressivo potentissimo.
Quest'ultimo e più intimo capitolo si rivela quindi uno strumento di contaminazione stilistica, provoca l'occhio – attraverso una scrittura così potente – a vedere diversamente e a riflettere sul vedere stesso. A riflettere sulla maschera della morte e sul nomos della vita, che la società, da tempo priva di riferimenti politico-culturali, ha irrimediabilmente smarrito, assieme alla tenerezza palingenetica della frase che dà il titolo al libro: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva la madre ormai agonizzante, «e io pensavo che quel corpo prima mi aveva fatto nascere e poi mi aveva salvato più di una volta». La vita è questo.
Perché, in fondo, non ha alcun senso parlare di politica, di società, di democrazia, di giustizia, di etica individuale, se prima non riacquistiamo il senso della vita: che va compresa nel suo nomos.
Nicolò Lipari Maestro di passione civile e di rigore antidogmatico. Le Sue tante lezioni.
di Mirzia Bianca
La scomparsa di Nicolò Lipari ha lasciato la comunità scientifica in uno stato di grande smarrimento. La Sua presenza costante e attiva ha attraversato la vita di generazioni di giuristi, accademici e giudici, studiosi di altre discipline, arricchendo i dibattiti con una personalità poliedrica affascinante e intrisa di grande umanità.
Non sono stata Sua allieva ma ho avuto la fortuna di averlo come Presidente all’ultimo concorso di professore associato su base nazionale, in cui ero candidata. Per me e, credo per i miei colleghi di concorso, è stata un’esperienza unica, che ci ha consentito di conoscere anche le Sue doti umane. Il Professore arrivava la mattina prima di noi e la Sua puntualità era da noi avvertita come segno di grande rispetto nei nostri confronti. Prima dello svolgimento dei lavori in Sala delle Lauree della Facoltà di Giurisprudenza di Roma La Sapienza, in cui ha insegnato per tanti anni, si soffermava a chiacchierare con noi nell’atrio. Quel dialogo era per noi indispensabile per sciogliere l’ansia che ci assaliva per una prova su cui avevamo puntato la nostra vita. Ricordo la Sua autorevolezza mista a grande gentilezza ed eleganza. Dopo tanti anni, grazie all’iniziativa di Andrea Mora, ci siamo ritrovati ancora una volta tutti insieme all’Università di Modena con il Professore che coordinava i lavori di un Convegno in cui esponevamo la tesi delle nostre opere monografiche che avevamo presentato al concorso, per saggiarne l’applicazione e le linee evolutive. Abbiamo continuato a dialogare con Lui e grazie a Lui abbiamo avuto la sensazione di appartenere ad una comunità.
Per Nicolò Lipari, come per i grandi Maestri, era impossibile scindere il piano personale da quello professionale. La Sua onestà intellettuale e la Sua forte impronta etica erano i tratti caratterizzanti dell’uomo e del giurista. Il legame tra l’uomo e il giurista spiega il forte legame che egli avvertiva tra il diritto e la società, un diritto che lui concepiva ex latere societatis. Si comprende così la Sua passione per le scienze sociologiche, già anticipata nella Prolusione del 1968 intitolata “Il diritto civile tra sociologia e dogmatica”. Non si tratterà solo di una passione ma della costruzione delle fondamenta della Sua dottrina e della Sua concezione del ruolo del diritto nella società. Per questa ragione il Suo pensiero può definirsi rivoluzionario perché ha cambiato completamente le coordinate della scienza giuridica. Vissuto in un periodo di transizione tra la tradizionale cornice dogmatica e le nuove istanze della postmodernità, enfatizzate dalla complessità delle fonti e dal passaggio dal sistema monistico del codice civile al sistema pluralistico composto dalla Costituzione e dalle fonti europee, egli ci ha donato la bussola che ci ha consentito di navigare nel nuovo mare della modernità con una nuova consapevolezza. Ne sono una testimonianza i volumi dedicati al Diritto privato europeo. Nicolò Lipari ci ha insegnato a ragionare in modo diverso