ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Emergenza sanitaria e differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare: il fardello della M. di sorveglianza. Note a Trib. Sorv. Milano, 31.3.20.
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano. 2. L’accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni che legittimano il differimento della pena. 3. Alcuni documenti in materia di detenuti in condizioni di fragilità di fronte all’emergenza 4. Il differimento della pena per condizioni di salute che espongono a particolari rischi in caso di contagio
1.L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano.
Il Tribunale di sorveglianza meneghino ha concesso ad una persona condannata che espiava la sua pena presso la Casa Circondariale di Voghera di terminare una pena residua di circa otto mesi presso il suo domicilio, ritenendo che la stessa si trovasse in condizioni di grave infermità fisica tali da giustificarlo.
Non conosciamo l’esatta età dell’interessato, ma dalle motivazioni della pronuncia si comprende che questo parametro abbia avuto un peculiare rilievo. Sappiamo però che si tratta di persona affetta da pluripatologie croniche (diabete mellito tipo II, dislipidemia, difficoltà respiratorie e diabete), che evidentemente sono state gestite nel contesto penitenziario sino all’attualità e che, però, ad avviso dell’autorità giudiziaria, oggi non possono che essere lette in relazione al sopravvenuto rischio di contagio da COVID-19.
Il provvedimento del Tribunale di sorveglianza interviene dopo un rigetto provvisorio, emesso ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen., da parte del magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione dell’interessato, che aveva escluso la sussistenza di un grave pregiudizio derivante al detenuto dal protrarsi dello stato detentivo, poiché riteneva che l’ambiente carcerario non incrementasse il rischio di contrasse il virus. Questa affermazione viene ribaltata nell’ordinanza milanese che, invece, considera il contesto carcerario come capace di sottoporre ad un più elevato rischio chi vi sia ristretto, per l’impossibilità di disporre un isolamento preventivo e ridurre, in tal modo, la diffusione del COVID-19.
La misura concessa è dunque di differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47- ter comma 1-ter ord. penit. L’interessato è infatti condannato per gravi fattispecie di reato, seppur commesse alcuni anni or sono, e tutte rientranti nell’elenco del comma 1 dell’art. 4 -bis ord. penit., e si appalesa quindi necessario un contenimento che, in presenza di un domicilio idoneo, consente di operare un bilanciamento tra tutela della salute ed esigenze di sicurezza della collettività, favorevole all’istanza dell’interessato.
La decisione qui richiamata si segnala, oltre che per la novità e l’importanza del tema affrontato, per la peculiare celerità con cui si è potuti giungere alla trattazione del procedimento dinanzi al Tribunale di sorveglianza. In senso conforme, comunque, pur con pluralità di accenti, si muovono già varie altre decisioni di merito emesse ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen. (vd. ad esempio, tra le altre, ancora inedite, le ordinanze magistrato di sorveglianza Livorno 19 marzo 2020, magistrato di sorveglianza Siena 19 marzo 2020 e 27 marzo 2020, magistrato di sorveglianza Sassari 1 aprile 2020 ed ancora del magistrato di sorveglianza Salerno).
2. L’accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni che legittimano il differimento della pena.
Senza alcuna pretesa di esaustività, a fronte degli obiettivi minimi del presente contributo, sembra utile ricordare che gli strumenti offerti dagli art. 146 (rinvio obbligatorio) e 147 (rinvio facoltativo) cod. pen. rappresentano una fondamentale valvola attraverso la quale, di fronte a condizioni di salute, per quanto qui interessa, di particolare gravità, il principio generale secondo cui le pene comminate debbono essere eseguite trova un suo limite proprio nella tutela del diritto fondamentale, di valenza costituzionale, della salute.
Nell’art. 146 comma 1 n. 3 sono contemplate condizioni di salute che risultano incompatibili con lo stato di detenzione o perché la persona si trovi in uno stadio della malattia tale da non rispondere più alle cure oppure in specifiche ipotesi di grave deficienza immunitaria o di AIDS conclamato. La S.C. ha a tal proposito rilevato che l’istituto in questione è posto “a tutela dei beni primari della persona, quali il diritto alla salute, il diritto alla vita, il divieto di sottoposizione a trattamenti contrari al senso di umanità”, a prescindere dal dato concernente la pericolosità sociale della persona (cfr. Cass. 28 novembre 2017, n. 990).
Si è a tal proposito affermato pure che, affinché “la pena non si risolva in un trattamento degradante e contrario al senso di umanità, lo stato di salute non compatibile con il regime carcerario, tale da giustificare il differimento dell’esecuzione della pena, non deve essere limitato alla presenza di una patologia implicante un pericolo per la vita del detenuto, dovendosi tenere in considerazione, alla luce dei principi di cui agli artt. 3 CEDU e 27 comma 3 Cost., ogni stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, che deve essere assicurato anche nella condizione di restrizione carceraria” (cfr. Cass.22.03.2017, n. 27766).
Nell’art. 147 comma 1 n. 2 si parla invece più ampiamente di condizioni di grave infermità fisica e, in tale ultimo caso, occorre che il Tribunale di sorveglianza accerti l’assenza di un concreto pericolo di commissione di delitti ove si provveda al differimento.
L’ordinamento penitenziario offre, per altro, l’efficace soluzione, nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria si convinca della necessità del rinvio dell’esecuzione della pena, di prevedere la possibilità che la stessa venga intanto eseguita nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. (in seguito alla sentenza Corte Cost. 19 aprile 2019, n. 99 anche in ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta), come ulteriore mezzo per consentire un contenimento adeguato dell’eventuale pericolosità sociale residua in capo al destinatario della misura che, comunque, è disposta a tempo e consente una rivalutazione della persistenza dei presupposti in un periodo determinato dall’autorità giudiziaria.
La giurisprudenza di legittimità ha partitamente affrontato le molte questioni complesse sottese alle valutazioni della magistratura di sorveglianza sul punto. Si è precisato, anche da ultimo, come il Tribunale di sorveglianza debba accertare adeguatamente il reale stato patologico del detenuto, per verificare se lo stato di detenzione comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità da eccedere il livello che inevitabilmente deriva dalla legittima esecuzione della pena (cfr. Cass. 13 novembre 2018 n. 1033/2019) e come ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, non sia necessario verificare che sussista un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorra che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (cfr. Cass. 17 maggio 2019 n. 27352).
La giurisprudenza si affida dunque ad una valutazione individualizzata da parte della magistratura di sorveglianza, chiamata a verificare, mediante una istruttoria completa, da quali patologie il condannato sia affetto, di quali cure abbia bisogno, in quali condizioni concrete stia vivendo la propria carcerazione e quale sia l’offerta sanitaria e più in generale di trattamento che l’istituto penitenziario può assicurargli. E’ necessario, d’altra parte, acquisire elementi utili a definire il profilo di pericolosità sociale attuale del condannato, per poter operare in concreto il bilanciamento richiesto dalla disposizione normativa tra le esigenze di tutela della salute e quelle di sicurezza della collettività.
3. Alcuni documenti in materia di detenuti in condizioni di fragilità di fronte all’emergenza
Il 15 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha elaborato un documento volto a fornire elementi utili a impostare strategie di prevenzione e controllo del COVID-19 nel contesto carcerario.
Nelle premesse si legge come le persone private della propria libertà, come quelle in carcere ed altri luoghi di detenzione, siano più vulnerabili al contagio da COVID-19 rispetto alla popolazione libera, proprio a causa delle condizioni di confinamento in cui vivono insieme ad altri per lunghi periodi di tempo. L’Oms aggiunge che l’esperienza mostra che le prigioni e i contesti simili, dove le persone sono costrette a vivere le une strette alle altre agiscono come una fonte di amplificazione del contagio, sia dentro che fuori da quei luoghi, tanto che la salute della prigione deve necessariamente considerarsi come un fatto di sanità pubblica. A questo scopo individua importanti azioni di contenimento, che passano evidentemente innanzitutto attraverso una capillare fornitura di presidi preventivi e che in tanto sono efficaci, in quanto possa garantirsi adeguata distanza tra le persone detenute.
Il 20 marzo scorso il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa ha offerto all’attenzione di “tutte le autorità responsabili delle persone private della libertà nell’area del Consiglio d’Europa” un documento di “Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia di coronavirus COVID-19”.
In questo contesto è chiaramente enunciato all’art. 1 il principio per il quale deve essere intrapresa ogni azione possibile per proteggere la salute e la sicurezza di tutte le persone private della propria libertà, anche quale strumento per preservare al meglio la salute e la sicurezza di chi lavora in carcere. Si chiede che vengano rispettate le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità in tutti i luoghi di privazione della libertà personale, potenziando il personale, informandolo correttamente in ordine ai corretti comportamenti da tenere e fornendo i presidi adeguati.
Insieme ad altre importanti affermazioni, ad esempio concernenti la necessità che ogni restrizione al trattamento, pur dipesa dall’esigenza di evitare il contagio, debba avere una base legale ed essere necessaria e proporzionata allo scopo, si afferma che le autorità competenti devono porre in essere tutti gli sforzi per valorizzare le alternative al carcere, in ogni fase del processo come in fase di esecuzione penale. Deve, ancora, essere prestata speciale attenzione ai bisogni specifici delle persone detenute appartenenti a gruppi vulnerabili o maggiormente a rischio, come le persone più anziane e quelle già affette da patologie preesistenti.
Nel contesto nazionale, mentre l’Istituto Superiore di Sanità aggiorna da tempo le drammatiche statistiche sulla letalità del contagio per le persone più anziane e per quelle affette da particolari patologie (cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, ipertensione arteriosa, diabete mellito, insufficienza renale cronica, broncopneumopatie ostruttive), la Direzione Generale Detenuti e trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha diramato il 23 marzo scorso una nota con la quale dispone che le Direzioni degli istituti penitenziari segnalino alle autorità giudiziarie competenti “con solerzia”, per le determinazioni che le stesse intenderanno assumere, i nominativi dei detenuti che si trovino in condizioni di salute alle quali è possibile riconnettere “un elevato rischio di complicanze” nel caso malaugurato di contagio da COVID-19.
Nell’elenco che segue, al fianco delle persone età superiore ai settanta anni, figurano appunto malattie croniche come quelle dell’apparato respiratorio quando necessitino continui contatti con le strutture sanitarie esterne, malattie dell’apparato cardio-circolatorio, diabete mellito scompensato, immunosoppressione indotta dai farmaci, malattia da HIC (con CD4 inferiori ai 200 cell/mm3), malattie degli organi emopoietici ed emoglobinopatie, neoplasie attive o in follow up, malattie congenite o acquisite che comportino carente produzione di anticorpi.
Si tratta di un elenco di patologie di peculiare gravità, di per sé già idonee nella gran parte dei casi ad integrare condizioni valutabili ai sensi dell’art. 147 cod. pen., che opportunamente vengono portate all’attenzione dell’autorità giudiziaria anche a prescindere da una istanza di parte.
Iniziative simili, per altro, erano state già intraprese da alcuni Tribunali di sorveglianza (vd. nota Tribunale di sorveglianza di Firenze in data 13 marzo 2020), con richiesta di fornire i nominativi dei detenuti più anziani o comunque affetti da patologie che, pur di per sé non incompatibili con il regime carcerario, ponessero il condannato in condizioni di particolare rischio in caso di contagio da COVID-19.
4. Il differimento della pena per condizioni di salute che espongono a particolari rischi in caso di contagio
Lo statuto costituzionale, e convenzionale, del diritto alla salute, anche delle persone detenute, con i suoi importanti riflessi sulla dignità stessa dell’esecuzione penale, impone sempre al sistema penitenziario una particolare attenzione che, tuttavia, incontra nella drammatica realtà del sovraffollamento e nella strutturale carenza di risorse, nonché nei difetti comunicativi che a volte accompagnano il riparto di competenze in materia tra l’amministrazione penitenziaria e la sanità regionale, costanti ostacoli alla piena realizzazione della sua tutela.
Gli strumenti normativi messi in campo, anche all’esito della stagione degli Stati Generali, e i protocolli varati in molte regioni, hanno in tal senso consentito di raggiungere ordinariamente migliori risultati e tuttavia è ancora lungo il percorso da compiere prima di poterci dire lontani da quelle lacune che già in passato ci hanno posto, anche per questo profilo, all’attenzione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
L’emergenza epidemiologica introduce un elemento di drammatica novità che si cumula alle problematiche che, a macchia di leopardo, coinvolgono la speditezza, l’adeguatezza e la continuità delle cure fornite alle persone detenute. Negli istituti penitenziari si fa ancor più difficile l’accesso di specialisti, così come, per altro similmente al resto della popolazione, soltanto nei casi di assoluta gravità si può far ricorso al ricovero in luogo esterno di cura ex art. 11 ord. penit, con dilazioni di numerosi interventi chirurgici e accertamenti diagnostici già da lungo tempo calendarizzati, dopo liste di attesa significative. Gli psicologi e gli psichiatri (questi ultimi salvo, verosimilmente, situazioni di speciale acuzie) restano fuori dalle mura, per preservare, per quanto possibile, i detenuti dai contatti con l’esterno, in sé forieri di maggior rischio di contagio.
Ciò conduce a un senso di precarietà, se non di abbandono, che è normalmente raccontato dai detenuti nel corso dei colloqui con il magistrato di sorveglianza e che è, per quanto per loro possibile, attenuato soltanto dagli oberati presidi sanitari interni e dalla vicinanza umana che la Polizia Penitenziaria, ormai sola in assenza degli ingressi di volontari e altri operatori, in tante singole situazioni sta mostrando.
La valutazione ai sensi degli art. 146 e 147 cod. pen. di un eventuale differimento della pena è, per come si è visto, sempre necessariamente individualizzata e deve poggiare su una verifica in concreto delle condizioni di salute della persona e delle sue possibilità di presa in carico e di cura nel contesto penitenziario. Ai tempi del COVID-19, dunque, occorre che le aree sanitarie forniscano relazioni sanitarie il più possibili esaustive, che evidenzino il quadro patologico attuale della persona ed anche i rischi che la stessa corre in caso di contagio. Come si è accennato, esistono studi significativi in grado di individuare alcune fasce di maggior rischio, specialmente quando si sommino comorbilità e si sia in presenza di persone di età più avanzata.
Appare necessario che questi elementi siano valutati proprio quando il virus non sembra ancora essersi affacciato all’interno dell’istituto penitenziario, in un quadro preventivo auspicato dalle fonti sovranazionali, e possano essere valorizzati unitamente alle maggiori difficoltà che nella situazione attuale la persona detenuta incontra rispetto alla presa in carico delle sue patologie, nonché alle condizioni detentive che deve affrontare ed alla possibilità di rispettare le prescrizioni igieniche, prima tra tutte il distanziamento sociale, che l’OMS considera essenziali. In questa chiave si fa particolarmente critica la condizione dei ristretti in stanze multiple, nelle quali gli esigui spazi siano condivisi con più compagni di cella, con un solo bagno in comune, con locali docce frequentati dal resto della popolazione ristretta in sezione, e con spazi per mangiare angusti e tali da impedire qualunque forma di sanificazione giornaliera, invece possibile (ed attuata da ciascun cittadino in questo eccezionale periodo) all’interno della propria abitazione.
