ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La tecnica al servizio della giustizia penale
Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura Italia”
di Giuseppe Santalucia
sommario: 1. Premessa. – 2. Ulteriori ipotesi di deroga alla sospensione dei termini e al rinvio delle udienze. – 3. Attività giudiziaria a distanza. Le indicazioni originarie del decreto legge. – 3.1. Modalità di partecipazione a distanza. – 3.2. Presenza in remoto dell’ausiliario? – 4. Ampliamento dei casi di attività giudiziaria da remoto. – 4.1. L’udienza da remoto fuori dell’aula di udienza. – 4.2. Collegamento a distanza e presenza in ufficio. – 5. Attività giudiziaria da remoto in corso di indagini. – 5.1. Modalità di attuazione. – 6. Le novità per i procedimenti pendenti dinnanzi alla Corte di cassazione. – 6.1. La presentazione delle richieste di trattazione dei procedimenti. – 6.2. Il decorso della prescrizione per i procedimenti pendenti nel giudizio di legittimità. – 6.3. L’eccezionale “cameralizzazione” non partecipata dei procedimenti con udienza pubblica e con partecipazione camerale. – 6.3.1. La richiesta di discussione orale. – 6.3.2. Modalità di trattazione. – 6.3.3. Nuova procedura ed esigenze di rinvio di udienze già fissate. – 6.3.4. – Modalità di decisione. – 7. Deliberazione da remoto. – 8. Un’osservazione finale. –
1. Premessa. – I lavori parlamentari di conversione del decreto legge n. 18 del 2020 (cd. cura Italia) - disegno di legge n. 1766 AS – procedono speditamente.
L’8 aprile, nella seduta antimeridiana, sono stati conclusi i lavori della competente Commissione parlamentare del Senato in sede referente (5° Commissione Bilancio) ed è stato proposto all’Aula un testo modificato alla luce dell’approvazione, per quel che ora interessa, di un emendamento governativo e di alcuni subemendamenti allo stesso.
L’assemblea del Senato, dopo l’apposizione da parte del Governo della questione di fiducia, ha approvato, nella seduta pomeridiana del 9 aprile, l’emendamento interamente sostitutivo del disegno di legge, formato sulla base di quanto approvato dalla Commissione referente il giorno precedente.
Alcune importanti novità per il settore penale sono conseguenza delle modifiche approvate in sede referente, che, con ogni probabilità, saranno presto legge, facendosi fatica ad immaginare che i lavori successivi porteranno ulteriori modifiche, con conseguente necessità che il testo, ora trasmesso alla Camera dei deputati, ritorni all’esame del Senato.
Nel frattempo il Governo ha emanato il decreto legge n. 23 – G.U. dell’8 aprile 2020 – con cui ha rinviato all’11 maggio prossimo la cessazione del periodo, prima compreso tra il 9 marzo e il 15 aprile 2020, durante il quale sono sospesi di diritto i termini per il compimento di qualsivoglia atto processuale e le udienze sono rinviate ad altra data in riferimento a tutti i procedimenti pendenti, salvo alcune tassative eccezioni che proprio il decreto legge n. 18 del 2020, della cui conversione ora ci si occuperà, ha definito.
Il periodo di stasi obbligatoria pressoché totale della giustizia penale è quindi prorogato sino all’11 maggio prossimo; dal 12 maggio, e con cessazione comunque, come già previsto al 30 giugno 2020, avrà inizio il secondo periodo dell’emergenza, quello in cui, con provvedimenti dei dirigenti degli uffici giudiziari potrà organizzarsi – tenendo conto delle risorse disponibili – lo svolgimento di attività in misura più ampia.
2. Ulteriori ipotesi di deroga alla sospensione dei termini e al rinvio delle udienze. – Il catalogo dei procedimenti che sono sottratti, in via di eccezione, alla duplice regola della sospensione dei termini e del rinvio di udienza, è arricchito, in forza di un emendamento governativo in sede di conversione del decreto legge n. 18, dalla previsione dei procedimenti per la consegna di un imputato o di un condannato all'estero ai sensi della legge 22 aprile 2005, n. 69 – legge sul mandato di arresto europeo – e dei procedimenti di estradizione per l'estero di cui al capo I del titolo II del libro XI del codice di procedura penale.
L’approvazione di altro emendamento, di provenienza parlamentare, ha completato la disposizione relativa ai procedimenti di convalida di arresto e di fermo, già esclusi dal blocco di attività, con l’aggiunta dei procedimenti di convalida degli ordini di allontanamento immediato dalla casa familiare.
Anche per i menzionati procedimenti, pertanto, non valgono le misure di restrizione e di essi è imposta la trattazione ordinaria, senza sospensione di termini e rinvio di udienze.
Altra novità in tema è stata apportata dal decreto legge n. 23, emanato – come detto – qualche giorno fa: nel prorogare all’11 maggio la cessazione della fase emergenziale di maggiore restrizione delle attività giudiziarie, ha previsto, in deroga, che il blocco non debba riguardare i procedimenti penali a carico di persone in stato di restrizione cautelare, i cui termini massimi ex art. 304 cod. proc. pen. scadranno nei sei mesi successivi all’11 maggio, nuova data di cessazione della fase giudiziaria di maggiore rallentamento, che ha sostituito quella del 15 aprile.
Questa disposizione integra quella del decreto legge n. 18 in corso di conversione, che esclude dall’applicazione della normativa emergenziale, in punto di sospensione dei termini e di rinvio delle udienze, i procedimenti con scadenza nel periodo ivi indicato – ossia dal 9 marzo al 15 aprile, ora 11 maggio 2020 – dei termini massimi di custodia cautelare di cui all’art. 304 cod. proc. pen.
Se, però, quel che rileva nel decreto legge n. 18 è che i termini di custodia ex art. 304 scadano nel periodo dal 9 marzo al 15 aprile, ora 11 maggio, imponendosi in tal caso la trattazione ordinaria senza alcuna sospensione o rinvio di attività, per il decreto legge n. 23 il dato rilevante è che la scadenza di quegli stessi termini cada nel periodo successivo all’11 maggio e sino al 12 novembre 2020. Tale categoria di procedimenti, individuata secondo questo nuovo criterio, si aggiunge a quella precedente, formata dai procedimenti in cui i termini di custodia ex art. 304 vanno in scadenza nel precedente periodo, intercorrente tra il 9 marzo e il 15 aprile, ora 11 maggio.
Entrambe le categorie di procedimenti sono sottratte alle regole eccezionali e temporanee della sospensione dei termini processuali e del rinvio dell’udienza.
Si può dunque affermare che i procedimenti nei confronti di imputati detenuti, i cui termini massimi di custodia di cui all’art. 304 vanno a scadere nel periodo dal 9 marzo all’11 novembre 2020, devono essere oggetto di trattazione senza applicazione alcuna della normativa emergenziale.
3. Attività giudiziaria a distanza. Le indicazioni originarie del decreto legge. – Novità più consistenti attengono alla possibilità che il lavoro giudiziario, e non solo gli impegni di udienza, sia esercitato con le modalità del collegamento da remoto.
Già il decreto legge ha disposto – art. 83, comma 12 – che nell’intero periodo interessato dall’emergenza, ossia dal 9 marzo al 30 giugno 2020, “la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, applicate, in quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'articolo 146-bis disp. att. cod. proc. pen.”
La normativa dell’emergenza non distingue tra udienza dibattimentali e udienze camerali e tra tipologie di reati per i quali si procede o, ancora, per veste processuale della persona della cui partecipazione a distanza si discuta.
Presupposto necessario per dare luogo ad una udienza a distanza è:
Si ha così che se al processo, o al procedimento camerale, deve prendere parte, a qualsiasi titolo, una persona ristretta nella libertà personale, allora, in deroga alla tassativa tipologia di casi della disciplina ordinaria, si procede per mezzo dei collegamenti audiovisivi a distanza, sempre che ve ne sia la possibilità tecnica e se ne ravvisi l’opportunità processuale.
Le ipotesi in cui può procedersi a distanza sono, esemplificativamente:
3.1. Modalità di partecipazione a distanza. – La normativa del decreto legge n. 18, al netto delle innovazioni apportate in sede di conversione, è derogatoria di quella a regime per quanto attiene ai presupposti, non anche per quel che concerne le modalità di attivazione del collegamento a distanza e, soprattutto, l’individuazione del luogo di svolgimento delle udienze.
Esso, nella previsione del decreto, resta quello ordinario, sicché il giudice può giovarsi del nuovo modulo recandosi comunque in ufficio e dando corso da lì, specificamente da un ambiente istituzionalmente destinato alla trattazione delle udienze, al collegamento.
Il decreto legge n. 18, ancora, fa richiamo, in quanto compatibili, alle disposizioni di cui all’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen., in particolare;
- alla disposizione che impone che vi sia la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti sia nel luogo di udienza che in quello remoto, con possibilità effettiva di udire quanto viene detto. Ciò anche quando vi sia una pluralità di collegamenti con più luoghi remoti, in modo che tutti siano messi nelle condizioni di vedere e udire gli altri;
- alla possibilità per il difensore, o il suo sostituto, di essere presente nel luogo remoto e alla possibilità che il difensore o il suo sostituto, presenti in aula di udienza, si consultino riservatamente con l’imputato, o in genere con la persona assistita, per mezzo di strumenti tecnici idonei;
- alla equiparazione del luogo remoto a quello del luogo di udienza, con conseguente possibilità per il giudice di esercitare anche in remoto i poteri di direzione e di disciplina.