dal passato, regalandoci una nuova cultura che ha definito un nuovo modo di intendere il diritto, che ha prodotto frutti in ogni campo. Il passaggio da lui predicato con costanza e coerenza da una scienza teoretica ad una scienza pratica, ci ha consentito di superare gli steccati dei settori scientifico-disciplinari, riportandoci ad un diritto senza attributi, quale strumento a servizio dell’uomo e della società. La Sua battaglia contro le categorie giuridiche[1] è stata una battaglia contro il formalismo e il dogmatismo che egli ci ha insegnato con rigore. Tale battaglia è stata da lui condotta a tutto campo, non solo in sede di elaborazione scientifica, ma in sede di insegnamento universitario. La Sua preoccupazione per la formazione degli studenti nasceva proprio dal disagio di avvertire uno scollamento tra realtà empirica e un insegnamento universitario ancora fortemente ancorato al dogmatismo e alle categorie giuridiche. Da questa preoccupazione nasce la Sua opera “Diritto privato. Una scienza per l’insegnamento”[2], opera da Lui concepita con grande preveggenza negli anni ’70 e condotta insieme ad altri colleghi ed allievi. La ritrosia a concepire il diritto quale scienza teoretica ci ha aiutato inoltre a cogliere le criticità di nuovi istituti del diritto civile, come la convivenza di fatto che la dottrina tradizionale cercava di imbrigliare in categorie precostituite[3]. Inoltre la Sua impostazione ha inciso profondamente sulla comprensione del ruolo del giudice[4]. Convinto che la funzione del giudice non potesse limitarsi come in passato a fedele custode della legge, ruolo che con linguaggio simbolico Egli paragonava a quello del farmacista “chiamato a prendere dagli scaffali delle regole la regola corrispondente ad una regola da altri confezionata e offrirla all’utente”[5], egli ha delineato i confini di una professione volta a realizzare il difficile compito di coniugare la complessità delle vicende umane con i principi dell’ordinamento, inteso nella sua dimensione anche sovranazionale.
Il Suo insegnamento ci ha consentito così di comprendere la portata di decisioni importanti, come la sentenza Englaro, prendendo le distanze da critiche troppo affrettate, arroccate sul tradizionale ruolo del giudice e cieche a cogliere la portata di giustizia di quella decisione. Ci ha così insegnato l’importanza del dialogo tra accademia e magistratura. In linea generale Nicolò Lipari era un giurista del dialogo e della condivisione e per questo era molto generoso intellettualmente. Amava dialogare con i Suoi allievi, con gli studenti a lezione, con i giudici, con i colleghi più giovani, amava condividere subito i Suoi preziosi scritti. Alla fine dei numerosi convegni, cui era costantemente invitato a partecipare, si creava sempre attorno a Lui un capannello di persone, con le quali il Maestro si soffermava a parlare con passione. Con Lui abbiamo avuto tutti il privilegio di sentirci parte di una comunità scientifica, affidata alla Sua mirabile direzione. La Sua generosità intellettuale è testimoniata dalle interviste che ha rilasciato su temi cruciali del diritto[6].
Il forte legame che egli avvertiva tra il diritto e la società e la Sua impostazione valoriale sono state la ragione del Suo impegno civile e politico, impegno non usuale per un accademico. Tale impegno politico è stato il corollario di una prospettiva che vede il giurista calato attivamente nei problemi della società e chiamato a dare ad essi una soluzione. Il Suo impegno nel dibattito sul divorzio e in quello che ha preceduto la Riforma del diritto di famiglia del 1975 sono alcune significative testimonianze della Sua spinta ideale[7].
Il connubio ideale tra diritto e società, che ha attraversato la parabola del Suo pensiero, gli ha consentito di concepire il diritto quale fenomeno culturale e di cogliere così le assonanze tra diritto e letteratura. Suggestive sono le Sue pagine dedicate all’opera di Sciascia[8] e di Dante Alighieri[9].
