ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Significato del 25 aprile
di Antonella Dell'orfano
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
(Sandro Pertini proclama lo sciopero generale, Milano, 25 aprile 1945)
Il 25 aprile del 1945, Milano e Torino furono liberate dal nazifascismo, ed i giorni a seguire furono liberate Genova e Venezia.
Sarà così istituita la data del 25 aprile come festa nazionale, una data che pone fine alla dittatura fascista e ad una guerra lunga cinque anni e apre un periodo di riforme strutturali profonde, tra cui le più importanti sono sicuramente il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la Carta Costituzionale, il diritto al voto per le donne.
Gli anni passano, per noi come per la nostra Nazione, ma le cose che contano restano, si tramandano, e resistono, come il significato profondo del 25 Aprile.
È la memoria della Resistenza condivisa, della lotta antifascista, che fu comunista, repubblicana, cattolica, socialista, azionista e liberale, come la Costituzione.
È l’enorme contributo di sacrificio e di sangue della nostra terra per un’Italia libera.
Sono tutti i caduti nei diversi fronti del conflitto, di cui molti giovani, se non giovanissimi, i torturati e i deportati per essersi opposti alla dittatura, e quella moltitudine silenziosa che contribuì alla lotta di resistenza, che non avrà mai riconoscimenti ufficiali e benemerenze, il cui ricordo vive spesso solo nel cuore dei familiari, ossia gli operai, con l’apporto dei loro scioperi, e tutti coloro, tra cui anche tanti religiosi e religiose, che protessero, mettendo a repentaglio la propria vita, chi combatteva in vario modo per la libertà.
La fine della dittatura non arrivò, infatti, da sola, non fu un processo spontaneo che si esaurì, ci furono invece donne e uomini, ragazze e ragazzi, che sacrificarono la loro gioventù per un sogno di libertà, scegliendo di non arrendersi, di non rimanere indifferenti e di non chinare il capo davanti alle violenze nazifasciste, realizzando così la profezia di Antonio Gramsci in un discorso parlamentare del 16 maggio 1925:” Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo”.
Quella previsione divenne realtà molti anni dopo con il sacrificio di quella generazione, a cui dobbiamo la conquista delle nostre libertà.
La Nazione ha dunque il dovere non solo di ricordare degnamente la Resistenza, ma anche di renderla attuale, difendendone le fondamenta e ridando slancio a quella tensione che spinse a reagire quelli che poi divennero i nostri eroi.
Mentre la generazione della Resistenza si avvia al tramonto, e proprio in questo terribile periodo assistiamo, inermi, alla strage, tra le vittime del Covid-19, di tanti anziani, fieri e dolcissimi, che furono tra i protagonisti di quella pagina gloriosa della nostra Storia, c’è, deve esserci il senso di responsabilità di ciascuno verso la Storia, verso chi si batté e morì per i propri ideali, per rispondere a quella chiamata della propria coscienza che ricordavo prima.
Calamandrei disse: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità”.
Di anno in anno, invece, si avverte il rischio, sempre più forte, di perdere la memoria storica della Resistenza ed il suo insegnamento, e si tratta purtroppo di un rischio concreto, reale, tangibile dinanzi alla progressiva ed inevitabile assenza dei suoi protagonisti, ma anche al revisionismo di parte che tenta di renderla un’esperienza circoscritta, lontana, che non ci appartiene.
La Resistenza, però, non solo appartiene all’intera Nazione, ne è anche parte integrante, perché è cogliendo la forza generatrice di quei mesi, assorbendo appieno quei valori, che si persegue l’effettiva tutela dei diritti civili, politici e sociali.
Come non ricordare le note composte da un cantautore profetico, l'indimenticato Signor G, per un brano contenuto nell'album Dialogo tra un impegnato e un non so?.
Correva l'anno 1972 e Giorgio Gaber scriveva: "La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un'invenzione. La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione".
Se lasciamo cadere quell’eredità, se non partecipiamo, perdiamo quanto abbiamo conquistato.
Oggi è difficile ricordare cosa significasse non avere libertà, cosa volesse dire non poter partecipare a nessuna decisione del proprio Paese, non potere professare tutti liberamente una religione diversa da quella di Stato, non poter esprimere un’opinione diversa da quella del regime, lo squadrismo, le violenze, la guerra, le leggi razziali, l’eliminazione di ogni oppositore politico, il potere usurpato con un colpo di stato e mai più restituito.
Se il 25 aprile è il giorno della Liberazione è non solo perché venimmo liberati dal regime, ma anche perché siamo diventati liberi, liberi davvero: ci è stata restituita libertà di parola, di espressione, di credo religioso, libertà di stampa, di pensiero politico.
E le grandi speranze nutrite dagli eroi della Resistenza e padri costituenti, come Calamandrei, erano riposte proprio nell’attesa di tradurre in «formule giuridiche» e in un «programma legalitario di rinnovamento democratico» i valori di libertà e eguaglianza per i quali si erano impegnati tutti gli uomini liberi che avevano combattuto durante la lotta contro l’oppressione straniera e la dittatura fascista.
Sono di sconcertante attualità le parole di Calamandrei che, nella realtà dell’Italia di allora, ammoniva a non tradire le aspettative di sostanziale eguaglianza sociale scaturite dalla Resistenza, e così scriveva:” Quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi sa per quanti anni ancora, negli ospedali ... gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessari per pagare gli insegnanti, quando io penso a tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni, allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione!” (Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).
Celebrare il 25 aprile deve significare pertanto sentirci liberi, ma in maniera attiva, con l’impegno di tener vivi anche per le generazioni future i valori della Resistenza e della Carta Costituzionale che - avvisava Calamandrei - come una macchina “perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.
Mantenere saldo il ricordo della Resistenza, manifestarne orgogliosamente la memoria, significa alimentare la speranza sufficiente per continuare a conseguire e mantenere in futuro una democrazia autentica e sempre operante, perché una società plurale e democratica non può che partire da lì, ogni anno, ed ogni anno più del precedente, sentendo appieno quel senso di appartenenza, che, come cantava Giorgio Gaber, “non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé”.
Al termine della guerra, l’Italia si trovò, come purtroppo sta accadendo anche oggi, in gravissime condizioni: un paese distrutto, materialmente e moralmente, in cui occorreva ricostruire l’intera Nazione, così fragile sotto l’aspetto economico, severamente colpita da disoccupazione, debito pubblico, svalutazione della lira e inflazione.
Eppure, il secondo dopoguerra si tradusse in una “nuova età dell’oro”, come scrisse lo storico britannico Eric J.E. Hobsbawm, mettendo in evidenza che si trattò di anni di "straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità” (trad. it. Il secolo breve, 1995).
Ricordava Italo Calvino, nell’introduzione del suo romanzo I nidi di ragno: “Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, <>, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria”.
Tutti ricordiamo la battuta "ha dda passà 'a nuttata", ovvero la chiosa finale della commedia teatrale “Napoli Milionaria”, scritta e interpretata proprio nel 1945 da Eduardo De Filippo, che così raccontava:”Allora, quando la scrissi, “Napoli milionaria!” rispecchiava un sentimento che io avvertivo profondamente, e che volevo comunicare. Gli orrori della guerra non dovevano essere dimenticati: era il momento di iniziare la ricostruzione, non soltanto del paese distrutto dai bombardamenti, ma soprattutto degli uomini, della loro coscienza …”.
Era un appello accorato alla ricostruzione e alla rinascita di un’Italia autenticamente democratica, in cui si avvertiva la necessità, drammatica nel momento che seguì la Liberazione, ma validissima anche oggi, di un riscatto morale e del recupero di valori fondanti della vita, come l’amore, la famiglia, l’onestà, la solidarietà, il rispetto della legge, “valori eterni”, per richiamare le parole del regista Francesco Rosi, “che le guerre travolgono, ma non solo le guerre, quando corruzione, degrado morale, criminalità, smodata avidità di denaro e di potere, prevalgono sul diritto nel mondo a vivere secondo giustizia, e senza discriminazioni”.