3.2. Presenza in remoto dell’ausiliario? – Non è invece richiamata la disciplina contenuta nel comma 6 dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen., secondo cui, tra l’altro, “un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza designato dal giudice o, in caso di urgenza, dal presidente è presente nel luogo ove si trova l’imputato e ne attesta l’identità dando atto che non sono posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà a lui spettanti”.
Dal mancato richiamo sorge la questione se possa farsi a meno della presenza in remoto di un ausiliario del giudice e se quindi la persona detenuta posta a distanza possa partecipare all’udienza senza che un ausiliario ne attesti l’identità e attesti l’assenza di impedimenti o limitazioni all’esercizio dei suoi diritti o facoltà.
Si può osservare, ma il rilievo – come si dirà a breve – è superato dalle modifiche apportate in sede di conversione, che la partecipazione a distanza, in deroga alla disciplina ordinaria, è riservata ai soggetti comunque detenuti. Sarebbe allora difficile ipotizzare che in remoto possa non esserci un pubblico ufficiale, un ausiliario che, a quel punto, svolgerà tutte le attività che il non richiamato comma 6 dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. gli assegna in via ordinaria.
4. Ampliamento dei casi di attività giudiziaria da remoto. – L’emendamento governativo ha ulteriormente investito sulla modalità operativa del collegamento a distanza. Si stabilisce ora che “le udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti possono essere tenute mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia”.
Non è più decisivo, per l’attivazione del collegamento a distanza, che all’udienza prenda parte una persona detenuta o internata.
Quel che rileva è che si tratti di udienza, quale che sia il tipo di procedimento, in cui non debbano intervenire soggetti diversi da quelli specificamente indicati, e quindi, volendo tentare qualche esemplificazione, non debbano intervenire: - testimoni, sempre che non siano appartenenti alla polizia giudiziaria; - coimputati o imputati di reati connessi o collegati per i quali si proceda separatamente, non potendo costoro ricadere nella nozione di parti private, perché sono parti sì ma del procedimento separato; - altre persone, sempre non appartenenti alla polizia giudiziaria, la cui presenza sia necessaria per l’assunzione di determinati mezzi di prova, quale una ricognizione o un confronto o un esperimento, fatta salva per quest’ultima ipotesi la previsione di eccezione per periti, consulenti o altri ausiliari tecnici.
La disposizione allarga in misura considerevole l’ambito applicativo della disciplina del lavoro giudiziario da remoto e, nel far ciò impone che siano salvaguardati il contraddittorio e l’effettività della partecipazione delle parti alle attività di udienza; e che, in conseguenza, sia previamente verificata l’idoneità al fine delle modalità di svolgimento a distanza.
Allo stesso modo, con altro emendamento di provenienza parlamentare – che ha aggiunto una lettera, h-bis), alla elencazione di cui al comma 7 dell’articolo 83 – si è previsto che tra le misure organizzative che i dirigenti degli uffici giudiziari dovranno adottare per regolare l’attività nel secondo periodo dell’emergenza, specificamente dal 12 maggio al 30 giugno 2020, potranno inserire lo svolgimento dell’attività degli ausiliari del giudice con collegamenti da remoto, che siano comunque tali da salvaguardare il contraddittorio e l’effettività della partecipazione delle parti.
4.1. L’udienza da remoto fuori dell’aula di udienza. – Il giudice, prima dell’udienza, dovrà comunicare ai difensori delle parti, e quindi non anche alle parti personalmente, oltre che al pubblico ministero, e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione – e qui sono da intendersi tutti gli altri soggetti che non sono per definizione assistiti da un difensore, quindi periti, consulenti, ausiliari – giorno, ora e modalità di collegamento.
Con l’inciso “prima dell’udienza” la disposizione del testo licenziato dal Senato intende dire che il giudice dovrà dare le prescritte indicazioni in tempo utile per lo svolgimento di quelle attività che, per quanto siano tipicamente di udienza, si svolgeranno senza che egli sia fisicamente presente nell’aula dedicata all’udienza, in specie nei locali dell’ufficio giudiziario a tal fine predisposti.
Le indicazioni dovranno pervenire a tutti i soggetti interessati in modo che possano attrezzarsi per il collegamento da remoto, che sarà non necessariamente con l’aula di udienza, potendo appunto il giudice allocarsi in altro luogo, in particolare, sempre al fine di evitare il pericolo di contagio, dalla sua abitazione, e da lì dirigere le attività, purché siano assicurate le modalità operative di cui si è detto.
I difensori dovranno attestare l'identità dei soggetti assistiti, i quali, se liberi o sottoposti a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, parteciperanno all'udienza solo dalla medesima postazione da cui si collega il difensore. Non è indicato, a tal proposito, quale dovrà essere la postazione del collegamento, sicché non vi sono ostacoli a che essa sia individuata nei locali dello studio professionale. Per il caso in cui l’assistito si trovi in stato di arresto o fermo in un luogo di restrizione domiciliare (abitazione, altro luogo di priva dimora, luogo pubblico di cura o di assistenza, casa famiglia protetta), la partecipazione da remoto per l’udienza di convalida, anche del suo difensore, potrà farsi “anche dal più vicino ufficio della polizia giudiziaria attrezzato per la videoconferenza, quando disponibile”. In tal caso, l'identità della persona arrestata o formata sarà accertata dall'ufficiale di polizia giudiziaria presente.
Il fatto che si preveda che potrà farsi “anche dal più vicino ufficio di polizia giudiziaria” sembra voler dire che il collegamento potrà realizzarsi da altri luoghi, e quindi anzitutto da quello di restrizione domiciliare o, ove ricorrano le necessarie autorizzazioni, dai locali dello studio professionale del difensore.
4.2. Collegamento a distanza e presenza in ufficio. – Il solo soggetto che dovrà giocoforza partecipare all’udienza dai locali dell’ufficio giudiziario è l’ausiliario del giudice incaricato della redazione del verbale di udienza, che darà in esso atto: - delle modalità di collegamento da remoto utilizzate; - delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e di tutte le ulteriori operazioni; - nonché della impossibilità dei soggetti non presenti fisicamente di sottoscrivere il verbale, ai sensi dell'articolo 137, comma. 2, del codice di procedura penale o di vistarlo, ai sensi dell'articolo 483, comma 1, del codice di procedura penale.
Il riferimento ultimo è al visto che il presidente, o il giudice in caso di organo monocratico, devono apporre sul verbale di udienza sottoscritto dal pubblico ufficiale che lo ha redatto; dalla previsione che questi debba attestare l’impossibilità dell’apposizione del visto si trae conferma di quanto prima affermato, ossia che l’udienza con collegamento a distanza non vedrà più, come nella disciplina ordinaria e mantenuta anche nel decreto legge, il collegamento tra un luogo remoto e il locale istituzionalmente dedicato allo svolgimento delle udienze, potendo il giudice collegarsi anche da altri luoghi diversi dall’ufficio giudiziario, in particolare, è il caso di ribadire, dalla sua abitazione.
Si consideri, a tal proposito, che nei piani organizzativi dei dirigenti degli uffici giudiziari, diretti a regolare il secondo periodo dell’emergenza – lo si è prima segnalato – potrà essere disciplinato il collegamento da remoto anche degli ausiliari del giudice, il che – sembra di capire ponendo a raffronto quella disposizione con questa ora in esame che regola lo svolgimento a distanza delle udienze penali –, di tutti gli ausiliari che non siano quelli con compiti di verbalizzazione delle attività compiute, i quali dovranno necessariamente essere presenti in collegamento dagli uffici giudiziari.
5. Attività giudiziaria da remoto in corso di indagini. – Un subemendamento all’emendamento governativo (entrambi approvati in Commissione referente e poi trasfusi nel maxiemendamento governativo) ha aggiunto importanti disposizioni per la regolazione della fase delle indagini preliminari.
Il periodo interessato da questa normativa, che resta pertanto temporanea, è sempre l’arco dell’emergenza, che si concluderà il 30 giugno 2020.
In tale ambito temporale, e in deroga alla normativa vigente, il pubblico ministero e il giudice, durante il corso delle indagini preliminari, potranno avvalersi di collegamenti da remoto, ancora una volta individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia.
Tale possibilità è rimessa all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria procedente, che sarà a chiamata a verificare, anzitutto, se la modalità ordinaria di compimento degli atti o dello svolgimento di attività possa essere fattore di rischio per il soddisfacimento delle esigenze di contenimento della diffusione dell’infezione.
Un primo prudente apprezzamento dovrà dunque riguardare il pericolo di contagio sulla base degli ordinari criteri che individuano nell’assembramento in spazi ristretti di più persone il forte pericolo di propagazione dell’infezione; ove questo non sussista, o non sussista in misura significativa, la modalità alternativa non dovrebbe essere adottata.
Occorre poi valutare l’adeguatezza dello strumento informatico per l’attivazione del collegamento da remoto.
Il riferimento, per questa parte, è alle disposizioni contenute nel decreto legge, art. 83, comma 12, già prima ampiamente richiamate. Come si è prima detto, il comma 12 dell’art. 83 del decreto legge fa riferimento, con la clausola di compatibilità, alle disposizioni di cui all’art. 146bis disp. att. cod. proc. pen.
