ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Volo annullato da compagnia straniera e giurisdizione del giudice italiano (nota a Cass., SS.UU., 13/02/2020 n. 3561)
di Michela Capozzolo*
Sommario:1.Inquadramento della questione; 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite; 3. La Convenzione di Montreal tra competenza giurisdizionale e competenza (ratione loci e funzionale) interna; 4. Esclusione dell’applicabilità del foro del consumatore ex art. 17 del regolamento UE n. 1215/2012; 5. La non rilevanza del regolamento CE n. 261/2004 ai fini della determinazione della giurisdizione; 6. Validità ed interpretazione della clausola di deroga della giurisdizione accettata con il sistema point and click; 7. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento della questione
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 3561 del 13 febbraio 2020 resa a Sezioni Unite, si è pronunciata sulla vexata quaestio relativa all’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice italiano, più volte sollevata dalle compagnie aeree straniere, al fine di tentare di eludere la giurisdizione dell’Italia cercando, quindi, di radicare ogni eventuale giudizio nello Stato in cui la compagnia ha la propria sede.
Nello specifico, i Giudici di legittimità si sono occupati di dirimere la questione su quale debba essere la normativa applicabile e, dunque, la giurisdizione, in tutti quei casi in cui il passeggero si trovi ad agire per chiedere il risarcimento dei danni causati sia dal ritardo del volo che dall’annullamento del volo, considerato che il viaggiatore rispetto alle compagnie aeree riveste il ruolo di contraente debole.
Alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, le Sezioni Unite hanno concluso per l’affermazione della giurisdizione del giudice italiano sia avuto riguardo al criterio di collegamento del luogo di destinazione, sia in applicazione di quello riferibile alla sede dello stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto. A questo proposito, il Giudice di legittimità ha evidenziato che tale luogo va identificato, nell’ipotesi di acquisto a mezzo di internet di biglietti per il trasporto aereo internazionale, con il domicilio dell’acquirente, quale luogo nel quale lo stesso sia venuto a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata con l’invio telematico dell’ordine del viaggio e del pagamento del relativo prezzo.
Invero, la decisione inerente alla giurisdizione si colloca, come vedremo, nel più ampio panorama giuridico della disciplina dei trasporti via aerea e dei contratti on line, nell’ambito del quale la Suprema Corte accorda piena ed esaustiva tutela al contraente debole, anche al fine di contenere gli effetti distorsivi del fenomeno del forum shopping e di garantire, quindi, l’agevole rintracciabilità del luogo di svolgimento del giudizio.
2.La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite
La vicenda oggetto di disamina trae origine dall’azione proposta da due passeggeri italiani entrambi residenti e domiciliati in Italia, a Bella (PZ), i quali hanno citato in giudizio la Compagnia aerea Ryanair DAC (Designated Activity Company), già Ryanair LTD, con sede principale in Irlanda, chiedendo la corresponsione della compensazione pecuniaria di € 250,00 per ciascuno, dovuta sulla base del regolamento CE n. 261/2004, per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale[1] e non patrimoniale subito o, in subordine, che la compagnia aerea fosse condannata quanto meno al rimborso del costo dei biglietti, incassato per un servizio non reso. La Ryanair, infatti, aveva inopinatamente cancellato il volo regolarmente prenotato e pagato dagli attori.
La compagnia aerea irlandese si costituiva in giudizio eccependo, in via pregiudiziale di rito, il difetto di giurisdizione del giudice italiano adito, sulla base della clausola di proroga della giurisdizione contenuta nell’art. 2.4 delle Condizioni generali di trasporto accettate dagli attori al momento dell’acquisto on line dei biglietti, in favore della competenza della Swords and Baldriggan District Court Office irlandese.
Rinviata la causa per la precisazione delle conclusioni, gli attori notificavano il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione alla controparte ed il giudizio veniva sospeso.
I ricorrenti ritengono che la clausola invocata dalla Ryanair[2] sia destinata ad operare in riferimento ai contratti di mero trasporto e non anche per i contratti con i quali il consumatore acquista sia il volo che il soggiorno nel medesimo pacchetto. Ciò in quanto l’affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice del luogo in cui ha sede la compagnia aerea introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra coloro i quali acquistano il solo titolo di viaggio e quanti, unitamente ad esso, acquistano anche il soggiorno. Solo per questi ultimi varrebbe l’invocazione del foro più favorevole del consumatore previsto dal regolamento UE n. 1215/2012, con la conseguenza che i consumatori che acquistano il solo titolo di viaggio sarebbero scoraggiati dall’agire per la tutela dei loro diritti.
Secondo i ricorrenti, dunque, non si applicano gli artt. 25 e 17 del regolamento UE n. 1215/2012 in virtù della disposizione contenuta nell’art. 71 del medesimo regolamento, il quale prevede che rimangono impregiudicate le Convenzioni tra gli Stati «che disciplinano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari».
In definitiva, assumono i ricorrenti che la Convenzione Montreal prevale sulle disposizioni contrattuali e, dunque, anche sull’art. 2.4 delle Condizioni generali di trasporto Ryanair[3] ed evidenziano che la medesima clausola ivi contenuta rinvia ai criteri di determinazione della giurisdizione indicati nella Convenzione. Per quanto concerne il caso di specie, radicata la giurisdizione in Italia – quale Paese di destinazione del volo – facendo ricorso ai criteri alternativi fissati dall’art. 33 della Convenzione, la competenza va individuata sulla base delle norme di diritto interno e, quindi, gli attori hanno correttamente proposto la loro domanda dinanzi al Giudice di Pace nel cui circondario è ubicata la loro residenza.
Resiste la Ryanair con controricorso assumendo l’inapplicabilità della Convenzione di Montreal in luogo del regolamento UE n. 1215/2012. In particolare, la controricorrente assume che la Convenzione si occupi esclusivamente dai danni causati da volo ritardato e non anche dalla più grave ipotesi di mancata partenza o soppressione del volo. Pertanto, nel caso di specie la determinazione della giurisdizione va individuata sulla base dell’art. 25 del Regolamento UE n. 1215/2012, che attribuisce in via esclusiva la giurisdizione al giudice di uno Stato secondo criteri pre-individuati per iscritto.
Inoltre secondo l’interpretazione dell’art. 17 del Regolamento data dalla controricorrente, i contratti di trasporto sarebbero esclusi dalla sezione del regolamento che disciplina i fori speciali per il consumatore. Così come il campo di applicazione dell’art. 71 riguarda esclusivamente i rapporti con i Paesi terzi, mentre se la controversia riguarda due Paesi (di partenza e di arrivo) entrambi appartenenti all’UE prevale la norma comunitaria.
Il Procuratore generale condivide la linea difensiva della controricorrente ma entrambi non hanno convinto le Sezioni Unite.
3.La Convenzione di Montreal tra competenza giurisdizionale e competenza (ratione loci e funzionale) interna
La pronuncia delle Sezioni Unite, offre l’occasione di riflettere, in primis, sul campo di applicazione della Convenzione di Montreal del 1999[4] e sulla determinazione della giurisdizione secondo il suo art. 33.
Per quanto interessa in questa sede ai fini della disamina della pronuncia delle Sezioni Unite occorre precisare cosa si intende per «danno da ritardo» atteso che secondo la Convenzione «il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci […]»[5].
Dal dato letterale, emerge che il riferimento al ritardo nel trasporto aereo non riguarda il «volo» stricto sensu inteso, bensì ci si riferisce alla «complessiva operazione di trasporto aereo dedotta in contratto fino alla sua destinazione finale». È evidente, quindi, che il ritardo a cui si riferisce l’art. 19, può riguardare sia il volo di andata, di ritorno, il protrarsi dello scalo fino a perdere la coincidenza, ma anche la soppressione di uno dei due voli con necessità di sostituirlo con un altro. Infatti, anche la cancellazione del volo può costituire una causa di ritardo nel completamento dell’operazione di trasporto aereo. Dunque, l’articolo comprende le principali ipotesi di danni connesse al trasporto aereo, quindi, sarebbe incongruo escludere il caso più grave di inadempimento – ossia la soppressione del volo – e ricomprendervi quello più lieve, come il ritardo[6].
Val la pena rilevare che la Convenzione oltre a disciplinare in modo uniforme gli aspetti di diritto sostanziale, detta delle disposizioni di diritto processuale ed in particolare individua i criteri di collegamento per radicare dinanzi ad un determinato giudice nazionale le controversie aventi ad oggetto la responsabilità del vettore aereo per i danni cagionati ai passeggeri[7].
A tal riguardo, ai sensi dell’art. 33, la Convenzione di Montreal non indica un foro generale, bensì fa riferimento a fori speciali[8], tassativi ed inderogabili per accordo delle parti, alternativi tra loro, con lo scopo di limitare il fenomeno del forum shopping e di garantire l’agevole individuazione del luogo di svolgimento del giudizio.
Uno dei punti più controversi riguarda l’ambito di efficacia delle norme di individuazione del foro davanti al quale proporre l’azione. Ci si chiede, cioè, se l’art. 33 della Convenzione si limiti a disciplinare, per le controversie concernenti la responsabilità dei vettori aerei, la competenza giurisdizionale di un giudice nazionale rispetto a quello di un altro Stato contraente, oppure se tale norma incida sui criteri di distribuzione della competenza territoriale stabiliti dagli ordinamenti processuali degli Stati aderenti alla Convenzione[9].
Nel caso in cui l’art. 33 della Convenzione di Montreal si limiti esclusivamente a determinare i criteri di collegamento per individuare il Giudice nazionale competente a decidere della controversia, sulla base di tali criteri, il viaggiatore potrebbe scegliere di agire in giudizio dinanzi al giudice del luogo in cui ha sede il vettore[10], oppure davanti all’autorità giudiziaria del luogo di destinazione del volo[11]. In entrambi i casi la determinazione del giudice territorialmente competente spetterebbe, poi, ai rispettivi ordinamenti interni[12].
Qualora si ritenga che l’art. 33 della Convenzione di Montreal fosse in grado di intervenire nell’individuazione dei giudici nazionali territorialmente competenti, il passeggero avrebbe dovuto scegliere limitatamente tra il giudice nel cui circondario ricade il luogo di destinazione e quello nel cui ambito territoriale di competenza ha sede il vettore aereo. Tale ultima interpretazione, chiaramente, andrebbe a derogare alle disposizioni interne che regolano la distribuzione territoriale della competenza dei giudici.
È fuori di dubbio, infatti, che la norma internazionale pattizia debba prevalere sul diritto interno, pena la violazione da parte dello Stato contraente dei propri obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione. Pertanto, il giudice oltre a determinare che la fattispecie sia compresa nella disciplina internazionale e, cioè, che si tratti di un volo soggetto alle norme della Convenzione di Montreal, è tenuto ad individuare anche la giurisdizione in base ai criteri di collegamento definiti a livello internazionale e non in base alle regole processuali interne sulla giurisdizione[13].
Orbene, la soluzione prevalente in Italia[14] si basa sulla considerazione che il procedimento deve essere retto dalle regole processuali nazionali. Invero, le regole sulla base delle quali viene distribuita la competenza sul piano territoriale e funzionale, sono regole tipicamente procedurali[15]. La giurisprudenza italiana di legittimità è ormai consolidata nel senso di affermare espressamente che le regole in tema di foro competente dettate dalla Convenzione di Montreal siano riferite esclusivamente alla giurisdizione internazionale, senza incidere sulla competenza interna, territoriale, per materia, o per valore. In particolare la Corte di Cassazione[16] ha, in più occasioni, considerato i fori alternativi richiamati dalla normativa uniforme come meri criteri di collegamento giurisdizionale e non come criteri di competenza, la quale resterebbe, quindi, soggetta al diritto interno processuale dello Stato in cui l’attore decide di incardinare il giudizio.
Del resto le modalità diverse di intendere i fori previsti dall’art. 33 della Convenzione negli ordinamenti degli Stati contraenti assume una rilevanza fondamentale ai fini dell’interpretazione uniforme di tali criteri. Sul punto la Corte di giustizia, ha sottolineato che, tenuto conto dell’oggetto della Convenzione di Montreal del 1999 volto a unificare le regole relative al trasporto aereo internazionale, i termini in essa contenuti debbono ricevere un’interpretazione uniforme e autonoma, nonostante i significati differenti attribuiti a tali concetti nel diritto interno degli Stati contraenti[17].
4.Esclusione dell’applicabilità del foro del consumatore ex art. 17 del regolamento UE n. 1215/2012
L’eccezione sollevata dalla controricorrente Ryanair, l’appartenenza all’Unione europea degli attori ed, in particolare, la loro posizione contrattuale equiparabile a quella del consumatore finale di un servizio, impongono alle Sezioni Unite di verificare anche l’eventuale applicabilità alla fattispecie dei criteri d’individuazione della giurisdizione contenuti nel Regolamento UE n. 1215 del 2012 (cd. Bruxelles II bis) [18], in particolare quelli relativi ai contratti nei quali una delle parti può essere qualificato consumatore[19] (sezione IV, artt. 17, 18 e 19) in relazione alla concorrente vigenza della citata Convenzione di Montreal.
Come innanzi precisato, tale Convenzione, per il suo indiscusso carattere di lex specialis, prevale sulla norma di diritto comunitario derivato in funzione dell’art. 71, par. 2, lett. a) del regolamento UE n. 1215/2012. Invero, la lettera a) di tale articolo stabilisce il criterio per dirimere i conflitti nell’ipotesi di concorrente applicabilità della normazione convenzionale e di quella europea, individuandolo nel principio di specialità, in funzione del quale, in via generale, prevale la disciplina convenzionale internazionale su quella comunitaria, ove siano, in relazione a tutti i criteri di collegamento, entrambe astrattamente applicabili. Al riguardo si sono pronunciate sia la Corte di Cassazione[20] che la Corte di giustizia[21] rilevando secondo quanto indicato nel par. 3 dell’art. 17 del Regolamento, la sezione quarta, relativa alla regole determinative della competenza giurisdizionale in tema di contratti con i consumatori, non si applica ai «contratti di trasporto che non prevedono prestazioni combinate di trasporto ed alloggio per un prezzo globale». Nella specie, secondo la univoca prospettazione delle parti, il contratto ha ad oggetto esclusivamente la prestazione riguardante il trasporto aereo. Ergo, la determinazione della giurisdizione non può essere effettuata che sulla base dell’art. 33 della Convenzione di Montreal.
5.La non rilevanza del regolamento CE n. 261/2004 ai fini della determinazione della giurisdizione
Ai fini della decisione oggetto di commento le Sezioni Unite escludono che le disposizioni del regolamento CE n. 261 dell’11 febbraio 2004[22] «che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato» possano essere funzionali alla risoluzione della questione di giurisdizione sollevata, in quanto tale atto non contiene criteri riguardanti la competenza giurisdizionale.
In tale sede val la pena brevemente ricordare che al di là delle difficoltà interpretative poste dal regolamento, l’aspetto di maggiore rilievo è dato dall’originalità delle soluzioni giuridiche adottate dal legislatore comunitario, in un’ottica di tutela del contrente debole. Infatti, come affermato dai Giudici di Legittimità nella ordinanza in commento, tale atto predispone la griglia minima di tutela in favore di viaggiatori aerei che si trovino nelle specifiche situazioni in esso disciplinate[23].
Rientra nel suo ambito di applicazione la richiesta di indennizzo dovuta per la cancellazione del volo ai sensi dell’art. 5. Infatti, tra le varie misure predisposte a tutela dei passeggeri aerei assume rilievo centrale la c.d. «compensazione pecuniaria», prevista dall’art. 7 del regolamento, la quale è diretta sostanzialmente a disciplinare in modo uniforme la prestazione risarcitoria, senza tuttavia escludere il diritto del passeggero di ottenere un più ampio risarcimento sulla base dei principi generali propri di ciascun ordinamento nazionale[24].
Per quel che qui interessa, si deve precisare che l’Unione europea ha aderito alla Convenzione di Montreal[25] ponendosi la relativa disciplina in una posizione gerarchica sovraordinata rispetto alla normativa di diritto europeo derivato e, quindi, del regolamento CE n. 261/2004[26].
6.Validità ed interpretazione della clausola di deroga della giurisdizione accettata con il sistema point and click
Come si è detto, la compagnia aerea ha eccepito l’incompetenza giurisdizionale del giudice adito sulla base di una disposizione contrattuale contenuta nelle condizioni generali Ryanair. I ricorrenti pur ritenendola valida e validamente approvata ne hanno dichiarato il contrasto con l’imperatività delle norme di diritto internazionale pattizio e, dunque, la sua non operatività.
Val la pena ricordare che la clausola di deroga della giurisdizione è stata accettata spuntando la relativa casella nel contratto di acquisto dei biglietti aerei sul sito internet della compagnia di volo mediante pressione del c.d. “tasto negoziale virtuale” (point and click)[27].
Com’è noto la clausola con cui le parti di un contratto derogano pattiziamente alle norme procedurali che presiedono alla competenza giurisdizionale dell’autorità giudiziaria, sono clausole c.d. vessatorie. Il concetto non cambia se esse sono contenute in condizioni generali di contratto stipulate a distanza ed in forma telematica.
Orbene, in più occasioni la Corte di giustizia e la Corte di cassazione hanno ritenuto valide le clausole di deroga della giurisdizione approvate mediante il sistema point and click.
La questione si è posta in primo luogo in ambito europeo laddove la Corte di giustizia[28] afferma che ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento Bruxelles I (oggi art. 25, par. 2, del reg. UE n. 1215/2012) la validità di una clausola come quella di cui trattasi, dipende dalla possibilità di registrarla durevolmente[29]. Poiché nel caso esaminato dalla Corte di giustizia la procedura di accettazione mediante click ha consentito di stampare e di salvare il testo delle condizioni generali prima della conclusione del contratto, il Giudice europeo ha giudicato di essere in presenza di una comunicazione elettronica che permette di registrare durevolmente la clausola attributiva della competenza esclusiva, allorché sia consentito stampare e salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto. La clausola contrattuale viene pertanto giudicata valida e aderente al regolamento europeo in materia di competenza giurisdizionale.
Del pari la Corte di Cassazione[30], riprendendo il precedente giurisprudenziale della Corte di giustizia, afferma che le suddette modalità di stipulazione dell’accordo di proroga della giurisdizione sono valide, purché siano redatte per iscritto. La forma scritta si ritiene integrata da «qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza» (art. 25, par. 2 Regolamento 1215/2012)[31].
Acclarata la validità dell’approvazione della clausola resta un altro nodo da sciogliere, ovvero l’interpretazione della portata applicativa della clausola che deroga alla giurisdizione ai sensi dell’art. 25 del regolamento UE n. 1215/2012.
La Corte di cassazione, in più pronunce e rifacendosi alla giurisprudenza interpretativa della Corte di giustizia, ha affermato che le clausole di proroga della giurisdizione vanno interpretate in senso rigorosamente restrittivo e vanno distinte dall’accordo che è alla base del rapporto in cui la clausola è contenuta[32]. La sua interpretazione per la determinazione delle controversie che rientrano nel suo campo di applicazione spetterà al giudice dinanzi al quale essa è invocata[33].
La Corte di giustizia, infatti, ha statuito che «le disposizioni dell’articolo 25 del regolamento n.°1215/2012, poiché escludono sia la competenza determinata dal principio generale del foro del convenuto, sancita all’articolo 4 di detto regolamento, sia le competenze speciali di cui agli articoli da 7 a 9 dello stesso, vanno interpretate restrittivamente per quanto concerne le condizioni ivi fissate»[34].
A ciò si aggiunga che, come detto, la clausola di deroga contenuta nelle condizioni generali Ryanair richiama espressamente l’art. 49 della Convenzione di Montreal la quale dispone l’imperatività delle proprie norme e la nullità delle clausole con essa contrastanti contenute nei contratti di trasporto internazionali a cui essa si applica.
Del resto lo stesso regolamento n. 1215/2012 prevede al considerando n. 35, che nel caso di conflitti esso non vada ad incidere sulle convenzioni a cui gli Stati membri hanno aderito e che sono relative a materie specifiche.
Inoltre, tale regolamento si preoccupa di tutelare la prevalenza delle norme di diritto internazionale pattizio[35] a cui gli Stati membri hanno aderito, sulle norme regolamentari. In particolare l’art. 71 accorda preminenza a tali norme relative a «materie particolari» con la duplice finalità di assicurare, da un lato, il rispetto delle convenzioni di cui si discute e, dall’altra di consentire agli Stati membri che ne sono vincolati di rispettare gli obblighi ivi sanciti al fine di non incorrere nelle conseguenti responsabilità internazionali che deriverebbero[36].
7.Qualche considerazione conclusiva
La Suprema Corte ha risolto il contrasto di giurisdizione sottopostole attraverso un’articolata pronuncia alla quale sono sottese una molteplicità di norme contenute in atti eterogenei, dalla cui disamina comparata è emerso innanzitutto il carattere di lex specialis della Convenzione di Montreal e la sua applicabilità diretta in materia di trasporto aereo.
Invero, dopo un’attenta disamina del quadro normativo di riferimento, le Sezioni Unite, sulla questione di giurisdizione, sono giunte a ritenere di dover verificare l’applicabilità, al caso di specie del principio di prevalenza del diritto internazionale convenzionale rispetto a quello nazionale e di diritto comunitario derivato.
La Suprema Corte, dunque, richiamando il suo precedente n. 18257/2019, ha definitivamente affermato la competenza giurisdizionale del giudice italiano ponendo fine al contrasto in atto nella giurisprudenza di merito, laddove in non poche occasioni, a fronte della medesima eccezione sollevata da Ryanair, i giudici hanno incontrato difficoltà nell’individuazione della normativa da applicare per la determinazione della giurisdizione.