E dunque, nel commosso ricordo di chi ci ha preceduto, nel doloroso presente che stiamo vivendo con l’animo rivolto alla speranza per i tempi che verranno, ritornano di nuovo alla mente le parole di G. Gaber (il primo a cantare Bella Ciao, nel 1963, alla tivù): “Che bella gente, che bella gente al tempo della liberazione. Gente che torna a voler bene, volti provati dal dolore, ma solidali e sinceri. O anche avversari ma con dentro il cuore tutta un'Italia da ricostruire. Che bella gente con l'entusiasmo di chi rinasce, che insieme cresce con le miserie e le canzonette. Coi nonni ladri di biciclette, e il pensionato e il mendicante. Che bella gente” [Che bella gente (prosa) da l’album Un’idiozia conquistata a fatica].
La giustizia contro il Covid-19 in Francia, Grecia e Romania. Esperienze a confronto.
di Betta Pierazzi
Dopo il resoconto della Presidente del Tribunale di Lisbona, Giustizia Insieme prosegue nella pubblicazione dei contributi che ci giungono dai colleghi di altri Paesi dell'Unione europea colpiti dall'emergenza coronavirus. Per condividere non solo i problemi di questa crisi globale, ma anche le diverse possibili risposte, e perché dopo anni di formazione giudiziaria europea è naturale allargare lo sguardo. E anche perché dalla visione sinottica delle misure adottate emergono più chiaramente, nelle loro diverse declinazioni, le linee di fondo comuni della legislazione emergenziale europea: i punti di forza da non disperdere e sui quali proseguire a lavorare (tra questi, prima di tutti, l'accelerazione impressionante all'informatizzazione della giustizia) e i temi sui quali mantenersi vigili, in primo luogo l'esercizio delle libertà fondamentali e le garanzie dei soggetti del processo.
Nel ringraziare tutte le colleghe e i colleghi che hanno speso parte del loro tempo per rispondere alla nostra richiesta, vogliamo inviare un particolare abbraccio ideale a Mahrez ABASSI, presidente del Tribunale di Macon, che ha voluto raccontarci anche aspetti molto personali di una esperienza che ha lasciato il suo segno drammatico sulle vite di tante persone in Europa e nel mondo.
Per chi volesse saperne di più, segnaliamo la pagina del sito dell'European Commission for the Efficiency of Justice (CEPEJ) presso il Consiglio d'Europa,
dedicata alla panoramica delle misure adottate nei diversi Paesi per fronteggiare l'emergenza COVID-19 nei tribunali (raggiungibile all'indirizzo https://www.coe.int/en/web/cepej/compilation-comments )
Particolarmente apprezzabile, per i contenuti e per l'ambizioso e inedito coinvolgimento da remoto di giudici provenienti da Paesi ai due lati del Pacifico, anche l'iniziativa della Rete Europea di Formazione giudiziaria EJTN alla quale ha aderito per l'Italia la Scuola Superiore della Magistratura. Il 23 aprile alle 17:00 ha previsto un webcast aperto alla partecipazione di tutti i giudici UE e USA, che discuteranno di come Italia, Spagna, Germania e Stati Uniti stanno gestendo la crisi pandemica da COVID-19. Non ci sono limiti di partecipazione; per registrarsi al webcast occorre visitare il sito:
https://judges.webex.com/judges/k2/j.php?MTID=t9681e4181f6330f9e1f60068e99b94a9
La vita di un tribunale francese in piena crisi sanitaria da Covid19
Mahrez ABASSI, Presidente del Tribunale Giudiziario di Mâcon.
Quando ci sono arrivate dalla Cina le prime informazioni che ci avvisavano della nascita e della diffusione di un nuovo virus, in pochi se ne sono sentiti coinvolti. Tutto sembrava così lontano…
Cinque lettere e due cifre che purtroppo oggi ci sono divenute molto familiari : Covid19. E così, sul fronte europeo, l’ondata virale che, al principio, ha toccato così duramente l’Italia, si è abbattuta sulle altre nazioni, tra cui la Francia, senza risparmiare quasi alcun territorio.
L’amministrazione giudiziaria francese ha perciò dovuto adottare delle misure al fine di proteggere i suoi magistrati, i funzionari, l’insieme degli ausiliari della giustizia così come gli imputati che, molto spesso, sono tra i soggetti più vulnerabili.
Già da alcuni decenni, la Francia aveva riflettuto sulla messa in opera di misure speciali per il funzionamento dei tribunali in caso di gravi situazioni che avessero interessato la loro attività : il piano di « continuité d’activité ». Questo documento, elaborato dalla triarchia direzionale di ciascuna giurisdizione – il presidente del tribunale, il procuratore della Repubblica e la direzione amministrativa – è stato messo in opera in tutti i tribunali di Francia a partire dal 16 marzo 2020.
Il piano si propone un triplo obiettivo : determinare i soli servizi urgenti che vengono mantenuti ; indicare il numero ristretto di magistrati e di funzionari necessari per assicurare la continuità di ogni servizio ; precisare le condizioni in cui proseguire le attività, sia da un punto di vista materiale (il recupero dei fascicoli, il telelavoro, le attività in aula etc…) sia informatico e logistico (luogo di esercizio).
A Mâcon, in concreto, sono state adottate le seguenti soluzioni :
1.I servizi mantenuti :
2.Il numero di personale :
-Per ogni servizio, è previsto un minimo di magistrati e di funzionari, almeno un giudice e un cancelliere.
-Gli avvocati si sono organizzati per essere sostituiti da un unico collega nel corso di ciascuna udienza.
-Sono state adottate delle misure eccezionali per assicurare la sicurezza sanitaria di tutti :
3.Le condizioni di esercizio :
Per tutti gli operatori giudiziari è stato messo in opera il telelavoro, quando possibile, o dei congedi speciali di assenza .
I procedimenti civili con presenza di avvocati sono stati definiti senza udienza, ovvero con il deposito di memorie in un luogo del tribunale, con una data di deliberazione comunicata alle parti tramite la nostra rete di comunicazione elettronica.
Per consentirci di adottare queste misure senza superare i numerosi termini previsti (ordini di carcerazione, prescrizione, perenzione, decadenza, termini vari…), il 25/3/2020 il Governo ha emanato alcune ordinanze, la n° 2020-303 in materia di procedura penale e la n° 2020-304 in materia di procedura civile.
Allo stesso modo, per la durata della quarantena, sono state assunte delle disposizioni per permettere alle persone convocate dall’autorità giudiziaria o amministrativa di spostarsi, misura che inizialmente non era stata prevista.
Sotto un profilo meno tecnico, il periodo ha richiesto una eccezionale capacità di adattamento a tutti i livelli.
I magistrati e i cancellieri non sono dei superuomini e, come chiunque, hanno paura di essere contagiati. Nel mio tribunale, si sono manifestati numerosi casi con sintomi e io stesso ne sono stato personalmente toccato, poiché mia moglie, infermiera, e i miei figli sono stati colpiti dal Covid19. Per questo, si è deciso di continuare a mantenere il servizio pubblico della giustizia adottando delle misure per proteggere la salute di tutti e lottare contro la diffusione del coronavirus. Da parte mia, mi sono imposto una quarantena rigorosa e non ho visto la mia famiglia per circa un mese, trascorrendo quasi tutto il mio tempo in Tribunale, 7 giorni su 7, nel cuore della crisi sanitaria.
Perché l’attività giudiziaria non è affatto diminuita, al contrario. Ci sono stati reati (violenze coniugali, furti di derrate alimentari e di mascherine…) e istanze riguardanti i più vulnerabili (minori, incapaci, espulsioni) che è stato necessario trattare.
La sfida più grande, come presidente, si è giocata su tre fronti : predisporre un’organizzazione flessibile e premurosa per assicurare il turn-over dei magistrati e dei funzionari ; portare ogni giorno un sostegno morale indispensabile a tutti gli operatori attraverso un ascolto e una presenza permanente ;sopportare la solitudine lontano dalla propria famiglia.