Oltre a questo mosaico di insegnamenti che renderanno imperitura la Sua figura di giurista, credo che la lezione più significativa che Nicolò Lipari ci ha lasciato riguarda proprio la funzione del diritto. Nella Sua opera “Elogio della giustizia”, che raccoglie ad unità e armonia le Sue tesi antidogmatiche, egli svela il mistero della funzione del diritto, scienza finalizzata alla realizzazione del valore della giustizia, sciogliendo così l’eterno conflitto tra Nomos e Dike a favore di quest’ultima Con questa lezione il Maestro, abbandonando le tesi formalistiche volte a scindere diritto ed etica, ci restituisce la vera funzione del diritto e ci dà speranza nella rivalutazione di una disciplina troppo spesso intesa esclusivamente quale mera interpretazione della norma giuridica. Uscita dalla polvere del formalismo la scienza giuridica si proietta così in una dimensione di utilità sociale, quale strumento a servizio dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali. Questa lezione impone una riflessione profonda sui metodi di formazione universitaria e post-universitaria e sulla importanza dell’insegnamento del diritto, riflessione che non avrà confini temporali. Per questo Nicolò Lipari e il Suo pensiero ci accompagneranno nel tempo e ci saranno sempre da guida.
[1] N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013.
[2] Bari, 1974.
[3] V. la sua bellissima Voce Famiglia (evoluzione dei modelli sociali e legali), in Enc. del diritto. I Tematici, IV, Famiglia, Volume diretto da F. Macario, Milano, 2022, 417.
[4] N. LIPARI, Il diritto civile tra legge giudizio, Milano, 2017 e le riflessioni al volume di R. CONTI, Leggendo l’ultimo Lipari, pubblicate in Questione Giustizia l’11 novembre 2017.
[5] V. testualmente N. LIPARI, in Vivere il diritto. A colloquio con G. Carapezza Figlia, V. Cuffaro e F. Macario, Napoli, 2023, 59.
[6] V. l’intervista sul ruolo della Cedu coordinata da R.Conti per questa rivista, intervista cui hanno partecipato N. Lipari e E. Navarretta e pubblicata su questa rivista il 9 gennaio 2020. Al genere letterario dell’intervista è dedicato il volume Vivere il diritto. A colloquio con G. Carapezza Figlia, V. Cuffaro e F. Macario, cit.
[7] V. la lettera inviata il 31 agosto 2024 dal Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma La Sapienza, Prof. Oliviero Diliberto, in occasione della scomparsa del Maestro.
[8] N. LIPARI, Diritto e letteratura in “Todo modo”, in L. CAVALLARO – R. CONTI, (a cura di), Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, Bari, 2021, 93 e ss.
[9] N. LIPARI, “Onde convenne legge per fren porre”. Dante e il diritto, Presentazione del volume di L. TERRUSI, edito da Cacucci (2022) per la Collana Biblioteca di cultura giuridica, diretta da P. Curzio, in Questione Giustizia, 14 maggio 2022.
L’”inquietante aurora” della “prima” magistratura tributaria
Postilla di Cesare Glendi
Sommario: 1. Divagazioni, più o meno pertinenti, a livello meteorologico-lessicale - 2. Una prima pienissima condivisione su quello che “al fondo” dovrebbe essere il quid proprium della “magistratura tributaria”. – 3. Diversi modi d’intendere la “specialità” della magistratura e della giurisdizione tributaria. - 4. Sulla cruciale necessità di riorganizzare il terzo grado del processo tributario a livello istituzionale secundum constitutionem. – 5. Silloge conclusiva.
1. Divagazioni, più o meno pertinenti, a livello metereologico -lessicale.
Da chi egregiamente ha scritto “L’incerta alba della quinta magistratura” [1] mi è stato rivolto, con quella cortesissima insistenza cui resisti non potest, l’invito ad una breve “postilla” con l’espressione in libero contrappunto di una personale opinione sul suo contenuto, al fine, magari, d’incentivare un aperto confronto d’idee sull’avviata stagione della c.d. magistratura tributaria professionale italiana, di cui alla legge 130/2022 e al bando di concorso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 giugno 2024.