Da qui la necessità:
-che tra luogo di udienza o altro luogo ove si trovi l’autorità giudiziaria procedente e luogo remoto vi sia la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi, con possibilità effettiva di udire quanto viene detto. Ciò anche quando vi sia una pluralità di collegamenti con più luoghi remoti, in modo che tutti siano messi nelle condizioni di vedere e udire gli altri;
- che al difensore, o al suo sostituto, sia consentito di essere presente nel luogo remoto e che il difensore o il suo sostituto eventualmente presenti nel luogo ove opera l’autorità giudiziaria – dal momento che non è più necessario ipotizzare che giudice o pubblico ministero si trovino nei locali istituzionali – siano posti nelle condizioni di consultarsi riservatamente con l’imputato, o in genere con la persona assistita, per mezzo di strumenti tecnici idonei.
É richiamata infine anche la regola dell’equiparazione del luogo remoto a quello dell’aula di udienza, da cui discende che, per l’attivazione del collegamento a distanza, occorre verificare che il giudice sia posto nelle condizioni di esercitare anche in remoto i poteri di direzione e di disciplina dell’udienza e che il pubblico ministero abbia pari poteri di direzione effettiva e piena dell’attività che viene svolta nel luogo distante.
Questa modalità da remoto può essere adottata per il compimento di qualsiasi atto di indagine o ricadente nella fase delle indagini, per il quale sia richiesta “la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone”.
L’espressione è quanto mai ampia: nessun atto è escluso dal compimento da remoto, sicché le potenzialità operative, specie del pubblico ministero, sono significative.
Per il caso in cui al compimento dell’atto o dell’attività debba prendere parte una persona detenuta, internata o in stato di custodia cautelare, il riferimento operativo è a quanto disposto, per lo svolgimento delle udienze, dal comma 12 dell’art. 83 con il richiamo a talune delle previsioni di cui all’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen., e che sono state già prima richiamate.
5.1. Modalità di attuazione. – Per l’esecuzione del collegamento a distanza si prevede che “le persone chiamate a partecipare all'atto sono tempestivamente invitate a presentarsi presso il più vicino ufficio di polizia giudiziaria, che abbia in dotazione strumenti idonei ad assicurare il collegamento da remoto”. È ovvio che l’invito a recarsi presso l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino presupponga che esso sia stato specificamente individuato, non potendo essere rimessa ai soggetti destinatari alcuna opzione individuale a tal proposito.
Presso tale ufficio le persone parteciperanno al compimento dell'atto in presenza di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, che procederà alla loro identificazione. Nel compimento dell'atto dovrà essere salvaguardata, ove necessario, la segretezza, e si dovrà assicurare, in ogni caso, alla persona sottoposta alle indagini la facoltà di consultazione riservata con il proprio difensore.
Questi parteciperà al compimento dell’atto da remoto collegandosi dai locali del suo studio professionale, salvo che preferisca essere presente nel luogo in cui si torva l’assistito, e quindi dall’ufficio di polizia giudiziaria indicato dall’autorità giudiziaria.
La redazione del verbale è attribuzione del pubblico ufficiale incaricato. Questi provvederà dando atto nel verbale “delle modalità di collegamento da remoto utilizzate, delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e di tutte le ulteriori operazioni, nonché della impossibilità dei soggetti non presenti fisicamente di sottoscrivere il verbale, ai sensi dell'articolo 137, comma 2, del codice di procedura penale”.
Quel che non pare sufficientemente chiaro è quale sia il luogo ove dovrà trovarsi il pubblico ufficiale verbalizzante, se cioè prenderà parte al collegamento dai locali dell’ufficio giudiziario, in conformità a quanto previsto dalla disposizione regolatrice dello svolgimento a distanza delle udienze, e di cui prima si è detto, o se anche lui potrà collegarsi da qualsiasi luogo idoneo, eventualmente dalla sua abitazione.
Per quanto detto in precedenza – v. par. 4.2. – è forse da ritenersi che l’ausiliario verbalizzante non potrà non essere presente nell’ufficio giudiziario interessato al collegamento da remoto, perché l’adempimento dei compiti di verbalizzazione, da una lettura complessiva dell’articolato licenziato dal Senato, sembra implicare la necessità della presenza fisica in ufficio.
6. Le novità per i procedimenti pendenti dinnanzi alla Corte di cassazione. – 6.1. La presentazione delle richieste di trattazione dei procedimenti. – È noto che alcuni procedimenti devono comunque essere trattati, pur durante il periodo di emergenza sanitaria: tra questi vi sono i procedimenti in cui, secondo la disposizione dell’art. 83, comma 2, lett. b), del decreto legge n. 18 ora in conversione, gli imputati, specie se detenuti, o i proposti nei procedimenti di prevenzione o, ancora, i loro difensori facciano espressa richiesta che si proceda e si tenga quindi l’udienza – previsione questa, come molte altre, già contenuta nel decreto legge n. 11, poi abrogato in parte qua e assorbito dal decreto legge n. 18 –.
La novità, frutto dell’emendamento governativo, è che la richiesta fatta dagli imputati o dai proposti non può essere presentata alla Corte di cassazione direttamente dai richiedenti, perché nel giudizio di legittimità le parti private intervengono nel giudizio tramite i difensori abilitati.
Opportunamente si è specificato che la richiesta debba essere veicolata per mezzo dei difensori, fermo restando il diritto personale di avanzarla in proprio, e che non possa provenire con altre modalità che non siano appunto quelle della presentazione ad opera del difensore abilitato. Una richiesta che provenga al di fuori del canale individuato in sede di conversione non avrà titolo per essere esaminata.
Neanche in sede di conversione si è previsto un termine entro il quale parti e difensori possano avanzare la richiesta di trattazione.
L’apposizione di un termine è invece oggetto delle misure organizzative che già sono state adottate dalla Prima Presidenza della Corte, differenziando tra le richieste per il primo periodo emergenziale – 9 marzo/15 aprile e ora 11 maggio –, per il quale è previsto (provv.to del 9 marzo 2020) un termine di tre giorni – a far data dall’entrata in vigore del decreto legge n. 11 –; e quelle per il secondo – 16 aprile e ora 12 maggio/30 giugno –, per il quale è previsto un termine di sette giorni – a far data dalla pubblicazione sul sito Internet della Corte di cassazione del decreto presidenziale n. 47 che il termine ha posto –.
La scelta del legislatore, se sarà confermata, come appare probabile, nel successivo iter parlamentare, potrà essere valutata non come segno di disattenzione o di una implicita delega ai dirigenti degli uffici giudiziari per l’individuazione discrezionale di un termine, ma come frutto della volontà di dare prevalenza al rinvio, per ovvie esigenze di prevenzione della diffusione del contagio, quanto meno nel primo periodo dell’emergenza, e quindi di far sì che le richieste di trattazione possano essere prese in esame solo e soltanto se le parti, o i loro difensori, si determinino immediatamente in tal senso, appena dopo l’entrata in vigore del decreto legge, e sempre che non sia stato già adottato, al momento della proposizione della richiesta, il provvedimento di rinvio.
6.2. Il decorso della prescrizione per i procedimenti pendenti nel giudizio di legittimità. – In ragione dell’ovvia considerazione che i procedimenti pendenti dinnanzi alla Corte di cassazione sono generalmente caratterizzati dalla prossimità alla scadenza del termine di prescrizione, l’emendamento governativo proposto in sede di conversione si è fatto carico di stabilire una regola valevole soltanto per tale categoria di procedimenti.
Si stabilisce così che “nei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e pervenuti alla cancelleria della Corte nel periodo dal 9 marzo 30 giugno. 2020 il decorso del termine di prescrizione è sospeso sino alla data dell'udienza fissata per la trattazione e, in ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2020”.
Ciò significa che in tutti i procedimenti pendenti nel grado di legittimità e per quelli che pervengono alla Corte di cassazione nel periodo dell’emergenza sanitaria e che quindi devono essere per la prima volta assegnati ad una sezione e fissati per la trattazione, il decorso della prescrizione rimane sospeso.
Il termine iniziale di sospensione è sempre il 9 marzo, perché per regola generale di cui all’art. 83, comma 4, del decreto legge, in tutti i procedimenti penali in cui opera la regola della sospensione generalizzata dei termini il corso della prescrizione è sospeso, con decorrenza ovviamente dal termine iniziale per il quale vige il regime di sospensione dei termini.
I procedimenti pendenti dinnanzi alla Corte di cassazione e quelli che alla stessa pervengono nel periodo dell’emergenza ricadono comunque nella categoria dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legge e comunque alla data del 9 marzo 2020, sicché la sospensione della prescrizione opera per essi da quella data.
Il termine finale di sospensione è invece quello dell’udienza di trattazione, sia che essa venga individuata in forza di un riassetto dei ruoli già predisposti, sia che essa formi oggetto di prima individuazione per i procedimenti che pervengano in Corte nell’intervallo temporale dell’emergenza.
Ove l’udienza sia fissata in data successiva al 31 dicembre 2020, e ciò perché l’ordinata gestione dei ruoli non consente una data anticipata di trattazione, la sospensione della prescrizione cesserà comunque alla data del 31 dicembre 2020, misura ragionevole di contenimento di una previsione necessitata dall’altrimenti ingovernabile situazione, con esposizione a sicuro, e irragionevole, rischio di prescrizione.