A Mâcon, Bergamo, Hannover o Toledo, esiste un legame invisibile e forte che unisce tutti i magistrati e i cancellieri : la fede. Quella che riponiamo in noi stessi e che ci permette di operare per assicurare alle nostre città una pace sociale, nonostante i media e i politici lo passino sotto silenzio. Ma poco conta questa assenza di riconoscenza perché, al termine di una giornata sfibrante, resta comunque la soddisfazione d’aver realizzato INSIEME una missione essenziale : rendere giustizia.
Le misure della Grecia per l’emergenza Coronavirus.
di Alexandra Alidromiti, Giudice a Irinodikio, Athinon (Tribunale civile di primo grado ad Atene)
L'umanità sta affrontando una crisi globale a causa del coronavirus COVID-19, che è apparso in Cina e si è diffuso molto rapidamente in tutto il mondo. In Grecia il primo caso è apparso il 26 febbraio: era una donna greca della Grecia settentrionale che aveva viaggiato nel Nord Italia (Milano). Oggi per fortuna è guarita ed è a casa.
Alla fine di febbraio al confine tra Grecia e Turchia improvvisamente è apparso un numero enorme di rifugiati e immigrati che ha iniziato a cercare di "invadere" la Grecia per raggiungere l'Europa centrale e settentrionale. Erano anche un pericolo molto grave per la salute pubblica. Quindi, il mio paese ha chiuso il confine per proteggere la salute dei cittadini. Un numero enorme di poliziotti e soldati sono stati trasferiti lì a guardia del confine lungo la riva del fiume Evros, aiutati da Frontex. Sul posto sono giunte anche molte personalità importanti dell'UE, riconoscendo l'importanza del problema.
Dopo il primo caso di coronavirus il governo ha agito in modo rapido ed efficiente, fino ad ora, con l’accordo e il sostegno di tutti i partiti politici. Il Primo Ministro ha deciso che la priorità è la salute di tutti i cittadini. A seguito dei suggerimenti del Comitato nazionale per la sanità pubblica, il presidente della Repubblica greca, il primo ministro e il governo hanno preso decisioni graduali per motivi preventivi di sanità pubblica: 1) all'inizio, il 10 marzo hanno deciso di chiudere tutte le scuole e università, 2) poi, il 13 marzo hanno deciso di sospendere le attività di ristoranti, bar, musei, teatri, centri commerciali e impianti sportivi, 3) il 16 marzo sono stati chiusi tutti gli esercizi commerciali, ad eccezione dei negozi di alimentari e delle farmacie. 4) Nella stessa data è stato deciso di sospendere temporaneamente le funzioni religiose di tutte le fedi e le religioni del paese. Tutti questi provvedimenti sono stati ulteriormente estesi fino al 10 aprile 2020[1]. 5) Il 18 e il 19 marzo hanno annunciato misure finanziarie a sostegno dei dipendenti e delle aziende e il 30 marzo le misure finanziarie che sarebbero entrate in vigore ad aprile 2020 (ad esempio il divieto di licenziamento dei dipendenti nel comparto privato, nelle imprese chiuse dopo i provvedimenti del governo, agevolazioni fiscali per tali attività ecc.). Infine, il 23 marzo sono state imposte restrizioni alla circolazione dei cittadini in tutto il paese, ad eccezione degli spostamenti per ragioni di lavoro, per la fornitura di generi di prima necessità e di medicinali, per esercizio fisico in non più di due persone insieme e alle uscite per gli animali domestici, e dopo aver informato le autorità. Sono state introdotte misure rigorose per coloro che non osservano le misure (multe gravi e reclusione in alcuni casi). La parola d’ordine è diventata #westayathome (# μενουμεσπιτι). Utilizzando come testimonial personaggi dello spettacolo, dei social e persone comuni si sta cercando di convincere la popolazione a rimanere a casa.
Quanto al funzionamento della giustizia, dopo i primi provvedimenti del presidente della Repubblica greca e del primo ministro, il Ministro della Giustizia e il Ministro della Sanità hanno deciso, dal 16 marzo fino al 10 aprile[2], la sospensione temporanea delle attività di tutti i tribunali del paese, di tutti i termini legali e giudiziari per i procedimenti, della messa in esecuzione delle sentenze, dei procedimenti di esecuzione e di messa all’incanto ad eccezione delle azioni strettamente necessarie, dell'emissione delle sentenze nei tribunali civili e amministrativi, degli ordini cautelari e dei processi per soggetti arrestati in flagranza se l'imputato è detenuto; per alcuni casi è stato previsto il potere del presidente del tribunale di decidere se trattare o rinviare processi già in corso.
I giudici greci, specialmente nei tribunali civili e amministrativi, riescono a gestire la maggior parte del lavoro da casa studiando files, documenti e testimonianze e scrivendo le motivazioni dei casi che hanno già giudicato in tribunale. Ora continuiamo a farlo, ma in circostanze diverse: lo stress è ovvio per tutti noi e per i cittadini. Lavoriamo con tutta la famiglia a casa o, alcuni di noi, in completo isolamento. Allo stesso tempo, per la prima volta, abbiamo adottato strumenti tecnologici con i quali siamo riusciti a fare conferenze a distanza tra di noi per continuare il nostro lavoro. Quando andiamo in tribunale, perché dobbiamo andare due giudici, almeno, ogni giorno nel mio tribunale per i casi urgenti, abbiamo paura di chi incontreremo. Stiamo provando a prendere precauzioni per proteggerci. La maggior parte dei greci obbedisce alle misure.
Ci sentiamo al sicuro, perché abbiamo verificato che le decisioni prese tempestivamente dal governo hanno consentito di controllare la diffusione dell’epidemia nel paese, almeno per ora. Abbiamo grandi difficoltà a rimanere a casa, ma pensiamo che le misure siano necessarie per la salute dei greci.
Sappiamo che il sistema di sanità pubblica non è in buone condizioni dopo 10 anni di crisi e dobbiamo aiutarlo rispettando le misure. Inoltre siamo preoccupati per l'economia del nostro paese. Dopo tanti anni di crisi le cose stavano andando meglio prima del coronavirus.
Cosa succederà il giorno dopo?
Pensiamo anche a voi, cari colleghi e amici in Italia, in Spagna, in Francia, in Portogallo ... e inviando i nostri pensieri positivi e il nostro sostegno ... Speriamo che #tuttoandrabene!
La Giustizia in Romania ai tempi del coronavirus
di Dragoș Călin-Copresidente dell'Associazione del Forum dei giudici rumeni; giudice alla Corte d'appello di Bucarest-
Ai sensi del decreto n. 195 del 16 marzo 2020, il Presidente della Romania ha decretato lo stato di emergenza su tutto il territorio della Romania, per un periodo di 30 giorni, a partire dal 16 marzo 2020. Durante lo stato di emergenza, l'esercizio di alcuni diritti civili è limitato nei termini e alle condizioni previsti dal Decreto. Con il decreto n. 240 del 14 aprile 2020 lo stato di emergenza nel territorio della Romania è stato prorogato per ulteriori 30 giorni, a partire dal 15 aprile 2020.
1. Misure relative ai processi civili
Durante lo stato di emergenza, l'attività dei tribunali rumeni continua nei casi di particolare urgenza. In questi casi, se possibile, i tribunali adottano le misure necessarie per tenere le udienze in videoconferenza e procedono alla comunicazione dei provvedimenti via fax, e-mail o altri mezzi che assicurano la trasmissione del testo del documento e la conferma della sua ricezione.
L'elenco dei casi definiti di speciale urgenza speciale è stabilito dai tribunali competenti (l'Alta Corte di Cassazione e Giustizia e le corti di appello) come specificato nel Decreto, e il Consiglio Superiore della Magistratura fornisce indicazioni per di garantire una applicazione omogenea delle disposizioni. Il Consiglio superiore della magistratura, con decisione n. 417 del 24 marzo 2020, ha indicato le cause per le quali il giudizio non viene sospeso, tra le quali i procedimenti riguardanti la protezione dei minori, le misure cautelari, richieste di sospensione dell'esecuzione delle sentenze e qualsiasi altra richiesta che riguardi situazioni eccezionali che possono essere considerate di particolare urgenza.