Ottempero all’”ordine” sinteticamente, siccome tassativamente imposto dal novellato art. 121 c.p.c., permettendomi, soltanto, in limine, una piccolissima puntualizzazione, o divagazione, semantica sul titolo, sostituendo, per mio conto, alle parole virgolettate (che annunciano “l’incerta alba”) quelle, forsanche non proprio esatte, ma ossimoricamente icastiche, che, secondo una qualche più realistica e pessimistica previsione, inducono a pronosticare una ”inquietante aurora”, parlando, inoltre, non tanto, generalmente, di “quinta magistratura”, bensì, specialmente, di “prima magistratura tributaria”.
2. Una prima pienissima condivisione su quello che “al fondo” dovrebbe essere il quid proprium della “magistratura tributaria”.
Dopo questa, più o meno pertinente, digressione “meteorologico-lessicale”, vengo subito al dunque, per esprimere, anzitutto, pienissimo assenso a quanto si è scritto affermando, lucidamente, che “l’ordinamento della giustizia tributaria attuale è un vestito di Arlecchino, con molte toppe e tanti buchi” e che “il d.lgs. 545/1992, stravolto dalla legge 130/2022 e modifiche successive, fotografa la ‘transizione’”, da ciò che non è, ma dovrebbe diventare, “la nuova magistratura tributaria”, introiettando, com’è stato ancora ben detto, “l’autonomia, l’indipendenza, l’imparzialità, ossia le caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo”. Il che, però, è solo facile a dirsi, come, del resto, si è subito puntualizzato, ma nient’affatto facile da concretizzarsi.
Perché per “fare una giurisdizione”, e tanto più per fare una magistratura come quella tributaria, vorrei aggiungere, che non è riuscita a “farsi autonomamente”, non ostante (ma forse proprio a causa di) un sin troppo stratificato e travagliato pellegrinaggio evolutivo ultracentenario (in una continua serie di “sinechie” con altre magistrature, e tra queste, in specie, la c.d. magistratura ordinaria [2], riducendosi, nella sostanza, ad una vera e propria “Cenerentola giurisdizionale” [3]), non bastano leggi e leggine, o normicciuole varie, sempre più, tra l’altro, deficitarie. Occorrendo, invece, ineludibilmente, l’attenta formazione in un corpo specializzato realmente vivificato e dotato dell’autonomia, indipendenza, imparzialità, ossia delle “caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo”.
3. Diversi modi d’intendere la “specialità” della magistratura e della giurisdizione tributaria.
Nello scritto qui “postillato” si conclude, par di capire, dando atto, de iure condito, che il vero significato della riforma postagostana del 2022, tuttora in itinere, si pone comunque verticalmente nel segno della specialità. Trovando in questa connotazione di specialità la sua precisa ragione d’essere.
Il che appare assolutamente ineccepibile.
Anche se occorre, a mio parere, ben intendersi sul vero senso di quest’aggettivazione, di per sé suscettibile di qualche gamma di possibili accezioni e polarizzazioni, entro le quali si affacciano naturaliter, com’è ovvio, inevitabili frange di variegate divergenze di opinioni. In quanto, nello scritto a cui vien qui fatta postilla, si tende ad individuare il quid proprium del giudice tributario nell’essenziale finalizzazione del “determinare la “giusta imposta, che è lo specifico compito costituzionale ed unionale del giudice tributario”, che “implica, infatti, una grande competenza tecnica, ma una ancora più grande cultura degli obblighi e dei diritti; richiede un particolare equilibrio di pensiero; impone un’interpretazione davvero sentita della funzione giudicante, ovviamente senza ‘esagerazioni di senso’”. Il che, sia ben chiaro, non si vuole certo qui mettere in discussione. Anche se, penso, attiene ad una prospettiva teleologica, che non incide, negativamente, sul versante strutturale della specialità. Il quale, a mio fermo avviso [4], verte propriamente sul modo in cui la funzione del giudice dispositivamente si attua, e così, per l’appunto, connotando il quid proprium della sua pronuncia in una statuizione di annullamento del provvedimento impugnato, se valutato (nella sottostante cognitio) difforme dal paradigma normativo che regola la funzione impositiva lato sensu intesa, o in una statuizione di non annullamento di tale provvedimento, qualora la valutazione (sottostantemente alla cognitio) non incida sull’atto e sui relativi effetti (già prodotti dal provvedimento impugnato).