Sussiste, infine, la necessità di tener conto di come tali condizioni patologiche incidano già in tempi ordinari sull’afflizione naturalmente connessa allo stato detentivo, e non può non rilevarsi come il timore fondato almeno a leggere le affermazioni contenute nei documenti provenienti dagli organismi sovranazionali cui si è fatto cenno, di non poter mettere in atto il distanziamento sociale necessario, possa aggravare la sofferenza psichica di chi già patisca la restrizione carceraria da persona particolarmente anziana o gravata di patologie croniche significative. Si affaccia, su questo versante, il tema di una detenzione che, in particolari condizioni, in questo momento, possa divenire contraria al senso di umanità.
Deve rilevarsi, tuttavia, che una pronuncia positiva dovrà, per come già ricordato, prevedere una congrua motivazione, nelle ipotesi di cui all’art. 147 cod. pen., circa l’insussistenza di un pericolo di recidiva nel delitto, o circa l’adeguatezza della misura della detenzione domiciliare a contenere l’eventuale pericolosità sociale residua della persona.
L’eventuale provvedimento assunto potrebbe, soprattutto se emesso in via provvisoria ex art. 684 cod. proc. pen., essere disposto per il tempo dell’emergenza sanitaria e sino ad una valutazione completa del Tribunale di sorveglianza, che potrà verificare, all’esito di questo periodo straordinario, se le condizioni dell’interessato consentano la ripresa della detenzione in carcere.
Ove la valutazione dovesse essere invece negativa, tuttavia, la magistratura di sorveglianza ben potrà impartire disposizioni (art. 69 comma 5 ord. penit.) volte a salvaguardare al meglio la salute della persona in condizioni di particolare fragilità e, al tempo del COVID-19, ciò significa anche immaginarne una collocazione in stanza singola e con la fornitura di adeguati presidi di prevenzione.
Resta il tema, che apre scenari ulteriormente drammatici, di chi, pur non presentando una peculiare pericolosità sociale, e versando in condizioni di speciale fragilità, non possa accedere ad una misura come la detenzione domiciliare ex art. 47-ter 1-ter ord. penit., per mancanza di un domicilio idoneo.
Si tratta di una peculiare difficoltà, che per altro si scontra con la rarefazione significativa nella fase emergenziale che attraversiamo di tutti i servizi istituzionali eventualmente preposti a supportare chi si trovi in condizioni di disagio sociale più acuto. Tuttavia, l’esperienza di queste settimane consente anche di affermare che una sinergia di sforzi tra tutti gli operatori penitenziari (Direzioni, aree sanitarie, aree giuridico- pedagogiche e polizia penitenziaria, impegnata quest’ultima a far fronte all’organizzazione interna e al ritrarsi di tutti gli altri supporti dall’esterno), gli uffici di esecuzione penale esterna, la magistratura di sorveglianza, la rete costituita dal Garante nazionale e dai Garanti territoriali e gli enti locali può favorire il reperimento di soluzioni concrete e contribuire a consentire all’autorità giudiziaria decisioni prudenti e informate, ispirate ai principi costituzionali e convenzionali, e perciò anche idonee, come affermato dall’Oms, mentre si tutela la salute delle persone detenute, a tutelare la salute e la sicurezza della collettività.
Emergenza Covid-19, carceri e diritto alla salute
Intervista a Davide Galliani.
di Michela Petrini
La situazione di emergenza determinata dalla pandemia è ancora attuale. Ogni giorno vengono comunicati dalla protezione civile e commentati dai mass- media i dati relativi al numero dei contagiati, dei morti e dei guariti, ma non sembra che vi sia particolare attenzione alla situazione sanitaria nelle carceri, secondo lei quali sono le ragioni di questo silenzio?
La scena “carcere” nel Faust di Goethe – la più antica di tutta l’opera, composta quando l’autore, appena ventenne, fu testimone della tragica fine di Margherita Brandt – inizia con queste parole, pronunciate da Faust mentre sta per entrare nella cella di Margherita: “Mi penetra, da tanto non più provato, un brivido; tutta l’umana miseria mi stringe (…). Il tuo esitare è la sua morte”.
Lei mi chiede quali sono le ragioni del silenzio sul problema pandemia in carcere. La risposta più sincera e più giuridica che riesco a darle è questa: abbiamo smesso di provare i brividi che provoca l’umana miseria, e non comprendiamo che esitare significa morire.
Esiste nella nostra testa un maledetto muro, che impedisce di pensare al mondo ristretto come pensiamo al mondo non ristretto. Sto parlando di pensare al carcere, non delle soluzioni da prendere. Ma è evidente che se la premessa è giusta (il carcere non abita Marte, il carcere in fondo siamo noi), allora le soluzioni sono conseguenti. Soluzioni che possono essere differenti, alcune più giuste di altre, alcune più sbagliate, come sempre del resto. Quello che non possiamo sbagliare è il punto di partenza: ed è esattamente il nostro grande errore, se vogliamo individuare il motivo del silenzio al quale lei accenna nella domanda.
Vorrei aggiungere una riflessione. Tutti abbiamo nella testa questo maledetto muro. I politici, salvo alcune rarissime eccezioni. La protezione civile, che però non ho idea se abbia autonomia nella scelta dei temi sui quali relazionare. Le chiedo e mi domando: il giornalismo esiste ancora, se intendiamo l’arte di provocare, far riflettere, indirizzare? A me sembra che il giornalismo italiano viva un periodo di decadimento. Cosa aspetta un giornalista a chiedere della questione carcere e pandemia al presidente del consiglio, al ministro della sanità, al responsabile della protezione civile, al direttore dell’Istituto superiore della sanità, al presidente della regione, all’assessore alla sanità regionale, al sindaco? Il muro è presente anche nella mente dei giornalisti. Il carcere non può diventare una notizia solo dopo le rivolte, le morti, i contagi. Non è questo il senso del giornalismo: chi racconta l’accaduto fa cronaca, per la quale spesso bastano le immagini; il giornalista è lì pronto a torchiare il potente di turno, a tartassarlo di domande che disturbano. Il giornalista accomodante non è un giornalista, che deve invece dare fastidio, e se è bravo prescrivere più che descrivere.
Troppi giornalisti ammiccano, ridono quasi compiaciuti dopo le risposte che ricevono. Non fanno bene il loro mestiere: devono spremere, quasi interrogare il potente di turno, come fossero i pubblici ministeri dell’informazione e il potente di turno l’imputato di turno. Il giornalista ha l’obbligo di essere scomodo: il bravo pubblico ministero ha fiuto, arriva dove sente che qualcosa non torna, è per definizione scomodo; il giornalista più o meno la stessa cosa: non deve pensare a quello che il potente di turno dice, ma a quello che non dice, alle cose dette e non dette, deve leggere tra le righe, con intelligenza e giusta curiosità. Che non è la curiosità idiota (del tipo dove taglia i capelli il presidente del consiglio), ma quella sensibile, attenta, direi quasi investigativa. In fondo, il giornalista assomiglia al giurista: come diceva Salvatore Satta, giurista è colui che dice di no, e mi sembra che si possa tranquillamente estendere questa definizione anche al giornalista.
I giornalisti bravi esistono. I discorsi che generalizzano meglio evitarli. Ma per quanto sia sbagliato estendere il ragionamento, sul banco degli imputati bisogna metterci pure i giornalisti. Meglio, il sistema dell’informazione (se sistema è la parola esatta), che assegna ad uno dei più bravi giornalisti italiani, che si occupa da sempre di carcere, la miseria di 700 battute per dire non una ma tutte queste cose: che qualche procuratore ha deciso di dare un freno agli arresti, che c’è stato il quarto morto per il virus nelle carceri, che si sono verificati tre suicidi in quattro giorni sempre nelle carceri, carceri nelle quali ci sono una quarantina di positivi tra i detenuti e più di 150 tra gli agenti della penitenziaria e, infine, che stanno ripartendo le rivolte.
Questo capoverso che ho appena scritto è di 700 battute. A lei sembra normale che nello stesso spazio il giornalista possa fare (bene) il suo mestiere, vale a dire informare sui temi elencati? Povero giornalista, povero giornalismo, poveri noi. Il giornalismo, come le carceri, sono lo specchio del grado di civiltà di un paese.
Alla sua domanda si potrebbero dare anche molte altre risposte. Da giurista sento dentro tutto il dramma del carcere perché non ho mai pensato al carcere in modo diverso da come penso alla vita di tutti i giorni. In tanti oggi (forse) iniziano a pensarsi detenuti: il “passeggio”, avanti e indietro, contando i passi, appena fuori da casa (dalla cella), la “ora d’aria” (a volte dieci minuti, come accade in carcere), il vetro divisorio (lo schermo del cellulare che ci separa dai nostri cari). La reclusione, come momento di privazione della libertà, non è mai stata così diffusa come oggi, eppure non c’è niente da fare: al carcere non si pensa, il carcere tra i nostri pensieri (se viene) viene per ultimo.
Nessuno è al sicuro finché non lo saremo tutti, ha detto un membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quel tutti ci sono davvero tutti, non tutti tranne alcuni. Se non mettiamo tutti al sicuro, ciascuno di noi rischia. Se non riusciamo a capirlo altrimenti, perché alla umana miseria uno o ci pensa o non ci pensa (fino a quando non gli tocca da vicino), un pizzico di pragmatismo utilitaristico potrebbe aiutarci: “conviene a tutti pensare al carcere” è una delle frasi più azzeccate quando riflettiamo sul carcere, e oggi è una frase azzeccatissima. Pensare al carcere fa sempre bene, significa pensare a noi stessi. Se cala il silenzio, cala il silenzio anche su noi stessi.
In questi giorni diverse sono le riflessioni che vengono svolte, anche all’interno della magistratura, in ordine alle misure da adottare per scongiurare il rischio che il contagio si diffonda negli istituti di pena. C’è chi ritiene che i detenuti siano più al sicuro in carcere che fuori e chi, invece, propone di far accedere alla detenzione domiciliare anche coloro che devono ancora scontare una pena non superiore a tre anni. Qual è la sua opinione?
Da quando è scoppiata la pandemia sento dentro fortissime due sensazioni. La prima: va bene pensare, ma va ancora meglio fare qualcosa. Mettiamola così: pensiamo operativamente, se proprio non riusciamo a fare niente di concreto. Dobbiamo avere coraggio, per una benedetta volta nella vita pensare anche agli altri e non solo a noi stessi. Solo un fesso in questo periodo non ha paura. Ma il punto è far derivare dalla paura dei momenti di concentrazione, individuare degli obbiettivi e fare di tutto affinché si possano realizzare.
Un esempio: se si pensa alla detenzione domiciliare ma solo con braccialetto elettronico non si fa scattare quel disperato bisogno odierno di pensare operativamente. Prima recuperi i braccialetti, li testi, ti assicuri che funzionino. Poi, dopo, modelli il residuo di pena per i domiciliari con braccialetto. Non ho mai amato i braccialetti, ma oggi me li faccio andare bene, se esistono e non rimangono una parola sulla carta.
La seconda sensazione: mi trovo quasi sempre a difendere l’indifendibile. In ogni campo, in tutti i campi. Il braccialetto è un esempio. Ma ce ne sono tanti. Obbligo di uscire di casa con la mascherina perché così dice un’ordinanza regionale? Il sindaco che con un’ordinanza lancia i droni per vedere in quale supermercato vado a comprare il pane? Potrei proseguire per pagine, con buona pace di Leonardo Sciascia (quanto manca oggi).
Mi trovo a difendere l’indifendibile anche rispetto al carcere. Bloccare ogni colloquio tra detenuto e famigliare, ogni attività rieducativa, la sorveglianza dinamica? Anche qui l’elenco dei blocchi è lungo. Ma non cambia la sostanza: se voglio proteggere la salute e la vita del pianeta carcere (direttore, agenti, detenuti), che significa anche proteggere noi stessi, devo difendere queste misure indifendibili. Un secondo dopo, cerco di usare la bilancia, per riequilibrare il piatto, per ristabilire giustizia, che se non è ragionevole non è mai giustizia. Ti nego di vedere tua moglie o tuo figlio per due mesi? Invece di una telefonata di dieci minuti ne potrai fare due di venti minuti. Non puoi più fare alcuna attività rieducativa? Va bene, mi decido a far entrare in carcere una valanga di libri. Non posso più farti stare fuori dalla cella di giorno, allora mi impegno affinché tu possa avere a disposizione, nella cella, molto più di quanto normalmente puoi avere. Non faccio il direttore di carcere, ma sono sicuro che esistono direttori che hanno mille idee a proposito.
Non finisce qui. Che facciamo se non si riesce a garantire l’isolamento sanitario a chi in carcere accusa anche solo un sintomo (oggi in Lombardia se hai la febbre a 37.5 devi isolarti in casa, così dice un’ordinanza regionale). Ci giriamo dall’altra parte e pazienza? Voglio dirle questo. Stiamo capendo che le RSA si dovevano blindare prima e che questo avrebbe evitato tragedie. Non solo delle persone dentro, ma di tutti noi, perché il virus si muove sulle gambe delle persone ed è stato portato dentro ma anche fuori, mettendo a repentaglio un numero sempre più ampio di persone. Questo è il focolaio che non riesci a controllare. Vi è un unico modo (certo) per evitarlo: evitare ogni entrata e uscita da una RSA, come hanno compreso quelle persone che, in modo coraggioso, hanno deciso di chiudersi dentro con i propri pazienti, proprio per tutelarne al massimo la salute e la vita e così anche quella dei loro cari. Con le carceri non è molto differente. Dire che le carceri sono oggi luoghi sicuri è dire una fesseria. Ma certo è che tenendo in isolamento sanitario i nuovi giunti e limitando al massimo i contatti con l’esterno, noi facciamo del bene ai detenuti e quindi a noi stessi. Il problema è però che per fare l’isolamento sanitario in carcere serve allentare la popolazione detenuta, altrimenti gli spazi non esistono, finiremo con avere reparti di isolamento sanitario sovraffollati. Il che è assurdo, rasenta quel reato del quale sentiamo parlare in questi giorni, che è punito anche con il fine pena mai.
Sto cercando di rispondere alla sua domanda. Abbiamo tutti letto la storia della portaerei Roosevelt. Il comandante ha implorato i vertici della Marina di far sbarcare i suoi uomini, a decine contagiati. Una portaerei non può garantire né l’isolamento sanitario né il distanziamento sociale. Mi sembra di sentire il direttore di un carcere, che dice al ministro, al capo del DAP, al magistrato: va bene blindare il carcere, ma se non esce qualche detenuto non sono in grado di organizzare gli isolamenti sanitari. Fateli uscire, al pari di fateli sbarcare. La risposta alla sua domanda è quindi un ossimoro: sono giuste da fare entrambe le cose, blindare il carcere, allentare la popolazione detenuta.
Spetta alla politica adottare le misure emergenziali migliori. E le devo dire, a proposito, una cosa: quello che più mi preme è che non rimangano sulla carta. La magistratura di sorveglianza non ha poteri sovrannaturali, inutile sparare numeri di quanti ne escono, senza riflettere prima su quanto oggi riesce a fare la magistratura di sorveglianza (e per quanto di competenza le procure). Non amo gli automatismi, e questo perché amo il mestiere del giudice. Mi batto contro gli orribili automatismi perché difendo il bellissimo mestiere del giudice, direi del magistrato. L’idea di fare uscire una persona senza il vaglio della magistratura non riesco a digerirla.