Al fine di garantire un processo celere nei casi ritenuti urgenti, i tribunali, attenendosi alle regole sanitarie stabilite dalle decisioni del Comitato nazionale per le situazioni di emergenza speciali possono fissare termini più brevi, anche da un giorno all'altro, o rinviare le udienze su richiesta delle parti o d'ufficio.
Per i casi che non sono considerati urgenti i giudizi sono sospesi automaticamente, senza necessità di adottare alcun provvedimento. Verranno riassunti automaticamente alla cessazione dello stato di emergenza quando, entro 10 giorni, verrà fissata una nuova data di trattazione per ciascun processo per la quale verranno citate le parti. Nei casi che non sono ritenuti di particolare urgenza i termini per proporre appello già in corso alla data dell'entrata in vigore dello stato di emergenza sono sospesi, e nuovi termini della stessa durata riprenderanno a decorrere dalla data di cessazione dello stato di emergenza.
Le attività esecutive continuano solo nei casi in cui è possibile conformarsi alle norme sanitarie previste dal Decreto.
2. Provvedimenti relativi alle indagini e ai procedimenti penali
Le attività di indagine proseguiranno esclusivamente nei casi indicati nel decreto ed in quelli ritenuti urgenti dal pubblico ministero: casi nei quali sono state applicate o richieste misure cautelari, casi riguardanti la protezione di vittime e testimoni, casi per l'applicazione di misure sanitarie obbligatorie e casi con persone offese minorenni; casi nei quali il ritardo nelle indagini potrebbe danneggiare l'acquisizione della prova o la cattura dell'indagato/imputato e le attività di udienza preliminare; casi urgenti in relazione allo stato di emergenza nazionale, nonché altri casi urgenti considerati come tali dal pubblico ministero.
Nell’udienza preliminare e nel processo si trattano soltanto i procedimenti dichiarati urgenti dal giudice e quelli indicati nel decreto (reati in flagranza, misure cautelari, ricorsi contro sequestro di beni, cooperazione giudiziaria internazionale, misure riguardanti la protezione di vittime e testimoni, misure di sicurezza medica, reati contro la sicurezza nazionale, terrorismo o riciclaggio di denaro).
I termini per la comunicazione delle decisioni, per la presentazione di un reclamo e la decisione relativa a tali reclami vengono interrotti.
L'ascolto delle persone private della libertà deve essere effettuata mediante videoconferenza. Le gare d'appalto pubbliche per la vendita dei beni mobili sequestrati nel procedimento penale sono sospese. Si presume il consenso per la comunicazione di documenti procedurali in procedimenti penali tramite posta elettronica e, se necessario, gli organi giudiziari richiederanno urgentemente telefonicamente gli indirizzi e-mail per la comunicazione di documenti.
L'esercizio di alcuni diritti delle persone detenute è stato sospeso, mentre il tempo per le conversazioni telefoniche e online è stato aumentato di conseguenza.
3. Esempi di pratiche ai tempi del coronavirus
Durante questo periodo i giudici non sono esonerati dal lavoro, al contrario, vengono sciolte le riserve e vengono redatte le motivazioni dei provvedimenti. L’impegno è quotidiano, effettuato soprattutto da casa, mancano solo udienze regolari.
L'associazione del Forum dei giudici rumeni ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura rumena, al Ministero della giustizia, al Servizio speciale delle telecomunicazioni e a tutti i tribunali di attuare una digitalizzazione estesa e rapida dei tribunali rumeni.
Il 27 marzo 2020, la Corte d'appello di Timişoara ha ascoltato su WhatsApp un sospetto di furto, ritenuto contagiato dal coronavirus, e lo ha posto sotto controllo giudiziario in ospedale per non contaminare l'arresto.
In attuazione delle misure adottate per combattere la nuova pandemia di coronavirus le udienze del 30 marzo 2020 della Corte Suprema si sono svolte in videoconferenza, da località situate in entrambi gli uffici dell'Alta Corte di cassazione e giustizia. Il sistema è stato implementato da specialisti IT della Corte Suprema e ha funzionato senza problemi tecnici. Il 30 marzo 2020, l'Alta Corte di Cassazione e di Giustizia ha trattato procedimenti in una udienza alla quale hanno preso parte il Presidente dell'Alta Corte, i presidenti di sezione e un totale di 67 giudici, membri delle diverse unità giudiziarie, a cui si aggiungono gli assistenti magistrati e il rappresentante del Pubblico Ministero.
[1] Le misure sono state ulteriomente prorogate fino al 27 aprile e, in vista della Pasqua Ortodossa, le autorità hanno imposto dal 17 al 19 aprile ulteriori restrizioni agli assembramenti e al transito delle auto per impedire gli spostamenti in campagna dove generalmente le famiglie si riuniscono per festeggiare o per raggiungere le seconde case. [n.d.r.]
[2] Vedi nota 1. [n.d.r.]
Immagini e pensieri al tempo del coronavirus.
Maria Cristina Amoroso
Nelle affastellate immagini che ci hanno restituito i media ed i social in questa settimana ce ne sono state tre particolarmente evocative. Hanno raccontato, senza parole, di una nuova forma di resistenza civile, di un rinnovato rapporto fra cittadini e istituzioni e della dimensione privata e lavorativa di questi tempi.
1.Un violino che suona sui tetti dell’ospedale di Cremona. La “resistenza della bellezza”.
Lena Yokoyama, talentuosa violinista, ha deciso di regalare all’ospedale di Cremona momenti di etereo ma duraturo splendore. E’ salita sul tetto di uno degli ospedali oggi in lotta contro la pandemia e, con un vestito rosso leggero, ha diffuso nell’aria le note delle arie più celebri del repertorio classico italiano, ringraziando così i medici per il lavoro svolto. La musica di questo violino, che ha incantato i sanitari ed emozionato i pazienti, ha costituito un altro anello di quella lunga catena di eventi, dai canti sui balconi ai concerti in videoconferenza, che ha consentito alla musica di diventare una delle espressioni della nuova “resistenza”. Una maestra che legge il libro sotto la finestra degli alunni che non hanno il computer, un paniere calato dai balconi in cui chi ha bisogno prende cibo e chi non ha bisogno ne mette, i bigliettini sotto le porte dei negozi su cui i bambini hanno scritto che “tutto andrà bene”, gli albergatori che mettono a disposizione le loro strutture per chi non può svolgere la quarantena altrove, sono tutte forme della nuova “resistenza della bellezza”.
Si tratta di gesti compiuti in una qualsiasi parte del mondo che velocemente diventano patrimonio di tutti, senza confini. Straordinari uragani di energia positiva collettiva che squarciano con potenza la tragedia del momento, rendono la beneficienza e la solidarietà pratiche ordinarie, provocano riconversioni industriali etiche e determinano pubblicità dal sapore inedito.
Un’anima mundi che dovrebbe spingerci a pensare a come sarà la futura “normalità” che desideriamo.
2.Le strade sanificate con i mezzi antisommossa della polizia.
La polizia che usa i mezzi antisommossa per sanificare le strade, più che disinfettante sembra spandere un balsamo riconciliante tra cittadini ed istituzioni, un’acqua ragia che cancella la scritta “ACAB” e che trasforma in realtà il desiderio di avere uno Stato che prima aiuta e solo dopo aver aiutato, se è necessario, reprime.
Medicine e pensioni che arrivano trasportate dalle macchine d’ordinanza, omaggi ai medici fuori agli ospedali e mille e più divise in strada, quasi sempre senza mascherine, a fermare chi mette in pericolo gli altri. Le forze dell’ordine hanno sempre fatto questo, forse ora lo fanno di più, sicuramente oggi i cittadini hanno per loro occhi nuovi.
3.L’ultima opera del terribile Bansky. Pubblicata sui social accompagnata dalla scritta “My wife hates when I work at home”.