Se si riconosce, come si deve riconoscere, che l’avvento della magistratura tributaria istituzionalizzata dalla legge n. 130/2022 e disposizioni a seguire, è germinata nel segno della specialità della magistratura tributaria, questa dev’essere guarentigiata, sul piano specialisticamente strutturale, in termini di controllo dell’esercizio della funzione impositiva lato sensu intesa, diversamente dai modelli giudiziali di cui alla magistratura ordinaria e financo alle magistrature speciali cc.dd. ordinarie (amministrativa e contabile). In piena autonomia, strutturale, pur nell’uguale rispetto dei requisiti d’indipendenza e d’imparzialità che ne garantiscono la giurisdizionalità.
4. Sulla cruciale necessità di riorganizzare il terzo grado del processo tributario a livello istituzionale secundum constitutionem.
Indipendentemente da quanto sopra precisato, ma in logica prossimità, s’impone, com’è stato, infine, lucidamente avvertito, con encomiabile tempestività [5], l’esigenza di un rinnovato assetto apicale della magistratura tributaria. Non potendosi non tener conto dell’intrinseca criticità dovuta dall’attuale permanenza di un vertice assegnato de lege lata ad un giudice ordinario, qual è, pur al culmine, la nostra Suprema Corte di Cassazione, da un lato, e l’ormai disposta istituzionalizzazione, dall’altro, di una vera e propria magistratura speciale tributaria per i due gradi di merito, le cui decisioni, peraltro, restano asservite al sindacato finale di un organo giudiziale di vertice di cui, sempre de lege lata, non possono far parte proprio gli appartenenti alla magistratura speciale tributaria, infine pervenuta alla sua ormai prossima, finale configurazione.
Di ciò si è reso responsabilmente conto Enrico Manzon [6], il quale, ineccepibilmente, osserva che “tra le, molte, contraddizioni, della riforma della giustizia tributaria, forse quella di percezione meno immediata è il mantenimento della ’scissione’ ordinamentale tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, speciale la prima, ordinaria la seconda” e che questo vero è proprio vulnus “è destinato nel medio-lungo periodo a diventare un problema serissimo”, in quanto, a ben vedere la creazione di quella che l’A. chiama la “quinta magistratura”, ma che preferirei definire, al momento, la “prima magistratura tributaria”, “non subito, ma presto, sicuramente tra qualche anno, realizza la situazione – anomala - che un ordine professionale specializzato dedicato farà una ‘giurisprudenza sotto tutela’ del vertice di una giurisdizione con la quale, nemmeno di fatto, avrà più niente a che fare. Infatti, tra non molti anni, l’ampio serbatoio di giudici tributari del ‘ruolo unico’ che appartengono alla giurisdizione ordinaria sarà esaurito. Quindi, le pronunce dei giudici tributari verranno sindacate, pur nei limiti della legittimità, da una Sezione ‘specializzata’ della Corte di Cassazione (ex art. 3, legge 130/2022) formata, a quel punto, da magistrati che non hanno mai esercitato, nemmeno part time, la funzione dei primi” ed “è davvero difficile pensare che questa sia una buona cosa e soprattutto che possa reggere nel tempo”.
Alla stregua di queste “argute” premesse, con il più che lodevole proposito che “dunque bisognerà fare qualcosa”, si è, infine, suggerito, nell’ambito di una indispensabile revisione costituzionale, “l’istituzione medio tempore di una Corte di giustizia tributaria centrale” che, secondo i proponenti, oltre ad “altri pregi” [7], “porterebbe con sé questa ‘dote essenziale’: rendere attuabile, volendolo, nel medio periodo, un percorso di avvicinamento alla completa autonomia ordinamentale e funzionale del nuovo plesso giurisdizionale”. Avvertendo, quasi “accoratamente”, verrebbe da dire, “l’esigenza di un lavoro comune per la realizzazione della riforma della giustizia tributaria”.