6.3. L’eccezionale “cameralizzazione” non partecipata dei procedimenti con udienza pubblica e con partecipazione camerale. – In via d’eccezione, e solo sino al 30 giugno 2020, la Corte di cassazione – in forza di un emendamento governativo opportunamente riformulato con approvazione di un subemendamento parlamentare – potrà decidere secondo il rito camerale non partecipato – art. 611 cod. proc. pen. – nei procedimenti che sulla base delle regole codicistiche dovrebbero essere trattati secondo il modulo camerale di cui all’art. 127 cod. proc. pen. o in udienza pubblica in forza della previsione di cui all’art. 614 cod. proc. pen.
I difensori e il Procuratore generale non renderanno oralmente le conclusioni e la Corte si riunirà e deciderà in camera di consiglio sulla base di una procedura ampiamente sperimentata, che è quella delineata dall’art. 611 cod. proc. pen.
6.3.1. La richiesta di discussione orale. – La trasformazione del rito è però condizionata alla volontà della parte ricorrente e ad essa non si dà corso se questa, nel termine dato, fa richiesta di discussione orale.
Parte ricorrente abilitata alla richiesta è soltanto la parte privata ricorrente e non anche il pubblico ministero che abbia proposto ricorso. Anche la parte pubblica, ove proponga ricorso, è “parte ricorrente” e però, come è noto, l’intervento nel giudizio di cassazione è riservato soltanto al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che però non è parte ricorrente, e che è distinto e non gerarchicamente sovraordinato alle Procure e alle Procure generali della Repubblica, almeno non nel senso dell’attribuzione all’organo superiore dello stesso ambito di competenze proprie dell’organo inferiore, in modo da poter giustificare una sostituzione piena del primo al secondo.
Del resto, a conferma dell’individuazione della parte abilitata a chiedere la discussione orale soltanto nella parte privata soccorre la disposizione secondo cui la richiesta è presentata per iscritto “dal difensore del ricorrente abilitato a norma dell’art. 613 del codice di procedura penale…”, senza alcun accenno alle modalità di presentazione per la parte pubblica. Né suggerisce una opposta conclusione la successiva disposizione, a norma della quale “se la richiesta è formulata dal difensore del ricorrente, i termini di prescrizione e di custodia cautelare sono sospesi per il tempo in cui il procedimento è rinviato”, perché essa tiene conto della possibilità che parte ricorrente sia la parte civile e che dunque la richiesta di discussione orale possa provenire da una parte, pur sempre privata, diversa dall’imputato.
L’emendamento governativo era invero di diverso contenuto sul punto. Esso prevedeva che la richiesta potesse essere presentata, sempre per iscritto, anche dal Procuratore generale ricorrente: dall’eliminazione di questo inciso nel teso infine votato si trae ulteriore conferma della validità della conclusione per cui la parte pubblica, ricorrente o requirente, non ha titolo a chiedere la discussione orale.
6.3.2. Modalità di trattazione. – La richiesta di discussione orale dovrà pervenire per tempo – e specificamente “entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza” – alla cancelleria della Corte a mezzo posta elettronica certificata. Il rispetto del termine è necessario per evitare la trasformazione del rito: in assenza di richiesta si avrà la sostituzione del modello procedimentale, e il Procuratore generale redigerà requisitoria scritta, proprio come avviene secondo il modello di cui all’art. 611 cod. proc. pen.
È poi appena il caso di osservare come la previsione della presentazione a mezzo posta elettronica certificata sia ulteriore prudenziale misura volta, da un lato, ad evitare che il soggetto richiedente debba recarsi fisicamente negli uffici della Corte e, dall’altro, a consentire una più agevole gestione degli adempimenti di cancelleria successivi.
È infatti previsto che, in assenza di richiesta di discussione orale, il Procuratore generale – opportunamente informato – consegni per iscritto le sue conclusioni, trasmettendole alla cancelleria della Corte a mezzo della posta elettronica certificata, entro il quindicesimo giorno precedente l’udienza. La cancelleria, a sua volta, invierà ai difensori delle altre parti le conclusioni del Procuratore generale, e queste potranno far pervenire, entro il quinto giorno precedente l’udienza, le loro conclusioni, sempre avvalendosi della posta elettronica certificata, strumento essenziale per assicurare questa forma di contraddittorio senza necessità di accessi fisici nei locali della Corte di cassazione.
6.3.3. Nuova procedura ed esigenze di rinvio di udienze già fissate. – Il testo approvato dal Senato prevede, in forza di un subemendamento parlamentare all’emendamento governativo votato in Commissione, che le udienze per la trattazione secondo il rito partecipato, sia pubbliche che camerali, fissate per un giorno che risulterà compreso nello spazio temporale dato dai venticinque giorni successivi all’entrata in vigore della legge di conversione, dovranno essere rinviate per dare modo alla parte ricorrente di poter esercitare utilmente il diritto di richiedere la discussione orale e quindi il mantenimento del rito ordinario.
Il rinvio sarà quindi necessario per far sì che ci siano i tempi per l’utile trasformazione del rito, operazione questa che implica la disponibilità di almeno venticinque giorni liberi da computare a ritroso dal giorno fissato per l’udienza, non potendosi procedere alla “cameralizzazione” non partecipata senza porre la parte privata ricorrente nelle condizioni di poter optare, con richiesta da farsi – come detto – “entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza”, per il mantenimento del rito ordinario.
6.3.4. – Modalità di decisione. – Alla trasformazione del rito non segue obbligatoriamente l’adozione del modulo decisorio da remoto. Stabilisce infatti il testo licenziato dal Senato che la Corte decide “anche con le modalità di cui al comma 12-quater” (da leggersi, correttamente, come 12-quinquies, dato il difetto di coordinamento nel testo licenziato dal Senato). Anche e non sempre si afferma nella disposizione, e quindi la modalità di decisione da remoto sarà eventuale, sostanzialmente rimessa a una decisione preliminare della Corte medesima.
7. Deliberazione da remoto. – Per previsione valida per l’intero periodo emergenziale (9 marzo - 30 giugno 2020), le deliberazioni collegiali in camera di consiglio, per la definizione dei procedimenti che non patiscono la sospensione, siano essi civili che penali, “possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia”.
La norma, chiaramente, non pone un obbligo, sì come si è già detto con esclusivo riferimento al giudice di legittimità, ma accorda al giudice collegiale una possibilità, per evitare che alla deliberazione debba procedersi con riunione fisica entro una comune camera di consiglio, fattore questo di potenziale pericolo di contagio.
Spetterà dunque al giudice decidere le modalità con cui assumere la decisione.
Il testo destinato a diventar legge, nell’offrire una possibilità aggiuntiva di decisione, specifica che “il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”. Lo spazio virtuale generato dal collegamento da remoto da e tra i più componenti del collegio, in uno con lo spazio fisico in cui costoro si troveranno al momento del collegamento, sarà camera di consiglio. Occorrerà allora che il collegio, con opportune prescrizioni di autoregolamentazione, assicuri la segretezza della deliberazione, per dare un senso di garanzia alla identificazione normativa del luogo virtuale e dei luoghi fisici non istituzionali con la camera di consiglio.
Ulteriore previsione attiene poi ai procedimenti penali. Siccome può ben accadere che nessun componente del collegio si colleghi con gli altri dai locali dell’ufficio giudiziario, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato provvederà a sottoscrivere il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e avrà il compito di depositare il provvedimento in cancelleria “ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile e, in ogni caso, immediatamente dopo la cessazione dell'emergenza sanitaria”.
Dunque, dispositivi e provvedimenti saranno custoditi dal presidente, o da altro componente, e solo quando sarà possibile verranno portati presso l’ufficio giudiziario per gli adempimenti necessari di deposito in cancelleria e di conservazione agli atti del fascicolo processuale.
8. Un’osservazione finale. – Le previsioni sulle udienze e sulle attività giudiziarie a distanza sono chiaramente di natura eccezionale, strettamente collegate all’emergenza sanitaria. Quando essa cesserà, sarà un bene il ripristino immediato delle ordinarie modalità di svolgimento delle udienze senza coltivare l’idea di far sopravvivere all’emergenza un più ampio utilizzo delle opportunità informatiche per “virtualizzare”, in misura maggiore di quanto la disciplina ordinaria già preveda, le udienze, e in particolare quelle dinnanzi alla Corte di cassazione, che più delle altre si potrebbero prestare al tentativo perché in esse intervengono soltanto i difensori e non anche le parti e sono strutturalmente prive di attività istruttorie.
Lo strumento tecnico è un valido supporto per i momenti di necessità, e il legislatore ha ben fatto a legittimarne un ampio uso per evitare il rischio della paralisi dell’attività giudiziaria nella fase più acuta dell’emergenza, ma non dovrà snaturare il volto della giustizia. L’udienza tradizionalmente intesa, luogo di ascolto in presenza fisica delle ragioni delle parti, è carattere essenziale del render giustizia e momento qualificante il lavoro dei giudici, anche della Corte suprema.