Detto questo, si può anche ampliare la platea degli ipotetici destinatari della detenzione domiciliare di emergenza (fino a 24 mesi, per alcuni, anche di più, per altri), ma se non si hanno i mezzi per farvi fronte sono solo belle parole, propositi scritti nel libro dei sogni. Altro che indulto mascherato, altro che resa dello Stato alle rivolte: sono e saranno solo fascicoli che si accatasteranno uno sopra l’altro, il che, in situazione di emergenza, è ciò che non deve accadere. Ha fatto bene il Procuratore Generale della Cassazione a dire che l’istanza può essere avanzata anche dal pubblico ministero. Cerchiamo ora di evitare che le pigne di fascicoli diventino montagne, il che significa ragioniamo anche su ciò che serve alla sorveglianza per fare bene il proprio mestiere. Se i rinforzi non arriveranno dall’alto o dal fianco, cerchiamoli dal basso, in quel IV comma dell’art. 68 dell’ord. pen., introdotto per rispondere alla valanga di istanze dopo la sentenza Torreggiani.
Venendo al merito, lei tenga conto che più o meno su 500 detenzioni domiciliari concesse oggi, quelle in base all’art. 123 del “cura Italia”, appunto la detenzione domiciliare di emergenza, saranno (se va bene) una trentina. Del resto, cosa dovrebbe pensare un magistrato? Il governo approva per le carceri una misura dichiaratamente emergenziale. All’atto pratico, però, non si riesce ad usare quella misura, per mille motivi.
Ha senso dare una detenzione domiciliare in attesa della disponibilità del braccialetto elettronico? Ha senso escludere una platea gigantesca di detenuti, quelli dell’art. 4 bis ord. pen., tutto l’art. 4 bis, non solo la prima fascia, che già da sola contiene una ventina di reati? Qualcuno si è preso la briga di contare quanti sono i detenuti ostativi? Non voglio allarmare nessuno, ma un paio di anni fa l’allora Vice Capo del DAP disse che le persone a giudizio per reati in astratto ostativi erano 33.000. In ogni caso, a fine 2019, i detenuti per 416 bis erano 8.000. Sempre a fine anno 2019, i detenuti non definitivi erano 20.000. Approviamo una misura emergenziale ed escludiamo in partenza la metà dei detenuti, ostativi e non definitivi? Che forse la pandemia si arresta a seconda del titolo di reato o della posizione giuridica del detenuto? Questo penserà un magistrato.
Se conta la salute, se conta l’emergenza, possiamo calibrare la salute e l’emergenza a seconda non della pericolosità di oggi, concreta e individuale, ma in base al titolo di reato, magari commesso nello scorso secolo? Proviamo a essere sinceri: la salute e di rimando la vita di una persona possono dipendere dal tipo di reato commesso? Non si dica che non esiste il problema salute, che non esiste il problema vita, perché è lo stesso governo ad aver previsto delle misure emergenziali proprio per tutelare salute e vita dei detenuti…di quelli che, non ostativi, hanno avuto la fortuna di avere una sentenza di condanna definitiva!
Questa è la mia risposta alla sua domanda. Da una parte, è giusto blindare il più possibile le carceri, ma, dall’altra parte, si deve procedere con le detenzioni domiciliari, perché altrimenti il rischio è quello di blindare un luogo che comunque esploderà. L’allentamento della popolazione detenuta deve esserci, con il vaglio della sorveglianza, per la quale forse è bene fare qualche che possa derogare alla impossibilità di recarsi in tribunale se non scaglionati, anche perché da remoto non può fare moltissimo.
Cosa fare di altro? Tamponi a tutti gli agenti della polizia penitenziaria e a tutti i detenuti, direi anche a quelli che non hanno sintomi, visto che anche gli asintomatici possono essere veicolo di diffusione del virus. I tamponi non si fanno nemmeno ai medici e agli infermieri asintomatici, che senso ha farli alla polizia penitenziaria e ai detenuti? Il senso è chiaro: dato che il distanziamento sociale in carcere è impossibile (lo sarebbe con la metà dei detenuti rispetto ai posti regolamentari, 25.000 su 50.000), l’unica cosa che possiamo fare è controllare quotidianamente la presenza del virus nelle carceri. E, se fossimo un paese responsabile, il tampone lo fai a chi entra ma anche a chi esce dal carcere: non mi sembra una pazzia, certo non deve bloccare il lavoro della sorveglianza, che qualcuno da qualche parte ci pensi.
Inoltre, inizierei seriamente non a pensare ma a progettare la disponibilità di luoghi nei quali far scontare l’isolamento sanitario a tutti i detenuti che accusano sintomi. L’immagine dei film americani, nei quali si vedono detenuti palestrati e in perfetta forma, non rappresenta la realtà italiana. I detenuti li abbiamo noi in custodia, noi come Stato dobbiamo custodirli: chi lo ha detto che l’isolamento sanitario debba per forza avvenire in un carcere, nel momento in cui il carcere non è in grado di garantirlo per tutti coloro che ne hanno bisogno? Prima che sia troppo tardi. Esitare potrebbe avere conseguenze devastanti.
Con delibera del 26 marzo 2020 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato un parere sul decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (cd. decreto cura Italia) e, con riferimento alla materia penitenziaria, ha sottolineato le criticità della “nuova” detenzione domiciliare rispetto all’istituto disciplinato dalla legge 199/2010. Ritiene che si tratti di aspetti della normativa emergenziale che meritino un approfondimento e/o una modifica in sede di conversione?
Sono tanti gli aspetti critici. I braccialetti, per esempio. Sapendo che non ne esistono molti, i giudici usano la legge 199. E fanno bene. A volte, però, la prognosi di pericolosità ha bisogno dei domiciliari con braccialetto, ma non essendoci i braccialetti ecco cosa succede: il detenuto resta parcheggiato in carcere, con un bel provvedimento che gli dice che può andare ai domiciliari, ma che non viene eseguito dalla polizia penitenziaria finché non arriva il braccialetto. Una follia, non della penitenziaria, non del giudice, ma del legislatore.
Per il resto, le esclusioni previste dal “cura Italia” vanno comprese. Ad esempio, coloro che hanno partecipato alle rivolte e per questo sono stati destinatari di un rapporto disciplinare. Ci sarà chi dirà che sono organizzate, altri che i protagonisti sono poveri cristi, che hanno saccheggiato le farmacie delle carceri, alla ricerca di metadone. A conti fatti, non mi sento di criticare l’esclusione prevista dal “cura Italia”. Se fosse stata un’esclusione generalizzata per ogni detenuto destinatario di un rapporto disciplinare sarei stato molto critico. Lo sappiamo che se un detenuto mette in atto uno sciopero della fame, perché la sua detenzione è inumana, può anche essere oggetto di un rapporto disciplinare? Non dico di premiarlo, ma certo è che arrivare ad un rapporto disciplinare mi sembra troppo, anche perché le conseguenze sono pesanti (sulla liberazione anticipata, sulla misura alternativa e via dicendo). Non di meno, l’esclusione, nel caso dell’art. 123, è mirata, pertanto accettabile.
Vi è poi il problema dell’art. 4 bis. Oltre a quanto detto prima, resta pur sempre la possibilità del differimento della pena ai sensi dell’art. 147 c.p., che non ammette preclusioni di sorta, proprio perché la salute e la vita non possono essere precluse in base al tipo di reato. Spetterà allora al magistrato e al tribunale valutare salute e pericolosità, non in astratto, ma in concreto, anche considerando l’emergenza sanitaria e tutte le sue conseguenze. Non esistono casi predefiniti, esiste la cura del magistrato, che, di fronte al detenuto con questa o quest’altra patologia, cercherà di comprendere la gravità della situazione, in quel penitenziario, rispetto a quella persona. Come in altri casi, avremo magistrati-medici, visto che dovranno consultare ad esempio i pareri dell’Istituto superiore di sanità per capire quali persone sono più esposte a rischio contagio e salute e vita.
Braccialetti, preclusioni e altro ancora. Nel complesso, il parere del CSM è sicuramente un buon parere. Mi fa alquanto specie, non di meno, sentire alcune dichiarazioni di consiglieri. Sono anni che mi occupo di carcere e spesso mi sono domandato: non avrei forse fatto di tutto, se fossi stato un detenuto, violenza a parte, per far capire in quali condizioni si è costretti a vivere in carcere? Arriva la pandemia e arrivano le rivolte. E noi cosa facciamo? Ragioniamo come se la detenzione domiciliare di emergenza assomigli ad una concessione ai rivoltosi. Imbarazzante. Chi pensa che io giustifichi la violenza non ha capito niente. Quello che contesto è il ragionamento di chi dice che lo Stato non deve cedere dopo una rivolta. Primo, perché la responsabilità penale è individuale (come detto, nel “cura Italia” si escludono sia coloro che hanno avuto un rapporto disciplinare per le rivolte e, allargandosi un attimo, chi ne ha avuto uno in precedenza per casi di rivolte o insurrezioni); e, secondo, perché “non cedere alle rivolte” lo può dire, senza imbarazzo, uno Stato che ha fatto di tutto per evitarle quelle rivolte. Chi non ha mai fatto niente per l’umanità delle carceri dovrebbe semplicemente fare una cosa: lasciare perdere il discorso attorno al cedimento dello Stato, perché il primo a non rispettare la Costituzione nelle carceri è esattamente lo Stato. Esiste una gigantesca e limpida differenza tra il giustificare le rivolte e il dire che erano più che prevedibili. Esiste una grandissima differenza tra il giustificarle e il comprenderle. Comprendere non significa giustificare, e certo non significa cedere, che diamine!
Ci siamo già dimenticati del signor Torreggiani, che di notte non poteva nemmeno dormire alzando le ginocchia, perché altrimenti dall’ultimo piano del suo letto a castello avrebbero toccato il tetto della cella? Non voglio fare alcuna polemica. Il ministro della giustizia non si chiama Marco Pannella, il ministro della giustizia del governo in carica ha compreso che chi si è rivoltato con la violenza si è auto-escluso da ogni possibilità di domiciliare di emergenza, ma ha anche compreso che noi abbiamo il dovere di diminuire la popolazione detentiva, senza alcuna paura di essere accusato di stare dalla parte dei rivoltosi o di cedere ai rivoltosi. Mi si conceda una battuta, un solo sorriso in mezza a tanta ansia e smarrimento: non avrei mai pensato di difendere l’attuale ministro della giustizia!
Un numero considerevole di detenuti non ha un domicilio idoneo dove poter eseguire la detenzione domiciliare: quali potrebbero essere, a suo avviso, le misure da adottare per limitare, almeno in questa fase di emergenza, il sovraffollamento nelle carceri? La “ via di Strasburgo” per affrontare il problema è necessaria e fino a che punto può essere utile?
La stragrande maggioranza dei detenuti italiani non ha evaso le tasse ed è passata da una villa ai caraibi alla stanza di una cella. La stragrande maggioranza dei detenuti italiani entra in carcere da una situazione molto complicata. Senza considerare che villa o sobborghi non fanno alcuna differenza quando ragioniamo sul numero “agghiacciante” (questa la parola usata nella sentenza Torreggiani) di detenuti che sono in attesa di sentenza definitiva di condanna.
Iniziamo quindi con il dire che in carcere ci sono molte persone la cui pericolosità può essere tenuta a bada altrimenti. Lo dice, sintetizzo io, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione: non va mai dimenticato, soprattutto in un momento come questo, che il carcere è la ultima misura da prendere, non la prima. Semplificando: chiediamo la custodia cautelare in carcere solo quando non esiste altra misura. Perfetto, non fa una piega, sempre la Costituzione che parla. Vale per il futuro, ma è una sorta di presa d’atto del passato: abbiamo ingolfato le carceri quasi come se non avessimo più la capacità di avere coraggio, adottando altre misure cautelari. Da questo punto di vista, mi auguro che il governo inizi a fare qualcosa per i detenuti in attesa di sentenza di condanna definitiva.
Lei domanda anche in merito alla questione del domicilio. Il “cura Italia” prevede la detenzione domiciliare di emergenza solo in presenza di domicilio effettivo e idoneo. Direi che il domicilio è un problema anche di altre misure, non emergenziali: dalla detenzione domiciliare classica a quella in deroga, fino al differimento della pena con richiesta di detenzione domiciliare.
I problemi sono molti. Provo a dirne alcuni. I detenuti senza fissa dimora, in Italia, non sono molti, qualche centinaio. Sono migliaia e migliaia i detenuti che non hanno un domicilio effettivo e idoneo. Non è facile individuarli prima dell’intervento del magistrato. Mi spiego con un esempio. Nel fascicolo di tizio la dicitura domicilio appare quasi sempre compilata. In teoria, la persona ha un domicilio. Il problema è che, nel momento in cui il magistrato deve valutare la detenzione domiciliare, ha il compito di comprendere se quel domicilio è effettivo e idoneo. Di solito, il compito è affidato agli uffici dell’esecuzione penale esterna, ma nel “cura Italia”, per velocizzare la procedura, la competenza è della polizia penitenziaria, che poi relaziona al magistrato. Un immobile abbandonato e occupato, per esempio, non può essere un domicilio effettivo e idoneo. Mettiamo il caso che il domicilio indicato sia l’abitazione della madre, della sorella, del fratello o di altri parenti. Nel momento in cui si oppone un rifiuto, il magistrato non può certo dichiarare quello un domicilio effettivo e idoneo. Sono migliaia i detenuti per i quali il carcere rappresenta tutto ciò che hanno, e ogni volta piango quando penso a quell’ergastolano isolano che potrebbe sicuramente uscire ma non fa domanda al magistrato, perché fuori non ha nessuno e dentro almeno insegna agli altri come si fa un formaggio.
Se noi ci fermassimo qui, è chiaro che sarebbe una tragedia. Chi conosce la popolazione detenuta sa benissimo, come dicevo prima, che non passa da una villa alla cella, ma spesso dalla strada alla cella. Per questo esiste un sistema grazie al quale si mettono in opera tutta una serie di soggetti che hanno proprio il compito di cercare e garantire un domicilio effettivo e idoneo. Dal direttore del carcere agli uffici dell’esecuzione penale esterna, dalle aziende di assistenza socio-territoriale alle cooperative le più diverse, fino ai servizi comunali, ai volontari, alle associazioni e ai preti, che metto solo alla fine ma dovrebbero stare all’inizio. Questo mondo entra in contatto con il magistrato, il quale riuscirà a capire come affrontare la questione del domicilio effettivo e idoneo. Sembra facile, in realtà è complicato, in periodi normali. Il nostro paese ha un welfare accettabile o è in via di smantellamento progressivo e costante? Una fatica impressionante: trovare un domicilio effettivo e idoneo può essere una avventura senza fine, un fascicolo lo si mette da parte fino a quando non hai una riposta positiva, poco manca che il giudice elegga casa sua come domicilio.
Immaginiamo tutto questo oggi, in situazione di emergenza sanitaria. Mettiamo anche che il sistema sia oliato, che normalmente tutto funzioni in modo adeguato, finanziamenti compresi. Oggi tutti capiamo una cosa: il rischio di trovare una porta chiusa è elevatissimo, anche perché chi esce da un carcere esce da un luogo nel quale, come abbiamo detto, il distanziamento sociale è impossibile.
Potrebbero esserci diversi ulteriori problemi, ad esempio se l’idoneità del domicilio riguarda solo profili sostanziali (la presenza di una vittima) o anche profili catastali: la persona può essere mandata in un domicilio nel quale in due locali già vivono cinque persone, la moglie e i quattro figli? A me pare evidente che il problema è sostanziale, poiché, a fine pena, quella persona in quella casa tornerà. Di là di queste e di altre questioni, il punto dirimente è un altro: in emergenza sanitaria, è probabile che i casi di impossibilità di avere un domicilio idoneo ed effettivo si ripresentino uno dopo l’altro, in numero considerevole.