In assoluta umiltà d’intenti, ma propositivamente, chiedendo comunque anticipatamente venia per l’incontrollabile franchezza, la prospettiva di una sostanziale “risurrezione” della Commissione tributaria centrale, sia pure diversamente denominata, riaggiustata e rimodellata, mi lascia estremamente perplesso. Probabilmente in ragione di pregresse reminiscenze dovute all’eccessiva età e a vecchi ricordi di quel che avveniva e “lentamente” si consumava in Via Cernaia. Mi pare oggettivamente preferibile dimenticare, pensando ad un diverso futuro, pur tenendo conto delle assai buone ragioni da cui è maturata l’idea di un “cuscinetto giurisdizionale intermedio”, che, nella sostanza, faciliti la transizione dal vecchio al nuovo ordineiudiciorum in materia tributaria.
E dunque, in estrema sintesi.
Sul piano dell’architettura costituzionale, dovrà certamente intervenirsi sulla formulazione dell’art. 111, ultimo comma, Cost. Che dovrebbe ormai essere rivivificato aggiungendo alle decisioni per le quali è ammesso il ricorso in cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione anche le decisioni delle corti di giustizia tributaria di secondo grado.
Altra disposizione, su cui occorrerà intervenire, è la VI transitoria e finale, ormai storicamente superata. In vece della quale dovrebbe trovare posto una nuova disposizione transitoria, nella quale dovrebbe fissarsi un termine, scaramanticamente diverso da quello rimasto troppo a lungo “canzonatorio” della vecchia VI disposizione transitoria e finale di cui sopra si è detto, entro il quale istituire di bel nuovo la Suprema Corte della giustizia tributaria. Che s’immagina composta da quindici componenti della magistratura tributaria, da sei della Suprema Corte di Cassazione, da due per il Consiglio di Stato e da due per la Corte dei Conti. I quali componenti tutti dovrebbero poi eleggere il Primo presidente della Corte Suprema della giustizia tributaria, suddivisa in cinque sezioni, distintamente per materie, dotate dei correlativi Presidenti, destinati anche a far parte, obbligatoriamente (salvo deroghe motivate) del corpo, rigidamente strutturato, delle Sezioni Unite della Corte Suprema della giustizia tributaria, con poteri nomofilattici, per lo meno, ad instar di quanto attualmente disposto dall’art. 374, 4° comma c.p.c. Salva ulteriore più dettagliata disciplina, da predisporre mediante legge ordinaria sapientemente congegnata. Ma con la previsione, già in sede di normativa costituzionale, che, sino alla istituzione della Corte Suprema della giustizia tributaria, resteranno ancora in vigore tutte le attribuzioni normativamente previste per il sindacato da parte dell’attuale Sezione tributaria della Corte di Cassazione su tutte le decisioni di secondo grado emesse dai giudici tributari esistenti.
5. Silloge conclusiva.
Quanto sopra sommariamente “abbozzato”, ben s’intende, al solo fine di porre in discussione un’idea, e niente più, eviterebbe l’insorgenza di una macchinosa e costituzionalmente opinabile istituzione di una sorta di stravagante “cassazione” a tempo con funzioni essenzialmente smaltitorie. Lasciando, invece, alla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, che tra l’altro mostra, da ultimo, segni di miglioramenti quantitativo e qualitativo di non poco momento, il ben più nobile ruolo di “tedoforo” dalla precedente alla nuova nomofilachia tributaria di vertice, così da prefigurare adeguatamente il sorgere del culmine finale di una giurisdizione speciale tributaria tout court.
Voilà le firmament, le reste est procédure [8].
[1] E. MANZON, L’incerta alba della quinta magistratura, in questa Rivista, 28 giugno 2024.
[2] C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, in A. GUIDARA, Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele, Torino, 2021, specialmente ai paragrafi 2, 3, 4, 5, pag. 415 ss.
[3] Confinata, lo si può ben dire, a gestire “a costo zero” contenziosi miliardari, come non è dato riscontrare in nessun altro paese, più o meno civilizzato.
[4] V. ancora, C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, cit., loc. cit., paragrafi 10 a 14.