Sovente i giudici di merito sono stati investiti di controversie simili a quelle sottese al regolamento di giurisdizione in oggetto ed hanno optato per la determinazione della giurisdizione seguendo le norme del regolamento UE n. 1215/2012 a discapito della Convenzione di Montreal. Essi, dunque, hanno ritenuto che la norma di diritto comunitario derivato prevalesse ratione materiae sul diritto internazionale pattizio, sulla base della erronea circostanza che la Convenzione non disciplinasse il danno da mancata partenza o soppressione del volo. Dunque, secondo alcuni giudici di merito la Convenzione si occuperebbe dei danni causati dalla difettosa esecuzione della prestazione ma non della più grave fattispecie del danno derivante dalla manca esecuzione.
La non corretta statuizione sul punto è derivata, dunque, dall’erronea interpretazione, in combinato disposto, delle norme di coordinamento contenute dei due atti.
Le Sezioni Unite, dunque, evidenziano come la chiave di lettura dell’applicabilità diretta della Convenzione di Montreal si rinviene proprio nel regolamento UE n. 1215/2012 il cui art. 71, comma 2, lett. a), prevede espressamente priorità applicativa alle convenzioni che disciplinano «materie particolari».
La Corte, poi, ha evidenziato che il contratto stipulato tra i viaggiatori e il vettore irlandese rientra nella qualificazione giuridica di trasporto internazionale di persone e l’appartenenza delle parti all’Unione europea impone anche di valutare, come detto, l’applicazione del regolamento UE n. 1215/2012, il quale stabilisce che per dirimere i conflitti nell’ipotesi di concorrente applicabilità della normazione convenzionale e di quella europea, prevale in via generale la disciplina convenzionale internazionale.
Esclusa la sua applicabilità al caso di specie in funzione del suo art. 71 e dell’art. 17, par. 3, il Giudice di Legittimità afferma poi che il contratto de quo rientra nell’ambito dei contratti on line in cui, evidentemente, risulta difficile l’individuazione del luogo di conclusione del contratto medesimo. È chiaro, dunque, che le Sezioni Unite sebbene abbiano concluso per la prevalenza della Convenzione di Montreal hanno dovuto «adattare», il suo art. 33 al caso concreto, in cui l’acquisto del titolo di viaggio è avvenuto on line e si è perfezionato con la conferma telematica dell’accettazione dell’ordine trasmesso dai passeggeri.
È evidente che il criterio di localizzazione dettato dall’art. 33 della Convenzione di Montreal è di agevole individuazione qualora il contratto venga concluso con le modalità standard, mentre ben più complesso è il caso dello spazio telematico che viene definito dalla dottrina come un «non luogo»[37] in quanto non radicato territorialmente. Pertanto, la portata innovativa della pronuncia in commento va rintracciata nella contestualizzazione di uno dei fori concorrenti dell’art. 33 della Convenzione nei contratti conclusi on line. In essi l’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie contrattuale sui quali ancorare la competenza giurisdizionale, va effettuata tenendo presente la posizione dei soggetti che si apprestano a concludere il contratto piuttosto che il tipo di contratto in sé.
Ai fini della decisione le Sezioni Unite hanno, quindi, dovuto tenere in debita considerazione, la particolarità con cui si perfeziona siffatto contratto ed hanno, quindi, dovuto considerare l’«asimmetria» dello stesso che vede quale contraente debole il passeggero[38] ed hanno applicato come criterio determinativo della competenza giurisdizionale quello del luogo di perfezionamento del contratto, ossia il domicilio del consumatore.
La ragione di ciò è evidente, in quanto certamente non si può gravare il passeggero/consumatore dell’accertamento relativo alla ricerca dell’esatta collocazione del server tramite il quale è stato perfezionato l’acquisto del biglietto. Di conseguenza le Sezioni Unite, richiamando anche il loro precedente giurisprudenziale più volte citato, hanno precisato che il criterio concorrente contenuto nell’art 33, comma 1, della Convenzione di Montreal, in quanto ispirato al principio di prossimità, deve essere individuato, negli acquisiti on line, nel luogo in cui l’acquirente sia portato a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata con l’invio telematico dell’ordine. Tale luogo, evidentemente, non può che essere identificato con il domicilio dell’acquirente.
In ultimo, guardando la scelta del Giudice di Legittimità dalla prospettiva del vettore, è evidente come essa tuteli anche i suoi interessi. Invero, potrebbe accadere anche il contrario, cioè che il vettore venga esposto al rischio del forum shopping, ove al viaggiatore sia lasciata la possibilità di indicare qualsiasi luogo dal quale, mediante dispositivi telematici di cui eventualmente fruisce, possa venire a conoscenza dell’accettazione della proposta di acquisito.
In definitiva, dunque, le Sezioni Unite attraverso tale decisione hanno risolto il conflitto di giurisdizione contemperando gli interessi di entrambe le parti processuali, tenendo conto della peculiarità della tipologia contrattuale esaminata, al fine di contenere gli effetti distorsivi del forum shopping, in un senso piuttosto che in un altro.
* Dottore di ricerca in Scienze Giuridiche, Curriculum Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia e cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; Professore a contratto presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali - Università degli Studi di Salerno. Indirizzo e-mail:
[1] I due ricorrenti avevano dovuto acquistare due nuovi biglietti per il giorno dopo e avevano sostenuto ulteriori spese dovute a un pernottamento in albergo e per il vitto.
[2] Clausola effettivamente selezionata flaggando la relativa casella, da parte degli acquirenti, on line per poter acquistare il titolo di viaggio, perché senza flag non sarebbe stato possibile acquistare il biglietto.
[3] Invero, le norme che vengono in soccorso per disciplinare la fattispecie sono l’art. 33 della Convenzione che detta una serie di criteri alternativi per individuare il giudice competente a scelta dell’attore, e l’art. 49 che fissa la regola della propria imperatività e della conseguente nullità di tutte le clausole con essa contrastanti contenute nel contratto di trasporto.
[4] La Convenzione conclusa a Montreal il 28 maggio 1999 è stata ratificata dall’Italia ai sensi della l. 10 gennaio 2004 n. 12, in GU, n. 20 del 26 gennaio 2004, suppl. ord. n. 12. Essa ha sostituito, pur non abrogandola, la Convenzione di Varsavia del 1929. Sul ruolo della Convenzione di Montreal nel panorama internazionale, si rimanda a I. Konig, The Disabling of the EC Disability Regulation: Stott v. Thomas Cook Tour Operators Ltd in the Light of the Exclusivity Doctrine,in European Review of Private Law, 2014, p. 769; G.N. Tompkins, Are the Objectives of the 1999 Montreal Convention in Ranger of Failure?, in Air and Space law, 2014, p. 203.Si veda ancora: L. Ancis, Il contratto di trasporto aereo, in L. Tullio - M. Deiana, Codice dei trasporti, Milano, 2011, p. 910; L. Tullio (a cura di), La nuova disciplina del trasporto aereo. Commento della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999, Napoli, 2006; M.G. Sarmiento García, Estructura de la responsabilidad del transportador aéreo en el Convenio de Montreal de 1999, in Diritto dei trasporti, 2004, p. 687; E.G. Rosafio, Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999: problemi applicativi, in Diritto del turismo, 2004, p. 10; P.M. De Leon - W. Eyskens, The Montreal Convention: Analysis of Some Aspects of the Attempted Modernization and Consolidation of the Warsaw System, in Journal Air Law Commerce, 2001, p. 1155; J. Hermida, The New Montreal Convention: the International Passenger’s Perspective, in Air Space Law, 2001, p. 150; M.M. Comenale Pinto, Riflessioni sulla nuova Convenzione di Montreal del 1999 sul trasporto aereo, in Diritto marittimo, 2000, p. 798.
[5] Art. 19 della Convenzione.
[6] Corte di cassazione, SS. UU., ordinanza del 7 luglio 2019 n. 18257; Corte di cassazione, Sez. III, ordinanza del 23 gennaio 2018, n.1584.
[7] Si tratta, per l’appunto, di una Convenzione di diritto internazionale uniforme e processuale che, disciplinando sia aspetti di diritto sostanziale che aspetti processuali, viene considera a carattere c.d. “doppio”.
[8] La Convenzione, al primo comma del detto articolo, riprende i criteri di collegamento giurisdizionale già presenti nella previgente disciplina della convenzione di Varsavia del 1929, applicabili sia al trasporto di persone che di merci; mentre, al secondo comma, limitatamente alle ipotesi di sinistri accorsi al passeggero, prevede la possibilità di incardinare la richiesta risarcitoria davanti ad un foro particolare, il c.d. “quinto foro”. Il passeggero ha diritto di esercitare l’azione di risarcimento nel territorio di uno Stato Parte alla Convenzione, con la possibilità di scegliere il tribunale «of the domicile of the carrier or of its principal place of business, or where it has a place of business through which the contract has been made or before the court at the place of destination»; inoltre l’azione potrà essere promossa, nei soli casi di danni da morte o lesione del passeggero, nel territorio dello Stato della sua residenza principale e permanente con la condizione che nello stesso territorio il vettore svolga, direttamente o indirettamente, un servizio di trasporto aereo di passeggeri.
[9] Quest’ultima tesi, oggi minoritaria in Italia, è stata sostenuta, con riferimento alla competenza territoriale nell’ambito della Convenzione di Varsavia, da C. Medina, Appunti di diritto aeronautico, Torino, 1983, p. 102 ss., F.N. Videla Escalada, Derecho aeronáutico, Buenos Aires, 1976, p. 544 ss. e sotto la vigenza della Convenzione di Montreal da: S. Busti, Il contratto di trasporto aereo, Milano, 2001, p. 829; S. Montanari, Sull’interpretazione della Convenzione di Varsavia in materia di giurisdizione e competenza territoriale nel trasporto aereo internazionale, in Diritto dei trasporti, 1994, p. 199; C. Punzi, La risoluzione delle controversie concernenti il risarcimento dei danni, L. Tullio (a cura di), La nuova disciplina del trasporto aereo, Napoli, 2006.
[10] Nel caso oggetto di indagine l’Irlanda.
[11] Nel caso di specie l’Italia.
[12] È chiaro che qualora il passeggero, come nel caso di specie, optasse – perché economicamente e processualmente più conveniente – per la giurisdizione italiana, dovrà rivolgersi al giudice di pace od al tribunale (a seconda del valore della controversia) nel cui circondario ricade il luogo di residenza, quale foro inderogabile del consumatore. Qualora, invece, avesse preferito optare per gli altri criteri di collegamento ed invocare la giurisdizione irlandese, avrebbe dovuto incardinare il giudizio sulla base di tale ordinamento e scegliere il giudice competente secondo le regole processuali irlandesi.
[13] Sul punto si veda: S.F.Montanari, Sull’interpretazione dell’art. 28 della Convenzione di Varsavia, cit., p. 199.
[14] Come anche negli Stati Uniti. Di segno opposto la giurisprudenza francese.
[15] M. Comenale-Pinto, Problemi di giurisdizione nella Convenzione di Montreal del 1999, in Diritto@Storia, 2016, n. 14, pp. 14 ss.; Id., L’imbarco del passeggero e la responsabilità del vettore aereo, in Revista Latino Americana de Derecho Aeronàutico del 20 febbraio 2014; Id., Jurisdicción y competencia en el convenio de Montreal de 1999, in Id. del 26 dicembre 2017.
[16] In tal senso Cass. Civ., SS. UU., ordinanza n. 18257 del 7 luglio 2019; Cass. Civ., SS.UU., ordinanza n. 8901 del 2016 per la quale l’art. 33 della Convenzione non si occupa affatto della competenza per materia in tema di controversie tra passeggero e vettore aereo, ma disciplina la diversa questione del riparto di giurisdizione tra giudici appartenenti a Stati diversi, in virtù del «quarto comma della medesima norma, ove si stabilisce che alla controversia tra vettore e passeggero “si applicano le norme procedurali del tribunale adito”, ivi comprese, dunque, quelle sul riparto di competenza per valore tra i vari uffici giudiziari», con la conseguenza che, giacché nel nostro ordinamento nessuna norma riserva al tribunale la competenza per materia sulle controversie in tema di trasporto aereo, ha dichiarato la competenza specifica per valore del giudice di pace. Ancora Cass. Civ., ord. 15 luglio 2005, n. 15028, in Diritto dei trasporti, 2007, p. 152, con nota di D. RAGAZZONI, Competenza giurisdizionale e competenza territoriale nel trasporto aereo, nella quale, in particolare, è stato chiarito che l’eventuale contestazione della competenza territoriale va fatta con riferimento a ciascuno dei diversi criteri di collegamento previsti dal nostro ordinamento dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. ivi compreso il criterio del foro del consumatore di cui all’art. 1469 bis, n. 19, c.c.; Cass. 26 maggio 2005, n. 11183 (ord.), in Diritto dei trasporti, 2007, p. 1147; Cass., SS.UU., ordinanza del 26 maggio 2009, n. 12105.
[17] Corte di giustizia, sentenza del 6 maggio 2010, causa C-63/09, Axel Walz c. Clickair SA, punto 20. Si veda altresì: Corte di giustizia, sentenza del 7 novembre 2019, causa C-213/18, Guaitoli e altri c. EasyJet Airline Co. Ltd. In dottrina per maggiori approfondimenti: E. G. Rosafio, Il problema della giurisdizione, cit., p. 119.
[18] Regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (rifusione), in GUUE, n. L 351 del 20 dicembre 2012 p. 1, come modificato dal regolamento (UE) n. 542/2014, del 15 maggio 2014, recante modifica del regolamento (UE) n. 1215/2012 per quanto riguarda le norme da applicare con riferimento al Tribunale unificato dei brevetti e alla Corte di giustizia del Benelux, in GUUE, L 163 del 24 maggio 2014, p. 1, e dal regolamento delegato (UE) 2015/281, del 26 novembre 2014, che sostituisce gli allegati I e II del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in GUUE, L 54 del 25 febbraio 2015, p. 1. Per una panoramica generale sul regolamento si vedano: M.E. Ancel, H. Gaudement-Tallon, Compétence et exécution des jugements en Europe. Règlements 44/2001 et 1215/2012 Conventions de Bruxelles (1968) et de Lugano (1988 et 2007), Parigi, 2018; S. M. Carbone, C. E. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale. Il regolamento UE n. 1215/2012, Torino, 2016; F. Ferrari, F. Ragno, Cross-border Litigation in Europe: the Brussels I Recast Regulation as a Panacea?, Milano, 2016; U. Magnus, P. Mankowski (dir.), Brussels I bis Regulation, Monaco, 2016; A. Malatesta (a cura di), La riforme del regolamento Bruxelles I. Il regolamento (UE) n. 1215/2012 sulla giurisdizione e l’efficacia delle decisioni in materia civile e commerciale, Milano, 2016; A. Dickinson, E. Lein (eds.), The Brussels I Regulation Recast, Oxford, 2015; T. Rauscher (Hrsg.), Europäisches Zivilprozess-und Kollisionsrecht EuZPR/EuIPR, vol. I, Brüssel Ia-VO, 4 Auf., München, 2015; F. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel Regolamento (UE) n. 1215/2012 (rifusione), Vicenza, 2015; E. Guinchard (dir.), Le nouveau règlement Bruxelles I bis, Bruxelles, 2014; F. Pocar, I. Viarengo, F. C. Villata (eds.) Recasting Brussels I, Padova, 2012.
[19] Sulla nozione di «consumatore» e sulla possibilità per lo stesso di citare la propria controparte contrattuale dinanzi al giudice del proprio domicilio indipendentemente dal domicilio del convenuto, sia permesso rinviare a: M. Capozzolo, Introduzione alla libera circolazione delle decisioni in materia civile e commerciale nello Spazio giudiziario europeo. Il regolamento (UE) n. 1215/2012 e gli altri regolamenti “settoriali”, Napoli, 2019, pp. 49 ss.
[20] Corte di cassazione, SS. UU., ordinanza del 8 luglio 2019, n. 18257.
[21] Corte di giustizia, sentenza dell’11 aprile 2019, causa C-464/18 ZX c. Ryanair DAC, par. 28.
[22] Il regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 febbraio 2004, in GUUE, n. L 46 del 17 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91, come rettificato, ibidem, n. L 365 del 21 dicembre 2006, e ibidem, n. L 329 del 14 dicembre 2007. Tale regolamento ha abrogato e sostituito il reg. CEE n. 295 del 4 febbraio 1991. Con specifico riferimento alla compatibilità tra la convenzione di Montreal ed il Reg. CE 261/04 si vedano: L. Sandrini, La compatibilità del regolamento 261/2004 con la convenzione di Montreal del 1999 in una recente pronuncia della Corte di Giustizia, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2013, p. 93, ove si fa riferimento, in particolare, ai problemi interpretativi dell’art. 19 della Convenzione di Montreal; S. Radoševic,‘CJEU’s Decision in Nelson and Others in Light of the Exclusivity of the Montreal Convention, in Air and Space Law, 2013, p. 95. Per una puntuale ricostruzione delle tappe del regime normativo in tema di trasporto aereo si veda: A. Pepe, Mancata o inesatta esecuzione del trasporto aereo e tutela dei passeggeri: attualità e prospettive tra interventi della Corte di giustizia e futura revisione del reg. CE n. 261/2004, Le Nuove Leggi civili commentate, 2014, p. 1248; A. Antonini, Il danno risarcibile nel trasporto di persone, in L. Tullio, (a cura di), La nuova disciplina del trasporto aereo. Commentario alla Convenzione di Montreal del 28 Maggio del 1999, Napoli, 2006; M. Lopez de Gonzalo, La tutela del passeggero nel regolamento CE n. 261/2004, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario,2006, p. 213; M. Deiana (a cura di), Studi su: negato imbarco, cancellazione del volo e ritardo nel trasporto aereo, Cagliari, 2005; M. Fragola, Prime note sul regolamento CE n. 261/2004 che istituisce nuove norme comuni in materia di «overbooking» aereo, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, , 2005, p. 129.
[23] Occorre osservare che il regolamento prevede un’uniformazione minima delle singole normative nazionali, ma non esclude che ogni Stato possa intervenire per dettare regole che, nel rispetto delle disposizioni convenzionali, offrano una maggiore protezione per i singoli o comunque regolamentino fattispecie non rientranti nel loro ambito di applicazione.
[24] Ex art. 12 del regolamento.
[25] L’allora Comunità europea ha ratificato la Convenzione sulla base della decisione del Consiglio 2001/539/CE del 5 aprile 2001, in GUCE, n. L 194 del 18 luglio 2001, p. 38.
[26] Ne deriva, inoltre, che le disposizioni della Convenzione di Montreal fanno parte integrante, a decorrere da detta entrata in vigore, dell’ordinamento giuridico dell’Unione e che, di conseguenza, la Corte è competente a statuire in via pregiudiziale sulla loro interpretazione. In tal senso: Corte di giustizia, sentenza del 10 gennaio 2006, IATA e ELFAA, causa C‑344/04, punto 42 e segg.; sentenza del 10 luglio 2008, Emirates Airlines, C‑173/07, punto 42; sentenza del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C‑549/07, punto 32; sentenza del 7 novembre 2019, Guaitoli e altri c. EasyJet, cit., pp. 45 ss. In dottrina a tal riguardo, si veda C.-I. Grigorieff, Le régime d’indemnisation de la convention de Montréal, in Revue européenne de droit de la consommation, 2012, n. 4, pp. 670 e ss.
[27] Trattandosi di contratto concluso tramite il sistema world wide web di internet, ove l’accettazione, previo accesso al sito web e compilazione di un modulo d’ordine elettronico avviene mediante pressione del tasto negoziale virtuale, può farsi rientrare fra quelli che la dottrina ha definito come “contratti virtuali in senso stretto”. In tal senso: E. Tosi, I contratti informatici, telematici e virtuali, Milano, 2010, p. 74 e p. 81.
[28]Corte di giustizia, sentenza del 21 maggio 2015, causa C-322/14, Jaouad El Majdoub c. CarsOnTheWeb.Deutschland GmbH.
[29] Corte di giustizia, sentenza Jaouad El Majdoub, cit., parr.24 ss.
[30] Corte di cassazione, SS.UU., ordinanza del 19 settembre 2017, n. 21622.
[31] Relativamente alla giurisprudenza di merito l’orientamento non è stato univoco. In un primo momento si riteneva che nell’e-commerce continua ad essere necessaria una formale approvazione delle clausole vessatorie, cosicché è necessario che l’accordo sia specificamente sottoscritto dall’acquirente, parte contrattuale decisamente più debole. Pertanto, ai fini della validità di una clausola vessatoria contenuta in un modulo contrattuale on line è necessaria la specifica sottoscrizione della stessa da assolversi con l’utilizzo della firma digitale dell’aderente, non essendo sufficiente il mero click di approvazione del testo contrattuale (Tribunale di Catanzaro con sentenza del 30 aprile 2012). A seguito della pronuncia delle Sezioni Unite, la giurisprudenza di merito ha cambiato orientamento affermando che, aderendo alla tesi suddetta, si finirebbe col trasformare in via pretoria tutti i contratti telematici in contratti a forma vincolata (Tribunale di Napoli con sentenza n. 2508 del 13 marzo 2018).
[32] Si veda: Corte di Cassazione, SS.UU., ordinanza n. 1311 del 19 gennaio 2017.
[33] Ancora Corte di cassazione, SS.UU., n. 1311, cit.; SS.UU., ordinanza del 1 febbraio 2010, n. 2224 e Corte di giustizia, sentenza del 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa c. Dantaltik s.r.l.; sentenza del 9 novembre 2000, causa C-387/98, Coreck Maritime GmbH c. Handelsveem BV e altri.
[34] Corte di giustizia, sentenza del 8 marzo 2018, causa C-64/17, Saey Home & Garden NV/SA c. Lusavouga-Máquinas e Acessórios Industriais SA, par.24; sentenza del 28 giugno 2017, Georgios Leventis e Nikolaos Vafeias c. Malcon Navigation Co. ltd., e Brave Bulk Transport ltd., causa C‑436/16, par. 39 e giurisprudenza ivi citata.