È anzitutto diritto delle parti, come il legislatore dell’emergenza mostra di volere nel regolare la trasformazione del rito per i giudizi dinnanzi alla Corte di cassazione, subordinandola alla volontà della parte ricorrente; ma è anche un modulo decisorio prezioso per i casi di maggiore complessità ed è garanzia di effettiva pubblicità.
Sono queste considerazioni che dovranno essere approfondite per resistere al fascino della tecnica, specie quando questa, per un fatto imprevedibile e drammatico, ha avuto modo di erompere con forza e all’improvviso nell’ambiente ovattato della Corte suprema, provocando ora disagio per il ritardo nei processi di modernizzazione, ora compiaciuta sorpresa, ora qualche facile entusiasmo.
La giustizia tra verità inventate e storie parziali
C’erano una volta un mugnaio, il re di prussia e un barone. Mulini contesi, giudici “disonesti” e sovrani “illuminati”.
Maurizio Bozzaotre
Sommario: 1. Prologo: storia vera di una frase inventata - 2. Atto primo: dove si racconta di un mulino “scomodo” che tante angosce recò al bellissimo palazzo “senza pensieri” - 3. Atto secondo: dove si racconta dell’indomito mugnaio che andò a infarinare giudici, cancellieri, principi e monarchi - 4. Atto terzo: dove si dimostra che la sovranità appartiene al sovrano e non al “nome” che altri ne fanno - 5. Appendice: dove mulini e verità si moltiplicano ma unico e assoluto (per quanto “illuminato”) rimane il sovrano - 6. Titoli di coda: sovranità popolare, stato costituzionale, potere giudiziario… per finir con un barone che ci dà una conclusione.
1. Prologo: storia vera di una frase inventata
Questo è il racconto di una frase e (forse) della storia che vi sta dietro. La frase, celeberrima quanto ormai incontrovertibile, è quasi certamente inventata. La storia, invece, è quasi certamente vera, ma questa “certezza” è ben lungi dall’essere inconfutabile.
È il racconto di un mugnaio e del suo re, che alla fine si concluderà con l’entrata in scena… di un barone. Una storia che sembra svolgersi in tempi e luoghi a noi lontanissimi, ma che in realtà ci parla molto da vicino.
La rappresentazione si svolge in tre atti e un epilogo. A chiudere, titoli di coda.
Si levi il sipario.
2. Atto primo: dove si racconta di un mulino “scomodo” che tante angosce recò al bellissimo palazzo “senza pensieri”
L’aneddoto, nei suoi tratti generali, è assai noto nelle terre di lingua tedesca e tra i cultori della scienza giuridica.
Si racconta che, dopo la costruzione della reggia di Sanssouci (dal francese sans souci, “senza preoccupazioni”) in quel di Potsdam, il re Federico II di Prussia (1712-1786), noto storicamente per il suo dispotismo “illuminato” (non per niente verrà chiamato Federico il Grande) ([1]) avesse ordinato la demolizione di un mulino che gli guastava la visuale (ma, secondo un’altra versione, il re sarebbe stato infastidito dal rumore delle pale); siccome però il gestore del mulino non era d’accordo, fra i due iniziò una controversia nel corso della quale il mugnaio avrebbe appunto “minacciato” il re con il celebre ammonimento: «Ci sarà pure un giudice a Berlino».
La frase, quasi certamente frutto di invenzione letteraria, viene erroneamente attribuita a Bertold Brecht a causa di uno «scherzo» del drammaturgo tedesco Peter Hacks (1928-2003), di dichiarate simpatie marxiste, che dichiarò di essersi ispirato all’autore di Vita di Galileo nello scrivere “Der Müller von Sanssouci: ein bürgerliches Lustspiel” (Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese) nel 1958. Dalla vicenda è stato tratto anche un film muto “Die Mühle von Sanssouci” del 1926, diretto da Siegfried Philippi e Frederic Zelnik.
Se, come si diceva, la frase del mugnaio è quasi certamente inventata, la storia, però, è vera: se ne trova traccia nelle cronache giurisprudenziali del Regno di Prussia, ed è raccontata in E. Broglio, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, 2 volumi, Civelli, Roma, 1879-1880. Si trattò di una vicenda che ebbe un lungo e complicato dispiegarsi. Anche dal punto di vista giuridico, visto che furono a vario titolo coinvolti ben 14 (!) gradi/istanze di “giudizio” dinanzi a varie autorità amministrative e giudiziarie. Una storia che merita di essere raccontata, anche per il suo finale a sorpresa...
In realtà, come vedremo, della storia che si sta per narrare esistono più varianti, solo parzialmente coincidenti.
3. Atto secondo: dove si racconta dell’indomito mugnaio che andò a infarinare giudici, cancellieri, principi e monarchi
Secondo una versione ([2]), alcuni anni dopo la vicenda della reggia di Sanssouci, il mugnaio Arnold venne a trovarsi in una situazione di ristrettezza economica, non essendo più in grado di pagare l’affitto che doveva al proprietario del mulino, conte di Schmettau. Fu pertanto citato in giudizio. Arnold tentò di difendersi sostenendo il mulino non poteva più lavorare per colpa del proprietario del fondo a monte, barone von Gersdorf, accusato di aver deviato il corso d’acqua che consentiva il funzionamento del mulino per costruire una peschiera.
Ma il giudice feudale Schlecker dichiarò che il tribunale non poteva farci nulla: se non pagava l’affitto del mulino era giusto che fosse sfrattato e condannato a pagare il dovuto. Non essendo in grado di farlo, il mugnaio fu costretto a vendere all’asta l’attività e a cedere il mulino. Siamo nell’anno 1778.
Il mulino fu acquistato da un esattore di nome Kuppisch, che lo rivendette a sua volta a quello stesso barone Gersdorf che era stato la causa della rovina economica del mulino di Arnold. Contro la sentenza del giudice Schlecker venne proposto appello dinanzi alla Corte governativa (Regierung) di Custrin, ma la sentenza di primo grado fu confermata.
A questo punto entrò in gioco la moglie di Arnold, Rosina, che rivolse al re Federico di Prussia una petizione per ottenere la nomina di una Commissione che riesaminasse il caso. Era il 1° maggio 1779. Appena tre giorni dopo, il 4 maggio, Federico II inoltrò l’istanza al Ministero della Giustizia per una revisione del caso, ma gli uffici del Ministero non trovarono nulla da obiettare sulla correttezza delle decisioni giudiziarie.
Non doma, Rosina ricorse al Cancelliere von Furst, il quale però respinse le sue doglianze. I coniugi si rivolsero allora al Principe Leopoldo di Brunswick, cognato di Rosina, affinché intercedesse presso il Cancelliere perché questi rivedesse la sua decisione. Tutto inutile, von Furst respinge nuovamente.
Arnold e Rosina decidono quindi di interpellare direttamente il re Federico con una petizione presentata tramite la madre del Principe Leopoldo, sorella del monarca, ove si chiedeva l’istituzione di una Commissione mista (militare e civile) che riesaminasse il caso. Il re accoglie la richiesta e fa pervenire al Regierung di Custrin, un ordine in tale senso.
Nella Commissione così istituita vengono nominati il giudice Neumann ed il colonnello Heucking. Si registra subito una spaccatura: mentre il militare si convince che gli Arnold abbiano ragione, il Consigliere Neumann riferisce alla Corte di Custrin che non v’è ragione di cambiare le sentenze emesse. Il colonnello Heucking, invece, fa direttamente rapporto al re in senso opposto. Federico II inoltra quest’ultimo atto in via informale al Tribunale Supremo di Berlino (Kammergericht), ordinando contemporaneamente che la Corte di Custrin si pronunci nuovamente sul caso, ritenendo insoddisfacente la relazione del Consigliere Neumann. Viene allora nominata un’altra Commissione, ma anche quest’ultima conclude che nei precedenti giudizi tutto sia stato fatto correttamente.
Ma Rosina non si arrende e inoltra un’ennesima petizione al re; quest’ultimo la rimanda alla Corte di Custrin, che però - con il solo voto contrario del Consigliere Scheibler - replica di non poter riformare la sua precedente sentenza, a meno che non vi sia il pronunciamento di un giudice di grado superiore. Federico II investe allora formalmente il Kammergericht di Berlino di decidere sul caso. Siamo nel novembre del 1779. Avendo il sovrano richiesto sollecitudine nella risposta, viene immediatamente nominato - il 7 dicembre - relatore il Consigliere Rannsleben acché riferisca al Collegio «quam primum». L’8 dicembre il Kammergericht, ritenendo giusta la pronuncia della Corte di Custrin, la conferma «in nome del Re».
4. Atto terzo: dove si dimostra che la sovranità appartiene al sovrano e non al “nome” che altri ne fanno
A questo punto, il re Federico comincia ad averne abbastanza. Il 10 dicembre vengono convocati a corte d’urgenza il Cancelliere von Furst e i tre Consiglieri che avevano emesso l’ultima sentenza. Il re si rivolge a loro in termini molto duri, come risulta da verbale redatto e pubblicato, per suo ordine, il 14 dicembre 1779. Innanzi tutto, Federico provvede a sostituire il Cancelliere von Furst. Ma non si ferma a questo. Fa rinchiudere i Consiglieri del Kammergericht e della Corte di Custrin e dà incarico al Ministro della Giustizia von Zedlitz di farli condannare ad almeno un anno di fortezza nonché a risarcire agli Arnold del danno subito.