[5] E. MANZON – F. PISTOLESI, Una “cassazione speciale” da affiancare alla cassazione ordinaria: brevi appunti sull’idea di una Corte di giustizia tributaria centrale, in questa Rivista, 28 marzo 2024.
[6] E. MANZON, L’incerta alba della quinta magistratura, cit., loc. cit., segnatamente al punto 4, Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale.
[7] Più diffusamente illustrati da E. MANZON – F. PISTOLESI, op. loc. cit., specialmente ai paragrafi 2.2. e 2.3.
[8] A meno che, invece, si tratti solo, di un irrequieto sogno di mezza estate, destinato a dissolversi nei più complicati e imprevedibili meandri della Storia.
Foto via https://www.flickr.com/photos/starcitizen/52445046906.
Per Nicolò Lipari
di Vito D'Ambrosio
L’altro ieri è finito luglio. L’altro ieri è finito anche il filo lungo dell’esistenza di Nicolò Lipari.
Dopo un primo momento di stupore (mai pensato che Lipari potesse morire), mi si è affollata la mente di ricordi.
Nicolò, il professore esigente.
Io ero amico di Nicolò, un’amicizia cominciata con il mio esame di diritto civile all’Università La Sapienza di Roma. Conoscevo Lipari come assistente del titolare della cattedra, Santoro- Passarelli, un vero barone, che veniva a farci lezione seguito da uno stuolo di assistenti, tra i quali Rodotà e, appunto, Lipari. L’esame lo avevo preparato bene, in vista della possibilità di essere interrogato proprio da Lipari, docente notoriamente esigente, che infatti mi trovai di fronte, dall’altro lato della cattedra. L’interrogazione fu lunga, minuziosa, direi addirittura “accanita”; il responso fu “D’Ambrosio, la conosco bene per i suoi interventi alle lezioni del professor Santoro. Le assegno soltanto 28, perché da lei, francamente, mi aspettavo di più”. Fece una risata alla mia risposta “con la stessa franchezza, professore, anche io mi aspettavo di più”. La scena si è ripetuta, con mia irritazione, quando gli feci avere, in bozza, buona parte della mia tesi di laurea, che seguiva lui, anche se il relatore ufficiale era Santoro-Passarelli. La telefonata di Nicolò fu gentile, ma ferma “D’Ambrosio, la sua tesi non mi convince, perché poteva ampliare la motivazione, come mi aspettavo da lei. Provi a ripartire da capo”. Bofonchiai una risposta e ripartii veramente da capo. La riscrittura fu approvata e la tesi superò l’esame di laurea a vele spiegate, con il canonico 110 e lode. Nicolò, subito informato, mi fece i complimenti, facendomi notare la giustezza del suo intervento di correzione, e mi chiese se ero disposto a seguirlo a Bari, la cui università gli aveva attribuito la cattedra di diritto civile. Non si offese per la mia risposta negativa, ed anzi accettò di farmi da testimone alle mie nozze vicine. Non molto tempo dopo mi spedì la sua prolusione barese, cresciuta fino a diventare un volume, dal titolo molto stuzzicante per me “Il diritto civile tra sociologia e dommatica”. Lessi velocemente, apprezzai molto, ma gli spedii una risposta laconica, impegnato fino al collo per il concorso in magistratura. (Del libro Nicolò mi spedì una copia anni dopo, avendone io lamentato la perdita).
La correttezza dei e nei rapporti istituzionali.
Incontrai Il mio prof., come lo chiamavo, in altra occasione, per me fondamentale, il concorso per l’accesso in magistratura. L’unico mio vantaggio, per la presenza di Nicolò nella commissione di esame, fu l’informazione in via breve sul superamento della prova scritta, e sulla data fissata per l’orale. Questa seconda notizia fu occasione di un messaggio, che non mi stupì, dato che avevo ben imparato il carattere del mio interlocutore. Infatti, la conversazione fu breve “La commissione ha fissato per il suo esame orale la data di… Ovviamente io non ci sarò”.
Seguii l’esperienza politica di Nicolò, eletto per due volte al Senato, sicuro che anche in ambito politico avrebbero imparato a conoscerlo, e non mi sbagliai.