[35] È bene precisare che il regolamento attribuisce tale preminenza alle sole convenzioni che riguardano «materie particolari» di cui gli Stati membri dell’Unione siano parti contraenti e tra esse vi rientra la Convenzione di Montreal che ha quale specifico oggetto l’unificazione delle norme, in primis (ma non solo) quelle in materia di giurisdizione, relative al trasporto aereo.
[36] Per più ampie considerazioni sul punto si legga: S.M. Carbone, C.E. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, cit., Torino, 2016, p. 13.
[37] Su tale argomento si veda tra tanti: A. F. Uricchio, Le frontiere dell’imposizione tra evoluzione tecnologica e nuovi assetti istituzionali, Bari, 2010, p. 51; N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Bari, 2006, p. 65.
[38] Si ricordi, infatti, che nel caso di specie non era stato possibile procedere all’acquisto del titolo di viaggio senza flaggare tutte le clausole, tra cui quella di deroga alla giurisdizione.
Le DAT e la banca dati nazionale istituita dal Ministero della Salutedi Simona Cacace.
Sommario: 1. Le disposizioni anticipate di trattamento e la legge n. 219/2017. 2. La creazione della Banca dati nazionale. 3. I limiti delle disposizioni anticipate di trattamento.
1. Le disposizioni anticipate di trattamento e la legge n. 219/2017.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 219/2017[1], le persone maggiorenni e capaci di intendere e di volere possono, previa acquisizione di «adeguate informazioni mediche», esprimere la loro volontà attraverso le c.d. disposizioni anticipate, ovvero il consenso o il diniego rispetto a determinati trattamenti sanitari in previsione di una loro futura ed eventuale incapacità di autodeterminarsi in merito.
Si tratta di un istituto, peraltro, già disciplinato con un certo dettaglio dall’art. 38, Dichiarazioni anticipate di trattamento, del Codice deontologico medico: il successivo mutamento del sostantivo indica come il potere di «disporre» potesse pacificamente derivare soltanto da un intervento normativo, che soprattutto e al contempo chiarisse i limiti e i contenuti dell’obbligo professionale di contraltare. Il medico, difatti, è ora «tenuto al rispetto delle DAT» (art. 4, quinto comma, l. n. 219/2017) e non deve più, semplicemente, «tenerne conto» (art. 38, terzo comma, CDM).
Nondimeno, le questioni sollevate dalla norma sono molteplici.
Il primo problema attiene all’individuazione del professionista in grado di fornire le «adeguate informazioni» di cui sopra. Il tema è di capitale importanza, perché riguarda il fondamento stesso del consenso informato, ovvero le caratteristiche della previa informazione, cruciali ai fini dell’adozione di una decisione libera e consapevole. Ciò è ancor più vero e fonte di preoccupazione ancor maggiore se si considera altresì il dilagante utilizzo del web per l’acquisizione di informazioni di natura sanitaria, eventualmente associato alla compilazione di una modulistica stereotipata ed estremamente generica, la quale difficilmente sarà idonea a guidare i medici, facendoli sentire a tali volontà vincolati, specie là dove un fiduciario non sia stato nominato[2]. È la formulazione letterale del testo normativo a non specificare, del resto, che sia un medico a rendere queste informazioni; senza contare che non tutti i medici sono competenti a fornire indicazioni adeguate e funzionali alla redazione delle DAT, non potendosi prescindere dalla specializzazione di ciascuno.
Al contrario, nel corso di una pianificazione condivisa delle cure – uno dei punti più interessanti della legge, disciplinato dall’art. 5 – l’ammalato prende anticipatamente decisioni in ordine ad una patologia diagnosticata e con un decorso sufficientemente individuato (attorno al quale è stata altresì resa, dunque, l’opportuna informativa), nell’àmbito di una relazione già instaurata con una determinata équipe sanitaria. Ai fini della conoscibilità di tali volontà, dunque, è sufficiente che la relativa documentazione sia inserita nella cartella clinica del paziente.
La accessibilità e pubblicità delle DAT è, difatti, il secondo problema, e non di poco momento: perché suscettibile di inficiare la razionalità stessa dell’intervento normativo, impedendone l’attuazione e vanificandone gli sforzi. Si tratta della conoscibilità su tutto il territorio nazionale della volontà previamente manifestata da un soggetto non ancora paziente riguardo ad una mera eventualità, e della creazione, dunque, di un unico archivio informatico.
Questa pubblicità attiene non solo all’esistenza e ai contenuti delle disposizioni anticipate di trattamento, ma anche all’eventuale indicazione del fiduciario, il quale rappresenta il paziente divenuto incapace nella relazione con il personale sanitario, curando che la sua volontà venga rispettata e realizzata. Peraltro, neanche la consegna delle DAT al fiduciario ex art. 4, secondo comma, risolve la questione di una tempestiva ed efficace conoscenza del documento da parte del personale sanitario, senza contare che la designazione di tale persona ‘di fiducia’ è solo eventuale e facoltativa.
La legge, dunque, indica le forme di manifestazione e le modalità di raccolta, ma non scioglie il problema della completa ed immediata conoscibilità delle DAT.
La redazione può avvenire per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del suo comune di residenza, ai fini dell’annotazione su registro, oppure presso la stessa struttura sanitaria, se situata in una regione che abbia adottato modalità telematiche di gestione della cartella clinica o del fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale. Le banche dati regionali, d’altronde, benché utili là dove esistenti, consentono un’organizzazione delle informazioni solo frammentaria, che non può ritenersi soddisfacente rispetto al perseguimento dell’obiettivo normativo[3].
2. La creazione della Banca dati nazionale
Il decreto del Ministero della Salute n. 168 del 10 dicembre 2019, Regolamento concernente la Banca dati nazionale destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT)[4], interviene trascorsi due anni dall’emanazione della legge n. 219/2017.
Le funzioni assolte da questo archivio informatico unico e nazionale sono quelle di raccogliere copia delle DAT e delle eventuali successive modifiche, copia della nomina del fiduciario, della sua accettazione, della sua possibile rinuncia ovvero della intervenuta revoca da parte del disponente; nonché, di conseguenza, di consentire l’accesso a questi dati al medico curante e al fiduciario del paziente divenuto incapace di autodeterminarsi, senza che debba egli necessariamente essere iscritto, peraltro, al Servizio sanitario nazionale[5].
I soggetti abilitati ad alimentare la Banca dati nazionale sono coloro che il legislatore ha incaricato di ricevere le DAT: si tratta, dunque, degli ufficiali di stato civile dei comuni di residenza dei disponenti, o dei loro delegati, nonché degli ufficiali di stato civile delle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero; dei notai e dei capi degli uffici consolari italiani all’estero, nell’esercizio delle loro funzioni notarili; dei responsabili delle unità organizzative competenti nelle regioni che abbiano adottato modalità di gestione della cartella clinica o del fascicolo sanitario elettronico o altre modalità di gestione informatica dei dati degli iscritti al Servizio sanitario nazionale, e che abbiano, con proprio atto, regolamentato la raccolta di copia delle DAT ex art. 4, settimo comma, della l. n. 219/2017.
All’atto della ricezione dei documenti sopra elencati, tali soggetti ne trasmettono copia elettronica alla Banca dati nazionale: nell’ipotesi di acquisizione di disposizioni contraddittorie, viene presa in considerazione quella con la data di redazione più recente. Modalità di trasmissione ad hoc sono previste, inoltre, per le DAT espresse attraverso videoregistrazione o per mezzo di altri dispositivi che consentano alla persona disabile di comunicare.
Il decreto prevede, peraltro, la interoperabilità tra la Banca dati nazionale, la Rete unitaria del notariato e quelle eventualmente istituite a livello regionale ex art. 3, primo comma, lettera c). Titolare del trattamento dei dati personali presenti nella Banca dati è il Ministero della Salute, trattamento che viene effettuato per i motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 2-sexies, secondo comma, lett. t) e u) del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196[6] e con la possibilità di diffondere le relative informazioni solo in forma anonima e aggregata. Parimenti, i notai, i comuni di afferenza degli ufficiali di stato civile, le rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero, le unità organizzative di cui all’art. 3, primo comma, lett. c), e le strutture sanitarie sono titolari del trattamento dei dati raccolti. Questi ultimi sono destinati ad essere cancellati trascorsi dieci anni dal decesso dell’interessato.
Entro sessanta giorni dall’attivazione della Banca dati nazionale i soggetti di cui all’art. 3, primo comma, del decreto n. 168/2019 inviano al Ministero della Salute, affinché venga inserito in Banca dati, un elenco nominativo delle persone che hanno espresso le DAT prima della istituzione del registro unico. Entro centottanta giorni dall’attivazione della Banca dati nazionale, poi, tali medesimi soggetti trasmettono al Ministero copia delle DAT dei disponenti.
L’importanza delle DAT e l’esigenza di una loro immediata conoscibilità transregionale si ripresentano nelle quanto mai attuali Raccomandazioni di etica clinica della SIAARTI[7], onde definire criteri di accesso alle cure intensive a fronte di un paventato squilibrio fra necessità cliniche della popolazione e disponibilità effettiva delle risorse, nello scenario da «medicina delle catastrofi» provocato dall’emergenza sanitaria da Covid-19. Ai fini dell’attivazione della ventilazione meccanica, difatti, le Raccomandazioni osservano come debba «essere considerata con attenzione l’eventuale presenza di volontà precedentemente espresse dai pazienti attraverso eventuali DAT» ovvero quanto definito in sede di pianificazione condivisa delle cure da coloro «che stanno già attraversando il tempo della malattia cronica». Così, una eventuale indicazione di non intubazione deve «essere presente in cartella clinica, pronta per essere utilizzata come guida se il deterioramento clinico avvenisse precipitosamente e in presenza di curanti che non hanno partecipato alla pianificazione e che non conoscono il paziente», mentre lo spostamento degli ammalati da una regione all’altra, alla ricerca di centri con maggiore disponibilità di risorse, mette ancor di più in luce l’importanza della portata nazionale dell’archivio informatico.
3. I limiti delle disposizioni anticipate di trattamento
La debolezza delle DAT risiede nella difficoltà di rispettarle.
È un problema di forma e di sostanza: di precisione nel linguaggio e di terminologia adoperata, da una parte; di consapevolezza rispetto alle scelte e alle relative conseguenze, dall’altra. Inoltre, non essendovi un termine di validità, con il trascorrere degli anni il personale sanitario potrebbe sentirsi a queste sempre meno vincolato, mentre il fiduciario, quanto più è lontana nel tempo la manifestazione di volontà del paziente, tanto più rischierà d’interpretarla, invece di rispettarla e di applicarla. Il tempo incide anche sulle conoscenze scientifiche e sul mutamento dello stato dell’arte, nonché sulla percezione stessa delle proprie condizioni di salute: ciò che sul proprio corpo pareva «straordinario» ed inconcepibile può diventare persino ordinario ed accettabile.
I rilievi di cui sopra sono sintetizzati dall’art. 4, comma quinto, della l. n. 219/2017, ai sensi del quale il medico «può» (meglio: deve) disattendere le DAT quando esse appaiano «palesemente incongrue» o «non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente» ovvero qualora «sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» secondo una valutazione eteronoma non esente, invero, da un certo margine di discrezionalità.
Qualora il personale sanitario e il fiduciario non concordino sui contenuti e sulle modalità di applicazione delle DAT, la decisione è rimessa al giudice tutelare. Ciò a motivo di un’incertezza o di un’assenza riguardo all’autentica volontà del diretto interessato e del mancato accordo fra un soggetto garante e competente (il medico), il quale oggettivamente considera e persegue il miglior interesse dell’incapace, e un soggetto parimenti garante, che non realizza detta protezione tramite una specifica professionalità, bensì per mezzo di un potere direttamente attribuitogli dal paziente. Di conseguenza, laddove tale discordanza di pareri e di vedute non si verifichi, l’intervento giudiziario non viene contemplato, poiché si tradurrebbe in un vaglio incompetente della valutazione già operata da sanitari e fiduciario: si pensi, per esempio, all’ipotesi di DAT disapplicate perché non contemplanti la fattispecie realizzatasi.
Il medico (e la struttura sanitaria in cui egli è eventualmente incardinato) che si attiene alle DAT perché le ha ritenute valide è responsabile di tale suo giudizio. Il Consiglio di Stato reputa perciò necessaria la certezza in ordine alla «adeguatezza» delle previe informazioni «acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate»[8].
Tale avvenuta acquisizione, perciò, «pur non potendo rilevare sotto il profilo della validità dell’atto», è opportuno sia «attestata» dalle DAT e contemplata nella modulistica ‘orientativa’ e facoltativa messa a disposizione dal Ministero della Salute, peraltro ad oggi ancora non approntata[9]. Nondimeno, la standardizzazione delle disposizioni anticipate «a fini di conservazione elettronica», che vincoli l’interessato sia da un punto di vista formale sia da un punto di vista contenutistico, «è da escludere», perché implica un automatismo e un burocraticismo che mal si coniugano con un’adeguata ed autentica ponderazione della volontà.
Risolto il problema della pubblicità, dunque, a restare è l’esigenza di informare e di sensibilizzare la collettività riguardo all’importanza e al significato di redigere le DAT, predisponendo altresì gli strumenti più idonei ed agevoli non solo per la loro stesura e raccolta, ma anche per educare cittadini responsabili, consapevoli e capaci di scegliere.
[1] Sulla legge n. 219/2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, cfr. ex pluribus M. Foglia (a cura di), La relazione di cura dopo la legge 219/2017. Una prospettiva interdisciplinare, Pisa, 2019; R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, Roma, 2019; P. Delbon, S. Cacace, A. Conti, Advance care directives: Citizens, patients, doctors, institutions, in Journ. Public Health Research, 2019, 8, 1675; C. Triberti-M. Castellani, Libera scelta sul fine vita. Il testamento biologico. Commento alla Legge n. 219/2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, Firenze, 2018; M.G. Di Pentima, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. Commento alla l. n. 219/2017, Milano, 2018; M. Mainardi, Testamento biologico e consenso informato. Legge 22 dicembre 2017, n. 219, Torino, 2018; Aa.Vv., La nuova legge n. 219/2017, in Riv. Biodiritto, 2018, 1-104; B. De Filippis, Biotestamento e fine vita. Nuove regole nel rapporto medico paziente: informazioni, diritti, autodeterminazione, Padova, 2018; M. Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018; M. Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. prev., 2018, 8; G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 67; M. Foglia, Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura, in Resp. med., 2018, 373 ss.; R. Conti, La legge 22 dicembre 2017, n. 219, in una prospettiva civilistica: che cosa resta dell’art. 5 del Codice civile?, in Consulta Online, 4 aprile 2018, 221; S. Canestrari, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una “buona legge buona”, in Corr. giur., 2018, 301; P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e le DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247; P. Zatti, Cura, salute, vita, morte: diritto dei principi o disciplina legislativa?, in Riv. Biodiritto, 2017, 185; P. Borsellino, La sfida di una buona legge in materia di consenso informato e di volontà anticipate sulle cure, ivi, 2016, 11; D. Lenzi, Consenso informato e DAT. Riprende il cammino parlamentare, ivi, 3, e E. Mancini, Autonomia come integrità: una riflessione sulle direttive anticipate di trattamento, ivi, 13. Sia qui altresì consentito rinviare a S. Cacace, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento nell’ordinamento italiano, argentino e venezuelano. A proposito di salute, di volontà e di fonti del diritto, in A. Saccoccio-S. Cacace (a cura di), Sistema giuridico latinoamericano. Summer School (Brescia, 9-13 luglio 2018), Torino, 2019, 165-194; a S. Cacace, A. Conti, P. Delbon (a cura di), La Volontà e la Scienza. Relazione di cura e disposizioni anticipate di trattamento, Torino, 2019, specie XVII-XXII e 365-388, e a S. Cacace, La nuova legge in materia di consenso informato e DAT: a proposito di volontà e di cura, di fiducia e di comunicazione, in Riv. it. med. leg., 2018, 935.
[2] Cfr. la circolare del Ministero dell’Interno n. 1/2018, 8 febbraio 2018, Legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Prime indicazioni operative, in https://dait.interno.gov.it/documenti/circolare-n1-2018.pdf: «l’ufficiale non partecipa alla redazione della disposizione né fornisce informazioni o avvisi in merito al contenuto della stessa».
[3] Cfr. E. Stradella-F. Bonaccorsi, L’esperienza dei Registri delle Dichiarazioni anticipate di Trattamento sanitario tra linee guida e prospettive di regolazione del fine vita, in A. D’Aloia (a cura di), Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, Napoli, 2012, 320 ss., e N. Vettori, Diritti della persona e amministrazione pubblica, Torino, 2017, 158 ss., nonché Corte cost., 14 dicembre 2016, n. 262, in Foro it., 2017, I, 439 ss.; in Studium iur., 2017, 1307, con nota di P. Giangaspero, La disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento tra tentativi regionali e inerzia statale, e in Le Regioni, 2017, 563, con commento di L. Busatta, Le dichiarazioni anticipate di trattamento, tra ordinamento civile e “ragioni imperative di eguaglianza”.
[4] GU n. 13 del 17 gennaio 2020, in vigore dal primo febbraio 2020. La istituzione presso il Ministero della Salute di una Banca dati destinata alla registrazione delle DAT è prevista dall’art. 1, comma 418, della l. n. 205/2017, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020: «È istituita presso il Ministero della Salute una banca dati destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) attraverso le quali ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari (…). Per l’attuazione del presente comma è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2018». Cfr. altresì il Parere, ai sensi dell’articolo 9, comma 1 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sullo schema di decreto del Ministro della salute concernente la banca dati nazionale destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, 25 luglio 2019, in http://www.statoregioni.it/media/1886/p-4-cu-atto-rep-n-71-25lug2019.pdf, e il parere positivo espresso dal Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, nella Adunanza del 7 novembre 2019, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it/sentenze/sentenza.asp?sezione=dettsentenza&id=6410.
[5] Al contrario, i registri regionali possono raccogliere solo le DAT degli iscritti al SSN: v. il parere del Consiglio di Stato n. 1991/2018 del 31 luglio 2018, emesso in esito alla adunanza della Commissione speciale del 18 luglio 2018: parere facoltativo richiesto dal Ministero della Salute con nota n. 0007507-P del 2 giugno 2018, ai sensi dell’art. 14 del R.D. n. 1054 del 26 giugno 1924. Cfr. M. Noccelli, Libertà e autorità nelle decisioni sanitarie tra principio personalistico e solidaristico, in S. Cacace, A. Conti, P. Delbon (a cura di), La Volontà e la Scienza, cit., 40 ss.
[6] «(…) si considera rilevante l’interesse pubblico relativo a trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri nelle seguenti materie: t) attività amministrative e certificatorie correlate a quelle di diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale, ivi incluse quelle correlate ai trapianti d’organo e di tessuti nonché alle trasfusioni di sangue umano; u) compiti del servizio sanitario nazionale e dei soggetti operanti in ambito sanitario, nonché compiti di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro e sicurezza e salute della popolazione, protezione civile, salvaguardia della vita e incolumità fisica». Cfr. il Parere su uno schema di decreto recante l’istituzione presso il Ministero della Salute di una Banca dati nazionale destinata alla raccolta delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) – 29 maggio 2019, in https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9117770.
[7] Società Italiana Di Anestesia Analgesia Rianimazione E Terapia Intensiva, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, 6 marzo 2020, in http://www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20-%20Covid19%20-%20Raccomandazioni%20di%20etica%20clinica.pdf, 5-6.
[8] Cfr. il parere n. 1991/2018, cit.
[9] Cfr. parere n. 1991/2018, cit.: «può essere utile un atto di indirizzo – eventualmente adottato all’esito di un tavolo tecnico con il Ministero della giustizia, il Consiglio nazionale del notariato e il Ministero dell’interno – che indichi alcuni contenuti che possono essere presenti nelle DAT, allo scopo di guidare gli interessati sulle scelte da effettuare. Spetterà poi al Ministero di mettere a disposizione un modulo tipo, il cui utilizzo è naturalmente facoltativo, per facilitare il cittadino, non necessariamente esperto, a rendere le DAT».
Un Presidente alla Corte edu. Guido Raimondi guarda al passato, al presente e al futuro del giudice europeo dei diritti umani.
di Roberto Conti
Guido Raimondi, tornato in Corte di Cassazione come Presidente di sezione, ha accettato di ripercorre su Giustizia Insieme la recente esperienza, prima di giudice, poi di Vice Presidente e quindi di Presidente, alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Lo ha fatto a tutto campo, da uomo e giurista raffinato, toccando con estrema semplicità e naturalezza alcuni dei temi nodali- e per questo più problematici- che ruotano attorno al ruolo ed alla funzione della Corte edu, ma anche guardando alle sfide che quell’organo di giustizia internazionale sarà chiamato ad affrontare nell’epoca del post Covid-19.
Innumerevoli gli spunti che escono da questo colloquio informale, trasformato in un prezioso affresco dalle risposte di Raimondi che, oltre a ripercorrere alcune delle questioni più rilevanti esaminate dalla Corte edu, non ha mancato di soffermarsi sulle tecniche di decisione, sui meccanismi di formazione delle pronunzie e sulle relazioni personali maturate a Strasburgo, svelando aspetti forse inediti al grande pubblico.
Una Corte europea che dalle parole del suo presidente emerito esce più umanizzata e soprattutto legata inscindibilmente ai giudici nazionali, con i quali condivide il dovere di leale cooperazione al servizio dei diritti.
Se poi si guarda al complesso dei diritti convenzionali, di prima e di ultima generazione, resi viventi dalla giurisprudenza della Corte edu, ci si accorge non solo della loro ineludibilità e straordinaria attualità anche nei tempi incerti dell’emergenza, ma anche di quanto essi rappresentino ben più di una semplice sommatoria di singole posizioni giuridiche soggettive. Si tratta, a ben considerare, di un mosaico capace di descrivere il patrimonio delle persone, sempre meritevole di essere garantito e protetto in modo concreto ed efficace, anche in tempo di pandemia.