Quante volte ci siamo svegliati a fare una cosa solo dopo che è intervenuta la Corte di Strasburgo? Moltissime volte, purtroppo. Ed il motivo è che non abbiamo veramente compreso che, nella stragrande maggioranza dei casi, prima di violare la Convenzione europea dei diritti umani una determinata disposizione legislativa o una specifica situazione concreta è in palese contrasto con la nostra Costituzione. D’altro canto, non ho idea se qualche magistrato di sorveglianza riuscirà a sollevare la questione di costituzionalità riguardante la necessaria presenza di un domicilio idoneo ed effettivo. Se anche fosse, non è certo facile immaginare un intervento della Consulta, considerando che le opzioni che si potrebbero prendere sono differenti. Staremo a vedere, ma non è tempo di moniti. Chiaro che la soluzione migliore sarebbe una: non chiedere ai giudici di intervenire al posto della politica. Ma resta il fatto che spesso non puoi sbattere in mezzo alla strada una persona, meno che mai oggi in piena pandemia. Noi a quella persona dobbiamo una risposta, senza dimenticare che se non ha un luogo nel quale andare la colpa è anche nostra, incapaci di prenderci cura di chi ha più bisogno.
Proprio nel momento in cui gli Uffici di Sorveglianza sono maggiormente impegnati nell’esaminare le istanze di scarcerazione per alleggerire la pressione sulle carceri e cercare di gestire l’emergenza sanitaria, abbiamo assistito all’incendio dei locali dell’ufficio G.i.p. del Tribunale di Milano e poi al black – out elettrico nell’ufficio di sorveglianza. I problemi connessi a tale situazione e gli inevitabili ritardi nella trattazione dei procedimenti come potranno incidere sulle criticità della situazione all’interno delle carceri?
Non ci voleva proprio l’incendio. Se lo racconti ad una persona normale, non ci crede: ma è possibile che nel 2020 un surriscaldamento elettrico in un tribunale italiano porti alla distruzione di un intero mezzo piano? Inoltre, stiamo parlando di luoghi nei quali i magistrati lavoravano in presenza. Il GIP per decidere chi mandare in carcere, la sorveglianza chi fare uscire. Una tragedia nella tragedia. Non ho molte informazioni, se non per quanto riguarda la sorveglianza. In pochissimo tempo, per via della inagibilità dei vecchi locali, si è costruita una sorta di sorveglianza da campo. Una decina di postazioni, avanti e indietro a prendere e riposizionare i fascicoli, e via! Una dimostrazione di attaccamento al proprio mestiere. Un plauso che prima di tutto va rivolto alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza, ammiraglio al comando di una nave che rischiava di affondare.
Detto questo, se il penale fosse il civile tutto sommato i problemi sarebbero meno. Il nostro penale, invece, compreso il nostro penitenziario, è fermo ai tempi della prima produzione di carta in Italia, al 1268. Corre tutto su carta e questo oggi è un grossissimo problema. I magistrati di sorveglianza possono fare da casa ben poco, se non portarsi i fascicoli e scrivere le sentenze o le ordinanze. Ma non puoi andare a prenderli con il trattore e portarne a casa una montagna. Di informatizzato e digitalizzato vi è ben poco. Vi sono poi le misure sul contenimento delle presenze in tribunale, di personale e di giudici. E poi vi sono anche i contagi che si sono verificati. Nessun maestro dell’orrore avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura peggiore di questa, che però non è un film, ma il risultato di decenni di arretramento italiano, di politiche sorde alle grida di coloro che ogni giorno dicevano che andava digitalizzata anche la giustizia penale, che mancavano magistrati, cancellieri e personale. Se si fossero fatte alcune cose che andavano fatte ci sarebbero oggi più possibilità di non affondare.
Immaginiamo una macchina, che per trecento chilometri prosegue con una ruota bucata. Non trova nessun gommista per ripararla, e da solo il guidatore non riesce. Passano altri duecento chilometri e anche un’altra ruota si fora. Altri duecento chilometri e pure la terza gomma è fuori uso, ma il guidatore non può fermarsi, viene valutato per quanti chilometri percorre, della qualità del viaggio non importa a nessuno, purché arrivi. Oggi siamo vicini al collasso, vale a dire tutte quattro le ruote bucate. Se la macchina va avanti lo dobbiamo all’attaccamento al proprio mestiere dei magistrati, guidatori di una macchina senza ruote o con tre ruote bucate, il che non fa molta differenza.
Anzi, me lo lasci dire. Non sarebbe affatto male se i magistrati riprendessero in mano quella grande cosa che esisteva tra i magistrati negli anni settanta del Novecento, vale a dire la solidarietà, il sentirsi ciascuno importante anche perché si era parti di un tutto. Lasciamo anche perdere le correnti, ma non possiamo lasciare perdere il senso di essere parti di un tutto. Chiediamo solidarietà all’Europa e va bene. Ma non dimentichiamo di usare noi stessi solidarietà, per prima cosa nei confronti di chi fa il nostro mestiere. Quando un magistrato oggi è in difficoltà trova solidarietà se si rivolge ad un altro magistrato? Ho già i miei problemi, scusami: magari esagero, magari sbaglio, ma quanto mi piacerebbe se dentro la magistratura si riuscisse a ristabilire un senso di appartenenza a qualcosa di più grande del singolo bellissimo mestiere di ogni magistrato.
Conosco persone che stanno rischiando il posto di lavoro pur di poter continuare a fare il volontario del 118. Ho letto di medici che quattro giorni dopo la pensione non hanno esitato a ritornare in corsia. E che dire di quei medici che hanno preso l’aereo destinazione Africa? Sono solo degli esempi, ma dietro ad ognuno vi è la consapevolezza che conta molto anche il senso di essere parti di un qualcosa di più grande.
Alla sua domanda, quindi, vi è una sola risposta: anche senza l’incendio, ogni aumento di carico di lavoro senza aumento di personale è motivo di ritardo, se poi aggiunge l’incendio e la pandemia è del tutto evidente che nessuno può fare miracoli. Speriamo che al ministero lo si comprenda. Riusciremo a colmare decenni di ritardo in qualche settimana? Intanto lodiamo i magistrati al fronte, e chiediamo a tutti gli altri di dimostrare concreta solidarietà.
In questo momento storico diversi sono i temi sui quali riflettere ed aprire un confronto. Dalla pandemia al sovraffollamento nelle carceri, dalle sommosse ai detenuti morti, quanto valgono, oggi, le questioni giuridiche sottese e come affrontarle? Quali priorità individuare e come agire?
Non penso di essere in grado di rispondere a questa domanda. Posso solo abbozzare un mezzo ragionamento. Quello che mi auguro è che non si torni esattamente al punto dal quale siamo partiti. Quasi considerando la pandemia una parentesi. Dobbiamo tutti fare autocritica, abbiamo sopportato senza grandi proteste, non tanto e non solo tagli sempre più pesanti, ma soprattutto una cultura quantitativa che ci ha devastato. Lei accenna alle priorità: questa è la più importante nostra priorità.
Sono stati costruiti ospedali con l’idea che un ospedale non serve per ricoverare un paziente. Se proprio devi entrarci, prima esci meglio è per tutti. I numeri, questi maledetti numeri, hanno trasformato la sanità in una sorta di catena di montaggio, che deve girare a mille. Ho vissuto con i miei occhi un ospedale nuovissimo, nel quale esistono quattro stanze per il pre-ricovero e un corridoio, per andare ai reparti, totalmente vuoto e deserto, che misura una cosa come 800 metri. Si potrebbe benissimo scrivere, fuori da questo ospedale: non siete i benvenuti. Se un paziente sta ricoverato non due giorni ma quattro è come se quell’ospedale entrasse nel girone dei dannati. Numeri, non pazienti, per dirla breve. Medici singolarmente ottimi, medicina nel complesso pessima. La stessa identica cultura ha pervaso la magistratura. Le sentenze sono prodotti e oramai la quantità e non la qualità è il metro di paragone per valutare un magistrato. Non voglio aggiungere altro, ciascun magistrato italiano capisce perfettamente quello che sto dicendo. E poi noi professori, noi della Università. Impantanati in una burocrazia mai vista prima, siamo elogiati a seconda di quanti studenti del primo anno si iscrivono al secondo. Ci applaudono quando sei studenti su dieci si laureano in tre anni, anzi riceviamo insieme ai complimenti anche i finanziamenti. Una deriva quantitativa che subiamo, che cambia il senso dei nostri mestieri, il medico, il magistrato, il professore.
Le mi chiede quali priorità. Questa è la mia più importante, quella che più mi preoccupa e occupa. La pandemia non è terminata, ci siamo dentro ancora fino al collo. Mi auguro che medici, magistrati e professori sviluppino gli anticorpi necessari per resistere alla deriva quantitativa. Abbiamo abbassato il nostro sistema immunitario. Quante persone guariamo, quante persone imputiamo/condanniamo/assolviamo, quante persone esaminiamo/laureiamo non sono le domande giuste. La priorità è passare dal quanto al come.
Non è importante il numero di detenuti morti durante le rivolte, quello che conta è come sono morti. Non è importante quanti sono i detenuti e quanti i posti regolamentari, così come non sono importanti quanti devono essere i metri quadrati a disposizione in una cella. Esistono carceri dove non esiste il sovraffollamento, esistono detenuti che hanno tutta la cella a loro disposizione: anche in questi casi è possibile che il senso di umanità non esista. Una persona vale una persona. Quello che mi auguro è che questa pandemia possa aiutarci a comprenderlo.
di Elisabetta Galli
“Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente ma la specie che risponde meglio al cambiamento” Charles Darwin
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Pianificazione accurata. - 3. Idonea gestione dello spazio 4.silenzio o musica? - 5. Come permanere in uno stato di flow? - 6. Adattarsi al cambiamento e creare una routine vincente. 7.ritrovare la condivisione - 8. Il tempo per la ricerca e la riflessione - 9. Le mappe mentali - 10. Come adattarsi al cambiamento
1.Introduzione
Lo smart working - o lavoro agile - a causa dell’epidemia del Coronavirus che sta drammaticamente segnando il nostro Paese, come altri in Europa e nel resto del mondo, ha subito un profondo mutamento: da opportunità a necessità. È stato ed è un cambiamento costretto.
Sia sufficiente meditare su alcuni dati: prima dell’attuale emergenza sanitaria, in Italia, solo circa 570mila lavoratori su oltre 23 milioni di occupati, esclusi gli stagionali, utilizzavano lo smart working. L’Osservatorio Smart Working della School of Managment del Politecnico di Milano rilevava come nella Pubblica Amministrazione, nonostante una crescita rispetto agli anni precedenti, l’adozione del lavoro agile fosse ancora molto carente[1]. Infatti si notava che “il ritardo resta evidente, con quasi 4 PA su 10 che non hanno progetti di Smart Working e sono incerte (31%) o addirittura disinteressate (7%) rispetto alla sua introduzione. Va inoltre sottolineato come i progetti di Smart Working nelle PA risultino ancora limitati in termine di diffusione interna poiché coinvolgono mediamente il 12% della popolazione dell’amministrazione, percentuale radicalmente diversa a quella delle imprese private e vicina al 10% che la direttiva Madia definiva come limite inferiore all’adozione. Questo dato sembra testimoniare come, pur essendosi finalmente attivate, molte PA abbiano seguito un approccio di mero adempimento normativo”[2].
Ora il Covid-19 sta imponendo, anche a livello governativo, a una nuova organizzazione del lavoro. Se la salute è bene primario è anche vero che lo smart working rappresenta uno dei pochi modi per operare e sicuramente uno dei più protetti, perché evita il contatto diretto tra le persone, limitando la diffusione del virus. In tal senso è stata la direzione intrapresa dal Governo che, ad esempio, con il DPCM 11 marzo 2020 ha raccomandato che venga attuato il massimo utilizzo, da parte delle imprese, di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza[3].
Ancor più nello specifico, sin dai primi giorni tutti gli Atenei italiani si sono attivati per garantire le lezioni on-line, discussioni delle tesi di laurea e, per quanto possibile, l’attività di studio e di ricerca, potenziando – fra l’altro – il catalogo delle riviste e dei libri elettronici a disposizione.
In ambito giudiziario, poi, vi è da ricordare che oltre all’art. 2, comma 1, lett. r), del Dpcm 8 marzo 2020, ad incentivare l’adozione dello smart working sono state le “Nuove Linee guida 19 marzo 2020 sullo svolgimento dell’attività lavorativa per il personale dell’Amministrazione giudiziaria al fine di attuare le misure di contenimento del contagio da COVID-19”[4]. Con “smart working” o “lavoro agile” si intende una modalità̀ particolare di esecuzione del rapporto di lavoro, solitamente subordinato, caratterizzata dalla possibilità di svolgere la prestazione in alternanza tra la sede di lavoro e luoghi esterni, non necessariamente predeterminati. Se nel caso del telelavoro l’attività è svolta regolarmente fuori dalla sede di lavoro, in un luogo predefinito e stabile, che può essere anche l’abitazione del lavoratore, nel lavoro agile, osservano i commentatori “il luogo della prestazione perde quasi del tutto di rilievo: la prestazione è svolta in regime di alternanza tra sede aziendale e luoghi esterni, non necessariamente prestabiliti”[5]. Peraltro, è noto che la legge 22 maggio 2017, n. 81 non identifica con il lavoro agile una nuova tipologia contrattuale, bensì̀ una specifica prassi d’esecuzione dell’attività̀ lavorativa. Per cui si osserva condivisibilmente che “Il lavoro agile è quindi più̀ vicino ad essere definito come uno stile lavorativo (ma anche, vedremo in seguito, come uno stile di vita) piuttosto che come un nuovo inquadramento contrattuale”[6]. È poi importante riflettere sul dato che alla base di questa “nuova” forma di lavoro sembra risiedere il concetto di “flessibilità”, come si deduce anche dalla lettura del testo normativo, che permea lo spazio, il tempo e l’organizzazione delle attività lavorative.
Con un bagno di sano realismo, è opportuno sin da subito sottolineare che vi sono attività che si prestano meglio ad essere condotte in modalità lavoro agile ed altre meno. Così anche nel mondo del diritto se alcune attività possono prestarsi ad essere compiute a distanza, altre sono naturalmente molto più complesse e, quindi, difficilmente realizzabili in modalità smart working, seppur vi è da notare con favore come anche il mondo giudiziario stia compiendo di fronte alla necessità un adattamento virtuoso, come dimostrano, ad esempio, le modalità introdotte al Tribunale di Livorno[7].
D’altronde sempre più piattaforme multimediali offrono la possibilità non solo di comunicare a distanza in videoconferenza ma anche di condividere contenuti (es. Microsoft Teams o Webex) rendendo in tal modo possibile il confronto tra colleghi o la celebrazione delle udienze.
L’emergenza Coronavirus, come premesso, ha imposto un cambiamento repentino anche a tutti gli operatori del diritto e viene da chiedersi se questi siano pronti ad affrontarlo. Lavorare in smart working presuppone, spesso, un mutamento di mentalità che non è semplice da apportare nel medio periodo, posto che è normale una fase di adattamento: le ricerche scientifiche stimano in circa ventuno giorni il tempo minimo per modificare la propria routine ed acquisire nuove abitudini[8].
Di seguito, alcuni aspetti, che possono aiutare ad affrontare il cambiamento e ottenere una maggiore produttività in modalità smart working.
2.Pianificazione accurata
La pianificazione è, forse, l’aspetto più importante quando si opera a distanza. Se, infatti, alla base dello smart working sta la flessibilità, il rischio, per altro verso, è una riduzione di produttività rispetto al lavoro tradizionale. La sensazione di avere un tempo indefinito, soprattutto nel momento storico attuale in cui l’uscita da casa è impedita se non per comprovate esigenze, può condurre a procrastinazione e rallentamento. Un’ottima pianificazione, permette, invece di evitare tutto questo.