Una prova molto dura fu la vicenda che coinvolse sua figlia Chiara come teste (quasi) decisivo nel processo per l’omicidio della studentessa Marta Russo, colpita da un proiettile mentre passeggiava per i viali dell’Università La Sapienza di Roma. Processo molto seguito dai mezzi di comunicazione, che, come sempre accade, si sbizzarrirono anche sui personaggi non protagonisti, specie quando i misteri del caso non vennero mai chiariti a sufficienza. Nicolò, chiamato in causa indirettamente, fu assai amareggiato e si chiuse in una reazione oscillante, che non superò mai i limiti della correttezza. Quando lo cercai per esprimergli solidarietà, infatti, trovai abbastanza difficile superare la sua riservatezza.
I rapporti ultimi.
Dopo il suo ritorno a Roma e le mie vicende politico-giudiziarie, ci siamo perduti di vista, per rincontrarci poi nell’associazione Bachelet, fondata da Mario Almerighi, amico mio carissimo, per fissare il ricordo di Vittorio Bachelet, ucciso sulle scale della sua università – La Sapienza – dopo essere stato eletto vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ritrovarsi negli incontri dell’Associazione e recuperare, immediatamente, i legami di amicizia con Nicolò, fu per me una bellissima esperienza. Ci incrociammo anche, qualche volta, su temi che ci interessavano entrambi; una volta, dopo un intervento sull’articolo 27 della Costituzione, Nicolò volle dirmi, ad alta voce “sei stato davvero bravo”, procurandomi un grande piacere, data la fonte dell’apprezzamento.
Tempo dopo, mi arrivò un libretto, autore Nicolò, dal titolo significativo “Elogio della giustizia”, nel quale viene spiegata con un linguaggio abbastanza lontano da ogni tecnicismo, la sua teoria che propone una vera e propria riforma del diritto civile, capovolgendo le costruzioni più diffuse sulla natura delle leggi e sull’intervento di chi le applica e le interpreta, a cominciare dai magistrati, tema proposto e approfondito a lungo negli ultimi anni. Per dire la verità, nemmeno io ero e sono del tutto convinto dalle riflessioni di Nicolò, però mi affascinano sempre le sue capacità argomentative, dietro le quali si intravedono la lucidità dell’analisi, il rifiuto di acquietarsi dietro le maggioranze del caso, e, soprattutto, la solidità della rete di valori che tiene insieme il tutto, una rete radicata anche in quel cattolicesimo democratico al quale Lipari faceva riferimento, pure senza sbandierarlo, e che condividevo con lui.
Qualche spunto di conclusione.
Ad altri, più “addetti ai lavori”, gli approfondimenti del Lipari giurista, figura cardine tra quelli che si addentrano nei e si appassionano dei mutamenti del diritto. In questa sede mi limito a sottolineare, sul punto, la profonda sensibilità civile di Nicolò Lipari, che ha voluto, secondo me, riformare profondamente i percorsi necessari per individuare le “fonti del diritto”, con un processo che si muova non dall’alto verso il basso, come si sostiene tradizionalmente, ma all’opposto, dal basso, dall’esperienza di vita, verso l’alto.
Non credo di potermi annoverare né tra gli allievi, né tra chi condivide comunque le tesi di Lipari, ma senz’altro la notizia della sua scomparsa mi ha colpito e mi colpisce, perché quella parte di mondo, di idee, di valori, di radici nel quale mi sono sempre ritrovato, dall’altro ieri, con la morte di Nicolò, manca di un punto di riferimento sostanziale, di un modello a cui ispirarsi. In questi momenti e ancor più nei passaggi che ci attendono, i rischi di un appannamento morale, di un allineamento immotivato alle tesi maggioritarie del momento, di una inconsulta accettazione dello svilimento dei principi cardine della democrazia, questi rischi continuano a crescere, e ci accorgeremo di che cosa significava la presenza di Nicolò Lipari, e di che cosa significa la sua scomparsa.
A me, inoltre e soprattutto, è venuto a mancare un Amico.
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