È dunque il tempo della fedeltà ai principi ed ai valori fondanti dell'Europa che Raimondi finisce con l'auspicare vibratamente anche rispetto all'attuale contesto "eccezionale e bizzarro" nei quale siamo tutti sospesi, ma non meno consapevoli di dovere condurre la nave con fermezza e con tutti gli sforzi possibili verso l’unico porto sicuro immaginabile, quello dei diritti della persona, attorno al quale vanno coagulate le energie delle persone oneste che hanno a cuore le sorti dell’umanità.
Sommario:1. La pandemia e la Corte edu. 2.Il processo davanti alla Corte edu. 3. I diritti di matrice convenzionale. 4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie. 5. La Corte edu e le Corti nazionali. 6. La Corte edu e il Giudice Raimondi. 7. Riapprodo in Corte di Cassazione. 8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
1.La pandemia e la Corte edu
Guido, sembra in questo tempo risvegliarsi nella collettività il bisogno di protezione dei diritti fondamentali: circolazione, movimento, relazioni personali. Alcuni sostengono che questi diritti debbano comunque essere scavalcati dall’interesse alla salvaguardia della vita e della salute. Quanto questi diritti sono “disponibili” e qual è il ruolo del giudice nazionale, al quale spetta di interpretare la legge in modo convenzionalmente e costituzionalmente orientato?
Questo è un tempo effettivamente bizzarro ed eccezionale. Provvedimenti straordinari sono stati presi, con limitazioni importanti delle nostre libertà.
Noto che il dibattito sulla compatibilità di queste misure con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è già acceso. C’è chi ha preso posizione nel senso che le decisioni italiane sul blocco delle attività e sul confinamento a domicilio della popolazione avrebbero richiesto una deroga alla Convenzione europea ai sensi del suo articolo 15, che riguarda l’ipotesi di “…guerra o altra pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”.
Personalmente credo che, nonostante l’unicità della situazione e la mancanza di precedenti, il reticolo di protezione dei diritti fondamentali assicurato dalla Costituzione e dalla Convenzione, senza dimenticare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in una con il normale funzionamento del giudice delle leggi, delle corti europee e dei giudici nazionali, sia idoneo a rassicurare circa la solidità dello Stato di diritto e della democrazia anche nel presente momento. A tutti questi livelli è già possibile, e lo sarà in futuro, quando sperabilmente l’emergenza sarà alle nostre spalle, la verifica giurisdizionale della compatibilità delle misure prese – e quindi della loro effettiva proporzionalità – con questi parametri, che garantiscono la nostra libertà.
Certamente, ed è una preoccupazione già sollevata da molti, la sospensione di fatto dell’attività giurisdizionale per un tempo non trascurabile, con l’eccezione delle questioni urgenti, fa pensare, dato che è proprio la possibilità di contare su di una giurisdizione indipendente che garantisce lo Stato di diritto e la democrazia, come sottolinea la recente serie di sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea pronunciate relativamente al sistema giudiziario polacco. Confido dunque che l’attività giurisdizionale possa riprendere al suo ritmo normale il più presto possibile.
Ritengo che non vi sia un pericolo per la democrazia e che l’analisi giuridica sui provvedimenti di questi mesi potrà più opportunamente svilupparsi con la pacatezza che si accompagnerà al ritorno alla normalità. Per esempio, ho letto un intervento secondo il quale la condizione di noi tutti, cioè di persone confinate a domicilio, sarebbe da inquadrare come una privazione di libertà, che quindi chiamerebbe in causa l’art. 13 della Costituzione e l’art. 5 della Convenzione europea, piuttosto che l’art. 16 della Convenzione e l’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea, relativi alla libertà di circolazione. Se così fosse la violazione di nostri fondamentali diritti sarebbe flagrante, ma probabilmente non è così. In ogni caso possiamo fare affidamento su giudici credibili, a tutti i livelli che ho evocato, per le opportune verifiche.
A proposito della necessità di considerare i presenti avvenimenti con pacatezza, ho molto apprezzato un recente intervento di Tiziano Scarpa, Una rispettosa risposta a Giorgio Agamben, che invita noi tutti, replicando alle preoccupazioni espresse dall’illustre filosofo, a non precipitarci a considerare l’attuale situazione come il fallimento del sistema democratico ed il trionfo della barbarie.
Per rispondere alla domanda precisa, il ruolo del giudice nazionale, cioè del giudice interno, è fondamentale; dico un’ovvietà, essendo quest’ultimo il vero perno del sistema, anche nell’ottica della Convenzione europea, che è basata sul principio di sussidiarietà, che fa sì che nella complessiva considerazione del meccanismo europeo di protezione dei diritti umani primario sia il ruolo dei giudici domestici, dai quali in definitiva dipende la concreta realizzazione dei diritti, e secondario quello del giudice europeo.
Si è detto che i nostri padri costituenti non avevano preconizzato una situazione simile a quella che in questi mesi sta attanagliando il mondo. Si può traslare, secondo te, questo giudizio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sottoscritta nel 1950 a Roma?
Le due Carte sono quasi coeve. Come ho appena ricordato, i padri della Convenzione avevano pensato ad introdurvi un meccanismo derogatorio – l’articolo 15 – che permettesse agli Stati che si venissero a trovare in situazioni di guerra o di altro grave pericolo pubblico, di limitare le garanzie convenzionali. Quindi, in questo senso, avevano previsto la possibilità che la guerra o altre situazioni eccezionali potessero indurre gli Stati contraenti a ritenersi non più in grado, per un certo tempo, di assicurare l’intero livello di protezione previsto dalla Convenzione. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani credo che sia una previsione felice, perché permette agli Stati che si trovino ad affrontare situazioni estreme di non denunciare la Convenzione, ma di limitarne l’applicazione, entro confini precisi e sotto il controllo della Corte europea.
Detto questo, personalmente ritengo che il nostro Paese abbia fatto bene a non attivare la procedura dell’art. 15, così sottoponendosi al pieno controllo della Corte sull’applicazione di tutte le misure prese e su quelle a venire. Non c’è dubbio che delle criticità potranno emergere, per esempio, nel caso in cui le violazioni alle limitazioni degli spostamenti dovessero essere autonomamente qualificate come “penali” dalla Corte in applicazione dei c.d. criteri “Engel”, ci si potrà chiedere se la descrizione della fattispecie “incriminatrice” sia sufficientemente chiara e precisa così da rispondere alle esigenze dell’art. 7 della Convenzione (legalità dei delitti e delle pene), ma credo che questo faccia parte della “fisiologia” del sistema.
La tenuta delle garanzie democratiche durante la pandemia. Abbiamo tutti vissuto in prima persona misure particolarmente restrittive, di decisioni giudiziarie che hanno confermato, in via cautelare, tali misure addirittura derogando, in una vicenda decisa da una Corte britannica, in maniera esplicita all’art.15 CEDU. Ma in che misura l’art.15 giustifica uno “stato di eccezione”?
Come dicevo, l’applicazione dell’art. 15 avviene sotto lo stretto controllo della Corte. Perché il meccanismo dell’art. 15 sia attivato occorre una decisione del Paese interessato, decisione che deve precisare i limiti delle deroghe che si intendono adottare e che va notificata al Consiglio d’Europa. Evidentemente spetta in primo luogo allo Stato interessato valutare la sussistenza, al di fuori dell’ipotesi bellica, di “una pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”, ma la Corte non si disinteressa della questione e, sebbene naturalmente rispettosa del “margine di apprezzamento” che indubbiamente spetta allo Stato specie in una materia così delicata, non mancherebbe di intervenire se si trovasse di fronte ad una valutazione arbitraria dello stesso Stato, con la conseguenza della piena applicabilità, quindi senza deroghe, delle garanzie convenzionali. Si deve dunque trattare di un pericolo reale. Non va poi dimenticato che ci sono alcuni diritti fondamentalissimi – il c.d. “nucleo duro” della Convenzione – che sono esclusi dal meccanismo derogatorio di cui all’art. 15. Si tratta, per esempio, del diritto alla vita (art. 2) e del diritto a non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti.
2.Il processo davanti alla Corte edu.
Il processo da remoto come effetto della crisi da Covid-19. Anche la Corte edu si è attrezzata a gestire la pandemia. In che modo?
Si, la Corte di Strasburgo si è attrezzata per lavorare “da remoto”, e lo ha fatto in piena trasparenza, pubblicando un comunicato stampa che contiene in dettaglio la descrizione di queste particolari modalità di lavoro. Il comunicato stampa è visibile sul sito della Corte al seguente indirizzo web: https://hudoc.echr.coe.int/eng-press#{%22itemid%22:[%22003-6677746-8882977%22]}.
Le funzioni della Corte sono assicurate nella misura del possibile. La Corte esamina regolarmente le richieste di applicazione di misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento.
Il processo è stato fin qui considerato come collegato, in termini spaziali, all’aula del Tribunale o della Corte. La modifica di questo assetto e la smaterializzazione del processo, realizzata con l’utilizzazione di un “mezzo” che serve al processo ma governato dal giudice pone questioni rilevanti dal punto di vista della tutela dei diritti di matrice convenzionale delle parti e dei loro difensori? Quali rischi intravedi rispetto alla tutela dei diritti delle persone e dei difensori dall’uso del processo da remoto, in ambito civile e penale?
Forse qui la mia risposta è influenzata dall’anagrafe, ma forse no. Non sono un laudator temporis acti nostalgico del “buon tempo antico”, che poi tanto buono non era. Credo che la giustizia debba servirsi di tutte le tecnologie disponibili per poter funzionare al meglio e che i giudici abbiano il dovere di tenersi al passo delle innovazioni portate dal progresso della scienza e della tecnica. Detto questo, credo che le esigenze del giusto processo siano assicurate in pieno quando vi è interazione reale, e non solo virtuale, dei suoi protagonisti. Riconosco che vi sono situazioni, come quella nella quale ci troviamo, nella quale l’alternativa all’uso delle tecnologie che permettono le riunioni “da remoto” sarebbe la paralisi della giustizia, e quindi credo che ora questa modalità di lavoro sia giustificata da un corretto bilanciamento dei diversi interessi in gioco. Ma permettimi di considerarla un male necessario.
Non si può escludere che taluni, parti o difensori, riterranno incisi i loro diritti convenzionali da queste modalità di funzionamento del processo, tanto da investire la Corte di Strasburgo delle relative questioni. Non mi azzardo a prevedere quale potrebbe essere la risposta della Corte europea, ma sono sicuro che sarà una risposta di buon senso.
Veniamo al processo innanzi alla Corte edu. Può considerarsi realmente giusto, dopo l’introduzione di filtri in entrata particolarmente rigorosi ed improntati ad un formalismo che a volte è sembrato inconciliabile con la prospettiva di effettività e di living instrument che irradia, a dire della stessa Corte edu, l’intera Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
Sì, il numero eccessivo di ricorsi ha spinto la Corte ad assumere un atteggiamento “difensivo” nei confronti della massa enorme di ricorrenti che premono alle sue porte. Quando si affronta questo argomento bisogna però tener ben presente la distinzione tra il livello amministrativo e quello giurisdizionale delle attività di filtro.
Dal punto di vista amministrativo, con la riforma dell’art. 47 del Regolamento, è stata effettivamente imposta ai ricorrenti l’esigenza di un elevato rigore formale nella redazione del formulario di ricorso. In particolare, chi intende proporre un ricorso è tenuto a contenere in spazi predeterminati e relativamente esigui la descrizione della fattispecie litigiosa, l’indicazione delle norme che si assumono violate e delle relative ragioni. Vero è che è possibile allegare un’appendice con un testo più lungo e dettagliato, ma il ricorso deve essere “autosufficiente”, cioè deve permettere ad un primo esame, da parte della Cancelleria, ed eventualmente poi, al livello giurisdizionale, del giudice unico, di stabilire, senza la necessità di leggere l’appendice, se esso sia palesemente inammissibile, per difetto di una delle condizioni di ammissibilità, compresa la manifesta infondatezza. Credo che questo rigore formale sia un sacrificio imposto ai ricorrenti giustificato dalla situazione in cui versa la Corte. Non va dimenticato, poi, che il rigetto” amministrativo” del ricorso non è senza rimedio, purché non sia decorso il termine convenzionale di sei mesi dalla decisione interna definitiva, perché il ricorrente potrà inviare un nuovo ricorso rispettoso delle prescrizioni formali richieste.
Sul versante “giurisdizionale” del filtro, cioè con riguardo al giudice unico, si era criticata l’assenza di motivazione delle decisioni di questa “parcellare” formazione di giudizio della Corte. A questo si è cercato di porre rimedio, per cui ora le decisioni del giudice unico contengono una sia pur scheletrica motivazione che permette al ricorrente – e al suo difensore – di comprendere le ragioni del rigetto.
Si tratta di misure che la Corte è stata costretta a prendere proprio per preservare – nei limiti del possibile – la propria capacità di dare risposte adeguate ai ricorsi meritevoli.
Un focus sui rapporti fra giudici e strutture interne della Corte edu? Ma chi scrive le sentenze della Corte? Qual è il processo decisionale che porta alla discussione del caso, prima, ed alla sua decisione, poi?
A differenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea, all’interno delle quali vi è un sistema di assistenti di studio, o di referendari, cioè di giuristi che assistono il giudice e sono scelti da lui o da lei, la Corte europea funziona con giuristi che sono inquadrati nella Cancelleria, sono organizzati in Divisioni strutturate su base “nazionale” (Divisione “italiana”, Divisione “francese” e così via) e non dipendono direttamente dai giudici, con i quali, però, essi sono evidentemente chiamati a collaborare strettamente.
I progetti di decisioni e di sentenze sono predisposti dai giuristi su istruzioni del giudice relatore. Normalmente il prodotto “quasi -finale” del relatore, cioè il progetto di decisione o di sentenza da presentare alla Camera, nell’ambito di una riunione di Sezione, è il frutto di diversi interventi sul testo effettuati in riunioni dirette o a distanza in via elettronica nel dialogo tra relatore e giurista. A livello di Grande Camera lo schema è lo stesso, ma la procedura è più complessa. Quanto nel progetto ci sia del relatore e quanto del giurista dipende ovviamente dalla personalità dell’uno e dell’altro. Non credo, sulla base della mia esperienza, che ci sia il rischio di prevaricazioni del giurista sul giudice, il quale ha il dovere di presentare alla formazione giudicante la soluzione che scienza e coscienza gli comandano di prediligere, se necessario imponendosi sul giurista, nel caso questi abbia una diversa opinione, sempre ovviamente in modo rispettoso. Il rispetto dei ruoli, che rimangono distinti, deve ovviamente funzionare nei due sensi.
A livello di Camera il progetto viene fatto circolare tra tutti i componenti della Sezione, compresi quelli che non sono chiamati in prima battuta a comporre il collegio giudicante, e che sono supplenti, almeno quindici giorni prima della data fissata per la camera di consiglio (le udienze pubbliche sono rarissime a livello di Camera). Tutti i giudici possono, prima della riunione, rivolgere domande al relatore e avanzare proposte, normalmente per via elettronica). In camera di consiglio il Presidente dà innanzitutto la parola al relatore, e poi al giudice “nazionale”, se diverso, quindi tutti i giudici che lo desiderano prendono la parola e la Camera delibera. Una volta presa la decisione, il testo del provvedimento viene letto e approvato collegialmente. Nel caso vengano richieste modifiche importanti, l’esame del caso può essere rinviato ad una riunione successiva. Per modifiche meno importanti si lascia al relatore la possibilità di proporre testi in via elettronica che vengono approvati senza la necessità di una riconvocazione formale (c.d. procedura di pigeon hole). In caso di sentenza, il Presidente raccoglie le intenzioni dei giudici che desiderano redigere un’opinione separata – concordante o dissenziente – e fissa il termine per il suo deposito. Al termine della deliberazione, la Camera può segnalare l’opportunità che la sentenza, o decisione, faccia l’oggetto, in ragione della sua importanza, di un comunicato stampa separato, ma la decisione su questo spetta al Presidente della Corte.
Quanto dura un processo innanzi alla Corte edu? Esistono delle regole, conoscibili dall’esterno, che fissano una durata massima dei processi? Esistono delle corsie preferenziali per alcune tipologie di ricorsi?
Questo è un punto dolente. I procedimenti della Corte, nonostante le misure prese, misure delle quali abbiamo parlato, per permettere alla Corte di eliminare rapidamente i ricorsi non meritevoli, sono troppo lunghi. Questa è una realtà che non bisogna nascondere. Non ci sono regole fisse sulla durata massima dei procedimenti. Nel giugno 2009 la Corte ha emendato il suo Regolamento introducendo una politica di esame dei ricorsi secondo criteri di priorità e non più secondo lo stretto ordine cronologico (art. 41). I criteri, che definiscono sette categorie di ricorsi, sono pubblici e sono consultabili al seguente indirizzo: https://www.echr.coe.int/Documents/Priority_policy_ENG.pdf.
Cosa puoi dirci sulla tutela cautelare convenzionale offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo- Quando ci si può rivolgere alla Corte in va urgente e quante chance di successo ha questa “strada”? Un processo, quello davanti alla Corte edu, di parti. Ma chi sono per la Corte edu i “terzi” che possono intervenire in quel giudizio e qual è la ratio di questo intervento?
Alla prima domanda rispondo in modo convintamente affermativo. La tutela cautelare è effettiva, anche se non può definirsi propriamente “convenzionale”, nel senso che le misure cautelari non sono previste dalla Convenzione. Questa situazione, per l’appunto, è stata per lungo tempo un fattore di debolezza di questa indispensabile forma di tutela. Fino alla sentenza della Grande Camera nel caso Mamatkulov e Askarov c. Turchia, del 2005, si riteneva che la mancata osservanza da parte di uno Stato convenuto di una misura provvisoria ordinata dalla Corte non integrasse, in sé, un’autonoma violazione, ma potesse al più considerarsi una circostanza aggravante in caso di “condanna” dello stesso Stato. Dal 2005 si ritiene invece che un tale comportamento integri una violazione, indipendente da quella denunciata con il ricorso, della norma che prevede il ricorso individuale, cioè l’art. 34 della Convenzione.
Indipendentemente dalla giuridica obbligatorietà della misura, è evidente che la collaborazione dello Stato nell’esecuzione delle misure provvisorie ha una fondamentale importanza per l’effettività di questo rimedio. Da questo punto di vista credo di poter dire, a conferma della mia opinione suquesto istituto, che i casi di mancata osservanza delle misure provvisorie, anche se purtroppo esistono, sono rarissimi.
La seconda domanda solleva questioni importanti. Le parti processuali davanti alla Corte europea sono solamente il ricorrente, o i ricorrenti, e lo Stato, o gli Stati, convenuti. È nei confronti di questi soggetti che l’art. 46 della Convenzione stabilisce il carattere obbligatorio delle sentenze della Corte. L’articolo 36 della Convenzione stabilisce da una parte il diritto di prendere parte alla procedura – orale e scritta – dello Stato di cui il ricorrente abbia la cittadinanza e, dall’altra, il potere del Presidente della Corte di invitare, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, un diverso Stato contraente che non sia quindi già parte della procedura o “ogni persona interessata diversa dal ricorrente” a sottoporre commenti scritti o a partecipare alle udienze.
Per questa seconda ipotesi, che è quella che riguarda i c.d. amici curiae, va detto che, anche se il Presidente della Corte è molto attento a non appesantire la procedura, l’alternativa apparente tra la partecipazione con commenti scritti e quella all’udienza, è stata superata, nel senso che in casi particolarmente importanti, soprattutto quando ad intervenire sono Stati contraenti, è stata consentita una partecipazione nella doppia forma; ad esempio, ciò è avvenuto davanti alla Grande Camera nel caso Lautsi c. Italia, relativo all’esposizione del crocefisso nelle scuole pubbliche del nostro Paese.
Nella maggior parte dei casi sono le ONG attive nella difesa dei diritti umani che richiedono di partecipare alle procedure della Corte.
C’è però una dimensione diversa, particolarmente importante, e che può avere dei riflessi nell’ordinamento interno dei Paesi interessati, con riferimento ad una futura possibilità di riapertura dei procedimenti giurisdizionali nazionali in seguito ad un’eventuale “condanna” della Corte, e che è quella della partecipazione alla procedura giurisdizionale europea delle parti del giudizio interno diverse dal ricorrente, cioè di persone che possono essere controinteressate rispetto a quest’ultimo. La prassi della Corte è nettamente orientata ad accogliere le richieste di partecipazione di tali parti. Un esempio è quello del caso Perna, un giornalista che era stato condannato per diffamazione su querela di un magistrato, Giancarlo Caselli. Una volta avviata la procedura europea, Caselli è stato ammesso a partecipare come “terzo interveniente”, ed è intervenuto anche all’udienza della Grande Camera, assistito dal suo difensore. Ovviamente in entrambe le situazioni si parla di “terzi intervenienti”, ma c’è una notevole differenza, giacché è difficile considerare le parti della procedura nazionale come veri “terzi” rispetto alla procedura europea.
L’effettività della tutela dei diritti di matrice convenzionale. Un canone che sta irradiando l’intero ordinamento interno. Come la descriveresti in poche parole?
Userei le parole della Corte, purtroppo impiegate per la prima volta in un caso italiano, Artico, una sentenza del 1980, in un caso in cui ad un imputato era stato assegnato un avvocato d’ufficio che aveva scandalosamente trascurato i suoi doveri difensivi. Al Governo italiano, che si era difeso facendo valere che con la nomina di un difensore le autorità avevano assolto il loro obbligo convenzionale di assicurare una difesa tecnica a chi era accusato di un reato, la Corte rispose che la Convenzione tutela diritti “concreti ed effettivi” e non “teorici ed illusori”. Queste parole tornano spesso nella giurisprudenza della Corte, a dimostrazione che quella dell’effettività dei diritti garantiti dalla Convenzione è una preoccupazione costante dei giudici di Strasburgo.