Agire per obbiettivi è sempre la strategia migliore: si fissino, quindi, i cinque-sei obbiettivi, naturalmente, a seconda della complessità da raggiungere. La fissazione a medio termine, su base settimanale, rappresenta uno spettro temporale congruo per avere una visione di insieme che si perderebbe ragionando soltanto nel “day by day”. Si fissino, poi, giorno per giorno le singole attività da compiere, scrivendole in agenda. È dimostrato, infatti, che l’impegno scritto è recepito dal nostro cervello in maniera più forte rispetto a limitarsi a ricordarlo a mente o a comunicarlo all’interessato senza scriverlo (una risposta per iscritto, per le neuroscienze, è recepita dal cervello come più forte rispetto a un impegno preso solo “oralmente”).
A fine settimana è poi indispensabile effettuare quella che si potrebbe definire l’analisi dell’efficienza (utilizzando una espressione cara al mondo dello sport) e cioè meditare sugli obbiettivi raggiunti e su quelli mancati, ragionare cioè sui successi e sugli errori commessi.
3.Idonea gestione dello spazio
L’epidemia da Covid-19 ci ha relegato negli spazi chiusi della casa. Posto che in alcune realtà ampie e articolate è più semplice ricavarsi uno spazio per operare in smart working rispetto ad altre più anguste, è noto che un ambiente idoneo è cruciale per il rendimento della prestazione intellettuale e per garantirsi la concentrazione. Perciò, ove possibile, è opportuno riservare una stanza – ad esempio lo studio di casa – per il lavoro a distanza e se non è fattibile, è bene cercare di creare una postazione dedicata (ad esempio una scrivania ad hoc).
Il rischio è che la convivenza con altri – magari con bambini piccoli – provochi distrazioni frequenti e perciò la produttività venga danneggiata. Inoltre, l’autodisciplina è fondamentale: l’ambiente casalingo potrebbe indurre, ad es, ad accendere la televisione piuttosto che a lasciarsi maggiormente influenzare da input diversificati quali i social o l’incombenza di dover sbrigare le pratiche quotidiane Perciò meglio disattivare le notifiche e, naturalmente, tacitare la televisione.
4. Silenzio o musica?
Alla domanda se la produttività sia più alta con il silenzio totale o accompagnati da una musica di sottofondo non vi è una risposta univoca. Le ricerche scientifiche, condotte fra gli altri dal neuroscienziato Norman Doidge, porta a ritenere che la musica - soprattutto quella di Mozart - possa essere d’ausilio addirittura in alcune terapie cognitive, in base al metodo Tomatis[9] : «il compositore austriaco sembrava funzionare con tutti i pazienti e aveva l’effetto sia di ricaricare e stimolare, sia di rilassare e calmare. Che, secondo me, equivale a un effetto di regolazione»[10]. Inoltre, «la musica di Mozart non presenta l’impronta marcata di una determinata lingua, così come in Ravel c’è un’impronta del francese e in Vivaldi l’impronta dell’italiano. È una musica che va oltre i ritmi della cultura e della lingua»[11] . In ogni caso è sempre meglio il silenzio o la musica senza parole perché queste possono rappresentare una fonte di distrazione.
5. Come permanere in uno stato di flow?
Con l’espressione “stato di flow” si intende una condizione caratterizzata da un totale coinvolgimento dell’individuo: focalizzazione sull’obiettivo, motivazione intrinseca e benessere nello svolgimento di un particolare compito. Il concetto fu introdotto nel 1975 dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi che approfondì i meccanismi che aveva osservato nel comportamento adottato dagli artisti mentre creano un’opera, osservando una condotta di massima concentrazione, attenzione elevata e assenza di stanchezza con alterazione della percezione del tempo. Le ricerche, anche successive, corroborando la linea intrapresa, hanno dimostrato come riuscire a permanere in uno stato di flow garantisca una elevata produttività.
Alcuni fattori, in stretta correlazione tra loro, che permettono di stare nello stato di flow sono: il bilanciamento tra sfida e abilità, nel senso che l’individuo si sta impegnando in qualcosa di appropriato per le proprie capacità; la presenza di obiettivi prossimali chiari; attenzione e concentrazione totale sul compito; l’evitamento di distrazioni e del multitasking[12]; il piacere intrinseco poiché l’attività dona piacere fine a sé stesso (esperienza autotelica).
6. Adattarsi al cambiamento e creare una routine vincente.
In primis, è opportuno accogliere con consapevolezza le novità che hanno stravolto, in modo motivato, le nostre abitudini quotidiane in termini di tempi, di spazi, di organizzazione della giornata.
Come detto supra, un tempo di adattamento al cambiamento è più che naturale. Tuttavia, è essenziale costruire una routine vincente e, quindi, ad es, stabilire gli orari della giornata lavorativa (con un inizio e una fine) proprio come se ci trovassimo in ufficio; fissare momenti da dedicare alle telefonate o alle conference call; alternare attività più complesse ad altre meno impegnative[13].
Segnaliamo, poi, il ruolo che la cronobiologia può avere sulla capacità produttiva e di concentrazione. Uno dei massimi esperti italiani, Il Professor Roberto Manfredini afferma che la memoria a breve termine sia al massimo dalle ore 9 alle 11[14]. Diversamente, le ore del pomeriggio, dopo il fisiologico calo post-pranzo, sono particolarmente idonee per la ricerca e la fissazione dei concetti in quanto propizie per la memoria c.d. a lungo termine[15].
Di converso, la scienza ha dimostrato che dalle 2 alle 4 di notte vi è un rallentamento dei riflessi (e aumento degli errori)[16], perciò apprendere in queste ore è sforzo vano.
Nel 2017, Jeffery Hall, Michael Rosbash e Michael Young hanno vinto il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina proprio per gli studi sull’orologio biologico circadiano, conferendo al mondo scientifico un contributo di fondamentale rilevanza. In sintesi, impostare una routine giornaliera che tenga conto della cronobiologia permette di innalzare le prestazioni mentali (e fisiche, ad esempio nel caso dello sport come è avallato dall’ottenimento di alcuni record in precise fasce orarie della giornata).
7.ritrovare la condivisione
L’attuale emergenza sanitaria ha stravolto le nostre abitudini sociali, limitando fortemente non solo la mobilità ma anche i contatti sociali, inclusi quelli con i colleghi. Operando da casa, soprattutto se non si sta in famiglia, si può vivere questa situazione con forte disagio in quanto a venire a mancare è quel confronto giornaliero che prima rappresentava una costante.
Si suggerisce di superare il senso di isolamento fisico e psicologico utilizzando il telefono, Skype, la video conferenza per relazionarsi con i colleghi, naturalmente sulla base di una organizzazione condivisa del lavoro. La socialità infatti è un valore insostituibile e va assolutamente tutelata anche perché il confronto offre un valore aggiunto alla qualità della prestazione.
8. Il tempo per la ricerca e la riflessione
Siamo tutti costretti a misurarci con una dimensione del tempo diversa dalla precedente ma l’attuale situazione per il giurista può rappresentare anche un’opportunità.
Spesso i tempi serrati e il sovraccarico professionale comprimono i tempi della ricerca, dell’approfondimento e, più in generale, dell’aggiornamento. L’attuale momento storico che ha liberato spazio può, quindi, essere una formidabile occasione di crescita culturale.
Ma il periodo può costituire anche un valido incentivo per trovare o ri-trovare il tempo per la riflessione sulla scorta, ad esempio, di quanto faceva il Sottosegretario di Stato U.S.A. George Shultz: un taccuino, una penna e la porta chiusa per un’ora a settimana, detta la c.d. “ora di Shultz”. Solo due erano le persone autorizzate a invadere questo spazio e solo se strettamente necessario: sua moglie e il Presidente Ronald Reagan. Disse in un’intervista al New York Times il Sottosegretario di Stato: “Mi serviva per prendere le distanze dalle cose, sganciarmi dai problemi tattici che richiedevano una soluzione immediata e abbracciare questioni strategiche più ampie e più utili per il Paese”[17].
9. Le mappe mentali
Uno strumento per accrescere la capacità di adattarsi al cambiamento è offerto dalle mappe mentali.
Le mappe mentali rappresentano una delle più avanzate tecniche di apprendimento e di memorizzazione.
Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che il cervello, durante l’apprendimento, ricorda soprattutto:
Alcuni fattori agevolano significativamente l’apprendimento tra i quali, a titolo meramente esemplificativo, il permanere in uno stato di flow (di cui si è detto nelle pagine precedenti); chiarezza dell’obbiettivo da perseguire; l’adottare un approccio attivo alle questioni (e cioè ponendosi domande e interrogativi su ciò che si sta studiando perché in tal modo il cervello è indotto alla riflessione e al ragionamento).
Si attiva così un processo che conduce ciò che si è appreso nella memoria a lungo termine[18].
Le mappe mentali esaltano gli elementi sopra tracciati favorendo apprendimento e memorizzazione. Esse, infatti, impongono l’adozione di un approccio attivo alle questioni, esaltando la sintesi e la chiarezza d’insieme. L’utilizzo di immagini e colori permette, poi, una più efficace sedimentazione del ricordo. Le mappe mentali, sono utilizzate in molteplici contesti: non solo nel campo dell’apprendimento, ma anche nel mondo del lavoro: ad es., anche per la stesura di un progetto o la condivisione degli obbiettivi all’interno di un gruppo.
Le mappe mentali si basano sulle ricerche scientifiche effettuate nel campo dell’apprendimento e della memoria.
I principi delle mappe mentali
I punti di forza delle mappe mentali
Le mappe mentali rinforzano l’apprendimento e la successiva memorizzazione perché donano:
Come si legge una mappa mentale
10. Come adattarsi al cambiamento
I sette punti sopradescritti sono stati condensati in una mind map che illustra il lavoro del giurista al tempo del coronavirus.
L’obiettivo da raggiungere è quello ottimizzare efficienza e produttività affrontando la mutata dimensione spazio – temporale con un approccio strategico particolarmente utile a chi, come il giurista, si trova a gestire attività avanzate e complesse.
Nella mappa mentale sul “Lavoro del giurista e Coronavirus: adattarsi al cambiamento” seguendo i rami principali, il lettore ritroverà i sette punti con le loro specificazioni.
La mind map è allegata qui sotto in formato PDF
[1] L’Osservatorio Smart Working, nato nel 2012, si inserisce in un più ampio contesto di ricerca che da più di dieci anni si occupa di studiare l’evoluzione del modo di lavorare delle persone: cfr. https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/smart-working.
[2] Così nel documento reperibile al seguente link: https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/comunicati-stampa/crescita-smart-working-engagement-italia-2019.
[3] Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha predisposto, poi, una procedura semplificata per il caricamento massivo delle comunicazioni di smart working: cfr. https://www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx.
[4] Reperibile su https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8.page?selectedNode=0_62.
[5] L. Cairo, F. D’Avanzo, F. Ferretti, Lavoro agile e coworking. Opportunità per P.A., imprese e lavoratori alla luce della L. n. 81/2017, Milano, 2018, pag. 3; cfr. anche Aa. Vv. Smart working, job crafting, virtual team, empowerment, Milano, 2018, pag. 70 e ss.
[6] Aa. Vv. Smart working, job crafting, virtual team, empowerment, cit., pag. 70 e s.
[7] M. Orlando, Lavoro agile (o Smart working): l’esperienza del Tribunale di Livorno, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it.
[8] Il termine si deve negli anni cinquanta al medico Maxwell Maltz che pubblica un volume, intitolato Psicocibernetica, sul mutamento delle abitudini dei propri pazienti che ha avuto notevole diffusione nel mondo. Più recentemente, è noto come, prendendo alla base la stessa dimensione temporale per il radicamento di una nuova abitudine, il Professor Berrino ha scritto con D. Lumera e D. Mariani “Ventuno giorni per rinascere”, Milano, 2018.
[9] Il medico otorinolaringoiatra Alfred Tomatis ha sviluppato un metodo, basato sulla terapia dell’ascolto, che viene applicato per migliorare alcune patologie tra le quali deficit di attenzione e concentrazione (ADD e iperattività), coordinazione e sviluppo psicomotorio, dislessia. Fu tra i primi a dimostrare il rischio di malattia professionale causata da rumore.
[10] N. Doidge, Le guarigioni del cervello. Le nuove strade della neuroplasticità: terapie rivoluzionarie che curano il nostro cervello, Milano, 2015, e-book, cap. VIII.
[11] Ibidem.
[12] Si sta sempre più dimostrando che il nostro cervello mal si adatta al multitasking:, una ricerca condotta all’University College di Londra ha mostrato, ad esempio, che la densità di materia grigia in alcune aree cerebrali addirittura si riduce se si sovraccaricano le funzioni psichiche, specie se si usano più dispositivi digitali, e come ciò esponga a un rischio maggiore di modifiche funzionali del cervello (lo studio di Kep Kee Loh e Ryota Kanai dal titolo «Higher Media Multi-Tasking Activity Is Associated with Smaller Gray-Matter Density in the Anterior Cingulate Cortex» è pubblicato su Plos One: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0106698).
[13] È possibile consultare, a questo link, a titolo esemplificativo, una mappa mentale sulle abitudini del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg.
[14] R. Manfedini, Un tempo per ogni cosa. Vivere in sintonia con il proprio orologio biologico, Milano, 2019, pag. 119.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] L’affermazione è riportata nell’articolo del Corriere della Sera di E. Serra, Un’ora antistress, del 22 aprile 2017.
[18] Sul tema della memoria, la bibliografia è ovviamente vastissima. Ci limitiamo a richiamare il pregevole approfondimento di A. Baddeley, M.W. Eysenck, M.C. Anderson, La memoria, Bologna, 2011, passim, con ampia bibliografia ivi citata.
La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile (note a lettura immediata all’approvazione del maxiemendamento della legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020).
di Franco De Stefano
Sommario: 1. La proroga secca. - 2. Il maxiemendamento in sede di conversione. - 3. Novità di ordine generale. - 4. Le modifiche alla fase uno. - 5. Le modifiche alla fase due. - 6. Specificità per i giudizi di cassazione.
1. La proroga secca.
Va prima di tutto segnalato che l’art. 36 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali), prevede, al suo comma 1, che il termine del 15 aprile 2020 previsto dall’articolo 83, commi 1 e 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 è prorogato all’11 maggio 2020; e si premura di soggiungere che, di conseguenza, il termine iniziale del periodo previsto dal comma 6 del predetto articolo è fissato al 12 maggio 2020.
L’articolo estende la sua applicazione, coi consueti limiti di compatibilità, ai procedimenti di cui ai commi 20 e 21 dell’articolo 83 del decreto-legge n. 18 del 2020; i quali, nel testo originario, precedente cioè la modifica di cui al successivo maxiemendamento, sono: i procedimenti di mediazione ai sensi del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, i procedimenti di negoziazione assistita ai sensi del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti, i procedimenti relativi alle commissioni tributarie e alla magistratura militare.
La proroga al giorno 11 maggio non si applica ai procedimenti penali in cui i termini di cui all’articolo 304 del codice di procedura penale scadono nei sei mesi successivi all’11 maggio 2020 e quindi fino all’11 novembre 2020; e non si applica neppure nel processo amministrativo, se non per i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, del relativo codice.
Al contrario, la proroga del termine di cui al comma 1, primo periodo, si applica altresì a tutte le “funzioni e attività della Corte dei conti”, come elencate nell’art. 85 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18.