Se vi lamentate della vostra vita privata in quarantena, vi consiglio di pensare con sadico piacere a Bansky, uno dei maggiori esponenti della street art, solitamente abituato a rappresentare nella dimensione stradale e pubblica dello spazio urban la povertà della condizione umana, costretto dal coronavirus a realizzare la sua ultima opera in una surreale quanto simbolica location artistica.
Il bagno, spazio emblematico dell’ultimo baluardo di privacy lecito in un mondo condiviso ventiquattrore su ventiquattro con familiari che solitamente siamo abituati a vedere poche ore al giorno, diventa nella sua concretezza la tela su cui disegna topi dispettosi che creano scompiglio e caos facendo tutto ciò che in un bagno proprio non si dovrebbe fare; una rappresentazione seducente in cui i ratti dipinti sulla parete (suoi alter ego) interagiscono con gli oggetti reali dando vita ad un caos studiato, dal quale si percepisce il sottinteso fluido confine fra vita privata e vita lavorativa.
Il fronte privato ci sfida a duello più volte.
Innanzitutto dobbiamo fare i conti con lo specchio di fronte al quale il virus ci pone prima di presentare il conto al nostro spirito: non possiamo in nessun modo ignorare, o fingere di ignorare, la vera natura dei nostri rapporti. Senza mistificazioni, a breve, ci apparirà chiaro se sappiamo (e vogliamo) passare il tempo con coniugi e figli, se siamo disposti ad occuparci degli anziani genitori, se abbiamo veri amici e, soprattutto, se siamo capaci di fare compagnia a noi stessi.
Uno “stress test” dei legami umani in cui, come accade in natura, si raccoglierà quello che si è seminato.
Nei casi più dolorosi oggi le mura domestiche non significano protezione, il vincolo di rimanere in casa è già diventato la nuova insperata forza dei violenti: l’occasione per esercitare una sopraffazione ancor più forte e più crudele, perché la vittima, in questo periodo, ha oggettivamente meno possibilità di avere contatti con il salvifico modo esterno.
Da un punto di vista materiale, nei casi più sereni, vi è la necessità di riorganizzare la condivisione “del dentro”: non solo dei tempi o dei pensieri, ma anche dei luoghi; operazione complicata da realizzare in case strutturalmente e tecnologicamente impreparate alla presenza contemporanea continua di tutti i membri familiari.
L’ultima sfida, infine, riguarda la capacità di rielaborare la tradizionale concezione del lavoro alla luce degli eventi di questo momento. La volontà comune di riprodurre gli stessi cicli lavorativi del periodo pre-covid, o addirittura di aumentarli, ignorando l’assoluta e totale modifica delle condizioni in cui si opera, non può che ingenerare insoddisfazione e frustrazione perché proiettata verso un obiettivo irraggiungibile. I tempi del lavoro non sono più esclusivi come in precedenza, ma si intersecano pericolosamente con quelli della cura della casa e dei figli che, in mancanza di aiuti esterni, quand’anche equamente ripartiti tra i coniugi, sono un fattore ineliminabile destinato ad incidere sulla quantità e qualità della concentrazione riservata alle nostre attività.
Rimodulare in maniera seria le nostre aspettative di produttività ed efficienza, preservando il tempo del “dentro” dal tempo del “fuori”, evitando che il senso di colpa e l’ansia da prestazione trasformi lo “smart working” in un “total working” senza orari e senza risparmio dei giorni festivi, sembra essere l’unica strada per raggiungere l’elaborazione di un nuovo realistico concetto di lavoro “covid – sostenibile”.
La consegna del cittadino di uno Stato terzo (nota a Cass.pen.n.10371/2010)
Dubbi di legittimità circa l’omessa previsione, in sede di attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, della facoltà del giudice di rifiutare la consegna del cittadino di uno Stato terzo che risieda o dimori in Italia
di Cesare Pinelli
Sommario: 1. Premessa. 2. Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione. 3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni. 4. I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
1. Premessa.
In data 4 febbraio 2020 la VI Sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale questione di legittimità dell’art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lett. b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117, “nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno”.
L’ordinanza merita apprezzamento per la prospettazione dei profili di non manifesta infondatezza, e prima ancora per la dimostrazione dell’impossibilità di interpretare la disciplina impugnata in senso conforme a Costituzione nonché delle buone ragioni della scelta di anteporre al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia la rimessione della questione alla Corte costituzionale.
2.Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione.
Con un’impegnata motivazione, il giudice remittente esclude che la disciplina in questione possa venire interpretata in senso conforme a Costituzione, contestando l’opposto assunto della Corte d’appello di Genova nella sentenza impugnata.
Anzitutto, essa non avrebbe tenuto conto dell’innovazione apportata sul punto alla l.n. 69 del 2005 dalla l.n. 117 del 2019: nel trasformare le cause ostative ivi contemplate in rifiuto facoltativo della consegna a seguito della addizione operata al testo originario dalla sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale, la legge del 2019 “non ha preso in considerazione la posizione dei cittadini di Stati non membri dell’Unione europea che stabilmente risiedano o dimorino nel territorio nazionale e che, in quanto tali, se destinatari di un mandato di arresto europeo, ben potrebbero rientrare nella sfera di operatività (e conseguentemente beneficiare) dell’applicazione del motivo ostativo in esame”, posto che la decisione quadro consente al giudice di rifiutare l’esecuzione del mandato qualora la persona ricercata sia cittadino o dimori o risieda in uno Stato membro che si impegni a eseguire la pena o la misura di sicurezza, senza distinguere fra l’ipotesi che sia cittadino di uno Stato membro o di uno Stato terzo.
Peraltro il rifiuto di addivenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina impugnata va oltre l’argomento dello ius superveniens. Muovendo dal presupposto che una “non corretta attuazione della decisione quadro” comporta il potere-dovere del giudice comune di sollevare questione di legittimità costituzionale “laddove sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall’ordinamento” (Corte cost., n. 227 del 2010), il giudice remittente osserva che la l.n. 117 del 2019 configura al riguardo “una lacuna talmente evidente” rispetto alla scelta della decisione quadro di equiparare il cittadino dello Stato terzo a quello dello Stato membro ai fini della deliberazione sulla consegna, che un suo riempimento in via interpretativa non porterebbe a una lettura costituzionalmente conforme, ma contra legem del testo normativo.
Seguono significative considerazioni sui limiti dell’interpretazione costituzionalmente conforme, che non potrebbe produrre “una soluzione ermeneutica [……] del tutto incompatibile con il testo normativo oggetto di interpretazione, alla cui formulazione letterale deve pur sempre farsi riferimento in via prioritaria”. Il richiamo ai “cancelli delle parole”, titolo di un noto saggio di Natalino Irti, e soprattutto alla recente giurisprudenza costituzionale, equivale a una netta presa di posizione sul più ampio tema della “creatività” delle interpretazioni giudiziali, oggi notoriamente assai controverso. Presa di posizione netta, ma anche ben ponderata, poiché affermare che nemmeno un’interpretazione conforme a Costituzione può far dire a una legge ciò che la legge non dice significa cose ben diverse a seconda che il giudice si impegni nel dimostrare nella specie l’assunto, come in questo caso fa strenuamente, ovvero si limiti a negare che la lettera del testo normativo resiste a una tale torsione interpretativa. Solo nel primo caso egli potrà presupporre una eventuale insufficienza del criterio testuale, e quindi una sua priorità in senso meramente cronologico. Nell’altro caso la decisione si rivelerà carente nella motivazione, anche per avere il giudice rinunciato a fare la sua parte nella struttura triadica del giudizio incidentale, e con essa alla sua stessa responsabilità.
Lo conferma altresì il richiamo al passo della sentenza n. 36 del 2016 della Corte costituzionale per cui “l’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo”.
L’esclusione di un’interpretazione conforme a Costituzione viene dunque subordinata al suo risultare operazione “del tutto eccentrica e bizzarra” alla luce dei criteri letterale e sistematico. In effetti, nella riportata sentenza n. 49 del 2015 l’obbligo di ricorrere in via prioritaria a tale interpretazione è affermato in vista della composizione di un delicato equilibrio con la Corte di Strasburgo.