La teoria del consenso ed il margine di apprezzamento. Croce e delizia della giurisprudenza della Corte. E la certezza del diritto?
La certezza del diritto, o sécurité juridique, per usare l’espressione impiegata dalla Corte, è certamente un valore convenzionale di grandissima importanza, tale da oltrepassare l’ambito dell’art. 6 della Convenzione, e quindi del giusto processo, al quale inerisce, e porsi come idea fondante dello Stato di diritto, e quindi di una delle stesse premesse dell’intero sistema europeo di tutela dei diritti umani. La Corte insiste su questa idea, che per esempio à alla base della censura di situazioni nelle quali è dato assistere ad incertezze ed instabilità eccessive nella giurisprudenza delle Corti supreme, che così vengono meno al loro ruolo di guida delle giurisdizioni di un Paese, attentando, per l’appunto al valore della certezza del diritto.
Detto questo, non credo che la dottrina del margine di apprezzamento, con il suo corollario del consensus europeo, meriti critiche particolari. In fondo questa dottrina è rispettosa del valore della stabilità e della prevedibilità della stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La giurisprudenza può – e deve, almeno in certi casi – conoscere un’evoluzione. La prudenza della Corte nel decidere un cambiamento giurisprudenziale, e l’ancoraggio di quest’ultimo, per l’appunto, al consensus europeo, cioè alla constatazione di un’evoluzione sufficientemente diffusa nei sistemi giuridici interni dei Paesi contraenti, mi sembrano cautele poste esattamente a presidio del valore della certezza del diritto.
3. I diritti di matrice convenzionale
Il bisogno di Stato sociale che sembra emergere, in modo imponente, dopo la pandemia, quanta protezione potrà avere riconosciuta dalla CEDU e dal suo giudice ed in che termini?
Quello dei diritti sociali è un grande tema. I limiti che indubbiamente derivano dal testo convenzionale, che senza dubbio è dedicato a diritti c.d. “di prima generazione”, cioè di carattere civile e politico e non a diritti economici e sociali, per i quali esiste un separato strumento del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea del 1961, rivista nel 1996, non hanno impedito alla giurisprudenza della Corte di tutelare le c.d. “propaggini sociali” dei diritti civili e politici.
Con la sentenza nel caso Airey c. Irlanda, del 1979, che riguardava il caso di una signora che, dovendo iniziare una procedura giurisdizionale e non avendo i mezzi per pagare un avvocato, si doleva del mancato rispetto del suo diritto di adire il giudice, di cui all’art. 6 della Convenzione europea, la giurisprudenza della Corte europea ha fatto un passo in avanti. Al Governo irlandese, che si era difeso facendo valere la natura per l’appunto sociale e non civile o politica del diritto invocato dalla ricorrente, la Corte ha risposto che non vi sono “compartimenti stagni” tra le due categorie di diritti, per cui se misure di carattere sociale sono necessarie per l’effettivo esercizio di uno dei diritti previsti dalla Convenzione, lo Stato contraente è tenuto ad adottarle.
Inoltre, sempre in tema di diritti sociali, la Corte ha valorizzato l’art. 14 della Convenzione, sul divieto di discriminazione, e lo stesso art. 1 del Protocollo addizionale, cioè la norma che protegge la proprietà.
Sotto il primo profilo, la giurisprudenza ha attribuito all’art. 14 – che in sé non ha una valenza indipendente, perché stabilisce un principio di non discriminazione non in assoluto, ma con riferimento ai diritti protetti dalla Convenzione – un suo autonomo valore affermando che se uno Stato contraente adotta delle misure sociali alle quali non sarebbe tenuto a termini della Convenzione, se tali misure rientrano in senso lato “nell’ambito di applicazione” (sous l’empire) di una delle disposizioni sostanziali della Convenzione, allora quello Stato è tenuto, in base all’art. 14, a dispensare la misura in modo non discriminatorio. Per esempio, nel caso Dhahbi c. Italia del 2014, la Corte ha trovato una violazione dell’art. 14 perché lo Stato italiano, dopo aver istituito una provvidenza – un assegno – per il nucleo familiare ('articolo 65 della legge n. 448 del 1998), aveva escluso dai beneficiari della misura i non cittadini (il ricorrente era tunisino, anche se successivamente aveva acquisito la cittadinanza italiana), e la Corte ha ritenuto discriminatoria, perché non adeguatamente giustificata, questa disparità di trattamento.
Sotto il secondo profilo, quello della tutela della proprietà, la Corte ha chiarito, con la sentenza Stec c. Regno Unito del 2006, che le prestazioni sociali assicurate dallo Stato, indipendentemente se esse siano di natura previdenziale (cioè collegate ad una contribuzione dei beneficiari) ovvero puramente assistenziali (cioè gravanti interamente sul pubblico erario), godono della protezione di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale, per cui esse non possono essere incise dallo Stato se non entro i limiti fissati da questa norma (occorre una base legale, uno scopo legittimo e una relazione di proporzionalità tra la misura presa, cioè la riduzione o la soppressione del beneficio e lo scopo perseguito).
Naturalmente questa apertura della giurisprudenza della Corte verso i diritti sociali non deve creare aspettative eccessive. La Convenzione resta uno strumento dedicato ai diritti “di prima generazione”, per cui gli interventi della Corte in questo settore, certamente di importanza vitale specialmente in vista delle gravissime difficoltà economiche che ci aspettano all’esito dell’attuale emergenza sanitaria, non potranno certamente avere un impatto decisivo. Ma, con i suoi limiti, la tutela sarà certamente effettiva.
La proprietà come diritto fondamentale. Una prospettiva che a molti giuristi interni non piace e che anzi si porrebbe in posizione inconciliabile con la prospettiva costituzionale espressa dall’art.42 Cost. Eppure il numero dei ricorsi che ruotano attorno al diritto al rispetto dei beni è particolarmente elevato. Qual è la tua opinione? Ho appena parlato del ruolo della norma, l’art. 1 del Protocollo addizionale, che protegge la proprietà, il “terribile diritto”, per usare l’espressione di Stefano Rodotà, a tutela dei diritti sociali, il che fornisce già una prima risposta a coloro che rimproverano alla Convenzione di essere il frutto di una concezione neoliberista del diritto. Ricordo un bel volume del 2015 di Cesare Salvi, Capitalismo e diritto civile, nel quale questa tesi viene sostenuta. Salvi muove dalla tutela, ritenuta, eccessiva, che la giurisprudenza della Corte europea accorda ai proprietari espropriati, ai quali si riconosce, in linea di principio, la commisurazione dell’indennizzo al valore venale del bene espropriato, osservando che, per l’appunto, ciò sarebbe in contraddizione con l’impostazione della nostra Costituzione che, garantendo con il suo art. 42 la “funzione sociale” della proprietà, imporrebbe necessariamente un indennizzo inferiore al valore venale del bene espropriato affinché la differenza sia destinata al soddisfacimento dei diritti sociali dei bisognosi.
È vero che, a differenza dell’art. 42 della Costituzione, il Protocollo addizionale non parla di “funzione sociale” della proprietà, ma non credo che vi sia una vera contraddizione, giacché sia nel controllo dell’uso della proprietà sia nell’esproprio assume grande rilievo nella norma europea l’”interesse generale”, nel quale può rientrare anche la funzione sociale della proprietà. Nella stessa sentenza Scordino c. Italia (n. 1) del 2006, che lo stesso Cesare Salvi, in un altro scritto, aveva assunto a paradigma della attitudine “neoliberista” della Corte, non esclude affatto che in determinate circostanze l’indennizzo espropriativo possa essere determinato in misura inferiore al valore venale del bene espropriato, per esempio allorché l’esproprio si collochi in un contesto di riforma economica, sociale o politica ovvero, con formula apertissima, sia collegato a “circostanze particolari” (v. § 102 della sentenza). In definitiva credo che il Protocollo addizionale permetta agli Stati il perseguimento di politiche economiche e sociali rispettose del principio della funzione sociale della proprietà.
Legalità formale e legalità sostanziale: un dissidio insoluto o apparente?
Domanda per la quale la risposta dovrebbe essere sviluppata in alcuni volumi. Mi limito a dire che il principio di legalità, assolutamente fondamentale nella Convenzione europea, viene certamente inteso in senso sostanziale dalla giurisprudenza della Corte. Per esempio, tutte le volte in cui la possibilità per lo Stato di limitare un diritto è ancorata ad una base legislativa, in pratica sempre, la Corte non si accontenta dell’esistenza di una legge in senso formale, ma pretende che la legislazione invocata dallo Stato risponda a certe caratteristiche di qualità, sia cioè facilmente accessibile ai consociati, e in particolare ai destinatari del suo comando, e sia sufficientemente precisa e dettagliata in modo da assicurare agli interessati la garanzia della prevedibilità degli effetti della loro condotta. In mancanza di tali caratteristiche, la Corte considera che manca la base legislativa, il che è sufficiente ad integrare la violazione della Convenzione indipendentemente dalla verifica della legittimità del fine e della proporzionalità della misura limitativa.
I minori, coppie separate, le relazioni familiari ed i Covid-19 messi a dura prova le relazioni familiari ed i diritti in gioco. E la CEDU che dice sul punto?
La giurisprudenza della Corte in materia di tutela dei minori e di rapporti di famiglia è molto ricca ed articolata. Non potrei certamente tratteggiarne efficacemente gli aspetti caratteristici in una semplice risposta. Mi limito a ricordare che, in sintonia con la Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo, la stella polare della Corte, quando si tratta di bambini, è l’interesse superiore del minore. Vorrei anche ricordare la preoccupazione della Corte per la tutela del legame di sangue, tutela che deve senz’altro cedere di fronte all’interesse del minore in presenza di comportamenti non congrui dei genitori biologici, ma che deve essere mantenuta, magari con l’impegno di adeguate risorse da parte delle pubbliche autorità, quando la difficoltà per i genitori biologici di assicurare ai bambini un ambiente adeguato dipenda non da loro colpa, ma da situazioni che sfuggono al loro controllo.
Sempre sul tema della famiglia, ed avendo presenti i rischi aggravati che l’attuale situazione di limitazione degli spostamenti comporta per le vittime, specialmente le donne, evidentemente, di violenza domestica, vorrei ricordare la speciale attenzione che la giurisprudenza della Corte riserva a questa piaga sociale, rispetto alla quale precisi obblighi, anche di natura positiva, vengono affermati a carico degli Stati contraenti.
Al largo delle coste italiane bagnate dal Mediterraneo stazionano ancora migranti, spesso bloccati su navi delle ONG. Si è letto, in questi giorni, di provvedimenti amministrativi che hanno imposto la quarantena ai soggetti provenienti da territori extra UE per il sospetto di essere portatori di contagio da Covid-19.Misura adeguate, secondo te, a rispettare i diritti delle persone in gioco rapportati agli interessi degli italiani?
Non porrei la questione in termini di contrapposizione degli interessi dei migranti rispetto a quelli “degli italiani”, in una prospettiva che opponga “noi” a “loro”. Non c’è un “loro” e un “noi” nella filosofia della Convenzione, che protegge le persone semplicemente in base alla loro appartenenza alla famiglia umana. In questa prospettiva il carattere regionale del sistema europeo di tutela dei diritti umani non deve far perdere di vista la sua impostazione universalistica, che discende dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, rispetto alla quale la filiazione della Convenzione è con forza affermata nel Preambolo di quest’ultima. Si dice, secondo me con piena ragione, che i sistemi regionali di protezione dei diritti umani sono “vettori locali di un messaggio globale” (local carriers of a global message).
Detto questo, la giurisprudenza della Corte ha sempre riconosciuto il diritto sovrano degli Stati di controllare i loro confini e quindi di regolare i flussi migratori. In ogni caso deve essere rispettata la dignità umana e, come per chiunque altro, le eventuali limitazioni o anche privazioni di libertà alle quali migranti irregolari possano essere sottoposti devono essere poste in essere nel rispetto di tutte le condizioni previste dalla Convenzione, compreso, nei casi appropriati, un adeguato controllo giurisdizionale.
Detenuti al 41 bis ord.pen., condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo in carcere per effetto del coronavirus. Abbiamo letto di recenti provvedimenti dei tribunali di sorveglianza che hanno concesso gli arresti domiciliari a boss mafiosi. Ancora una volta diritti fondamentali e valori che attengono alla sicurezza nazionale in gioco, chiamati ad essere bilanciati? Che fare?
La questione è di grandissima importanza non solo dal punto di vista del diritto, ma anche, ovviamente, da quello sociale e politico.
Credo che la Corte si sia recentemente pronunciata su di una richiesta di misura provvisoria, ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento, volta ad ottenere l’indicazione allo Stato italiano di misure urgenti per fronteggiare l’emergenza alla quale ti riferisci, cioè l’altissimo rischio che l’attuale pandemia presenta in una situazione di sovraffollamento carcerario, non ritenendo che sussistessero le condizioni per la concessione della misura. Questo non esclude, naturalmente, l’esame nel merito del ricorso, a tempo debito. Vedremo cosa ci dirà la Corte. Personalmente credo che trattenere in detenzione persone per le quali le autorità non sono in grado di assicurare una ragionevole protezione dal rischio di contagio certamente sollevi degli interrogativi quanto alla compatibilità con la Convenzione di una tale situazione.
Morti su morti per effetto del covid-19. L’Italia devastata. Le generazioni più anziane le più colpite e le più vulnerabili rispetto a strutture sanitarie che, nel nord del Paese, non hanno spesso potuto offrire loro un’assistenza adeguata e sono state chiamate a “scelte tragiche”, spesso preferendo altri soggetti con maggiori chance di sopravvivenza. Si prospetta un contenzioso poderoso a livello interno ma, allo stesso tempo, provvedimenti legislativi volti a limitare la responsabilità dei sanitari. Come si pone la CEDU rispetto a questo fascio di problemi?
Come si sa, dagli articoli 2,3 e 8 della Convenzione, che tutelano rispettivamente il diritto alla vita,all’integrità fisica e psichica delle persone e quello alla vita privata e familiare, discendono per gli Stati obblighi positivi di indagine e di repressione delle condotte dolose, o anche colpose, che possano aver provocato lesioni di quei beni fondamentalissimi. Per quanto riguarda in generale la responsabilità per colpa, ed in particolare quella medica, a partire dalla sentenza Calvelli e Ciglio c. Italia la giurisprudenza non richiede che la risposta dello Stato sia necessariamente di carattere penale, se gli strumenti posti a disposizione sul piano civile o amministrativo sono sufficienti allo scopo. Non c’è dubbio che l’eventuale concessione di uno “scudo” ai sanitari possa sollevare degli interrogativi con riferimento a tali obblighi, ma non è certamente possibile azzardare una previsione su quali potrebbero essere le risposte della Corte a tali questioni.
Extraordinary renditions, torture e diritto alla verità
La posizione della Corte edu sul tema della tortura è stata, nel corso degli anni, di grande importanza anche per il nostro Paese. La vicenda delle "extraordinary renditions" che ha coinvolto ha chiamato la Corte dove tu hai lavorato a scrutinare vicende che hanno riguardato i rapporti fra Stati, i limiti del segreto di stato e la funzione stessa degli organi giudiziari interni. Cosa si prova a dovere mettere in discussione le pronunzie della Corte costituzionale in nome della protezione dei diritti di matrice convenzionale
Si, certamente, e questo è un capitolo particolarmente doloroso per il nostro Paese, che vorremmo veramente vedere pienamente affrancato dalla piaga della tortura, mentre purtroppo diverse sentenze della Corte hanno dovuto constatare nei confronti dell’Italia la violazione dell’art. 3 della Convenzione nella sua forma più grave, per l’appunto quella della tortura.
Penso in particolare alla sentenza Cestaro del 2015, relativa ai fatti di violenza poliziesca svoltisi nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Dopo la sentenza, nell’ambito delle attività culturali organizzate dalla Cancelleria all’interno della Corte, è stato proiettato il film di Daniele Vicari “Diaz - Don't Clean Up This Blood”, del 2012, che racconta la vicenda in maniera particolarmente cruda anche se, purtroppo, temo, non esagerata rispetto alla realtà. Ho ritenuto mio dovere non declinare l’invito ad assistere alla proiezione che mi era stato rivolto dal personale, anche se, come puoi immaginare, non è stato facile. Devo dire che, nonostante la tristezza e la difficoltà del momento, e senza voler commentare la sentenza, cosa che non ho fatto neanche in quell’occasione, la proiezione del film mi ha fatto riflettere una volta di più sul grande valore che il sistema europeo di tutela dei diritti umani possiede anche per democrazie mature ed avanzate come la nostra, anche nell’ambito delle quali, disgraziatamente, delle derive sono sempre possibili.
Non bisogna poi dimenticare che la sentenza Cestaro ha portato all’approvazione da parte del nostro Parlamento della legge sulla tortura, che ha colmato una lacuna del nostro ordinamento che veniva denunziata da moltissimo tempo. So che da vari circoli la legge viene criticata come insufficiente, ma in ogni caso si tratta di uno sviluppo positivo, al quale non è certo che si sarebbe giunti senza questa decisione della Corte europea.
Sulle “extraordinary renditions” c’è stata una serie di sentenze della Corte di Strasburgo, a partire da quella della Grande Camera nel caso El Masri c. FYROM del 2012, sentenze delle quali si è molto parlato, anche se le conclusioni della Corte - che ha in genere constatato la violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, appunto la tortura cui le vittime venivano esposte nei Paesi di destinazione, e processuale, come nel caso italiano a proposito dell’impossibilità di procedere alla punizione dei responsabili a causa delle norme sul segreto di Stato, dell’art. 5 sulla tutela della libertà personale, dell’art. 8 sulla tutela della vita privata e familiare e dell’art. 13 della Convenzione sul diritto ad un ricorso effettivo – non possono aver sorpreso nessuno, tanto essere erano per la verità scontate. Tutte sono state adottate all’unanimità.
L’ultima parte della tua domanda richiederebbe da parte mia un commento specifico alla sentenza che riguarda il caso italiano del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar, cioè Nasr e Ghali c. Italia, commento dal quale ti chiederei di esonerarmi, avendo io partecipato a quest’ultima decisione. Mi limito a ricordare che anche questa sentenza è stata adottata all’unanimità, mentre quella della Corte costituzionale alla quale ti riferisci riflette una dicotomia tra il giudice relatore e quello redattore della sentenza, segno della difficoltà della decisione e della compresenza di opinioni diverse.
La tua domanda ha però una portata più ampia, che involge il rapporto tra la Corte di Strasburgo e le alte corti nazionali. Come ho già detto si tratta di un rapporto essenziale per il futuro del sistema. In questo quadro non solo il rispetto delle reciproche posizioni deve essere massimo, ma occorre disponibilità all’ascolto da entrambe le parti. Su questo permettimi di essere ottimista. Difficoltà ce ne saranno sempre, ma esse saranno superabili, se lo spirito di lealtà e di collaborazione, che indubbiamente esiste, ed è stato rafforzato dall’intensificarsi negli ultimi anni di molteplici attività di cooperazione, permarrà in futuro.
Esiste e se sì in che termini, un diritto alla verità nella Convenzione e nella giurisprudenza della Corte edu che consenta di derogare ad altri valori convenzionalmente protetti di fronte a temi di particolare rilevanza.
Il diritto alla verità è un tema che, specialmente negli ultimi tempi, è stato notevolmente dibattuto tra gli specialisti dei diritti umani. Esso è evocato dal preambolo e dell’art. 24 § 2 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate, aperta alla firma a New York il 20 dicembre 2006, e trova riscontro in diverse pronunce di organi giurisdizionali o quasi-giurisdizionali internazionali, come il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite.
La Corte di Strasburgo non ha evocato spesso il concetto di “diritto alla verità”, anche se vi è una sviluppatissima giurisprudenza sulla dimensione procedurale degli articoli 2 e 3 della Convenzione, giurisprudenza che stabilisce il diritto delle vittime di violenze o dei loro familiari ad un’inchiesta effettiva, condotta da autorità indipendenti rispetto a quelle implicate nei fatti e alla quale le vittime abbiano adeguato accesso, inchiesta che conduca all’accertamento dei fatti e alla punizione dei responsabili. La giurisprudenza precisa che si tratta di un’obbligazione di mezzi, non di risultato.
Proprio nel caso El Masri, che ho evocato nella risposta sulle extraordinary renditions, la Corte, che era stata invitata dalle parti intervenienti, specialmente l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ad esprimersi sul “diritto alla verità” al § 191 della sentenza, ha detto di voler esplicitamente trattare un aspetto dell’inadeguatezza dell’inchiesta che aveva fatto seguito ai fatti di quella vicenda, cioè il suo impatto, per l’appunto sul “diritto alla verità” a proposito delle circostanze di causa. A questo proposito, la Corte ha sottolineato “la grande importanza di questo ricorso non solo per il ricorrente e la sua famiglia, ma anche per le altre vittime di crimini simili e per l’opinione pubblica, che hanno il diritto di sapere cosa è successo”. È interessante notare come la Corte non si sia limitata ad affermare un diritto delle vittime della violazione denunciata, ma sia andata oltre, parlando di un diritto ad essere informati delle vittime di crimini simili e del “grand public”. In precedenza, la Corte era stata invitata da un terzo interveniente a farlo nel caso Varnava c. Turchia del 2009, relativo alle sparizioni forzate a Cipro del Nord dopo l’invasione turca del 1974, ma non aveva raccolto l’invito. Lo stesso si è verificato nel caso Janowiec c. Russia, del 2013.