Rimane quindi la distinzione in due fasi, la prima di sospensione generalizzata ed ampia con eccezioni e che impatta in modo deciso sulla funzionalità della giustizia, la seconda di regime articolato intermedio verso una ripresa che si presume – o, più verosimilmente, si auspica – complessiva o definitiva: ma si interviene solo sulla fase uno, che è aumentata fino a quasi due mesi, senza modificare – per ora – il termine finale anche della fase due (al 30 giugno, data sempre più prossima) e quindi riducendo in modo corrispondente la fase due, dell’organizzazione duttile e flessibile, anche territorialmente differenziata, che in origine era articolata su due mesi e mezzo ed ora si limita a poco meno di due, cioè un tempo inferiore a quello dell’emergenza acuta.
In definitiva, si tratta di una scelta probabilmente imposta dall’andamento dell’epidemia, ma ancora una volta indifferenziata, che cristallizza la situazione delle prime ore, dalla quale potrebbe forse adesso trarsi ogni utile spunto per superare il rischio di un immobilismo mortale, comprensibile ed in parte giustificabile solamente nei primi momenti di sbandamento e di priorità, nell’emergenza acuta, dell’imperiosa esigenza di prevenire l’impennata dei contagi e di organizzare la linea del Piave per la ripartenza dell’offensiva alla malattia e soprattutto della società nel suo complesso.
Altre quattro settimane di paralisi sono molte, moltissime; oltretutto, la comprensibile rigidità della fase uno impedisce l’adozione, fin d’ora, di strumenti agili e flessibili come quelli previsti dai commi sei e sette, esclusivo appannaggio della fase due, salva l’impervia strada della dichiarazione di urgenza ope iudicis e, beninteso, ferma la trattazione dei procedimenti definiti tali per legge o, auspicabilmente, nei casi dubbi a tale categoria ricondotti da provvedimento ricognitivo del giudice.
Lo stato di animazione sospesa (un coma farmacologico?) in cui era stata collocata la Giustizia col d.l. 18 si trova quindi protratto, come una terapia, dall’art. 36 del d.l. 23; ma, al tempo stesso, qualche intervento per limitare gli effetti nefasti che possono temersi dalla protrazione di questo stato di cose si tenta con il maxiemendamento in sede di conversione del primo: come se, insomma, almeno si volesse trasferire il paziente in terapia intensiva, una volta che questo possa ancora dare segni vitali di ripresa o, almeno, per non rendere quest’ultima ancora più complicata o non lasciare postumi invalidanti permanenti irreversibili.
2. Il maxiemendamento.
Il Senato della Repubblica ha approvato ieri 9 aprile 2020 il maxiemendamento alla legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020, su cui il Governo ha posto la fiducia. È verosimile che non subisca ulteriori modifiche e che, pertanto, sia quello il testo finale in sede di conversione. Il testo sottoposto alla votazione del Senato non prevede un’interazione immediata con le disposizioni di proroga “secca” di cui all’art. 36 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, in particolare con la sostituzione del termine finale della cosiddetta fase uno (del 15 aprile 2020) con il giorno 11 maggio 2020; il coordinamento sarà affidato alle successive rifiniture prima del voto in aula e del successivo passaggio alla Camera.
Il nuovo testo dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 ne dovrebbe risultare modificato in una norma molto complessa di almeno trentaquattro commi.
La disciplina diventa molto frastagliata proprio in ordine all’individuazione delle fasce temporali di applicazione, che vengono pure talvolta differenziate all’interno della tendenziale bipartizione nella fase uno (fino al giorno 11/05) e due (fino al 30/06, almeno allo stato).
Per quanto riguarda il civile e il processo in generale dell’art. 83 d.l. 18/2020 sono stati modificati:
- il comma 3, con l’affinamento dell’elenco dei procedimenti esclusi dalla sospensione nella fase uno;
- il comma 7, con la precisazione delle udienze civili in cui sarà possibile, nella fase due, la modalità da remoto, ma pure con l’estensione di queste alle attività di tutti gli ausiliari di tutti i giudici;
- il comma 20, quanto alla sospensione dei procedimenti di mediazione o risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Sempre per il processo civile o in generale sono state:
- previste modalità di deposito telematico di atti nei procedimenti civili in Cassazione;
- abilitate le celebrazioni da remoto delle camere di consiglio, ma nella sola fase due e per i soli procedimenti non sospesi;
- previste modalità di svolgimento da remoto a determinate condizioni degli incontri di mediazione;
- introdotte nuove modalità di conferimento delle procure in ogni procedimento civile, con previsione di un termine finale pericolosamente incerta o mobile.
Non è questa la sede per occuparsi specificamente di modifiche ad altre disposizioni complementari, come l’art. 103 (formalmente dedicato ai procedimenti amministrativi, ma che, con disposizione assolutamente incongrua per la sedes materiae proclamata nella rubrica, potrebbe finire con l’estendersi ai procedimenti esecutivi e concorsuali fino al 15/04/2020, oltre che, secondo quanto già previsto dall’originario comma 6, alle procedure di rilascio fino al 01/09/2020) o il novello art. 103 ter (per un periodo bizzarramente dissonante rispetto a molti altri e cioè dalla data di entrata in vigore della norma fino al 31/10/2020, sulle modalità di conclusione di alcune categorie di atti prima riservati ai notai ed ora sostanzialmente liberalizzati almeno quanto a proposta: contratti di mutuo, di leasing, gli atti di surrogazione e le relative quietanze, di cancellazione, frazionamento e restrizione di ipoteche e in genere gli atti in cui è costituito quale parte contrattuale un Istituto di credito o un intermediario di cui all'art. 106 del TUB o comunque altro soggetto titolare di crediti derivanti da contratti di leasing o finanziamento bancari, comunque denominati, per effetto di cessioni di credito anche in blocco). Basti allora un cenno al fatto che si prevede una sospensione, curiosamente limitata però al solo 15 aprile 2020, in materia di procedimenti amministrativi, per i “termini relativi ai processi esecutivi e alle procedure concorsuali, nonché ai termini di notificazione dei processi verbali, di esecuzione del pagamento in misura ridotta, di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali”; ma si interviene pure sui procedimenti amministrativi per il recupero di somme dovute in materia di lavoro e legislazione sociale, con una ancora più curiosa modulazione del relativo periodo di sospensione, dal 23 febbraio al 31 maggio 2020, estesa anche al relativo termine prescrizionale.
3. Novità di ordine generale.
Incide su norme generali del processo, non solo civile, la liberalizzazione dello svolgimento da remoto di tutte le attività di tutti gli ausiliari del giudice (e, attesi i richiami delle rispettive discipline, anche di quelli dei magistrati), alla condizione generale della salvaguardia del contraddittorio e dell’effettiva partecipazione delle parti: si tratta della lettera h-bis del co. 7: pertanto, è disposizione studiata e dettata per la fase due (12 maggio – 30 giugno 2020) ed anche stavolta tutto è rimesso al provvedimento del capo dell’ufficio giudiziario. Al riguardo, è auspicabile un indirizzo unitario coordinato a livello nazionale dal CSM in sede di adozione delle linee guida, ma comunque a livello distrettuale dal presidente della Corte d’appello. L’ampiezza della lettera della legge dovrebbe consentire una auspicabile corrispondente ampiezza del ricorso a tali modalità, nel rispetto del principio di libertà delle forme e dei soli due obiettivi appena visti come riconosciuti meritevoli di garanzia. Pertanto, in applicazione di principi generali del processo civile, nessuna eventuale nullità derivante dalla violazione delle relative norme, primarie, secondarie o subsecondarie, potrà essere dichiarata ove l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo ed il diritto di difesa della parte non sia stato in concreto pregiudicato.
Incide invece su norme generali del processo, stavolta soltanto civile, la previsione del nuovo comma 20-ter, la cui durata è ancorata ad una data futura ed incerta quale la “cessazione delle misure di distanziamento previste dalla legislazione emergenziale in materia di prevenzione dal contagio COVID-19”: in forza di tale disposizione, nei procedimenti civili la sottoscrizione della procura alle liti può essere apposta dalla parte anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo strumenti di comunicazione elettronica. In tal caso, l’avvocato certifica l’autografia mediante la sola apposizione della propria firma digitale sulla copia informatica della procura. La procura si considera apposta in calce, ai sensi dell’articolo 83 del codice di procedura civile, se è congiunta all’atto cui si riferisce mediante gli strumenti informatici individuati con decreto del Ministero della giustizia. Si tratta di norma che, quindi, per potere concretamente operare necessita di un atto di normazione secondaria peculiare, quale appunto il decreto ministeriale; ma ogni relativa irregolarità (tra cui l’adozione con modalità in parte difformi, se non forse anche l’applicazione di simili modalità prima della formale pronuncia del Ministro), tranne il solo caso delle procure speciali previste per peculiari giudizi (come quello di legittimità), deve potersi sanare ai sensi dell’art. 182 c.p.c., configurandosi al riguardo una potestà del giudice (e, quindi, un suo autentico potere-dovere in tal senso).
Per un periodo diverso ed estraneo alla modulazione della tempistica finora esaminata, siccome individuato tra il 16 aprile ed il 31 maggio 2020, è poi la riduzione a modalità da remoto, fatta salva una diversa ed evidentemente specifica disposizione del giudice (sicché, in mancanza di positivo intervento di questi, si dovrebbe applicare la previsione di cui appresso), degli incontri tra genitori e figli in in spazio neutro, ovvero alla presenza di operatori del Servizio Socio assistenziale, disposti con provvedimento giudiziale. Unica condizione è che siano permesse le comunicazioni audio e video tra il genitore, i figli e l’operatore specializzato, secondo le modalità che saranno individuate dal responsabile del Servizio Socio assistenziale e comunicate al giudice procedente; ma con la clausola di salvaguardia che, mancando un diverso provvedimento di questi, ove non sia possibile assicurare il collegamento da remoto gli incontri sono sospesi; e, nella dinamica dei difficili rapporti tra genitori e figli, un mese e mezzo può essere un periodo intollerabilmente lungo, sicché è auspicabile una particolare attenzione da parte del giudice, che potrebbe pur sempre, informato delle difficoltà tecniche, disporre diversamente e – beninteso – nel rispetto delle esigenze sanitarie.
La peculiarità del giudizio di legittimità specificamente introdotta per rendere trattabili i procedimenti civili dinanzi alla Corte di cassazione merita un cenno a parte, su cui v. infra.
Lo svolgimento in modalità da remoto è esteso poi – dal co. 20-bis – ai procedimenti di mediazione: a condizione del consenso di tutte le parti, questa è una facoltà generale nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, ma si prevede pure (in modo probabilmente non del tutto congruente con la limitazione della previsione al periodo emergenziale) che in tempi successivi, sempre previo quel consenso, gli incontri possano aver luogo in via telematica, ai sensi dell’art. 3, co. 4, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, mediante sistemi di videoconferenza; e si precisa che, in caso di procedura telematica, l’avvocato, che sottoscrive con firma digitale, potrà dichiarare autografa la sottoscrizione del proprio cliente collegato da remoto ed apposta in calce al verbale ed all’accordo di conciliazione. Il verbale relativo al procedimento di mediazione svoltosi in modalità telematica sarà sottoscritto dal mediatore e dagli avvocati delle parti con firma digitale ai fini dell’esecutività dell’accordo prevista dall’art. 12 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
Con una generalizzazione opportuna (al co. 21), infine, la disciplina dell’intero art. 83, tra cui la suddivisione in due fasi del periodo di crisi, è estesa (oltre che alla giustizia tributaria e militare) anche ai procedimenti di competenza delle giurisdizioni speciali, anche se non contemplate direttamente od esplicitamente dal decreto legge, come pure agli arbitrati rituali, con il consueto limite generale della compatibilità.
4. Le modifiche alla fase uno.
Limitata alla fase uno, di indifferenziata sospensione di termini (salve le sole eccezioni previste), è una serie di precisazioni.
La prima riguarda i procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni in cui è urgente ed indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona: si tratta di dizione volutamente ampia, idonea a garantire una discrezionalità opportuna in un settore dove una generalizzazione ex ante è spesso impropria ed inopportuna; piuttosto, è arduo il contemperamento con l’ultima parte della stessa lettera a) del co. 3, che già prevedeva l’esenzione dalla sospensione dei procedimenti in cui la ritardata trattazione avrebbe potuto produrre un grave pregiudizio alle parti, visto che la valutazione del giudice è indispensabile in entrambi i casi. A non volere ritenere che proprio in materia minorile le parti godano di una tutela minore, si può concludere che le due forme di esenzione, entrambe ope iudicis e quindi abbisognevoli di un provvedimento positivo del giudice (propriamente ricognitivo nel primo caso e costitutivo nel secondo), concorrano, ma non si escludano.
La seconda riguarda la limitazione dell’esenzione dalla sospensione delle cause relative ad alimenti od obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, parentela, matrimonio od affinità ai soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali. Valgono considerazioni analoghe a quelle appena svolte per la precisazione in tema di urgenza ed indifferibilità della tutela dei diritti fondamentali della persona nei procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni: con la conseguenza che particolare attenzione andrà dedicata dal giudice alla valutazione della ricorrenza dei presupposti della seconda oppure dell’ultima delle ipotesi del primo periodo della lett. a) del comma 3; tuttavia, non dissimilmente che per la precedente, un richiamo indifferenziato o generico all’una o all’altra (anche con formula di congiunzione e, in alternativa, di aggiunta) dovrebbe fondare a sufficienza la determinazione del giudice competente di trattare l’affare.
La terza riguarda i particolari procedimenti elettorali di cui agli artt. 22 a 24 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, intrinsecamente urgenti per l’indifferibilità delle decisioni in materia, soprattutto per il caso in cui le competizioni elettorali cui si riferiscono siano state tenute egualmente nonostante l’emergenza sanitaria.
Ancora, il co. 12-quinquies regolamenta le modalità di deliberazione da remoto dei provvedimenti collegiali nei procedimenti civili e penali non sospesi: quindi, poiché di sospensione si parla esclusivamente per la cosiddetta fase uno (mentre per la fase due rimane una ampia gamma di provvedimenti rimessi all’iniziativa dei capi degli uffici, tra i quali non si fa mai menzione della sospensione), la disciplina può applicarsi in via diretta ed immediata esclusivamente a quelli. In particolare, dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Nei procedimenti penali, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l’ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell’inserimento nel fascicolo il prima possibile e, in ogni caso, immediatamente dopo la cessazione dell’emergenza sanitaria.
5. Le modifiche alla fase due.
Nonostante l’evidente opportunità di una generalizzazione di tali precisazioni, tale disciplina (del co. 12-quinquies) è espressamente limitata anche temporalmente, dal 9 marzo al 30 giugno 2020, benché dall’11 maggio non vi siano più, almeno finora, procedimenti sospesi; ma può ritenersi codificazione esplicita di principi della materia, quale quello dell’equiparazione alla camera di consiglio “in presenza” del luogo o dei luoghi da cui si collegano i magistrati dell’organo collegiale, nonché quello del deposito quanto prima dell’originale in cancelleria, oppure quello della delegabilità delle relative funzioni del presidente del collegio.
Pertanto, per la fase due, nulla esclude, purché però tanto sia reso oggetto di provvedimento ad hoc del capo dell’ufficio ai sensi della lett. f) del medesimo co. 7, adottato nel rispetto delle regole procedurali del comma 6 (vale a dire previa consultazione dell’autorità sanitaria regionale, sentito il Consiglio dell’ordine degli avvocati e comunque d’intesa col Presidente della Corte d’appello o il Procuratore generale della Repubblica presso la medesima, con la sola eccezione di Corte di cassazione e Procura generale presso quest’ultima).