3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni.
L’ordinanza si sofferma a questo punto sulla recente giurisprudenza costituzionale sulla doppia pregiudizialità. Pur riaffermando, alla luce dell’ord.n. 117 del 2019 e della sent.n. 63 dello stesso anno, quella perdurante facoltà del giudice comune di optare fra rimessione della questione alla Corte costituzionale e rinvio pregiudiziale che la “precisazione” della sent.n. 269 del 2017 aveva implicitamente escluso enunciando l’obbligo di agire nel primo senso, la VI sezione penale dichiara di optare per l’incidente di costituzionalità. Il che pare nella specie giustificato non solo perché gran parte delle censure si appuntano sulla lesione diretta di parametri costituzionali, ma anche perché la sola riferita agli obblighi ex artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite di una violazione della decisione quadro era rilevabile ictu oculi, senza bisogno di scomodare la Corte di giustizia. E tuttavia è interessante notare incidentalmente come il giudice rimettente finisca di fatto con l’evidenziare i limiti entro cui la “precisazione” del 2017 può mantenere una portata operativa alla luce delle correzioni di tiro nel frattempo intervenute.
La premessa della “precisazione” anche qui richiamata, e consistente nel constatato intreccio dei princìpi e diritti enunciati nella CDFUE con quelli previsti in Costituzione, non è una novità, visto che già venti anni prima la Corte riteneva inevitabile la reciproca integrazione in via interpretativa tra formule enunciative di diritti garantiti in cataloghi diversi, quali nella specie la CEDU e la Costituzione (sent.n. 388 del 1999). Solo che nel 2017 su tale base si candidava, al di là della ribadita collaborazione con la Corte di giustizia, a garante dei diritti fondamentali indipendentemente dal catalogo in cui fossero previsti (Costituzione e CDFUE), col conseguente obbligo del giudice comune di sollevare questione di legittimità della legge asseritamente lesiva di tali diritti. Non a caso il sindacato accentrato veniva posto “a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)” senza distinguere a seconda che la legge confliggesse col diritto dell’Unione direttamente applicabile ovvero con una direttiva o con una decisione quadro.
Più ancora che per l’annoso problema della doppia pregiudizialità, su cui del resto, prima o poi, non avrebbe potuto non influire la sopraggiunta accettazione da parte della stessa Corte della qualifica di giudice ai fini del rinvio pregiudiziale (a partire dall’ord.n. 103 del 2008), la “precisazione” innovava a indirizzi notoriamente consolidati da decenni, con l’avocazione della cognizione di ogni dubbio di lesione di un diritto fondamentale, compresa appunto quella perpetrata da leggi confliggenti col diritto UE direttamente applicabile. Successive correzioni di tiro, segnalate anche dall’ordinanza di rimessione in esame, tenderanno a riassorbirne la portata dirompente. Oltre a ripristinare la facoltà, in luogo dell’obbligo, per il giudice comune di sollevare questione di legittimità in via prioritaria rispetto al rinvio pregiudiziale al giudice del Lussemburgo (sent.n. 20 del 2018), la Corte tornerà a ribadire il potere-dovere dello stesso giudice di non applicare la legge asseritamente lesiva di norme UE direttamente applicabili (sent.n. 63 e ord.n. 117 del 2019), limitando perciò l’ipotesi della quaestio all’ipotesi di norme nazionali dettate in attuazione di fonti del diritto dell’Unione, come la decisione quadro.
4.I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
L’ordinanza enuclea quattro profili di non manifesta infondatezza. Il primo è riferito agli artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite della decisione quadro del 2002, là dove prevede la facoltà del giudice dell’esecuzione di rifiutare la consegna della persona ricercata alla triplice condizione ivi prevista (“se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno”). Qui il giudice rimettente ha buon gioco nel sottolineare un contrasto testuale della disposizione impugnata per omessa previsione, fra i soggetti ai quali potrebbe riferirsi la mancata consegna, del cittadino del Paese terzo che risieda o dimori in uno Stato membro dell’Unione, tanto più che la decisione quadro non abilita gli Stati membri a conferire ai termini da essa impiegati una portata più estesa di quella risultante dall’interpretazione della Corte di giustizia (§§ 42 e 43 di Koslowski, 17 luglio 2008). Per cui, osserva il giudice a quo, “la volontà di tracciare un modello definitorio comune di elementi lessicali cui il legislatore europeo ha evidentemente attribuito valenza centrale nella costruzione del nuovo regime di consegna delle persone ricercate, ancorandolo al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e rendendolo applicabile, pertanto, su una base comune di regole generalmente condivise dai diversi Stati membri: i termini «dimori» e «risieda», che delimitano la sfera di applicazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, costituiscono in tal modo l’oggetto di una definizione scolpita sulla base di criteri necessariamente ‘uniformi’, proprio in quanto si riferiscono a nozioni ‘autonome’ del diritto dell’Unione europea”.
Gli altri profili si incentrano sulla violazione diretta di princìpi costituzionali, rispettivamente individuati nell’eguaglianza davanti alla legge, nella funzione rieducativa della pena e nel rispetto del diritto alla vita familiare come sancito fra gli altri dagli artt. 2 Cost. nonché 117, primo comma, per il tramite dell’art. 8 CEDU.
Quanto alla violazione del principio di eguaglianza, il giudice a quo rinviene correttamente il tertium comparationis nella opposta disciplina del mandato processuale, in ordine al quale la condizione del cittadino dello Stato terzo è equiparata a quella degli Stati membri dell’Unione, peraltro col risultato che “il residente gode di una tutela più ampia proprio nell’ipotesi in cui l’allentamento dei vincoli relazionali causato dalla consegna cd. ‘processuale’ potrebbe di contro affievolire le capacità rieducative della pena”. Ma non si limita a rilevare questo esito paradossale, e volge l’attenzione al complesso del diritto derivato europeo onde accertare le conseguenze della disposta esclusione dei cittadini di Stati terzi allorché lo stesso ordinamento dell’Unione riconosca a determinate categorie di costoro uno status particolare, come i “soggiornanti di lungo periodo” alla stregua della direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, oltre ai cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini europei, beneficiari del diritto al ricongiungimento. Osserva in particolare la Corte di cassazione che “i cittadini di Paesi terzi, pur se stabilmente residenti in Italia, costituiscono l’unica ‘categoria’ di destinatari di un mandato in executivis esclusa dall’applicazione del motivo di rifiuto di cui all’art. 18-bis, comma 1, lett. c), poiché siffatta causa ostativa dell’esecuzione, di contro, è utilmente invocabile in favore dei cittadini italiani, dei cittadini di un altro Stato membro dell’Unione residenti nello Stato e finanche degli apolidi stabilmente residenti nel territorio dello Stato, per effetto dell’equiparazione ai cittadini ai fini della legge penale prevista dall'art. 4, comma 1, cod. pen.”.
Nell’accomunare i cittadini effettivamente residenti o dimoranti in uno Stato membro ai suoi cittadini per il profilo che interessa, la decisione quadro riflette l’ispirazione della citata direttiva del 2003, frutto più fedele dell’orientamento, sancito dal Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, per cui i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro in un congruo periodo di tempo avrebbero dovuto acquisire una titolarità di diritti “il più possibile simile” a quella dei cittadini europei. Un orientamento che ci appare oggi remoto rispetto agli indirizzi legislativi prevalenti in materia non solo nel nostro ordinamento.
La trattazione di questo profilo comporterebbe per la Corte costituzionale un’esposizione supplementare di cui dubito vorrà farsi carico, essendo già chiamata a una richiesta di additiva, pur prospettata con precisione chirurgica alla luce della precedente sent.n. 227 del 2010. Inoltre il motivo di violazione del principio di eguaglianza muove in questo caso da un’ampia disamina della normativa derivata dell’Unione, a differenza di quello relativo all’esito del tutto irragionevole di una comparazione fra destinatari di un mandato processuale e di un mandato esecutivo, risultante solo dalla disciplina nazionale.