Detto questo, non credo che il richiamo al diritto alla verità, almeno allo stato attuale di sviluppo della giurisprudenza della Corte, possa avere una valenza derogatoria rispetto ad altri valori convenzionalmente protetti, anche se, come ho detto, dalla sentenza El Masri emerge una notevole apertura, del resto coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte, verso questo concetto.
4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie
Come hai vissuto, nella Tua funzione di Presidente della Corte edu il periodo del fallito golpe turco, tra spinte ad interventi radicali della Corte edu evocate insistentemente ed esigenze correlate al rispetto delle garanzie interne?
Certamente un periodo molto difficile, che del resto non è ancora terminato. So bene che l’atteggiamento della Corte, che, sia pure nel rigore delle sue decisioni giurisdizionali, che spesso hanno concluso nel senso della violazione della Convenzione da parte della Turchia a causa delle straordinarie misure repressive adottate dopo il fallito golpe del 2016, ha continuato a “dialogare” con le autorità turche, è stato vivacemente criticato da vari circoli, turchi e non, che hanno accusato la Corte di una sorta di “connivenza” con un potere autoritario.
La storia dirà se la Corte si è comportata bene. Personalmente non posso che auspicare la più ampia libertà di commento e anche di critica alla prassi seguita dai giudici di Strasburgo.
So bene che certi circoli più radicali dell’opposizione al leader al potere in Turchia auspicavano, come dici tu, una presa di posizione più netta da parte della Corte, cioè una constatazione giurisprudenziale del fallimento della democrazia in Turchia. Secondo queste posizioni la Corte avrebbe dovuto affermare solennemente la mancanza di una giustizia indipendente in quel Paese.
Non spetta a me prospettare delle valutazioni politiche. Ma quale sarebbe stata la conseguenza di una tale affermazione? Una volta constatata l’assenza in Turchia di un apparato giurisdizionale indipendente, come avrebbe potuto il Comitato dei Ministri tollerare la presenza nell’organizzazione di uno Stato mancante dei requisiti statutari per la partecipazione al Consiglio d’Europa? La conseguenza sarebbe stata l’uscita della Turchia dal Consiglio d’Europa e dalla Convenzione europea. Sarebbe stato meglio per la popolazione turca?
Non voglio certo dire con questo che sono state considerazioni di questo genere a spingere la Corte verso posizioni che possono essere state ritenute “indulgenti” verso il regime turco, perché sono convinto che i giudici che sono intervenuti hanno sempre agito secondo scienza e coscienza, senza farsi condizionare da considerazioni più o meno politiche. Da osservatore oramai esterno alla Corte, penso però di poter dire che alla fine dei conti trattenere la Turchia nel sistema abbia servito meglio la causa dei diritti umani di quanto avrebbe potuto fare la sua espulsione.
Il rischio di derive autoritarie all'interno dei Paesi europei e il ruolo della Corte edu. Cosa possiamo o dobbiamo attendere dal giudice dei diritti umani?
È un tema estremamente importante e delicato. Non dobbiamo mai dimenticare che la libertà e la democrazia non sono acquisite per sempre, ma occorre quotidianamente operare per preservarle.
Nel mio ultimo discorso inaugurale dell’anno giudiziario della Corte, tenuto nel gennaio dello scorso anno, ho notato un segnale preoccupante, e cioè l’aumento dei casi di violazione dell’art. 18 della Convenzione. L’art. 18 riguarda l’abuso da parte degli Stati delle limitazioni ai diritti previste dalla Convenzione, cioè i casi nei quali certi Stati procedono a incidere su di un diritto individuale, per esempio arrestando una persona sulla base di accuse penali pretestuose, accuse che in realtà celano l’intenzione di colpire un avversario politico. Ebbene, nel discorso notavo che da quando la Convenzione era entrata in vigore la Corte aveva constatato la violazione dell’art. 18 in dodici casi. Ora, ben cinque di questi dodici casi si riferivano a sentenze pronunciate nel solo 2018.
Questi segnali, come anche la pressione sul principio dell’indipendenza della magistratura, cardine dello Stato di diritto – che emerge per esempio dalla serie di sentenze, alle quali mi riferivo prima, emesse recentemente dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti della Polonia – devono indurre alla massima vigilanza.
5. La Corte edu e le Corti nazionali
Il giudicato nazionale contrario alla sentenza della Corte edu in ambito civile e amministrativo: la posizione inaugurata dal Corte cost.n.123/217 costituisce per Te una soluzione appagante?
So che il tema ti sta a cuore, perché ho letto il tuo bel commento alla sentenza n. 123 del 2017. Credo che la Corte costituzionale abbia fatto tutto quello che poteva, indirizzando un monito sia al legislatore sia alla Corte di Strasburgo.
Dopo la coraggiosissima sentenza n. 113 del 2011, che ha introdotto per via di giurisprudenza costituzionale la possibilità di revisione delle sentenze penali in seguito alla constatazione di serie violazioni della Convenzione europea, la Corte costituzionale ha confermato l’esigenza, che era stata indicata dal giudice rimettente, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, di un meccanismo volto a permettere, nelle stesse circostanze, la revisione di sentenze non penali, ma ha affermato allo stesso tempo di non poter provvedere con una sentenza additiva, vista la necessità di tener conto di tutti gli interessi in gioco, in primo luogo quelli delle parti processuali rimaste estranee alla procedura giurisdizionale europea, per cui è necessario un intervento del Parlamento, che è stato esplicitamente invitato a legiferare.
Dal canto suo, penso che la Corte di Strasburgo trovi assolutamente pertinente l’invito della Corte costituzionale a favorire la partecipazione alla procedura europea delle parti della procedura nazionale diverse dal ricorrente, cosa che del resto corrisponde già alla sua prassi.
Proporzionalità e ragionevolezza. La “corsetta” vietata al tempo del Covid-19 ha riacceso un dibattito fra operatori e gente comune anche in ragione dell’invocato principio di precauzione. Espressioni che sembrano evocare alcun dei parametri della CEDU e della Costituzione. Quanto sono uguali e quanto sono, secondo Te, diversi e quanto il giudice comune può ad essi ispirarsi nell’esercizio delle sue funzioni?
Non credo che vi siano sensibili differenze tra le due Carte. Nell’applicazione quotidiana delle norme da parte del giudice “comune”, per usare l’espressione impiegata dalla nostra Corte costituzionale, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla proporzionalità delle misure limitative dei diritti può essere particolarmente utile perché, a differenza di quella della Corte costituzionale, origina da casi concreti.
Il dialogo fra le Corti: una realtà, un bluff o un’opportunità che va sperimentata in concreto? Il Protocollo n.16 sarà mai reso esecutivo in Italia?
Sulla sorte del Protocollo n. 16 in Italia non mi azzardo a fare previsioni. Ho accompagnato il Primo Presidente Mammone, lo scorso gennaio, in occasione della sua audizione da parte della Commissione parlamentare presso la quale pende il DDL di ratifica del Protocollo, e ho avuto modo di prendere la parola esprimendo, come lui stesso, il mio parere assolutamente favorevole alla ratifica. Nello stesso senso si è recentemente espresso, autorevolmente, tra gli altri, il Prof. Ruggeri. So che ci sono opinioni diverse.
Come ho detto in tante altre occasioni, per me il dialogo tra le Corti è tutt’altro che un bluff. Direi anzi che è l’unica speranza per il sistema messo in piedi dalla Convenzione europea nel 1950. Al numero eccessivo di ricorsi ho già accennato.
È teoricamente possibile, ma realisticamente improbabile, che gli Stati contraenti dotino la Corte di risorse tali da risolvere il problema dell’arretrato. Personalmente non credo che questa sia la soluzione. Il fatto è che, specie da alcuni Paesi, tra i quali purtroppo c’è il nostro, arriva alla Corte un numero di ricorsi non manifestamente inammissibili tale da rivelare un funzionamento difettoso dello Stato di diritto e quindi, in altre parole, un livello non soddisfacente di applicazione della Convenzione all’interno del sistema nazionale.
Occorre quindi migliorare tale livello, e l’unica strada – a parte la necessità, in certi casi, di investimenti nel settore della giustizia – è quella della collaborazione delle corti nazionali con la Corte di Strasburgo, e quindi del loro coinvolgimento, anche psicologico, nella missione di applicare la Convenzione, missione per la quale vi è una responsabilità condivisa tra il livello nazionale e quello europeo.
Intendiamoci, dialogo non significa obbedienza cieca dei giudici nazionali ai dicta di Strasburgo. Al contrario, anche la Corte di Strasburgo deve essere all’ascolto dei giudici nazionali e del loro eventuale motivato dissenso, al quale deve essere data adeguata risposta.
Per queste ragioni personalmente ho assegnato al progetto di Rete delle corti superiori europee della Corte di Strasburgo un’alta priorità nel corso del mio mandato di Presidente e sono molto lieto che lo stesso sia stato fatto dal mio successore immediato, il Presidente Sicilianos. Per le stesse ragioni auspico che il Protocollo n. 16, che è già in vigore sul piano internazionale, e che istituzionalizza, per così dire, questa collaborazione, sia ratificato il più largamente possibile, anche dal nostro Paese.
6. La Corte edu e il Giudice Raimondi
Hai cessato da poco le funzioni presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un giudice italiano designato dall’Italia, eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e poi eletto Presidente dai giudici della Corte. Te lo aspettavi?
Certamente no. Naturalmente, a parte la ovvia gratificazione personale, la stima dei miei colleghi, che si è manifestata già con la mia elezione a vice-Presidente della Corte poco più di due anni dopo il mio arrivo a Strasburgo, poi con l’elezione, e anche la rielezione, a Presidente, mi ha fatto particolarmente piacere in quanto segno di considerazione per il nostro Paese e per la qualità del suo “prodotto” giuridico.
Nessuno conosce meglio della Corte di Strasburgo, inondata di ricorsi italiani in tema di eccessiva lunghezza del processo, le difficoltà del nostro sistema giudiziario, da moltissimo tempo afflitto da una grave crisi di efficienza. Allo stesso tempo, però, ho potuto notare l’apprezzamento sincero dei miei colleghi sia per l’alto livello tecnico delle sentenze delle nostre giurisdizioni, specie quelle superiori, sia per la dottrina italiana, considerata battistrada e guida scientifica in tanti settori del diritto.
Quanto ti manca la Corte europea, il modo di lavorare, i rapporti con i tuoi colleghi?
L’esperienza di giudice a Strasburgo è certamente unica. La ricchezza di stimoli, anche culturali, che promana dalla frequentazione di tanti colleghi provenienti non solo da aree geografiche, ma da percorsi professionali diversissimi tra loro, non ha eguali.
Naturalmente, pur trattandosi di un corpo relativamente ristretto, formato da 47 persone, non c’erano frequentazioni intense con tutti i colleghi al di là delle occasioni di lavoro. Rapporti più stretti, come è naturale, si stringevano all’interno delle sezioni. C’era poi ogni lunedì sera una cena tenuta in un ristorante, la “Petite Mairie”, aperta a tutti in linea di principio, ma che di fatto vedeva la partecipazione di soli colleghi francofoni, una minoranza relativamente esigua. Ricordo queste cene, nelle quali si parlava di tutto, dalla letteratura, al teatro, al cinema, all’arte, alla politica, con una certa nostalgia. Poi c’era (e c’è) il “Gruppo di riflessione”, un’iniziativa molto felice. Si tratta di una forma di utilizzazione della “pausa pranzo” (dalle 12 alle 14) mediante una colazione, alla quale sono invitati a partecipare tutti i giudici (e solo i giudici), ciascuno dei quali paga per sé. L’evento si tiene circa una volta al mese e c’è un comitato scientifico che programma gli interventi e seleziona gli argomenti da trattare. Alle 12.30, terminato il pasto, uno dei colleghi tiene una relazione su un tema d’interesse e si apre poi un dibattito totalmente libero. I temi riguardano spesso, ovviamente, questioni delle quali i giudici si occupano quotidianamente, ma non solo. Ricordo che in una delle occasioni nelle quali sono stato invitato a fungere da relatore mi hanno chiesto di parlare della dottrina italiana di diritto internazionale.
7. Riapprodo in Corte di Cassazione
Il Tuo ritorno al giudiziario nazionale. Affinità o diversità di approccio?
Idealmente mi sono sempre sentito parte della Corte di cassazione, che avevo lasciato nel 2003, dopo quasi sei anni, trascorsi in gran parte alla Procura generale e in misura minore alla sezione tributaria, che era stata istituita un paio d’anni dopo il mio arrivo nel 1997.
Questo naturalmente non era sufficiente a farmi sentire assolutamente tranquillo quanto alla mia possibilità di riprendere a Piazza Cavour con un heri dicebamus, dopo un’assenza di 16 anni, periodo durante il quale c’era stato un ricambio quasi completo dei magistrati della Corte e riforme numerose e profonde avevano modificato sensibilmente i metodi di lavoro.
Per questo, come ho detto in uno scritto recente pubblicato su questa rivista in occasione della jubilación di Vincenzo Di Cerbo, Presidente titolare della Sezione lavoro - Tra Roma e Monaco di Baviera, un grande giudice: Vincenzo Di Cerbo - sono particolarmente grato a lui e a tutti i colleghi di questa Sezione, che mi hanno accolto fraternamente e mi hanno fatto subito sentire di nuovo a casa, accordandomi immediatamente credito e fiducia nelle mie capacità di rimettermi al passo. Devo dire che il mio lavoro alla Sezione mi dà grandissime soddisfazioni, professionali e umane, e devo confessare che vedo con un certo timore approssimarsi il traguardo del limite di età…
8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
Il giudice Robert Spano è stato da poco eletto presidente della Corte edu. Cosa puoi dirci avendo lavorato con lui?
Con Robert Spano c’è sempre stato un rapporto speciale. A parte la grandissima stima professionale che ho sempre nutrito per questo giovane e brillantissimo giurista, che a poco più di quarant’anni, quando è arrivato alla Corte, era stato magistrato, professore universitario e Preside della Facoltà di giurisprudenza, nonché Ombudsman del suo Paese, pubblicando scritti di esemplare chiarezza che rivelavano una notevole profondità di pensiero, non bisogna dimenticare la nostra comune origine napoletana, un po’ attenuata per lui, nato e cresciuto a Reykjavík, ma pur sempre di padre vomerese.
Robert è certamente un giudice che crede sinceramente al sistema della Convenzione, anche se, ed è a mio sommesso avviso un gran bene, non è un militante dei diritti umani. Credo quindi che il suo equilibrio e le sue grandi qualità professionali, che lo rendono assolutamente credibile sia presso i Governi sia presso i ricorrenti, accompagneranno con successo la Corte nel tempo del suo mandato di Presidente.
In conclusione, quale ruolo sarà chiamata a svolgere la Corte edu nei prossimi anni, secondo la tua esperienza?
La mia speranza è che si alleggerisca finalmente, grazie ad una migliore cooperazione dei giudici nazionali, il carico di ricorsi che attualmente grava sulla Corte, in modo che ad essa venga consentito di concentrarsi sullo sviluppo e sull’affinamento della sua giurisprudenza, che, in quanto sintesi dei valori fondamentali minimi che devono valere per l’intero continente europeo, continui a rappresentare una guida autorevole per le giurisdizioni dei Paesi contraenti.
La condivisione di tali valori, in una con la garanzia assicurata dal giudice europeo, è la più solida assicurazione del perpetuarsi della democrazia, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti umani. Credo che si tratti di una prospettiva realistica, le chiavi del cui successo, per quanto dicevo prima, si trovano nelle mani delle corti nazionali, specialmente quelle costituzionali e supreme, giacché tutto dipende dalla misura e dalla lealtà della loro collaborazione con la Corte di Strasburgo.
Grazie
Intervista a Maurizio De Lucia, Dino Petralia e Lia Sava
di Andrea Apollonio
Gli aiuti che i governi nazionali e le istituzioni europee e internazionali si apprestano a mettere in campo per fronteggiare la tragica situazione economico-sociale che l'Italia - come il resto del mondo - sta vivendo a causa della diffusione del Coronavirus, rappresentano un'immissione di risorse pubbliche pari soltanto a quella registrata nel dopoguerra: allora come adesso, l'esigenza è "ricostruire", sgombrando il campo dalle macerie della depressione.
Da quel piano di aiuti a questo, sono intercorsi settant'anni: di storia repubblicana, ma anche di prolificazione delle mafie. Settant'anni in cui le mafie - ed in particolare Cosa Nostra siciliana - si sono esponenzialmente arricchite con i soldi pubblici puntualmente erogati dallo Stato per fronteggiare ogni sorta di emergenza. E' una storia che Maurizio De Lucia (oggi procuratore capo di Messina), Lia Sava (oggi procuratore generale di Caltanissetta) e Dino Petralia (oggi procuratore generale di Reggio Calabria) conoscono bene, anche per la lunga militanza nella procura palermitana; e che rievocano, intessendo conoscenze professionali e ricordi personali.
E' a loro che Giustizia Insieme, nell'intento di contribuire efficacemente al dibattito sui rischi di infiltrazioni mafiose nella gestione emergenziale delle risorse pubbliche e dell'elargizione - anche tramite linee di credito garantite dallo Stato - di aiuti economici ai privati, ha rivolto domande che, andando oltre le semplificazioni giornalistiche, invitano a scavare più a fondo.
I tre procuratori in quest'intervista formulano proposte che tentano un difficile bilanciamento tra i vari interessi in gioco. Lo scenario che tratteggiano è fosco, puntato di chiaroscuri, dal quale emerge anche un messaggio rassicurante: se è vero che il nostro Paese non ha dimenticato l'oramai trentennale lezione impartita da Giovanni Falcone, che chiede anzitutto al legislatore cautele e controlli sui flussi finanziari (fonte primaria del rafforzamento mafioso), questa volta non si permetterà alle cosche di trarre profitto dalle difficoltà economico-sociali del nostro Paese.
§§§
1. Qualche tempo fa il quotidiano tedesco conservatore Die Welt ha pubblicato un articolo in cui si affermava che in Italia la mafia aspettava soltanto i soldi che l'Unione Europea avrebbe erogato per l'emergenza Coronavirus, suscitando aspre critiche da parte di politici italiani. Qualche giorno dopo, però, due voci autorevoli della magistratura inquirente italiana, Francesco Greco e Giovanni Melillo, hanno messo in guardia il Governo, che nel Decreto Credito non avrebbe previsto adeguati strumenti di controllo del rischio di finanziamento privato (ma con garanzie pubbliche) delle mafie e delle loro imprese; rischio, anzi, che i due Procuratori definiscono "assai concreto". Viene dunque spontaneo chiederVi, anzitutto: l'emergenza sanitaria da Covid19 può davvero rappresentare una grande opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose?
Lia Sava: L’emergenza sanitaria da Covid 19 rappresenta, senza ombra di dubbio, una straordinaria ed inaspettata opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose. Trattasi di questione complessa, che deve essere affrontata senza semplificazioni o approssimazioni di sorta ma, al contrario, va analizzata alla luce di ciò che ben conosciamo in ordine alle dinamiche delle organizzazioni di stampo mafioso operanti non solo in Italia ma anche all’estero. Siamo di fronte ad una partita che si sta già giocando fra le mafie e gli organi dello Stato chiamati a contrastarle e dal cui esito finale dipende il futuro della economia legale del nostro Paese. Non vi è crisi che non venga sfruttata dalla criminalità organizzata come un’opportunità di guadagno e l’emergenza in atto, inaspettata e di proporzioni inimmaginabili, se non scatteranno idonei meccanismi volti a garantire legalità e trasparenza nella redistribuzione della liquidità della quale famiglie ed imprese hanno necessità impellente, potrebbe determinare una crescita esponenziale dei profitti scaturenti dal malaffare. La rapida diffusione del Covid 19 in Italia ha colto tutti impreparati ma le grandi mafie sono in grado di farvi fronte più agevolmente perché nel loro tessuto connettivo è insita la capacità di rapido adattamento ai mutamenti economici e sociali e questo è tratto distintivo ben noto alle Forze di Polizia e alla magistratura inquirente.
Invero, prima ancora del quotidiano tedesco Die Welt, due circolari della DAC (la Direzione Centrale Anticrimine) della Polizia di Stato indirizzate a tutti i Questori d’Italia, in data 27 marzo e 4 aprile, hanno segnalato la necessità prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus. Lo scenario che possiamo ipotizzare è, dunque, allarmante. Le imprese riconducibili alla criminalità organizzata cercheranno di infiltrarsi, con svariate modalità che dovremo riuscire ad intercettare, in diversi settori del circuito produttivo, alcuni dei quali particolarmente attivi in fase di emergenza, pensiamo alle forniture alimentari ed a particolari presidi medici, ed in altri che, al contrario, sono stati messi in ginocchio dalla stessa crisi come, ad esempio, il settore turistico e l’edilizia. Le mafie cercheranno di inserirsi a vario titolo nelle maglie interstiziali dei circuiti produttivi in difficoltà con strumenti poliedrici e verosimilmente raffinati ma che dovremmo aver imparato a conoscere attraverso le risultanze di indagini e processi in materia di criminalità mafiosa che abbiamo celebrato negli ultimi venticinque anni nel nostro paese.
Allora: la sfida è tutta qui. Non vi è crisi che non costituisca un’opportunità per le mafie di accrescere il loro potenziale, sfruttando il consenso sociale che possono recuperare distribuendo generi alimentari, prestando denaro. Lo Stato deve certamente snellire l’accesso al credito per le imprese in difficoltà perché la rapidità, in questa partita, è fondamentale ma attenzione: questa rapidità non deve significare meno controlli. Se la parola magica è “ liquidità” (che le mafie tendono a fornire attraverso prestiti rapidi che condurranno alla compartecipazione nell’impresa fino a fagocitarla) occorrerà essere tempestivi a contrastare le infiltrazioni nei settori particolarmente a rischio.