Con simile provvedimento il capo dell’ufficio sarà quindi ancora in facoltà di determinare le modalità di trattazione non solo delle udienze, ma pure delle adunanze (in Cassazione, anche se non partecipate) e delle relative camere di consiglio da remoto: a tale conclusione (di indifferenziato riferimento alle attività comunque espletate dal giudice nello sviluppo del procedimento come regolato davanti a lui) potendo giungersi ora anche sulla base di due nuovi argomenti testuali: in primo luogo, l’esplicita estensione – alla lett. f) – a tutte le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione; in secondo luogo, l’inserimento della lett. h-bis (anch’essa appunto relativa alla sola fase due), con la previsione dello svolgimento dell’attività da remoto di tutti gli ausiliari del giudice, fatti salvi il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (per cui, tra l’altro, nulla che presupponga l’esame fisico od obiettivo di cose o persone dovrebbe potersi ricondurre a tale facoltà: non certamente una visita medica sulla persona, ad esempio, o – verosimilmente – un’ispezione di luoghi).
La conclusione che si ricava è che tutte le attività funzionali alla giurisdizione civile, diverse da quelle che esigono la presenza fisica delle parti di persona, sono sostituibili, se non altro finché dura l’emergenza, con le modalità da remoto e, deve ritenersi, a condizione dell’equipollenza del contatto così istituito con quello normalmente esistente nel processo civile, di cui può comunque – e in linea di principio – garantirsi oralità, concentrazione ed immediatezza anche tra persone distanti ma adeguatamente collegate.
6. Specificità per i giudizi di cassazione.
Soltanto un cenno, per il grande impatto pratico che potrebbe avere per consentire la ripresa decisa delle attività della Cassazione civile ed anzi per costituire un’occasione di superamento di un anacronistico ritardo nell’applicazione delle innovazioni tecnologiche nell’ufficio di vertice della magistratura italiana, può essere qui fatto al co. 11-bis, per il quale, nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, ma – allo stato – sino al 30 giugno 2020, il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
Si precisa che condizione per l’attivazione del servizio è un provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, di constatazione dell’installazione e dell’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici. Va di pari passo l’abilitazione dei difensori delle parti al pagamento del contributo unificato di cui all’art. 14 d.P.R. 30 maggio. 2002, n. 115 (e dell’anticipazione forfettaria di cui all’art. 30 del medesimo decreto), dovuto per il deposito telematico degli atti dì costituzione in giudizio presso la Corte di Cassazione, mediante sistemi telematici di pagamento anche tramite la piattaforma tecnologica di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.
La sperimentazione pare avviata proprio in queste ore.
E proprio in queste ore è stato pubblicato sul sito istituzionale della Corte un protocollo di intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e la Procura Generale presso la Corte per la trattazione delle adunanze camerali civili (e delle udienze ex art. 611 c.p.p.), dichiarato immediatamente efficace e valido fino al 30/06/2020 e del quale il CNF si impegna a dare ampia pubblicità, in base al quale:
1. il provvedimento di fissazione dell’adunanza o dell’udienza camerale conterrà l’invito ai difensori a trasmettere, ove nella loro disponibilità e secondo le forme di cui agli articoli seguenti del protocollo, entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione stessa, copia informatica - in formato pdf - degli atti processuali del giudizio di cassazione, sia civili che penali, già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge (per il civile: ricorso, controricorso, nota di deposito ex art. 372, comma 2, c.p.c., provvedimento impugnato); con espresso avvertimento che nel caso in cui non pervengano nel detto termine in cancelleria tali copie, la trattazione della causa, già fissata, potrà essere rinviata a nuovo ruolo ove il collegio non sia in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto;
2.1. il difensore provvederà a trasmettere gli atti richiesti, dei quali abbia la disponibilità, mediante invio dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal RE.G.IND.E., congiuntamente:
a. agli indirizzi di posta elettronica certificata delle cancellerie della Corte di cassazione e delle segreterie della Procura Generale, che saranno previamente comunicati al Consiglio Nazionale Forense ed adeguatamente pubblicizzati sui rispettivi siti internet dei soggetti che sottoscrivono il presente protocollo,
b. all’indirizzo di posta elettronica certificata dei difensori delle altre parti processuali risultante dai pubblici registri di cui all’art. 16.ter del d.l. n. 179 del 2012 e successive modificazioni;
2.2. l’invio dovrà essere fatto separatamente per ciascuno dei ricorsi per i quali si è ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza ed il messaggio dovrà contenere la chiara indicazione nell’oggetto del numero del ruolo generale, della sezione, civile o penale, della data dell’udienza o adunanza secondo il format che verrà previamente comunicato ed adeguatamente pubblicizzato;
2.3 l’adesione all’invito di cui al presente protocollo implica, in capo ai difensori, l’impegno a trasmettere copie informatiche di contenuto uguale agli originali o alle copie già presenti nel fascicolo cartaceo;
2.4 con analoghe modalità di cui ai punti 2.1. e 2.2. potranno essere trasmesse le memorie ai sensi degli artt. 380-bis, 380-bis 1 e 380-ter c.p.c.;
2.5 resta fermo quanto previsto dai decreti del Primo Presidente della Corte di cassazione innanzi richiamati, quanto alla trasmissione delle memorie e dei motivi aggiunti nei procedimenti civili e penali;
2.6 ciascuna delle parti processuali ha facoltà di trasmettere tutti gli atti del processo, ivi compresi quelli depositati dalle altre parti;
3. la trasmissione degli atti indicati nell’art. 1 dovrà avvenire entro e non oltre il settimo giorno successivo alla ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza o adunanza camerale. Nel caso in cui non pervengano nel detto termine in cancelleria le copie informatiche di tutti gli atti rilevanti, la trattazione della causa, già fissata, potrà essere rinviata a nuovo ruolo ove il collegio non sia in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto, per avere già acquisito le copie di atti e documenti;
4.1. la Procura Generale provvederà a trasmettere agli indirizzi di posta elettronica certificata delle cancellerie della Corte di cassazione ed agli indirizzi di posta elettronica certificata dei difensori di cui al punto 2.1, copia informatica degli atti processuali del giudizio di cassazione, sia civili che penali, già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge;
4.2. con le stesse modalità potranno essere trasmesse le conclusioni scritte ai sensi degli artt. 380-bis.1 e 380-ter c.p.c., nonché le richieste e le memorie di cui all’art. 611 c.p.p.;
5. La Camera di Consiglio sarà svolta secondo le modalità indicate nei decreti del Primo Presidente nn. 44 del 23 marzo e 47 del 31 marzo 2020;
5.2. per quanto attiene il deposito delle note di cui al punto 2.5, sarà onere delle cancellerie provvedere all’inserimento nei fascicoli cartacei, ai fini della loro completezza;
6. la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dai codici di rito, civile e penale, né determina rimessione in termini per le eventuali decadenze già maturate.
Qualcosa, insomma, si muove. La Giustizia, colpita al cuore anch’essa da una sciagura senza precedenti e paralizzata per la fase acuta dell’emergenza, può ambire ad essere spostata dall’animazione sospesa prima alla terapia intensiva e poi in corsia, perché vuole dare il suo contributo al Paese; questi provvedimenti, nel complesso, offrono agli operatori qualche strumento per agire in questa direzione: e, impregiudicate beninteso le priorità sanitarie e la sicurezza minima di tutti i lavoratori ed i soggetti coinvolti nelle attività giurisdizionali, starà a loro, nell’ampio ventaglio di possibilità comunque offerto o ricavabile da una normativa comunque complessa, applicarli al meglio delle loro possibilità.
Perché, insieme e se lo si vuole davvero, ce la si può fare.
Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus
di Tomaso Epidendio
-seconda parte - (prima parte https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/957-il-diritto-nello-stato-di-eccezione-ai-tempi-dell-epidemia-da-coronavirus)
4. La “nuova normativa” alla prova delle categorie ordinarie: Eracle al bivio
Una constatazione si impone in esordio dell’esame sulla normativa in esame: le linee portanti della disciplina, se esaminate con le ordinarie categorie giuridiche – del principio di legalità, sostanziale e processuale, e della ripartizione delle competenze e dei poteri costituzionali – dovrebbe essere considerata nelle sue linee essenziali totalmente illegittima.
L’osservazione è talmente banale che è quasi imbarazzante doverne parlare, ma dovendosene parlare (per quello che si legge e si sente in questi tempi), bastino alcune notazioni.
Davvero, se si applicassero le ordinarie categorie giuridiche, sarebbe pensabile, dopo quello che si è detto e scritto tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla natura della prescrizione, considerare legittima una norma, entrata in vigore dopo la commissione del fatto-reato, che sospende (retroattivamente) il relativo termine di prescrizione nel relativo processo?
Davvero si può pensare, con buona pace degli ordinari principi nazionali e convenzionali del giusto processo e del diritto a una tutela immediata , che una norma (anche di legge) determini il rinvio della maggior parte dei processi penali?
Davvero è pensabile che sia compatibile con il principio di legalità processuale e con i principi di sottoposizione alla legge, del giusto processo, di autonomia e indipendenza della magistratura, una norma che attribuisca ai dirigenti degli uffici il potere di dare direttive vincolanti sulla tenuta delle udienze?
Davvero si vuole credere che attraverso tali direttive, ovvero con norme di rango secondario o addirittura (come sembra si arriverà) con norme di legge, si possa giungere alla celebrazione dei processi a distanza, alla conversione in contraddittorio scritto della quasi totalità della procedura, senza ledere in modo irrimediabile i principi di oralità, immediatezza e di pubblicità dell’udienza? Che ci si arrivi così, ricamando sui concetti, e gloriando “le magnifiche sorti e progressive” del venturo processo telematico, fino a mettere in un cassetto tutto quel rincorrersi di sentenze, tra Corte di Strasburgo e Sezioni unite della Corte di cassazione, che hanno statuito e ampliato sempre più il diritto all’udienza pubblica anche nelle udienze camerali (con limitatissime e sempre più vacillanti eccezioni), che hanno imposto con progressiva e inusitata ampiezza l’obbligo della rinnovazione della prova.
Davvero si può pensare che l’inevitabile esigenza di assicurare ai medici la possibilità di prendere decisioni sempre più difficili possa avvenire senza stravolgere decenni di giurisprudenza di legittimità in materia di colpa medica o di responsabilità omissiva?
Davvero si può pensare che direttive od opportuni suggerimenti interpretativi sull’applicazione delle misure cautelari o sulla esecuzione delle sentenze penali siano ordinarie operazioni ermeneutiche, semplici adattamenti del testo di legge e degli istituti penali e penitenziari al contesto e non quello che sono: drammatici tentativi di evitare la catastrofe penitenziaria, di scongiurare la tragedia ed evitare la colpa (morale, prima che giuridica) di porre una moltitudine di persone in situazioni dove il distanziamento sociale necessario a salvaguardarne la vita non è semplicemente possibile.
Io credo che non si possa dire. Sia che si tratti di operazioni in bonam partem, come di operazioni in malam partem, non si può dire che è tutto in ordine, che le categorie giuridiche sono tutte lì al loro posto, che le abbiamo solo un poco precisate e aggiustate per renderle più funzionali e adatte al contesto.
No, non è tutto come prima: non è che prima si era frainteso questo o quel concetto e che ora se ne è potuta apprezzare la reale portata; non è improprio dare ai concetti giuridici la portata che ad essi si è sempre data e che effettivamente hanno; non si possono gettare al vento decenni di giurisprudenza costituzionale, di legittimità e sovranazionale in materia di diritti fondamentali e di diritto penale e processo attraverso arzigogoli dogmatici e ingegnose, quanto inusitate, acrobazie ermeneutiche.
Ci troviamo di fronte a un bivio: o con coerenza ed onestà concettuale si riconosce l’illegittimità della stragrande maggioranza della nuova normativa, specie quella incidente sui delicati punti che ho sopra ricordato, oppure si riconosce che ci troviamo di fronte a una normativa dello stato di eccezione “in senso debole”, come sopra precisato, che ha i suoi contorni e limiti da verificare in rapporto alla loro tenuta costituzionale.
Non riconoscere che ci troviamo di fronte alla “tigre dello stato di eccezione” e illuderci di avere di fronte solo il “lupacchiotto di una emergenza”, per mantenere intatta la nostra buona coscienza di illuminati giuristi ed evitare di épater la bourgeoisie di belle anime giuridiche, sarebbe, a mio avviso, l’errore più grande.
Potremo continuare a dire di trovarci di fronte un lupacchiotto giuridico, ma finiremo sbranati dalla tigre, perché, se si tratta dell’operare delle normali categorie giuridiche, allora, per una strana eterogenesi dei fini, queste discipline, inaccettabili al di fuori dell’eccezione in cui ci troviamo, potranno tranquillamente stabilizzarsi e le deroghe diventeranno norma a cui ci è già assuefatti, così che davvero si potrà dire che il virus si è propagato anche nel diritto. Infatti, se davvero si tratta solo di una tra le ripetibili emergenze che hanno attraversato la vita dello Stato repubblicano, allora sarà inevitabile aprire la strada a chi invocherà nuove emergenze – perché sempre se ne trovano e sempre se ne troveranno – che potranno giustificare, come declinazione contestuale di ordinarie e tranquillizzanti categorie giuridiche classiche, quelle che saranno inaccettabili aggressioni al nucleo intangibile dei diritti fondamentali.
Dichiarare invece tutto (o quasi) illegittimo, come dovrebbe avvenire se si applicassero le ordinarie categorie valutative maturate nella giurisprudenza di legittimità, costituzionale e sovranazionale, vorrebbe dire vanificare ogni forma di intervento finendo, per evidenziare l’inefficacia del diritto in situazioni di eccezione, ciò che porterebbe al rischio, questo sì davvero tragico, di precipitare lo Stato in una situazione di caos, con il conseguente pericolo di introduzione di uno stato di eccezione in senso forte, nel senso schmittiano del termine, che è quanto più possibile deve essere evitato (anche se, per fortuna, non sembra un pericolo imminente non deve essere sottovalutato, rappresentando una catastrofe nella catastrofe).
5. La normativa secondo lo stato di eccezione in senso debole
Di fronte all’inevitabile, insoddisfacente e tragica alternativa sopra descritta (ritenere illegittima l’intera impostazione e tutti i principali tratti della normativa in esame, ovvero forzare le ordinarie categorie giuridiche per considerarla giustificata quale mera normativa emergenziale), credo abbia senso percorrere una “terza via”, prendere atto che ci troviamo in uno stato di eccezione – che solo ricorre in situazioni tali da mettere in pericolo la stessa vita di tutti i consociati nel loro complesso – ma che questo non vuol dire per forza precipitare il diritto nell’abisso dello stato di eccezione schmittiano verso pericolose derive autoritarie: di fronte a una inedita e travolgente catastrofe, si può tentare la strada dello stato di eccezione in senso debole, che impone di filtrare le ordinarie categorie giuridiche di valutazione, attraverso quelle della temporaneità, giustiziabilità e proporzione, come si è precisato nella prima parte.
Nello stato di eccezione “in senso debole”, il diritto non è autoritariamente sospeso e, quindi, continuano ad esistere limiti, ma adeguati all’eccezionalità catastrofica che il diritto deve affrontare e, di fronte alla quale, l’ordinarietà giuridica sarebbe una illusione, confortevole sì, ma pur sempre una illusione, tanto più pericolosa quanto più è spaventosa l’insidia che essa occulta e che lo stato di eccezione “in senso debole” consente invece di affrontare de visu.