Appunti sulla nuova disciplina delle intercettazioni
di Aniello Nappi
Sommario: 1. Un archivio fondamentale- 2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni- 3. Utilizzabilità nei processi penali- 4. Utilizzabilità extrapenale.
1. Un archivio fondamentale
Se non interverrà un ulteriore rinvio, tra qualche settimana entrerà in vigore la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali prevista dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, cosiddetta riforma Orlando, e dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito nella l. 28 febbraio 2020, n. 7, cosiddetta riforma Bonafede.
Le due leggi di riforma, in parte sovrapposte, sono intervenute su numerosi articoli del codice di procedura penale[1]. Ma può ben dirsi che il cardine della nuova disciplina è nell’archivio istituito a norma dell’art. 269 comma 1 c.p.p. presso l'ufficio dello stesso pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni: un archivio gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica e relativo a tutte le intercettazioni disposte dall’ufficio.
Si tratta dunque di un archivio dell’ufficio non del singolo procedimento. Tuttavia l’istituzione e la disciplina di questo archivio hanno conseguenze determinanti sia nella prospettiva del regime di conoscibilità dei risultati delle intercettazioni sia nella prospettiva della loro utilizzabilità, non solo nel processo penale ma anche in altri giudizi civili e amministrativi. E in mancanza di un’adeguata considerazione per il suo ruolo effettivo si rischia di vanificare i possibili effetti positivi della riforma.
2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni
Secondo quanto precisa l’art. 89 bis comma 2 disp. att., che disciplina l’archivio, «il procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito»; e l’art. 114 comma 2-bis c.p.p. aggiunge che di questi atti è vietata la pubblicazione prima che siano stati selezionati come rilevanti ai fini del procedimento; mentre lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. prevede esplicitamente che «non sono coperti da segreto solo i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni acquisite al fascicolo di cui all'articolo 373, comma 5, o comunque utilizzati nel corso delle indagini preliminari».
L’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p., e disciplinato dall’art. 89 bis disp. att., è dunque distinto ed esterno al fascicolo del pubblico ministero, di cui all’art. 373 comma 5 c.p.p.; e l’inserimento dei risultati delle intercettazioni nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. non ne comporta l’acquisizione al fascicolo delle indagini preliminari, anche perché sono tutelati da un segreto diverso dal segreto investigativo previsto dall’art. 329 c.p.p.
Questa tutela non è infatti quella prevista per il segreto investigativo, che cade per gli atti di cui l’imputato possa avere conoscenza (art. 329 comma 1 c.p.p.), considerato che lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. riconosce ai difensori delle parti l'accesso all'archivio e l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate, per consentire loro l'esercizio dei propri diritti e facoltà. Si tratta dunque di una tutela ulteriore, propria dei segreti professionale e di ufficio, prevista in attuazione del divieto di comunicare e divulgare i dati registrati, per finalità diverse da quelle per cui l’intercettazione è ammessa, secondo quanto imposto dalla normativa di garanzia della privacy. E la distinzione di questo ulteriore segreto da quello investigativo giustifica la specifica previsione del divieto di pubblicazione degli atti cui si riferisce l’art. 114 comma 2- bis c.p.p.; un divieto che permane anche dopo che essi non siano più coperti dal segreto investigativo.
Secondo quanto prevede il regolamento della privacy, infatti, i dati personali sono oggetto di trattamento e sono raccolti solo per lo scopo per il quale il trattamento è autorizzato. Non sono ammessi trattamenti incompatibili con le finalità per le quali sono stati autorizzati; e i dati personali non possono essere conservati per un tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti. Esaurito questo tempo, i dati vanno distrutti d'ufficio o su iniziativa degli interessati.
Peraltro, come s’è detto, questa tutela rimarrà solo per le comunicazioni e registrazioni che non risulteranno selezionate ai fini della prova; quelle a tal fine selezionate dalle parti e dal giudice non saranno più coperte dal divieto di pubblicazione imposto dall’art. 114 comma 2-bis c.p.p.
I verbali e le registrazioni contenute nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. potranno dunque essere consultati solo dal giudice dal pubblico ministero e dai difensori delle parti, che non potranno estrarne copia prima della selezione a fini di prova e limitatamente a quelli effettivamente selezionati (art. 268 comma 8 c.p.p.).
3. Utilizzabilità nei processi penali
Prima della selezione, d’altro canto, le comunicazioni e le registrazioni inserite nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili, come si desume dallo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. e dall’art. 89 bis disp. att., che implicitamente ne vietano l’utilizzazione prima della selezione prevista dagli art. 268, art. 415 bis comma 2-bis, art. 454 comma 2-bis c.p.p.
Secondo quanto prevede l’art. 268 comma 4 c.p.p., infatti, i verbali e le registrazioni, trasmessi al pubblico ministero, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni «sono depositati presso l'archivio di cui all'articolo 269, comma 1, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l'intercettazione». Tuttavia, «se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari» (art. 268 comma 5 c.p.p.); con la conseguenza che in questo caso vengono a sovrapporsi il termine di deposito dei risultati delle intercettazioni e il termine di deposito ex art. 415 bis comma 2 c.p.p. del fascicolo delle indagini preliminari. Nonostante questa sovrapposizione, però, «la documentazione relativa alle indagini espletate» deve essere «depositata presso la segreteria del pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2 c.p.p.), mentre i verbali e le registrazioni relativi alle intercettazioni rimangono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., così come disposto dall’art. 268 comma 4 c.p.p., che ne impone comunque la conservazione in quell’archivio indipendentemente dal deposito per i difensori.
La distinzione tra il fascicolo del pubblico ministero e l’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. è fondamentale, perché i verbali e le registrazioni inclusi nell’archivio non possono essere trattati come atti delle indagini preliminari prima della selezione, che è necessaria anche per utilizzarli ai fini cautelari, come si vedrà.
Effettuato il deposito, ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato dal pubblico ministero ed eventualmente prorogato dal giudice (art. 268 comma 4 c.p.p.), «per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche» (art. 268 comma 6 c.p.p.), senza però poterne ottenere copia prima della selezione da parte del giudice.
Nel caso in cui al deposito delle intercettazioni non si sia proceduto prima della chiusura delle indagini preliminari (art. 268 comma 5 c.p.p.), l'avviso del deposito ex art. 415 bis comma 2 «contiene inoltre l'avvertimento che l'indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti depositati relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facoltà di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.). E analogamente prevede l’art. 454 comma 2-bis c.p.p. per il caso di giudizio immediato richiesto dal pubblico ministero prima del deposito ex art. 268 c.p.p., fermo restando che anche in questo caso i verbali e le registrazioni sono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1. Il diritto dei difensori alla copia è dunque parzialmente anticipato nel caso in cui il pubblico ministero sia tenuto a depositare l’elenco delle comunicazioni ritenute rilevati; e benché non espressamente menzionato, va riconosciuto anche nel caso previsto dall’art. 454 comma 2-bis c.p.p., in applicazione analogica dell’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.
Alla scadenza dei termini di deposito è di regola il giudice che decide immediatamente sulle richieste delle parti di acquisire conversazioni o flussi di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 268 comma 6 c.p.p.): senza deposito e senza richiesta delle parti il giudice non potrebbe operare d’ufficio la selezione, sicché i risultati delle intercettazioni rimarrebbero estranei allo stesso fascicolo delle indagini preliminari, essendo incluse solo nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., nel quale vanno comunque conservate indipendentemente dal deposito per i difensori.
Nei casi in cui il deposito sia avvenuto a norma dell’art. 415 bis comma 2-bis o dell’art. 454 comma 2-bis c.p.p., invece, è il pubblico ministero che, dopo avere indicato le registrazioni rilevanti per l’accusa, decide con decreto motivato sulle richieste dei difensori, che possono depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiedono copia; solo se le richieste difensive siano disattese o insorgano comunque contestazioni sulle registrazioni ritenute rilevanti anche dallo stesso pubblico ministero, i difensori possono rivolgersi al giudice perché provveda a norma dell’art. 268 comma 6. Ma in ogni caso, quale che sia il procedimento di selezione, sono inammissibili le richieste generiche di acquisizione di tutte le conversazioni intercettate, perché il procedimento esige indicazioni specifiche, onde impedire che risultino incluse nello stesso fascicolo del pubblico ministero, prima che nel fascicolo per il dibattimento, le conversazioni non effettivamente rilevanti. La stessa istituzione dell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. rimarrebbe vanificata, ove si ammettesse un indiscriminato trasferimento del suo contenuto nel fascicolo delle indagini preliminari.