La partita la vincerà lo Stato se sapremo arginare l’accaparramento da parte di imprese mafiose dei sussidi sia nazionali che europei e delle gare di appalto. Ovviamente si dovrà prestare particolare attenzione al settore sanitario, dove occorrerà scongiurare che nella fase due si abbassino la tutela di legalità ed i controlli per la partecipazioni agli appalti e sarà indispensabile anche un senso etico nella ripartenza da parte degli imprenditori, direi un’ etica paziente che costituirà uno dei fattori indispensabili per vincere la nostra partita. Infatti, al fine di rafforzare la capacità di tenuta dell’imprenditoria sana ed al fine di contrastare le mire espansionistiche del crimine organizzato, se da un lato è utile semplificare le leggi per l’erogazione del credito, dall’altro è essenziale essere capaci di effettuare sempre una rapidissima valutazione ex ante dei rischi criminali connessi ad una normativa prima che la stessa sia emanata, prendendo spunto proprio dalle risultanze di indagini delle Direzioni Distrettuali Antimafia ed Antiterrorismo degli ultimi anni. Ad esempio, prima di varare una nuova normativa, occorrerebbe verificare se la criminalità organizzata ha utilizzato, in passato, proprio quei meccanismi che, per ipotesi, la disciplina in fieri verrebbe a consentire.
Maurizio De Lucia: Innanzitutto non metterei in connessione le affermazioni ed i luoghi comuni del quotidiano tedesco con le molto più concrete e analitiche osservazioni dei procuratori di Napoli e Milano; dopodiché il pericolo di interessamenti delle mafie su tutto quello che l’emergenza del coronavirus comporta è certamente reale.
E’ la storia delle mafie che ci parla della loro capacità di cogliere tutte le occasioni possibili per accrescere il loro potere.
Individuo in particolare quattro profili, del resto già segnalati da autorevoli colleghi e commentatori:
quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando “risorse” proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo. Penso in particolare alle presenze mafiose in diverse amministrazioni comunali di piccoli centri del Sud Italia dove il rischio, in assenza di verifiche e controlli è certamente concreto;
quello di utilizzare le risorse pubbliche e i canali di finanziamento offerti dalla legislazione anticrisi sia per impossessarsene che quali utili canali di riciclaggio;
quello di acquisizione delle molte imprese che saranno vittime della crisi;
quello, forse il più pericoloso per le implicazioni che comporta, di riuscire ad infiltrarsi negli appalti pubblici che verranno. Non dimentichiamo che gli appalti, da sempre costituiscono per le mafie l’anticamera del salotto che consente di parlare con l’economia e con la politica. Il rischio concreto di controlli poco stringenti è che riviva quel tavolino che negli anni '80 del secolo scorso vedeva seduti insieme uomini di Cosa nostra, imprenditori e politici. Ricordiamoci che quel “tavolino” fu favorito anche da una imponente stagione di spese pubbliche in deroga effettuate in Sicilia per un valore in pochi anni di 5000 miliardi delle vecchie lire.
Dino Petralia: Basti ricordare cosa ha rappresentato l’EXPO per Milano o la ricostruzione del dopo sisma in Abruzzo ed altri grandi eventi ancora in cui il flusso di denaro è stato enorme e soprattutto a rischio di accesso ad un’imprenditoria troppo disinvolta. Se non coinvolta col crimine organizzato.
Detto ciò, credo anche che il DL credito/liquidità non sia la sede esatta per pianificare controlli e meccanismi di filtro antimafioso. Disponiamo già di uno strumentario cospicuo di meccanismi preventivi di controllo e intervento e su questo l’ANAC ha svolto un ruolo assai determinante e fruttuoso; occorre raffinare e allertare e su questo registro il grido d’allarme di Greco e Melillo mi pare opportuno e tempestivo.
2. Sempre nel Decreto Credito - che il premier Conte ha definito una "potenza di fuoco con 400 miliardi di garanzie per le imprese" - sembra si sia rinunciato tanto al tradizionale controllo prefettizio sui beneficiari della misura (nei confronti dei richiedenti il finanziamanto), tanto alla tracciabilità dell'uso del finanziamento (denaro), attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati. Nella Vostra esperienza di capi di importanti uffici inquirenti, in realtà meridionali fortemente caratterizzate dalla presenza mafiosa, quanto sono importanti i presidi amministrativi e bancari nell'arginare il rischio di elargizione dei fondi alle imprese che rispondono a interessi criminali? Ed è secondo voi opportuno, nell'ambito di un'emergenza sanitaria (e quindi economico-sociale) che impone di bilanciare tutti gli interessi in gioco, privilegiare la speditezza e la fluidità del finanziamento, rinunciando alla rigorosità - e ai tempi - dei controlli a monte?
Maurizio De Lucia: I controlli sono importanti, è evidente, ma è anche evidente che non devono svolgere un ruolo frenante dell’intervento a sostegno delle imprese in un momento così difficile per il Paese. Distinguerei. I controlli bancari devono ispirarsi, come in parte già è, al principio “conosci il tuo cliente”, mi riesce difficile immaginare una banca che eroga fondi, sia pure integralmente garantiti dallo Stato, ad un soggetto – imprenditore che non sia già suo cliente e quindi noto. In questo senso si potrebbe pensare proprio ad un coinvolgimento e a delle responsabilità della banca, del resto già ampiamente presenti nel nostro ordinamento. Quanto ai controlli amministrativi, devono essere accelerati con un grosso sforzo di informatizzazione della macchina pubblica, si può anche qui pensare a controlli che avvengano in itinere e non al termine di ogni passaggio della procedura di finanziamento, ma non credo si possa pensare a rinunciarvi.
Dino Petralia: Le grandi Procure si dedicano in modo mirato a quest’ambito di indagini - in proposto la struttura di tutti i grandi uffici requirenti prevede Dipartimenti di Economia, Pubblica amministrazione etc. - e in ogni caso le Direzioni Distrettuali Antimafia indagano laddove le speculazioni economico-finanziarie maturano in contesti mafiosi. Una polizia giudiziaria ormai altamente specializzata completa i ranghi di un fronte investigativo-inquirente davvero formidabile.
Tuttavia, si tratta pur sempre di un sistema che opera ex post, ossia all’indomani dei fatti e dunque tardivo rispetto agli obiettivi di una cascata di liquidità che mai come va tenuta immune dal rischio di infiltrazioni corrosive e fagocitanti.
Si fronteggiano, da un lato, l’esigenza di garantire ossigeno operativo e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro, il bisogno - insopprimibile e vitale - di snellire le procedure di erogazione in modo da accelerare il processo di ripresa. Due esigenze delle quali nessun sacrificio dell’una o dell’altra può giustificare però uno slabbramento dei sistemi di controllo. Ne risentirebbe l’efficacia dell’obiettivo e la stessa tenuta della democrazia.
Occorre allora potenziare i sistemi attuali che non sono pochi né inadatti e semmai allertarli convogliandoli sotto una regia comune, ma in ogni caso scongiurando appesantimenti burocratici in grado di ritardare e infiacchire l’itinerario che dalla fonte conduce all’erogazione economica.
La magistratura è comunque pronta al resto, ma auguriamoci che non ce ne sia bisogno!
Lia Sava: Per rispondere alla domanda ritengo necessario fare il punto degli interventi fino ad ora svolti per il sostegno alle imprese per far fronte alla crisi da covid 19. In prima battuta sono state emanate disposizioni per la sospensione di mutui, sono state concesse agevolazioni per il pagamento di affitti, è stato rinviato il pagamento di alcune tasse ed è stata prevista l’erogazione di 600 euro per chi ha chiuso la propria attività a seguito dell’emergenza covid 19 e per autonomi iscritti con gestione separata. Con il decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 è stata prevista l’iniezione di liquidità per far fronte alla crisi. Ed ancora una volta torna in gioco la parola “liquidità”. Per ottenere questa “liquidità” occorre l’intermediazione delle banche. Ed allora: ecco che la criminalità organizzata potrebbe inserirsi nelle maglie di questo meccanismo e sfruttarne, in qualche modo, la lentezza. In particolare, le imprese che non saranno ritenute meritevoli dalle banche di accesso al credito secondo le linee del decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 sopra richiamato, specie nei settori maggiormente “appetibili” in tempo di coronavirus, come quello agroalimentare, potranno essere, ancora una volta, “tentate” dalle organizzazioni criminali per beneficiare del loro apporto di capitali di provenienza illecita. In questo senso mi ha particolarmente colpito la notizia, a dimostrazione che la criminalità organizzata è pronta con iniezioni di liquidità, ad investire nei settori in crisi, il blocco alla frontiera di un furgone proveniente dai paesi dell’est carico di denaro contante e guidato da soggetti calabresi legati alle ‘ndrine. Allora comprendiamo con assoluta chiarezza che le mafie considerano, anch’esse, la parola “liquidità” come il grimaldello per vincere la partita in atto. Ed, allora, diventa indispensabile ed imprescindibile che i flussi per il rilancio delle attività economiche siano tracciati e controllati, attraverso un monitoraggio anche all’estero. Infatti, la tempistica della liquidità non è indifferente per l’impresa in crisi, mentre le richieste di finanziamento procederanno attraverso passaggi che richiederanno tempo (le imprese devono rivolgersi alla banca di fiducia, che svolgerà l’istruttoria ed inoltrerà la richiesta di garanzia alla Sace che, a sua volta, istruirà la pratica e se la stessa avrà esito positivo verrà emessa la garanzia, contro-garantita dallo Stato, e quindi l’istituto di credito erogherà il denaro richiesto).
Occorrerebbe, dunque, bilanciare il fattore “rapidità nell’erogazione” con strumenti volti ad evitare che fruiscano dei benefici imprese mafiose tali, nella maggior parte dei casi, per interposizioni fittizie, o a imprenditori condannati o indagati per reati sintomatici ( ad esempio: contro la pubblica amministrazione, per reati tributari) o già sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. Sarebbe, altresì, importante accertare se la liquidità erogata sia effettivamente destinata ad arginare la crisi scaturente dal coronavirus. Inoltre, non possono essere bloccati i meccanismi previsti dal codice degli appalti né si può pensare di prescindere dai certificati antimafia. Invero, si tratta di regole che sono indispensabili, e lo abbiamo compreso proprio attraverso il percorso faticoso delle indagini svolte negli ultimo trentennio, in tema di criminalità organizzata al fine di arginare le sue inquietanti infiltrazioni nel tessuto economico nel nostro paese. Infatti, senza regole chiare che impongano trasparenza massima nel settore delle gare di appalto, si darà un assist determinante che potrebbe consentire alle mafie di vincere la partita a spese dell’economia legale che sarebbe irrimediabilmente compromessa, finendo per annientare i sacrifici e gli sforzi compiuti da forze dell’ordine e magistratura per salvaguardare la libertà di fare impresa senza il cappio della criminalità organizzata.
3. Nel gennaio 2020 la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina ha dato il via alla c.d. "Operazione Nebrodi", con decine di arresti e centocinquanta imprese sequestrate. E' stata scoperchiata una truffa milionaria senza precedenti ai danni dell'Unione Europea, in cui mafiosi e colletti bianchi (professionisti, centri di assistenza, funzionari pubblici) agivano di concerto, da anni, per accaparrarsi i fondi agricoli comunitari. Lo scenario che fa intravedere l'emergenza sanitaria da Covid19 potrebbe prevedere lo stesso copione, con imprese create ad hoc per la percezione degli aiuti economici, con il necessario supporto dei colletti bianchi?
Dino Petralia: La Procura di Messina - che mi piace idealmente ribattezzare, al pari di quella di Reggio Calabria, con uno slogan come il Pubblico Ministero dello Stretto - ben conosce il suo lavoro; lo ha dimostrato e lo dimostra! E tuttavia è patrimonio comune a tutta la realtà mafiosa non solo nazionale che i boss strizzano l’occhio famelico al sistema legale, inoculandosi come virus nefasti sia attraverso imprese apparentemente legali ma destinate solo alle più intense grassazioni di denaro pubblico, sia costituendo realtà economiche e commerciali perfettamente lecite grazie ai profitti incamerati.
La mafia fa il suo - potremmo senza equivoci affermare! - ma i pubblici amministratori e dipendenti colludendo sono infedeli, corrotti, apostati del giuramento, e tradiscono due volte: lo Stato per il quale lavorano, la legge che ne regola la disciplina. E vanno puniti tanto duramente quanto i mafiosi.
Lo scenario è dunque doverosamente ipotizzabile.
Lia Sava: Assolutamente si. L’operazione Nebrodi ha indebolito forti cosche ed ha colpito il sistema criminale delle frodi comunitarie che venivano realizzate attraverso un meccanismo peculiare e cioè far apparire propri terreni che non lo sono per trarne beneficio. L’operazione, che evidenziato un sistema ( con collegamenti fra mafia dei Nebrodi, Cosa Nostra Palermitana e Clan Santapaola) analogo in altre realtà territoriali del nostro paese. Invero, anche nel distretto nisseno, abbiamo riscontrato la realizzazione di truffe pianificate, organizzate dalla criminalità organizzata, ove i centri che avrebbero dovuto controllare erano in accordo con le mafie realizzando un vero e proprio sistema criminale. A rendere particolarmente allarmante il fenomeno è stata la circostanza per cui oggetto di concessione in favore dei soggetti legati alla criminalità organizzata sono stati terreni demaniali dei quali Cosa Nostra ha acquisito la disponibilità mediante procedure di evidenza pubblica turbate grazie alla presenza di funzionari compiacenti e/o intimiditi dalle organizzazioni mafiose. Peraltro, lo stesso meccanismo, sempre nel distretto nisseno, è stato ricostruito, nel 2018, dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, nella c.d. operazione “Terre Emerse” nell’ambito del quale è stata emessa ordinanza di custodia cautelare a carico di n. 12 soggetti per i reati di concorso esterno in associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, truffa aggravata e falso in atto pubblico. L’attività investigativa ha fatto, peraltro, emergere la responsabilità anche di un notaio che ha proceduto alla redazione di atti pubblici di donazione, a favore degli altri indagati, aventi ad oggetto beni appartenenti al demanio forestale della Regione Siciliana. Da ciò si desume in via immediate e diretta che i meccanismi ben collaudati dalla criminalità organizzata e ricostruiti nelle indagini sopra delineate ben potranno essere messi in atto dalle mafie per accaparrarsi della “liquidità” messa in circolo dallo Stato e dall’Unione Europea per far fronte al Covid 19. Le indagini svolte dalle D.D.A. hanno evidenziato, dunque, uno schema comune che, partendo da una parvenza di legalità nell’ iter burocratico ha consentito di ottenere somme ingenti con la complicità di notai e figure professionali di riferimento .
Le mafie, infatti, ormai evolute, fanno della collusione con i colletti bianchi il loro punto di forza e cercano strade apparentemente lecite per amministrare e finanziare i propri affari illeciti, in Sicilia come in Calabria, in Campania , in Puglia, ed in Abruzzo a seguito del terremoto. Nel distretto nisseno, in particolare, l’affinato meccanismo investigativo messo in campo dalla Procura della Repubblica di Enna e l’istituzione di un apposito Gruppo Specializzato di Magistrati in materia di “truffe AGEA” , sfruttando la cooperazione con l’Olaf e altri meccanismi di cooperazione internazionale realizzati anche grazio ad Eurojust, ha consentito il recupero alle casse dello Stato di diversi milioni di euro.
Maurizio De Lucia: A prescindere dalle vicenda specifica che è stata istruita del mio Ufficio e che è ancora sub judice, le mafie, come abbiamo ricordato, hanno interesse ad intercettare qualunque forma di ricchezza e lo fanno attraverso il controllo del territorio e con il ricorso prima ancora che alla minaccia, alla persuasione corruttiva, nei confronti di quella che è stata definita la borghesia mafiosa e che troppo spesso si rivela disponibile a fornire il suo ausilio ai delitti mafiosi, per la verità neppure solo in Sicilia e nel Meridione. La consapevolezza del rischio del ripetersi di fenomeni che sono già stati oggetto di molte verifiche processuali ci deve indurre a tenere altissima la guardia, per farlo è necessario affinare sempre più gli strumenti della legislazione antimafia che abbiamo e curare che essi rimangano saldamente presenti nella legislazione.
4. E' ancora l'esperienza siciliana che torna utile nel ragionamento che stiamo svolgendo, in cui sono stati elaborati con successo - soprattutto rispetto all'erogazione dei fondi agricoli comunitari - protocolli di legalità (penso, in primo luogo, al c.d. "protocollo Antoci"), in grado di avviare un dialogo virtuoso tra enti locali e Prefettura che, grazie ad una serie di controlli incrociati, smascherano i mafiosi travestiti da imprenditori richiedenti fondi pubblici, senza ovviamente rispettare i vincoli e le finalità del finanziamento. Poiché il Decreto Credito varato dal Governo intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato, credete possibile esportare l'esperienza dei protocolli di legalità in questo campo, creando quindi (a monte, prima dell'erogazione del finanziamento) un dialogo virtuoso tra istituti di credito, Prefettura e, perché no, in chiave preventiva, magistratura inquirente?
Maurizio De Lucia: I protocolli sono uno strumento utile, ma non vanno santificati (per la verità in nessun campo). Il c.d. protocollo Antoci nell’imporre l’obbligo del certificato antimafia a tutti coloro che volevano accedere ai finanziamenti europei per le terre dei Nebrodi, ha certamente creato un ostacolo in più alla mafia, costringendo i mafiosi ad utilizzare dei prestanome, con conseguenti difficoltà e aumento della catena dei rapporti illeciti e consentendo dunque alla Procura di contestare in maniera massiccia il delitto di cui all’art 512 bis c.p.; ma i delitti ed in senso più ampio il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in quel territorio è stato evidenziato dalle indagini penali. Intercettazioni e controlli posti in essere da carabinieri e guardia di finanza all’interno di una indagine penale, che, alla fine, si rivela l’unico strumento davvero efficace sul fronte della repressione.
Sul piano invece della prevenzione, certamente un dialogo costante tra sistema bancario, forze di polizia e forse anche magistratura non può che realizzare effetti positivi, in questo senso anche specifici protocolli che consentano l’accesso immediato a banche dati e impongano comportamenti virtuosi ai sottoscrittori hanno la loro utilità.
Dino Petralia: Il Protocollo Antoci è stata un’idea tanto semplice quanto provvidenziale! Il punto è riuscire ad osservarlo, cosa che per la mafia agricola (e non solo) dei Nebrodi è accaduta.
Ora, che siano protocolli di legalità o altri meccanismi, ciò che importa è l’affidamento di chi deve farli osservare. E, se si considera che il flusso economico alle imprese per il tramite del sistema bancario oggi sarà davvero imponente, i presidi più attrezzati sono le Prefetture, magari disegnando una geografia di interazione regionale con una regia capofila.
Altro aspetto di sensibilissimo rilievo è quello del rispetto da parte degli operatori finanziari, banche in testa, delle note segnalazioni di operazioni sospette che, per quanto affidate ormai a sistemi (Gianos e altri) strutturati su reti neurali assai sofisticate e intelligenti, fanno capo comunque agli operatori umani. Ed è su tale settore che oggi più che mai il controllo deve concentrarsi!
Lia Sava: Il c.d. “protocollo Antoci” ha avuto un nucleo centrale fondamentale . In sostanza, le aziende che intendono affittare terreni del Parco devono fornire il certificato antimafia della Prefettura non potendo autocertificarsi neppure per bandi con importi inferiori a 150 mila euro e tale meccanismo ha creato effetto moltiplicatore di legalità e trasparenza. Pertanto, poiché il decreto nr. 23 dell’8 aprile 2020 intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato la predisposizione di protocolli fra istituti bancari, prefetture, forze dell’ordine e magistratura inquirente potrebbe garantire, in questa direzione, rapidità e trasparenza nell’erogazione della liquidità. Questi protocolli, secondo me, dovrebbero cercare il coinvolgimento delle organizzazioni professionali di riferimento che possono avere un ruolo di strategico di grande importanza.
5. L'orizzonte che tratteggiate è fosco, puntato di chiaroscuri. Siamo partiti dalla semplicistica - e forse preconcetta - posizione del quotidiano Die Welt: e se i tedeschi avessero ragione?
Lia Sava: La strategia per sfumare il chiaro scuro e rendere limpido il panorama nel quale ci muoviamo e nel cui ambito si gioca la partita alla quale ho fatto più volte riferimento occorre mettere in campo, oltre agli strumenti di prevenzione ed investigativi ai quali ho fatto cenno, anche mettere in campo strategie complessive che coinvolgano le grandi imprese “sane” di questo paese che, in questa fase di crisi da Covid 19, devono prendersi cura dei dipendenti ( per evitare che si facciano tentare dall’offerta deviante del crimine organizzato), devono essere attente ad evitare fornitori “ambigui”, adottare buone prassi per la tutela dei clienti. Ma occorrerà anche stare attenti al sistema della “comunicazione” che può diffondere panico o comunicare notizie confuse e contraddittorie, direi emotive, che possono favorire criminalità organizzata nel corso della partita in atto. Ancora, nella seconda fase emergenziale molte imprese dovranno difendersi da iniziative di creditori e dovranno predisporre strumenti di recupero della continuità aziendale. In questo senso, il decreto liquidità ha introdotto novità anche nel campo della “crisi di impresa”. L’obiettivo è palese: salvaguardare le imprese, anche attraverso il coinvolgimento dei soci nell’accrescimento dei flussi di finanziamento verso la società.