Ma il Ministro von Zedlitz si rifiuta di condannare i giudici dichiarando, in coscienza, di non poter dare esecuzione alla volontà del re ([3]). Quest’ultimo, definitivamente spazientito, si vede costretto a… pronunciare la condanna da solo. È il 1° gennaio 1780. Vengono tutti - compreso il Ministro! - destituiti e condannati a un anno di carcere nella fortezza di Spandau, nonché al risarcimento del danno agli Arnold (per «1.358 talleri, 11 groschen e 1 pfennig», precisano le cronache). Scampano alla condanna soltanto il Consigliere Scheibler della Corte di Custrin (l’unico ad avere votato a favore di Arnold) e il Consigliere Rannsleben del Kammergericht (come “premio” per avere istruito la causa in due giorni e in modo imparziale). Ovviamente, il mulino viene sottratto al barone von Gersdorf e restituito in integrum all’Arnold. (Con tante scuse, è lecito a questo punto supporre.)
Di notevole interesse sono le motivazioni della decisione del re, riportate nel citato verbale del 14 dicembre 1779. Dopo aver gentilmente concesso in premessa che «…un mendicante è anch’egli un essere umano come il Re, tutti eguali dinanzi alla legge e alla giustizia…», il sovrano, a causa della «manifesta ingiustizia della pronuncia» - per di più resa abusando del suo nome -, assume i provvedimenti che abbiamo visto (destituzione e incarcerazione dei giudici) in forza della considerazione che «un tribunale ingiusto è più pernicioso d’una banda di ladri, [perché] contro questi potete difendervi, non così contro quello».
Sipario? Non ancora.
5. Appendice: dove mulini e verità si moltiplicano ma unico e assoluto (per quanto “illuminato”) rimane il sovrano
Non ci è dato di sapere con certezza se il sovrano abbia agito in buona fede e fosse realmente convinto delle ragioni del mugnaio ([4]). Saremmo dunque in presenza di una giustizia sostanziale che in (lieto) fine prevale sulla iniqua “verità” processuale? Secondo lo storico Alessandro Barbero, non sarebbe andata così: «L’aspetto affascinante dell’intera faccenda è che, dopo la morte di Federico, si scoprì che il mugnaio era davvero un imbroglione e non c’era mai stata perdita d’acqua» ([5]). Ma in realtà, per l’illustre medievista piemontese, l’intera vicenda appena narrata sarebbe solo parzialmente coincidente con la verità storica (disgiunta o meno che sia dalla verità processuale), distanziandosene per un aspetto nient’affatto secondario: la tortuosa vicissitudine del mugnaio Arnold in realtà nulla avrebbe a che fare con la storia del mulino che il re avrebbe voluto espropriare senza riuscirvi. Una storia, quest’ultima, di totale invenzione ([6]).
C’erano quindi una volta… due storie, con due mugnai e due mulini. La prima storia, quella del povero (?) Arnold sfrattato dal suo mulino, è quella vera (almeno secondo quanto emerge dalle fonti dell’epoca); la seconda, quella dello sconosciuto mugnaio che avrebbe minacciato Federico il Grande con il celebre ammonimento «Esiste un giudice a Berlino!», per quanto universalmente nota, sarebbe invece nient’altro che una leggenda. Una leggenda che, ripetuta infinite volte, si è fatta verità, tanto da mescolarsi nei racconti con la storia vissuta (che però appartiene ad altro mugnaio ed altro mulino). Quasi a conferma del famoso motto in base al quale una menzogna ripetuta innumerevoli volte cessa di essere tale per divenire incontrovertibilmente vera - motto di reputata origine teutonica anch’esso, guarda caso, e però tanto (tristemente) noto quanto (ugualmente) incerto nella sua attribuzione ([7]).
E però, a ben vedere, un elemento comune alle due vicende indiscutibilmente esiste, ed è… il re di Prussia. Anzi, da entrambe emerge un tratto tutto sommato costante nell’atteggiamento del sovrano: “illuminato” sì, ma parecchio a modo suo.
Per la verità, secondo il biografo, come altri regnanti del suo tempo, Federico di Prussia fu certamente favorevole ad introdurre riforme che fossero in linea con il nuovo spirito del tempo: l’illuminismo. Ad esempio, nel campo della giustizia, nel tentativo di eliminare particolarismi e privilegi, egli cercò di far approvare un nuovo codice unificato per tutto il regno di Prussia. Ma a volte accade che anche le migliori intenzioni vadano a cozzare contro le asperità caratteriali, come imbarcazioni contro le scogliere. Scrive Barbero: «La sua tendenza era di andare a mettere il naso nei processi e controllare quello che facevano i giudici. Anche in questo campo voleva sapere tutto, esaminava personalmente un’infinità di appelli e di suppliche, esattamente come un re medievale. Di solito partiva dal presupposto che tutti i giudici fossero corrotti e che bisognava proteggere i sudditi contro i giudici» ([8]). Come per l’appunto dimostra la storia di Arnold e del suo mulino (quella vera).
6. Titoli di coda: sovranità popolare, stato costituzionale, potere giudiziario… per finir con un barone che ci dà una conclusione
Giunti ai titoli finali del nostro racconto, quale morale (fra le tante) si può trarre da tutto ciò? Una morale, s’intende, che possa rivestire un qualche interesse per il giurista che si trova ad operare in un mondo (giuridico e non) assai diverso da quello di Federico e del suo mugnaio, un mondo che di lì a pochi anni transiterà fragorosamente dai fremiti dei Lumi ai sussulti della Rivoluzione. Possiamo senz’altro lasciare ai cultori delle discipline storiografiche il compito di approfondire l’investigazione in ordine all’autenticità delle vicende narrate; e possiamo altresì cedere agli studiosi dei fenomeni umani di fornirci le necessarie coordinate archeologiche di quel dispositivo socio-culturale in base al quale da una celeberrima “fake-sentence” si vengano, paradossalmente, a ricavare insegnamenti di profonda verità sulle cose della umana giustizia ([9]).
Noi, come giuristi, viviamo tutti i giorni quella tensione impareggiabile tra la verità delle vicende umane e quella frutto delle vicende processuali, tra la giustizia anelata e quella solennemente dichiarata «in nome del popolo italiano»; al tempo stesso, come cittadini, abbiamo (o dovremmo avere) la consapevolezza di vivere in un Paese dove per fortuna (ma non certo per caso) la sovranità non appartiene ad un monarca più o meno “illuminato”, ma a quel popolo nel cui nome si pronunciano le sentenze nei tribunali.
Ecco che allora quella lontana e (ai nostri occhi) bizzarra vicenda ci dice molto di quel che noi oggi siamo. E, soprattutto, di quel che abbiamo scelto di non voler più essere.
Noi abbiamo scelto di darci uno Stato costituzionale, dove il diritto è prodotto dal legislatore e applicato dai giudici, ma entrambi sono a loro volta soggetti alle norme della Costituzione, la forma più alta ed efficace di garanzia per tutti. Dove diritti umani e libertà fondamentali non sono più considerati (soltanto) valori morali o politici, e men che meno gentili concessioni “ottriate” da un sovrano benevolo, ma diventano veri e propri limiti giuridici al potere, assurgendo a “diritti” nel senso vero e pieno del termine. Uno Stato che limita se stesso ed il proprio potere attribuendo ai cittadini (ma anche ai non cittadini) una sfera di intangibilità ed un fascio di facoltà, la cui compressione può essere “autorizzata” soltanto a certe condizioni e comunque “coperta” da una serie di garanzie. Ma noi ci siamo dati uno Stato che decide anche di perseguire attivamente e programmaticamente una serie di fini collettivi meritevoli di tutela perché ritenuti validi universamente: libertà, eguaglianza, pace, salute, lavoro, istruzione, ecc. ([10]).
Noi abbiamo scelto di darci un sistema giuridico che abbia tra i suoi pilastri fondamentali quello dell’autonomia e indipendenza dei giudici da ogni altro potere. Un sistema nel quale la legittimità degli atti normativi o amministrativi può essere sottoposta, da parte di chi si senta leso nei suoi diritti, al sindacato di un giudice (a seconda dei casi: costituzionale, ordinario, amministrativo, ecc.), il quale ha il potere (secondo i casi) di annullare o disapplicare quegli atti se dovesse riscontrare una violazione delle leggi o della Costituzione. Un sistema nel quale lo stesso potere giudiziario non è assoluto ma si esercita secondo i principi del contraddittorio e del “giusto processo”. Dove i diritti di difesa ed il rispetto delle procedure svolgono una fondamentale funzione di controllo del potere dei giudici; un controllo che riteniamo necessario contro il rischio sempre possibile di abusi… senza che per questo si debbano per forza condividere le pessime opinioni di Federico di Prussia nei confronti degli appartenenti all’ordine giudiziario!
Noi abbiamo scelto di darci uno Stato dove non c’è (più) un sovrano, più o meno “illuminato”, cui appellarci con petizioni e suppliche contro iniquità o ingiustizie, vere o presunte. E se pensiamo di aver subìto un torto noi ci rivolgiamo ad un giudice che applicherà le regole della legge e i principi della Costituzione. Non nel nome di un re, ma di quel sovrano chiamato “popolo”.