Anche nei casi previsti dagli art. 415 bis comma 2-bis e 454 comma 2-bis c.p.p., nei quali può essere il pubblico ministero a effettuare la selezione senza intervento del giudice, deve ritenersi che una decisione di acquisizione indiscriminata di tutte le registrazioni, benché condivisa dalle difese, non sarebbe idonea a renderle utilizzabili, sottraendole al regime di inutilizzabilità di quanto conservato nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e non regolarmente selezionato. Questa inutilizzabilità dovrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice quando, «anche nel corso delle attività di formazione del fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'articolo 431», è chiamato a disporre la trascrizione delle registrazioni (art. 268 comma 7 e 457 comma 1 c.p.p.).
Poiché è prevedibile che il procedimento di selezione più ricorrente sarà quello previsto dall’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p., l’effettività della riforma dipenderà dal corretto esercizio di questo potere d’ufficio da parte dei giudici dell’udienza preliminare. Altrimenti nulla cambierebbe: il pubblico ministero richiederebbe e il giudice disporrebbe, con il consenso almeno implicito dei difensori, l'acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni, senza alcun preventivo vaglio di rilevanza; le trascrizioni verrebbero inserite tutte nel fascicolo per il dibattimento; diverrebbero così conoscibili agevolmente anche quelle conversazioni non rilevanti, che non dovrebbero essere neppure acquisite agli atti, ma si leggerebbero addirittura sui giornali.
In ogni caso, se la selezione viene eseguita correttamente, il giudice provvede a separare in tre parti i verbali e le registrazioni provenienti dall'intercettazione: registrazioni rilevanti; registrazioni inutilizzabili; registrazioni utilizzabili ma non rilevanti.
Le registrazioni e i verbali di cui è vietata l'utilizzazione, salvo che costituiscano corpo del reato, sono distrutti, su ordine del giudice (art. 271 comma 3 c.p.p.) e sotto il suo controllo (art. 269 comma 3 c.p.p.), con decisione assunta in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p. (art. 269 comma 2 c.p.p.).
Le registrazioni e i verbali che non sono inutilizzabili sono con-servate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione (art. 269 comma 2 c.p.p.). Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza.
D'altro canto, durante le indagini preliminari, e segnatamente ai fini delle misure cautelari, i risultati rilevanti delle intercettazioni, purché già conferiti nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. (art. 291 comma 1 c.p.p.), possono essere utilizzati dal pubblico ministero già prima del deposito, della selezione e della trascrizione delle registrazioni ex art. 268 c.p.p., anche perché queste operazioni possono essere differite sino alla chiusura delle indagini (art. 268 comma 5 c.p.p.). Tuttavia anche in questi casi la selezione non è operata unilateralmente dal pubblico ministero. Infatti, secondo quanto prevede l’art. 92 comma 1-bis disp. att., contestualmente all’adozione della misura cautelare «sono restituiti al pubblico ministero, per la conservazione nell'archivio di cui all'articolo 89 bis, gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal giudice non rilevanti o inutilizzabili». La scelta unilaterale del pubblico ministero non è dunque sufficiente per la trasmigrazione dei risultati delle intercettazioni dall’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. al fascicolo delle indagini preliminari.
Le comunicazioni e le conversazioni selezionate dal giudice, anche a fini cautelari, sono peraltro utilizzabili come prova sia nella fase delle indagini preliminari sia in dibattimento.
Secondo la giurisprudenza precedente la riforma «in sede di giudizio abbreviato, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie compiute dalla polizia giudiziaria circa il contenuto di conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione (cosiddetti "brogliacci"), essendo utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che siano stati legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero»[2]. Questa giurisprudenza deve ritenersi ormai superata, perché, come risulta dall’art. 269 comma 1 c.p.p., prima della selezione i cosiddetti brogliacci non vanno acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, ma sono custoditi nell’apposito archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e sono assolutamente inutilizzabili. Di tanto non tiene conto una relazione del Massimario della Corte di cassazione recentemente pubblicata dalla rivista on line Sistema penale, perché vi si ritiene ancora possibile utilizzare ai fini del giudizio abbreviato i verbali e le registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
4. Utilizzabilità extrapenale
Secondo la giurisprudenza civile i risultati delle intercettazioni eseguite nel procedimento penale sono pienamente utilizzabili sia dal giudice tributario sia dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, senza le limitazioni che l’art. 270 c.p.p. prevede per l’utilizzazione in altri procedimenti penali[3].
Si ritiene in particolare che «le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., norma quest'ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato o dell'indagato sicché si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all'acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale»[4]. E quanto al procedimento tributario si sostiene che «non ricorre nei procedimenti diversi da quello penale in seno al quale siano state autorizzate ed espletate le intercettazioni telefoniche, la ratio sottesa al divieto stabilito dall'art. 270 c.p., la quale è volta ad evitare che procedimenti con imputazioni fantasiose possano legittimare il ricorso alle intercettazioni, al fine di propiziarne l'utilizzazione in procedimenti per reati che non avrebbero consentito questo mezzo d'indagine»[5].
Analogamente è orientata la giurisprudenza amministrativa, nel presupposto, ancora più radicale, che «in tema di rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici, gli eventuali errori nella procedura di acquisizione delle prove da par-te dell'autorità giudiziaria che rendano le stesse inutilizzabili nel procedimento penale non ne comportano l'automatica inutilizzabilità in sede amministrativa»[6]; sicché l'inutilizzabilità delle intercettazioni non può spiegare effetti oltre gli ambiti processuali penali[7] e «gli atti e le risultanze tutte del procedimento penale, comunque acquisiti, devono essere valutati autonomamente dall'Amministrazione»[8].
Sicché si riconosce l’utilizzazione a fini extrapenali dei risultati di intercettazioni che non siano stati selezionati come rilevanti in alcun procedimento penale, come se si ammettesse l’intercettazione anche a fini amministrativi, in palese violazione della Costituzione.
Anche questa giurisprudenza deve ritenersi comunque superata dall’attuale disciplina delle intercettazioni, perché i verbali e le registrazioni custoditi nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili; e possono esserne prelevati solo in quanto selezionati ai fini dell’utilizzazione in un processo penale. Nessuno potrebbe estrarre copia di verbali o registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
Sarebbe pertanto necessario che anche la giurisprudenza civile, in particolare delle Sezioni unite della Corte di cassazione, prendesse atto di questa evoluzione normativa.
[1] Per un esame più completo e dettagliato rinvio a www.guidanappi.it
[2] Cass., sez. VI, 24 marzo 2010, Haj, m. 247007, Cass., sez. V, 26 marzo 2013, Nocella, m. 255655, Cass., sez. VI, 3 novembre 2015, Sedira, m. 265730.
[3] A. Nappi, Sull'utilizzazione extrapenale dei risultati delle intercettazioni, in Cass. pen., 2014, p. 386.
[4] Cass., sez. u, 15 gennaio 2020, n. 741, m. 656792, Cass., sez. un., 12 febbraio 2013, n. 3271, m. 625434, Cass., sez. un., 24 giugno 2010, n. 15314, m. 613973, Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292, m. 610804.
[5] Cass., sez. V, 7 febbraio 2013, n. 2916, m. 625254.
[6] Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2009, n. 7703.
[7] T.A.R. Roma Lazio sez. III, 19 marzo 2008, n. 2472, T.A.R. Roma Lazio sez. II, 6 giugno 2013, n. 5638.
[8] T.A.R. Lecce Puglia sez. III, 15 ottobre 2010, n. 2079.
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