Nei limiti della brevità del presente intervento si vogliono fornire solo alcuni, si spera significativi, spunti di eventuale approfondimento interpretativo e operativo.
Ad esempio nella disciplina normativa si avverte in più punti l’esigenza di sanzionare comportamenti di violazione delle prescrizioni alle restrizioni delle libertà di circolazione (giunte fino alla restrizione domiciliare, per ragioni di salute), seguendo la rapidità e l’esigenza di differenziazione territoriale di quelle medesime prescrizioni che risentono del continuo aggiornamenti di dati e conoscenze cliniche, non prive di più di una incertezza scientifica, e secondo una successione vorticosa di precetti, inasprimenti e depenalizzazioni, operati con decretazione d’urgenza, che in sede di conversione potrebbe presentare emendamenti, con conseguente crisi del meccanismo di cui all’art. 2 c.p.: infatti, salva l’applicazione delle disposizioni sulla successione normativa in caso di leggi temporanee o eccezionali (sempre che si interpreti questa dizione comprensiva dei decreti-legge), le modifiche che siano introdotte in sede di conversione sarebbero assoggettate alla normale disciplina in tema di successione ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 2, a meno di voler ritenere che il riferimento alle “disposizioni di questo articolo” non comporti anche una deroga anche per gli emendamenti su norme eccezionali o temporanee, proposta interpretativa che, se adottata in generale, sembra fortemente compressiva dei diritti fondamentali.
Ora, al di là di progressivi aggiustamenti di tiro che spostano dall’illecito penale a quello amministrativo la maggior parte delle condotte di violazione – secondo il malvezzo, più volte censurato anche in chiave sovranazionale, della “truffa delle etichette” e che difficilmente potrebbe ritenersi esente dalle citate censure applicando le ordinarie categorie – credo che, pur nello stato di eccezione in senso debole, lo strumento del decreto legge consente di assicurare interventi tempestivi, inserendo in esso lo stesso precetto (eventualmente differenziato su base nazionale, a secondo di differenziate esigenza di tutela dalla diffusività del virus) in termini di urgenza, di tal che ricorrere a norme penali sostanzialmente “in bianco” e, oltre tutto, differenziate (per non dire polverizzate) sul territorio nazionale, rappresenterebbe un intervento non necessario, non comportante il minimo sacrificio necessario (anzi pregiudicando quello massimo della riserva di legge in materia penale) e come tale sproporzionato, non giustificato nello stato di eccezione in senso debole. Non si può, peraltro, mancare di sottolineare come la situazione eccezionale che stiamo vivendo stia mettendo in luce la “crisi” del sistema penale delle “contravvenzioni” e la problematica opzione della scelta tra questo e un illecito amministrativo sempre più aggressivo: si fronteggiano la perdurante carica simbolica del “penale” e l’“effettività” del sistema (recte dei “micro-sistemi”) degli illeciti amministrativi, con il rischio di rendere sempre più evanescente il principio cardine del diritto penale come extrema ratio.
Diversamente, sembra, si potrebbe concludere per i termini di prescrizione: l’esigenza di differimento della tutela processuale – sempre, come detto, nella salvaguardia della giustiziabilità precisata nella prima parte, che deve essere immediata almeno per le norme introdotte nello stato di eccezione – è strettamente e inscindibilmente connessa all’esigenza di salvaguardare la vita dei consociati, dello stesso imputato, ma anche di tutti gli operatori (commessi, cancellieri, segretari, addetti, avvocati e magistrati) che rappresentano altrettanti possibili “focolai” epidemici in grado di estendere il contagio alla popolazione, la cui circolazione, dunque, deve essere consentita solo nei limiti dello stretto necessario. Ora di fronte a un differimento di questo tipo – che a mio avviso sarebbe meglio qualificare per quello che è, cioè un rinvio ex lege, attribuendo al provvedimento di rinvio natura meramente ricognitiva e come tale adottabile anche a gruppi e dal dirigente dell’ufficio o da un suo delegato – dettato dall’esigenza di salvaguardare la vita dell’intera collettività, non determinato da inefficienze o altre situazioni imputabili alla pubblica amministrazione, ma da bisogni che coinvolgono tutti e, in primis, lo stesso imputato, ebbene di fronte a un simile differimento, la temporanea sospensione del termine di prescrizione anche per processi relativi a fatti commessi prima della normativa Co-Vid, sembra misura temporanea, tale da non privare (neppure sostanzialmente) l’imputato del diritto di ottenere giustizia in tempi ragionevoli (tenuto conto del contesto), idonea, strettamente limitata al minor sacrificio necessario, così da essere proporzionata, e giustificare “eccezionalmente” una sua applicazione retroattiva, altrimenti inammissibile dopo quanto è stato affermato nella nota vicenda “Taricco”. Del resto, come non pensare a quanto accaduto non molto tempo fa in relazione ad analoghe norme emanate in occasione dell’“emergenza”-terremoto, (caso gravissimo, ma non delle dimensioni globalmente apocalittiche della presente epidemia), in cui l’applicazione della sospensione a fatti pregressi non ha poi suscitato gran commozione o preoccupazione, per non dire attenzione, al carattere sostanziale della prescrizione. Per usare termini più franchi – e chiamare le cose con il proprio nome - questa temporanea e limitata “processualizzazione” della sospensione dei termini prescrizionali (perché di questo si tratta) sembra del tutto proporzionata alla eccezionalità della situazione e coerente con la stessa “giustiziabilità”, purché mantenga i caratteri di una temporaneità, non solo formale, ma anche sostanziale, il che vuol dire relativa brevità. Il punto da sottolineare è semmai il fatto che simili spinte verso la “processualizzazione” della prescrizione possono essere giustificate solo nel permanere dell’eccezione in senso debole, onde evitare rischi di improprie stabilizzazioni di discipline eccezionali, coerentemente con quanto si è fin qui argomentato.
L’ultimo punto trattato evoca inevitabilmente, come si è visto, il tema della “giustiziabilità” e, quindi, quello dei processi penali telematici e dei poteri attribuiti ai dirigenti degli uffici giudiziari. Deve ritenersi infatti che, proprio per garantire comunque una “giustiziabilità proporzionata”, possa trovare giustificazione il potere dei dirigenti di dettare “direttive vincolanti”. In particolare, deve ritenersi che soddisfino il requisito della proporzionalità quelle direttive che vadano nel senso della “smaterializzazione” degli atti e che permettano, ad esempio, il deposito di provvedimenti sottoscritti in formati digitali non modificabili, secondo le disponibilità delle varie realtà (anche locali), tali da consentire di rendere operativa l’attività giudiziaria essenziale a garantire la “giustiziabilità” dei diritti, contestualmente limitando al massimo l’accesso fisico agli uffici e garantendo quel “distanziamento sociale” indispensabile per evitare l’ulteriore propagarsi dell’epidemia oltre che, non va dimenticato, quel protrarsi della situazione di eccezione (seppur in senso debole), che diventerebbe incompatibile con il requisito della “temporaneità” e metterebbe a dura prova la tenuta dello stesso Stato di diritto.
Diversamente, a mio avviso, dovrebbe ritenersi per il vero e proprio “processo a distanza”. In questi casi, sempre nell’ambito della temporaneità (e, quindi, della connessa relativa brevità dello stato di eccezione che i provvedimenti sono tesi a salvaguardare e del connesso differimento dell’udienza) non sembra “proporzionato” (nel senso del test precisato nella prima parte), travolgere principi, radicati nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale a tutti i livelli, quali i principi di immediatezza e di pubblicità delle udienze penali, posti proprio a garanzia del controllo che va assicurato a tutela della democrazia: almeno, ciò non sembra giustificato nei termini in cui vengano travolti completamente detti principi, come sembrerebbe inevitabile se si giungesse a stabilizzare una disciplina processuale che, almeno ai mie occhi, evoca le agghiaccianti immagini di alcuni film di fantascienza, dove i giudici si riuniscono a distanza e decidono della sorte degli imputati senza un confronto “faccia a faccia”. Sarebbe davvero singolare che, dopo le tante e ripetute affermazioni sul punto delle Sezioni unite e della Corte di Strasburgo, si volesse ora sminuire il valore di detti principi su cui, significativamente, si è già appuntata la reazione del ceto forense.
Analoghe considerazioni potrebbero svilupparsi in ordine alla conversione in trattazione scritta della oralità del processo: si potrebbe entrare più nel dettaglio, ma questo esulerebbe dai limiti dell’intervento e comporterebbe un’autonoma trattazione (invero di ciascuno di questi punti).
Maggiore interesse presenta, invece, nell’ottica di questo intervento, il tema della restrizione carceraria. Evidente lo stress interpretativo, questa volta in bonam partem, che devono patire le misure cautelari, l’esecuzione e i benefici penitenziari, stress in questo caso giustificato, a mio avviso, nei limiti della temporaneità, dall’esigenza chiaramente proporzionata di non trasformare una custodia cautelare in carcere o una esecuzione di pena detentiva nel rischio di una sostanziale “condanna morte” dovuta al sovraffollamento, se non all’intrinseca impossibilità di mantenere il necessario distanziamento sociale. Prioritario diventa, infatti, evitare la tragedia della perdita di vite umane e il rischio di precipitare l’intera galassia penitenziaria in una sorta di inferno dantesco, con il rischio di rivolte a catena e con l’inevitabile pregiudizio anche della stessa tutela della collettività, alla cui salvaguardia sono in qualche modo finalizzate, fra le altre cose, le medesime misure restrittive.
Evidente l’incidenza che la tempistica nelle richieste di misure e nell’emissione di ordini di esecuzione può avere in situazione di eccezione come la presente, cui si connette anche, per garantirne un ragionevole scaglionamento o differimento, la problematica individuazione di una sorta di “scudo disciplinare” che – come già si discute per i medici – deve proteggere i magistrati in simili difficili scelte.
Estremamente interessante, anche per il metodo, è il recente documento in materia della Procura generale della Corte di cassazione in data 1° aprile 2020, che si caratterizza, oltre che per i contenuti (che in questa sede è impossibile esaminare), soprattutto per il metodo, che ritengo possa essere ricondotto a una forma di soft-law (proposte interpretative e operative, autorevoli ma non vincolanti) che fino ad ora vantava una cospicua esperienza in materia di cd. “norme tecniche”.
Quest’ultimo, a mio avviso, è un punto determinante che merita una riflessione.
6 I Limiti del diritto
Nel mondo della tecnica (e non solo) la rigidità delle norme di legge ha da tempo palesato i suoi limiti e si sono da tempo sperimentate forme di “normazione” differenti dalla tradizionale hard law che prevedono: una elaborazione della norma, intesa soprattutto come standard valutativo e guida operativa, che viene elaborata dal basso, attraverso una diretta partecipazione e interlocuzione tra gli stake-holders, sottoposta a continui feed-back (chiedo scusa per il diluvio di anglismi che consente però di fare uso di un linguaggio già codificato e sperimentato). Ciò consente adattamenti continui e progressivi sulla base dei risultati e degli avanzamenti che l’esperienza pratica consegna agli stessi stake-holders, i quali, dunque, si sottopongono “spontaneamente” alla regola in quanto essa, per i suoi contenuti, dimostra la sua efficacia e correttezza, noi potremmo dire, la sua “autorevolezza”, che non deriva dall’appartenenza a un fonte gerarchico-formale, ma dall’essere frutto di una elaborazione comune che porta a risultati voluti dalla comunità interessata alla medesima.
In uno stato di eccezione, seppure “in senso debole”, per ovviare alle inevitabili difficoltà di un sistema processuale non certo pensato per operare in situazioni di pandemia, deve prendersi atto non solo che non tutto può essere “diritto”, ma anche che tanto meno “diritto” è necessario, quanto più si possa fare affidamento sull’autolimitazione e la spontanea osservanza di norme che si impongano a tutti gli interessati al processo per la solo loro necessità e ragionevolezza. Questo processo deve essere incentivato in questa fase, proprio per evitare che un sempre più massiccio uso della hard law processuale in tempi di eccezione – con l’inevitabile stress che le ordinarie categorie giuridiche subiscono proprio in considerazione della eccezionalità della situazione – porti a infettare il diritto processuale dello stesso virus che esso intende disciplinare e finisca per determinare una vera e propria “crisi del diritto” attraverso la possibile stabilizzazione di discipline che, giustificate dall’eccezione, non lo possono essere al di fuori di essa e, tanto meno, offrire modelli oltre i limiti della stretta “temporaneità”.
Credo che dunque il metodo della “soft law” nel senso sopra precisato debba accompagnare il tradizionale diritto processuale per evitarne una definitiva compromissione e che il metodo delle proposte interpretative elaborate in modo condiviso debba essere incentivato.
Al contrario, ritengo che si debba evitare ad ogni costo la stabilizzazione di discipline o prassi che, in quanto suggerite, dall’eccezione non possono offrire validi modelli al di fuori di essa e rischiano di farci arretrare rispetto alle garanzie e alle conquiste faticosamente realizzate in tutti questi anni.
7 Conclusioni
In conclusione vorrei delineare alcuni punti provvisori.
Lo stato di eccezione “in senso debole” non è e non deve essere lo stato di eccezione schmittiano.
L’importante è evitare qualsiasi mistificazione anche inconsapevole della realtà: quella che ci troviamo di fronte non è una delle tante emergenze che abbiamo dovuto affrontare, ma una situazione di “eccezione” che sottopone ad uno stress insopportabile le ordinarie categorie giuridiche.
La possibilità di una graduazione di diversi modelli di “eccezione” e la loro differenziazione dalla mera emergenza non è un’astratta congettura teorica, ma ha già modelli esistenti (si pensi ad esempio all’art. 116 della Costituzione spagnola).
Lo stato di eccezione “in senso debole” – che si è sopra proposto, nell’impossibilità per i nostri costituenti di prevedere in origine un’apocalisse pandemica delle dimensioni che stiamo vivendo e che trova con difficoltà paragoni nella storia – è inteso proprio a salvaguardare la tenuta del “giuridico” in situazioni in cui il pericolo di una deriva autoritaria (forse già affacciatasi in altre esperienze statali e ordinamentali) deve essere scongiurato ad ogni costo.
Da qui l’idea di una disciplina nello stato di eccezione, in cui non siano sospesi autoritativamente il diritto o le libertà fondamentali, ma in cui la normazione incontri limiti peculiari specifici dell’eccezione, segnati dalle categorie (pur sempre costituzionali) della giustiziabilità e della proporzione (quest’ultima intesa anche in forma di temporaneità).
Per i giuristi, di fronte alla sfida di tempi così difficili, credo che due siano i rischi maggiori che possono correre: quello di incoraggiare derive autoritarie direttamente o quello di fingere che tutto sia normale, che significa incoraggiarle indirettamente.
Il senso di questo scritto è quello di evitare l’uno e l’altro atteggiamento. Se non ci sono riuscito me ne dispiaccio e me ne scuso.
La responsabilità che grava su tutti è, comunque, quella di parlare, discutere, dialogare, perché peggio di don Ferrante, che muore di peste prendendosela con le stelle, è ai miei occhi donna Prassede che, come dice Manzoni, quando si è detto che è morta di peste si è detto tutto.
*Senza intendere in alcun modo associarli alle mie posizioni, soprattutto agli eventuali errori da me commessi, desidero però ringraziare i professori Alessandro Bernardi e Massimo Donini per l’opportunità di dialogo che mi hanno concesso su questi temi
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