In fondo, per concludere con un’ultima suggestione letteraria, abbiano voluto fare di noi stessi quel che era solito fare un altro grande personaggio di lingua tedesca, il celebre Barone di Münchhausen: quello che, in barba alle leggi del mondo fisico, riusciva a tirarsi fuori dai guai da solo… prendendosi per il proprio codino ([11]). Un altro personaggio - l’ennesimo di questa storia - dove realtà e fantasia si avviluppano in modo inestricabile ([12]). Forse è proprio questa la morale di tutto il nostro racconto: la condizione umana come intreccio insolubile di verità parzialmente tali e finzioni universalmente evocative. Nel mezzo, come sempre, la giustizia.
([1]) Una biografia che ha il pregio di essere recente e assolutamente godibile è quella di A. Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo, 2007.
([2]) La si trova in L.A. Mazzarolli e D. Girotto, Elementi di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 2 ss.
([3]) Di Karl Abraham von Zedlitz (1731-1793), genuino spirito illuminista, vale senz’altro ricordare un dettaglio biografico tutt’altro che trascurabile: a lui furono dedicate da Immanuel Kant entrambe le edizioni della Critica della ragione pura, pubblicate nel 1781 e nel 1787.
([4]) Sembra ad esempio ritenerlo U. Eco, Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia, L’Espresso, 12 agosto 2013, che però riporta assai sommariamente i termini della vicenda.
([5]) A. Barbero, Federico il Grande, cit., p. 120.
([6]) Conviene senz’altro dare la parola direttamente a Barbero, op. cit.: «Però c’è anche un altro caso famoso, anzi leggendario, che riguarda un mugnaio, un altro mugnaio, e che ha ancora a che fare con Federico e con i giudici. La leggenda racconta che il re stava facendo costruire il suo palazzo vicino a Potsdam e aveva bisogno di espropriare un mulino, ma il mugnaio non voleva vendere e sosteneva che il re non aveva il diritto di espropriarlo. Federico cercò di cacciarlo con la forza e il mugnaio rispose a muso duro: “Io farò causa. Ci sono ancora dei giudici a Berlino”. Ecco, questo aneddoto - che è probabilmente falso, diciamolo - è interessante perché in realtà solo a prima vista il re ci fa una brutta figura. In realtà il messaggio che trasmette è che sotto il regno di Federico la giustizia era talmente rispettata che i giudici avrebbero difeso anche un povero diavolo contro il re. Noi prima abbiamo raccontato la storia del mugnaio Arnold, che al contrario di questa è vera, è documentata; e di qui si vede che le cose erano un po’ più complicate di così» (pp. 120-21, corsivi miei).
([7]) La frase, come si sa, viene attribuita a Joseph Goebbels, ma di tale paternità non v’è in realtà alcuna certezza documentale.
([8]) A. Barbero, op. cit., p. 119.
([9]) Sul triste fenomeno (nient’affatto contemporaneo nella sua natura, ma mai dirompente come oggi nei suoi effetti reali e potenziali) conosciuto come “fake news” c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti, si vedano almeno: M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna, 2017; A.M. Lorusso, Postverità, Laterza, Roma-Bari, 2018; W. Quattrociocchi e A. Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, Codice, Milano, 2018; M. Adinolfi, Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia, Astrolabio, Salerno, 2019.
([10]) Si veda G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018, spec. cap. VIII, par. 12.
([11]) «Un’altra volta - così inizia una delle sue avventure più note - affrontai una palude che a prima vista non mi era parsa tanto larga come quando fui a metà del salto. Perciò, librandomi in aria, invertii la direzione verso il punto da cui ero venuto, per prendere una rincorsa più lunga. Ciononostante anche il secondo salto fu troppo breve e caddi dentro fino al collo nel fango, a poca distanza dall’altra riva. Senza fallo vi sarei dovuto morire, se la forza del mio braccio, afferrandomi per il codino, non mi avesse estratto dalla melma assieme al cavallo, che stringevo forte tra le ginocchia». Il famoso codino diviene a sua volta soggetto da cui trarre raffinate riflessioni sugli aspetti psicoanalitici dell’autoreferenza in P. Watzlawick, Il codino del Barone di Münchhausen. Ovvero: psicoterapia e “realtà”, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1989.
([12]) È noto, infatti, come lo scrittore Rudolf Erich Raspe (1736-1794) abbia tratto ispirazione ad un personaggio realmente esistito, il barone Karl Hyeronimus von Münchhausen (1720-1797). Nobile appartenente a una famiglia terriera del Brunswick, questi si era arruolato nelle file dell’esercito russo per combattere contro i turchi, per poi ritirarsi a tranquilla vita di campagna nei propri possedimenti. Pare che costui amasse conversare la sera con gli amici delle sue imprese passate e delle gesta compiute, esagerandole alquanto. Si diede il caso che tra gli avventori della locanda frequentata abitualmente da Münchhausen vi fosse anche Raspe, il quale, divertito dalle spacconerie del barone, ne propose prima la pubblicazione in una rivista tedesca, e poi la loro riunione in un volume. Le storie furono pubblicate in volume per la prima volta nel 1785 con il titolo Viaggi meravigliosi e campagne di Russia del Barone di Münchhausen narrati da lui stesso, riscuotendo un successo inaspettato. Da quel momento le Avventure furono tradotte e ritradotte in varie lingue, ampliate e aggiornate anche da altri, assumendo così l’opera il carattere paradossale che l’ha resa famosa tra i lettori di tutto il mondo. Da notare che il Raspe, forse per pudore, non rivendicò mai la paternità originaria dell’opera, nonostante la sua fama crescente. Traggo queste notizie da R.E. Raspe, Il Barone di Münchhausen, Peruzzo, Milano, 1986.
di Vittorio Gaeta
1. L'assassinio di John Fitzgerald Kennedy (JFK), il 22 novembre 1963 a Dallas, non ha mai smesso di tormentare la coscienza americana, quando si è manifestata, e il suo cantore più grande. La classica biografia di Anthony Scaduto racconta di come ne fu sconvolto Bob Dylan, che fino ad allora aveva accettato, sia pure con riserve interiori, il ruolo di profeta delle nuove generazioni e della nascente nuova sinistra (il 28 agosto 1963 aveva cantato alla marcia di Washington per i diritti civili, poco prima che Martin Luther King pronunciasse il discorso noto come “I have a dream”) Dylan percepì subito che quella tragedia costituiva uno spartiacque, perché si poteva uccidere l'uomo politico più importante d'America senza che nessuna verità fosse seriamente cercata. L'assassino Lee Oswald subito arrestato che dichiarava di essere solo un capro espiatorio, l'equivoco proprietario di locali notturni Jack Ruby che due giorni dopo uccideva Oswald nei sotterranei della polizia di Dallas, e poi il buio.
E c'era dell'altro. Forse solo in modo illusorio Kennedy aveva rappresentato la speranza di un cambiamento profondo; il simbolo si poteva abbattere con un colpo di pistola. Se così era, e se mancava ogni verità sulle ragioni dell'attentato, allora Oswald era uno dei tanti, un personaggio fungibile e intercambiabile.
2. Quando il 13 dicembre 1963 andò a ritirare il primo premio della sua lunga carriera, conferito dall'Emergency Civil Liberties Committee (ECLC) per essersi distinto nella lotta per la libertà, l'uguaglianza e i diritti civili, Dylan fece la prima delle sue memorabili “brutte figure in pubblico”, come le chiama Alessandro Carrera nel suo “La voce di Bob Dylan”. Visibilmente nervoso, ubriaco per darsi coraggio, agli astanti - vecchi liberal benestanti desiderosi di riscattare le loro sconfitte per il tramite di giovani come lui - osò dire mille eresie: che lui era finalmente diventato giovane, che era orgoglioso di esserlo, che non sapeva guardarsi attorno con gli occhi di una cosa insignificante come la politica, che con il suo gesto assurdo Oswald aveva manifestato qualcosa in cui temeva anche lui di potersi riconoscere. Troppe verità difficili buttate fuori tutte in una volta, con una furia di parresìa che inevitabilmente fece scandalo.
Troppo lunga sarebbe una storia pur minima di queste “brutte figure”, nate da prese di posizione o da silenzi (come sulla guerra del Vietnam) apparentemente inspiegabili. Ma si ricordi che era Alias, il più fungibile di tutti, il nome del personaggio interpretato in “Pat Garrett & Billy the kid” da Dylan. Il quale, alla domanda “Perché ha sempre rifiutato il suo statuto di icona, il suo ruolo di leader di generazione?”, rivoltagli nell'intervista rilasciata nel 1997 (in http://www.maggiesfarm.it/dylanondylan.htm ) al mensile italiano “Il Mucchio Selvaggio” , rispose in modo fulminante: “Non lo prendo come un complimento. Per me le parole “leggenda” o “icona” non sono che sinonimi educati per “è stato fatto fuori”.
3. E' dal 7 giugno 1988 che Dylan ha iniziato il suo Neverending Tour per il mondo, e non si è mai fermato. Come tutti si è fermato in questi tempi di epidemia, e certamente non avrà mancato di chiedersi se un giorno potrà riprendere i concerti, data la sua età e il rischio che ovunque le restrizioni continuino a lungo. E' allora venuto fuori, sul suo sito ufficiale, con un brano sull'attentato di Dallas registrato un indeterminato “tempo fa”, ringraziando fan e followers e invitandoli a seguire le raccomandazioni ufficiali.