Ed è di tutta evidenza, però, che anche in queste maglie si può annidare l’interesse perverso della criminalità organizzata che cercherà di diventare “socio” per sfruttare le potenzialità del sistema. In questo panorama si inserisce il rinvio di un anno dell’entrata in vigore della riforma sulla crisi di impresa. Invero, se lo spirito della riforma è quello di fronteggiare il fisiologico “rischio di impresa” per scongiurane gli effetti negativi, non può essere reso immediatamente attuale per fronteggiare una crisi di straordinaria natura come quella del Covid 19. Segnalo che il Procuratore Generale della Cassazione ha costituto, in questa direzione, un gruppo di studio composto da alcuni Procuratori Generali e da magistrati esperti al fine di studiare gli effetti della crisi e l’impatto della riforma in fieri e ciò anche per individuare i necessari interventi correttivi scaturenti dall’emergenza in atto che, verosimilmente, non sarà di beve durata. Ne consegue che, mai come in questa fase, oltre alla cooperazione fra forze dell’ordine, magistratura, prefetture, organizzazioni di categoria, cooperazione internazionale, sostanziati in cabine di regia ed in protocolli operativi, gli operatori del diritto dovranno “scambiarsi i saperi”. Invero, la normativa civilistica in tema di crisi di impresa, i principi di contabilità e le regole riguardanti la c.d. priorità della continuità aziendale, le norme di diritto commerciale in materia di redazione dei bilanci, le disposizioni che regolano l’accesso ai finanziamenti con procedure semplificate non devono avere segreti per gli investigatori e per la magistratura requirente, proprio per arginare i rischi di infiltrazioni mafiose. La partita è dunque aperta e complicata. Ma possiamo e dobbiamo vincerla. Ancora una volta: attraverso l’etica paziente.
Maurizio De Lucia: L’articolo del Die Welt, al di là del modo, pone un problema, solo che non lo pone all’Italia, ma all’Europa, nella quale non da ora le mafie sono fortemente insediate.
Si può ricordare il contenuto di una intercettazione tra due mafiosi, captata all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Uno dei due era a Palermo e l’altro si accingeva ad entrare nell’ex DDR. Ebbene il secondo chiedeva al primo cosa dovesse fare e la risposta era “Compra!” ; “cosa devo comprare?”
“tutto quello che trovi, immobili, alberghi imprese…”
Quello di cui si deve parlare allora è di pensare ad una legislazione antimafia europea che ancora manca e che invece è ineludibile formare.
Come sappiamo oggi la disciplina della materia è affidata alla Decisione Quadro del 24 ottobre 2008 sul contrasto alla criminalità organizzata. Questa decisone ancora non impone agli Stati di introdurre un concetto omogeneo di organizzazione criminale. Se ciascuno Stato va per la sua strada sono le mafie a saper cogliere le smagliature nelle quali infilarsi. Per questo è necessario costruire una normativa europea che tenga conto soprattutto, ma non solo dell’esperienza italiana una sorta di articolo 416 – bis europeo, incentrando la fattispecie sulla presenza di condotte collettive di natura violenta, intimidatoria e corruttiva che producono una alterazione delle “regole del gioco” dell’economia di mercato, del funzionamento della pubblica amministrazione e della formazione del consenso politico. In assenza di una disciplina di tale genere il rischio che le infiltrazioni delle nostre mafie sui nostri appalti avvengano attraverso l’interfaccia di società fiduciarie di diritto olandese o tedesco o di altro paese dell’ Unione è certamente un rischio reale.
Dino Petralia: Dobbiamo impegnarci al massimo affinché l’ipotesi ventilata da Die Welt non abbia affatto ragione!
Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19.
di Fabio Francario
Sommario: 1.- Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale. 2.- Il dl 8 marzo 2020 n 11; 3.- Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. 4.- Il dl 4 aprile 2020 n. 23. 5.- Considerazioni conclusive.
1. Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale.
Nell’ambito delle disposizioni generalmente dettate per governare lo svolgimento dell’attività giudiziaria nel periodo dell’emergenza, i diversi decreti legge finora emanati stanno riservando al processo amministrativo un trattamento differenziato. La differenziazione finisce però con il dettare una disciplina che non sembra riconducibile ad alcun principio generale del processo, ingenerando il timore che il diritto dell’emergenza, attraverso una diminuzione oltre misura delle garanzie tipiche di un rimedio processuale giurisdizionale, stia nuovamente degradando il processo amministrativo ad una mera procedura di ricorso.
E’ noto che non basta fregiare una procedura di ricorso con l’appellativo di processo per poterla considerare tale [1] perché è necessario che l’esercizio della funzione giurisdizionale si svolga nel rispetto di principi fondamentali e di regole certe[2].
Nel caso del processo amministrativo ciò si è verificato anche in assenza della codificazione avvenuta con il d lgs 104/2010. Anzi, l’assenza di una compiuta codificazione ha fatto sì che il legame con i principi generali del processo sia sempre stato particolarmente forte, che questi abbiano spesso direttamente integrato le lacune esistenti nella disciplina quando i principi non erano chiaramente espressi da norme già codificate nel c.p.c.. In passato la più autorevole dottrina si è molto impegnata per chiarire che, se il c.p.c. rappresentava un termine di riferimento presso che obbligato per l’integrazione della lacunosa e frammentata disciplina del processo amministrativo, ciò non significava anche che nella ricostruzione degli istituti si dovesse rinunciare a guardare direttamente a principi comuni del diritto processuale[3]. In un costruttivo dialogo con l’Adunanza Plenaria e con la Corte costituzionale, proprio la continua ricerca e l’affinamento dei principi processuali generali ha consentito di chiarire, ben prima dell’entrata in vigore del codice, che quello amministrativo è un processo di parti[4], soggetto pertanto al principio della domanda, al principio dispositivo e al principio del contraddittorio, principi tutti che convivono con l’immanente principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò ha consentito di ricostruire gli istituti processuali e di governare il processo con ragionevolezza e uniformità anche senza e ancor prima della codificazione del processo amministrativo.
Orbene, se si guardano le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo si deve constatare non tanto il fatto che si differenzino da quelle dettate per la generalità degli altri processi, quanto piuttosto, a malincuore, che non rispondono ad alcun principio. Si disperdono infatti in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento.
Che la tutela cautelare debba continuare ad essere erogata anche nei periodi di sospensione del processo, quale ne sia la causa, non è una graziosa concessione della attuale decretazione d’urgenza, ma l’applicazione di un fondamentale principio processuale comune, riconducibile al principio di effettività della tutela giurisdizionale, per il quale la tutela cautelare non può subire soluzioni di continuità[5]. Nel caso del processo amministrativo la decretazione non si è limitata a confermare quanto era ovvio e già insito nel sistema, e cioè che la tutela cautelare rimaneva fruibile nel periodo di sospensione e che i processi avrebbero ripreso a svolgersi nei termini e nelle forme ordinarie al termine della sospensione, precisando magari soltanto che le misure emergenziali in atto impedivano unicamente la trattazione orale che, come fatto per il periodo dell’emergenza dal processo civile, veniva sostituita da una comparizione figurata delle parti all’udienza camerale attraverso la presentazione di brevi note d’udienza. Si è invece diffusa nel ridisciplinare forme, tempi e modi del giudizio cautelare[6] e dello stesso giudizio di merito al termine della sospensione. Qualsiasi avvocato dedito alle cause amministrative[7] potrà testimoniare di non aver saputo più con certezza se, come e quando sarebbero state trattate le istanze cautelari durante il periodo dell’emergenza o se fosse tenuto espletare le attività difensive durante il periodo di sospensione o se quelle ugualmente espletate durante tale periodo possano considerarsi ugualmente valide per le udienze fissate al termine della sospensione o se la considerazione delle stesse dipenderà dalla personale interpretazione del giudice o ancora qual sia il loro rapporto con le brevi note che possono essere presentate due giorni prima dell’udienza[8].
2. Il dl 8 marzo 2020 n 11. In verità le cose non erano partite tanto male. Il dl 8 marzo 2020 n 11 detta misure straordinarie per contrastare l’emergenza epidemiologica e contenere gli effetti negativi con riferimento esclusivamente allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Con maggior chiarezza rispetto alle analoghe disposizioni dettate per i giudizi civili, penali, tributari e militari, con specifico riferimento al processo amministrativo l’art 3 del decreto prevede di governare l’emergenza applicando eccezionalmente l’istituto processuale della sospensione dei termini (primo comma: “Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applicano altresì dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 22 marzo 2020”). Applicazione logica e razionale dell’istituto processuale che la dottrina processualistica ha sempre ritenuto naturalmente deputato a regolare lo svolgimento dell’attività giudiziaria non solo nel caso delle ferie estive, ma anche in ipotesi di eventi calamitosi[9]. Connaturati al regime di tale istituto, che per i principi codificati nell’art 298 c.p.c. comporta l’interruzione dei termini in corso e un vero e proprio divieto di compiere gli atti processuali, sono l’assoggettamento al regime di sospensione di tutti i termini processuali [10] e, come già ricordato, l’esclusione della tutela cautelare, che deve continuare ad essere garantita per assicurare il rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale[11]. L’imprevedibilità della sospensione e le particolari ragioni che hanno imposto la sospensione, dovuta alla necessità di evitare spostamenti da e per gli uffici giudiziari e assembramenti negli uffici medesimi per udienze e attività di cancelleria varie, hanno poi logicamente richiesto due particolari accorgimenti: lo spostamento delle udienze già fissate nel periodo di sospensione al termine della stessa (primo comma, secondo cpv: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020, le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”) e la eliminazione della udienza camerale, sostituita dalla pronuncia con provvedimento cautelare provvisorio adottato in forma monocratica (“I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, con il rito di cui all’articolo 56 del medesimo codice del processo amministrativo e la relativa trattazione collegiale è fissata in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”).
Sotto questo profilo la normazione recata dall’art 3 del dl 11/2020 non ha posto particolari problemi interpretativi, tranne che per il caso in cui non fossero state ricalendarizzate le udienze in modo da evitare che venissero in scadenza nel periodo si sospensione i termini a difesa calcolati a ritroso dall’udienza. Problema comunque agevolmente risolvibile chiedendo in tal caso di essere rimessi in termini, possibilità peraltro espressamente prevista dal medesimo decreto (art 3, comma 7).
Per lo svolgimento delle udienze al termine del periodo di sospensione l’art 3 aveva poi previsto, al quarto comma, il passaggio in decisione “sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti abbia chiesto la discussione in udienza camerale o in udienza pubblica con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, udienza che si sarebbe comunque svolta con collegamento da remoto (comma 5).
Un improvvido parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo ha però inspiegabilmente escluso che si fosse di fronte ad un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, e che si dovesse ritenere in realtà sospeso unicamente il termine per la notifica del ricorso originando un’incertezza interpretativa della quale francamente non si sentiva alcuna necessità[12].
3. Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. L’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 dispone l’abrogazione dell’art 3 del dl 11/2020 regolando diversamente il regime della sospensione, che viene prorogata fino al 15 aprile. La nuova disciplina[13], se per un verso elimina l’incertezza interpretativa originata dal parere del Consiglio di Stato, precisando che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, per l’altro introduce significative innovazioni. Laddove secondo l’art 3 del d.l. 11/2020 la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); nell’art. 84 viene invece escluso che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte e viene imposta come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Opportunamente, si dispone però che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito), facendo salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55.
Come eccezione nell’eccezione, il secondo comma dell’art 84 prevede inoltre la possibilità che le controversie possano essere comunque trattate, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, nel periodo compreso tra il 6 e il 15 aprile, ove vi sia l’accordo delle parti; rendendo in tal modo disponibile alle parti la sospensione del processo. Tralasciamo ogni considerazione sulla disposizione dettata, evidentemente sempre “in deroga a quanto previsto dal comma 1”, per la trattazione nel medesimo periodo 6 – 15 aprile dei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento totale o parziale della domanda cautelare.
Al quinto comma, l’art 84 del d.l. 18/2020 conferma la previsione, già recata dall’art 3 del dl 11/2020, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
4. Il dl 4 aprile 2020 n. 23. L’art 36 del dl 4 aprile 2020 n. 23 al primo comma ha prorogato fino all’11 maggio 2020 la sospensione per i processi civili, penali, tributari e militari e dettato nuovamente una disposizione atipica per il processo amministrativo al terzo comma, prevedendo che “Nei giudizi disciplinati dal codice del processo amministrativo sono ulteriormente sospesi, dal 16 aprile al 3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, dello stesso codice”.
Viene dunque nuovamente distorta l’applicazione logica e lineare dell’istituto della sospensione dei termini, riproducendo la già criticata e incomprensibile teorizzazione proposta dal Consiglio di Stato nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 10 marzo 2020 con riferimento al dl 11/2020. Dopo che il dl 18/2020 aveva chiarito che la sospensione dovuta all’emergenza Covid 19 si applicasse “a tutti” i termini processuali.
Si è già detto che rimane in assoluto incomprensibile la logica di ritenere che le peculiari ragioni alla base della attuale eccezionale sospensione dei termini per contrastare l’emergenza Covid 19 impongano la sospensione del solo termine di proposizione del ricorso. Il problema sembrava sopito ma è stato riproposto con forza dal nuovo decreto, costringendo la dottrina a tornare immediatamente sul tema per sottolineare quanto è forse ancora più grave ; e cioè come possa mai “dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui –nonostante il Governo abbia ritenuto che l’emergenza pandemica fosse ancora tale da giustificare la sospensione dei termini giudiziali civili, penali, tributari e contabili e di quelli per la notifica dei ricorsi dinanzi al giudice amministrativo – le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate) che, per pura (drammatica e assolutamente non prevedibile) ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze di cui all’art. 54 c.p.a. nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio prossimi), non possono adeguatamente difendersi contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza”[14].
Detto in altri termini: essendo venuta meno la possibilità di chiedere fondatamente la rimessione in termini in vista delle udienze la cui fissazione richieda lo svolgimento dell’attività difensiva nel suddetto arco temporale, la falsa sospensione dei termini obbliga le parti a riaprire e tenere aperti gli studi professionali per poter preparare e svolgere comunque l’attività difensiva nel perdurare dell’emergenza sanitaria e poco importa se l’avvocato non avrà tempo e modo di predisporre le attività difensive (si suppone per le medesime ragioni che inducono a sospendere il termine per la predisposizione e notifica dei ricorsi): la causa passa comunque in decisione all’udienza già fissata. Al di là della mancata considerazione dell’esigenza sanitaria che è alla base di tutte le disposizioni emergenziali, ciò in buona sostanza significa che la disciplina del processo amministrativo, differentemente da quella degli altri processi giurisdizionali, non si preoccupa di garantire la pienezza del contraddittorio, consentendo di sollevare più che fondati dubbi sulla sua costituzionalità[15].
Oltre a quello relativo alla ratio normativa, la disposizione pone comunque anche innumerevoli problemi esegetici, solo in parte risolti dalla relazione illustrativa che precisa che il riferimento ai “ricorsi” comprende quelli “di primo e secondo grado: introduttivo, appello, incidentale e per motivi aggiunti, ecc.”, sui quali non ci si vuole per il momento soffermare preferendo giungere alle osservazioni conclusive del discorso sin qui svolto.
5.- Considerazioni conclusive.
Il solo balletto cui si è assistito, su come debba intendersi l’istituto processuale della sospensione nel giudizio amministrativo (tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere; tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere), è fatto di per sé deprecabile perché fornisce il classico esempio di una prassi che è la causa prima della paralisi dei processi decisionali di qualsivoglia operatore giuridico in qualsivoglia settore dell’ordinamento: iperproduzione normativa, continuamente cangiante con meccanismi di pura e semplice sovrapposizione alle normative preesistenti, con effetto di disorientamento finale.
Ma in questa sede preme sottolineare che (solo) nel caso del processo amministrativo la disciplina dell’istituto della sospensione si allontani dal rispetto di principi comuni di diritto processuale per approdare ad una falsa sospensione priva di qualsivoglia ratio normativa.
La preoccupazione forse più grave è che tutte queste incertezze interpretative siano al fondo ingenerate da una tendenza volta a diminuire le garanzie processuali nei giudizi amministrativi. Le incertezze interpretative di questa decretazione d’urgenza sono all’evidenza ingenerate da una disciplina eccessivamente analitica che, per un verso, condiziona la rimodulazione in concreto dei calendari delle udienze collegiali come se questi fossero noti al legislatore e come se la finalità da perseguire non fosse quella di evitare gli spostamenti degli operatori da e verso gli uffici giudiziari e gli assembramenti al loro interno per udienze e attività di cancelleria; e che, per l’altro, non si preoccupa di garantire che tale rimodulazione prima di ogni altra cosa dovrebbe invece garantire il rispetto della pienezza del contraddittorio.
Ciò lascia più o meno chiaramente intravedere un disegno che potrebbe prendere corpo nel futuro prossimo venturo, una volta terminata l’emergenza, secondo il quale si potrà praticamente fare a meno di tutta l’attività processuale delle parti diversa dalla proposizione delle domande (memorie, repliche, produzioni documentali, richieste istruttorie e trattazione orale).
La strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale rischia così di ricondurre il processo amministrativo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale, correndo il rischio, paventato da un insigne Maestro, derivante dal fatto che “se si riconosce al ricorrente la sola potestà di dar vita ad un processo mentre nel contempo sia attribuito al giudice, anche in via concorrente, il potere di determinare l’oggetto del giudizio o la sua effettiva estensione … in realtà si nega in un tale processo ogni garanzia di giustizia”[16].
E’ un rischio che deve essere assolutamente scongiurato per evitare che venga depotenziata l’efficacia e incisività dell’intervento giurisdizionale (non penale) nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione.
A maggior ragion se nell’immediato futuro si dovranno assicurare efficienza e legalità di un piano straordinario di rilancio dell’economia[17].
[1] E. Fazzalari, Procedimento e processo (teoria gen.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1987, 821 ss.
[2] “Il processo è uno strumento che fornisce certezza in quanto risolve una situazione d’incertezza che origina la controversia; esso deve essere il più possibile certo” (così C. E. Gallo, Contributo allo studio della invalidità degli atti processuali nel giudizio amministrativo, Milano, 1983, 34). In tema v. di recente i contributi raccolti in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Editoriale scientifica, Napoli, 2018 e in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.
[3] Per tutti v. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 301, 302: “Per note ragioni storiche le leggi processuali civili sono diventate la sede di norme che, per il fatto di esprimere o richiamare principi fondamentali del nostro ordine costituzionale o da questi immediatamente derivanti – perché relativi all’esercizio del potere giurisdizionale considerato nella sua essenza unitaria e in rapporto all’autonomia dei soggetti giuridici, costituzionalmente tutelata – valgono per tutti i processi; o di norma tecniche che esprimono principi valevoli ugualmente per tutti i processi ma per ragioni diverse dalla precedente, cioè per il fatto di ricollegarsi alla fondamentale unitaria natura della norma processuale proprio come norma secondaria , dalla quale scaturisce l’identica funzione tecnica di alcuni istituti quale che sia il processo in cui trovano attuazione. La fonte principale d’integrazione diretta del diritto processuale amministrativo è data da questi principi, che non sono però principi propri del processo civile, ma principi di un diritto processuale comune, pur se questo ha la sede di elezione nella legge processuale civile”. Sul significato e sui limiti dell’attuale rinvio dell’art 39 c.p.a. al c.p.c. v. G.P. Cirillo, Diritto processuale amministrativo, Milano, 2017, 11.
[4] Per tutti v. E. Cannada .- Bartoli, voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XIII, 1966, 1077 ss.
[5] Cfr. F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, V. anche M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[6] C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in Giustamm.it, sottolinea efficacemente che “se sono auspicabili riforme del sistema della giustizia amministrativa per garantire una risposta sempre più pronta ed efficace alle istanze dei cittadini, devono invece sicuramente evitarsi interventi asistematici e parziali di per sé idonei a garantire e ad accrescere la qualità della risposta giurisdizionale”
[7] Non sarebbe inutile ricordare anche la sottolineatura fatta da V. Domenichelli, Sulla ragionevolezza dei termini nel processo amministrativo, in F. Francario, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit. 371, per cui “i termini processuali sono un incubo e possono togliere il sonno agli avvocati”
[8] Chi abbia dubbi può comunque vedere gli approfondimenti tematici a cura di T. Cocchi, B. Gargari e V. Sordi, in www.giustamm.it. , e la rassegna statistica di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it, “emergenza coronavirus”. Si veda in ogni caso il comunicato del 10 aprile 2020 dell’Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti avente oggetto “D.L. 8 aprile 2020 n. 23 e giustizia amministrativa”.
[9] S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 237: “Fra le cause più note di sospensione o di proroga dei termini si possono ricordare gli eventi bellici, le calamità naturali, il mancato funzionamento degli uffici giudiziari, le ferie estive. … La sospensione per calamità naturali (terremoti, mareggiate, alluvioni etc) è disposta dal legislatore (di solito dal Governo con decreto legge) il quale stabilisce il periodo di sospensione”.
[10] Si suol dire che con la sospensione il processo entra in una fase di quiescenza, e cioè che pende ma non procede: cfr. E.T. Liebman, Sulla sospensione propria e “impropria del processo, in Riv. Dir. Proc., 1958, 153 ss; F. Cipriani, Sospensione, in Enc. Giur. Treccani, XXX, Roma, 2004; C. Punzi, L’interruzione del processo, Milano, 1963284 ss; S. Menchini, Sospensione del processo civile, in Enc dir., XLIII, Milano 1990, 55.
[11] V. ante sub nt 16.
[12] L’interpretazione del Consiglio di Stato è stata unanimemente criticata dai commenti dottrinali immediatamente dedicati al d.l. 11/2020. V. in ptcl F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, In Federalismi.it; M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3, D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it, ai quali adde anche gli Autori citati sub nota seguente.
[13] Per i primi commenti v. F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 23 marzo 2020; M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, ivi; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 6 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in Giustamm.it.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in Giustamm.it.
[14] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è riservata alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al pieno contraddittorio difensivo, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza COVID 19, 9 aprile 2020; Id., Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, ivi.
[15] M.A. Sandulli, op. ult. Cit.
[16] F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 36.
[17] Per questi profili si rinvia a F. Francario, Guido Corso, Guido Greco, Maria Alessandra Sandulli e Aldo Travi, In difesa di una tutela piena nei confronti della pubblica amministrazione, pubblicato su www.giustizia-amministrativa.it .
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