E' il pezzo più lungo della sua carriera, intitolato con una citazione da Amleto “Murder most foul” e consiste in 17 minuti di declamazione, in rima come al solito e con gli accenti tutti sull'ultima sillaba, con una dizione chiarissima e avvolgente. Un lamento funebre che ricorda i momenti essenziali dell'attentato insieme alle incongruenze della versione ufficiale, la speranza morta con Kennedy insieme ai suoi lati oscuri (come l'appoggio della criminalità organizzata alle presidenziali del 1960).
4. Non si tratta di un brano immediatamente politico. Il bardo canta per tutti e per nessuno, così come per tutti e per nessuno pronunciò le “imperdonabili” eresie di 57 anni prima alla premiazione dell'ECLC. E' un canto per la sua nazione, che digerendo il macigno di quell'omicidio politico si vide strappata via l'anima e cominciò la sua lenta rovina.
A un italiano viene in mente, per confronto, l'assassinio di Moro, sul quale non poco siamo riusciti a sapere, e comunque abbiamo cercato a lungo la verità. Gli americani, inibiti da una politicità dei poteri giudiziari che lasciò a indagare sull'attentato un magistrato poco adeguato come il procuratore Garrison, non lo hanno fatto. E se oggi, in questi pesantissimi giorni, l'Italia riesce sia pure con tanti limiti a indicare una strada di contrasto all'epidemia che gli Usa e altri Paesi imboccano solo con mille esitazioni, ciò forse avviene anche per quella diversa attitudine alla volontà di verità.
5. Non so immaginare quanto a Dylan tutto ciò potrebbe interessare, se preso alla lettera. Lui enumera in litania volti, fatti e personaggi e rivolge al dj Wolfman Jack la richiesta di play (secondo i casi: mandare, suonare, recitare) una serie di film, di tragedie e soprattutto di canzoni e di standard jazz. Spesso tradizionali, quasi tutte americane (di inglese, pare, solo tre citazioni dei Beatles, una degli Who, una dei Queen e una degli anglo-americani Fleetwood Mac) e quasi tutte anteriori al 1970. Il mondo scomparso ma ancora vivo dell'America profonda, alla quale il bardo rimane visceralmente legato. La canzone popolare americana come unico accompagnamento di questo lamento funebre che nomina i morti per riscattare il passato e farlo rivivere. Perché “mi pesa dirtelo, signore, ma solo i morti sono liberi”.
Non è certo un canto di disperazione, perché per Dylan che solo dal passato può venire la spinta per l'uscita da tempi bui. Per citare un brano assente nella litania, quando i santi marceranno Dylan non avrà bisogno di “want to be in that number”: in quel numero ci sta già, tanto che alla fine del brano invita dj Wolfman Jack a mandare in radio proprio il suo pezzo. Lui, semplicemente, è.
Si comprende allora il perché delle raccomandazioni a fan e follower. In queste settimane cantanti, attori e artisti di tutto il mondo invitano a stare a casa e a rispettare le regole. Dylan può permettersi di esprimere lo stesso concetto dicendo: “stay safe, stay observant and may God be with you”.
[Prima strofa]
Fu un giorno buio a Dallas, novembre '63
un giorno che rimarrà segnato dall'infamia Il presidente Kennedy era sulla cresta dell'onda
Un bel giorno per vivere e un bel giorno per morire
portato al macello come un agnello sacrificale
disse: "Aspettate un attimo, ragazzi, lo sapete chi sono?"
“Certo che sì, lo sappiamo chi sei!"
Poi gli fecero saltare la testa mentre era ancora nella macchina
Abbattuto come un cane in pieno giorno
Era una questione di tempi e il tempismo fu quello giusto
Hai debiti da pagare, siamo venuti a riscuoterli
Ti uccideremo con odio, senza alcun rispetto
Ti derideremo e ti faremo sobbalzare e te lo sbatteremo in faccia
Abbiamo già qualcuno qui per prendere il tuo posto
Il giorno in cui al re fecero saltare le cervella
a migliaia guardavano, nessuno vide nulla
Successe così rapidamente, così rapido, di sorpresa
Proprio lì sotto gli occhi di tutti
La più grande magia mai compiuta sotto il sole
eseguita perfettamente, un tocco magistrale
Lupo mannaro, oh lupo mannaro, dai ulula
Zumpappà, è un omicidio proprio abominevole
[Seconda strofa]
Silenzio, bimbi, poi capirete
Arrivano i Beatles, vi terranno la mano Scivolate per il corrimano, andate a prendere il cappotto
prendete il traghetto sul Mersey , prendete la vita per la gola
Ci sono tre sfaccendati che girano tutti stracciati raccogliete i pezzi e ammainate le bandiere
io vado a Woodstock, è l'Era dell'Acquario
Poi andrò ad Altamont a sedermi vicino al palco
Sporgi la testa dal finestrino, goditi la vita C'è un party proprio ora dietro la collinetta erbosa Impila i mattoni, versa il cemento
Non dire che Dallas non ti ama, signor Presidente
Allunga il piede sull'acceleratore e vai a tutto gas
Prova a raggiungere il triplo sottopasso
Tu Cantante con la faccia nerofumo, tu clown con la biacca in faccia
Meglio che non vi fate vedere dopo il calar del sole
Su al quartiere a luci rosse c'è un poliziotto di ronda
che vive come nell'incubo di Elm Street Quando sei giù a Deep Ellum , metti i soldi nella scarpa
Non chiedere che cosa può fare il tuo paese per te Soldi per il voto di ballottaggio, denaro da sputtanare Dealey Plaza , sterza a sinistra
Scendo all'incrocio, cercherò un passaggio Il posto dove sono morte fede, speranza e carità
Sparagli mentre corre, ragazzo, sparagli finché puoi
Vedi se riesci a sparare all'uomo invisibile
Goodbye, Charlie! Arrivederci, zio Sam!
Francamente me ne infischio, miss Rossella ,
qual è la verità e dov'è andata?
Chiedi a Oswald e a Ruby , loro dovrebbero sapere
"Chiudi il becco" disse un vecchio saggio gufo Gli affari sono affari ed è un omicidio proprio abominevole
[Terza strofa]
Tommy, riesci a sentirmi? Sono la Regina dell'Acido Viaggio in una lunga limousine nera Lincoln
sul sedile posteriore accanto a mia moglie
dritto dritto verso l'aldilà
mi accascio a sinistra, ho la testa nel suo grembo
Aspetta, sono finito in qualche specie di trappola
Dove non chiediamo pietà e pietà non diamo
Stiamo qui sulla strada vicino a quella dove vivi tu
Gli mutilarono il corpo e gli tolsero il cervello che potevano fare di più? Accanirsi sulla pena
Ma la sua anima non era lì dove si pensava che fosse
negli ultimi cinquant'anni l'hanno cercata
Libertà, o libertà, scendi su di me Mi pesa dirtelo, signore, ma solo i morti sono liberi
Mandami qualcuno da amare , poi non mi dire bugie
Getta l'arma nel tombino e passa oltre Svegliati, piccola Susie , andiamo a fare un giro
oltre il fiume Trinity , teniamo viva la speranza
Accendi la radio, non toccare i comandi
L'ospedale di Parkland , a sole sei miglia da qui
Mi fatto girare la testa, miss Lizzy , mi hai riempito di piombo
il tuo proiettile magico mi è finito in testa
Sono solo un capro espiatorio , un gonzo come Patsy Cline Mai sparato a nessuno, né davanti né da dietro
Ho sangue in un occhio, ho sangue nell'orecchio
Alla nuova frontiera non ci arriverò mai
Il filmato di Zapruder l'ho visto la notte scorsa
L'ho visto trentatre volte, forse di più
È vile e ingannevole, è crudele ed è cattivo
La cosa più brutta che si sia mai vista
Lo uccisero una volta e lo uccisero due volte
Ucciso come in un sacrificio umano
Il giorno in cui lo uccisero, qualcuno mi disse: "Figliolo,
l'era dell'Anticristo è appena iniziata"
L'aereo presidenziale arriva all'imbarco
Johnson ha giurato alle 14,38
Fammi sapere quando decidi di gettare la spugna
È quello che è, ed è un omicidio proprio abominevole
[Quinta strofa]
Che c'è di nuovo, gattina mia? Che c'è da dire? Dico che l'anima di una nazione è stata strappata via
E comincia ad andare lentamente in rovina
e che sono trascorse trentasei ore dal Giorno del Giudizio
Wolfman Jack sta parlando da posseduto
a pieni polmoni e non la smette più
Metti su una canzone, sig. Wolfman Jack
Suonala per me nella mia lunga Cadillac
Suonami quella "Only the Good Die Young" Portami nel posto dove Tom Dooley fu impiccato
Manda "St. James Infirmary" e The Court of King James Se vuoi ricordartele, fai meglio a segnarti i nomi
Suona Etta James, pure, manda "I'd Rather Go Blind" mandala per l'uomo con la mente telepatica
Suona John Lee Hooker, manda "Scratch My Back" Mandala per quel proprietario di strip club di nome Jack Guitar Slim Going down slow Suonala per me e per Marilyn Monroe
[Quinta strofa]
Manda "Please Don't Let Me Be Misunderstood" Suonala per la First Lady, non si sente affatto bene
Suona Don Henley, suona Glenn Frey Portala tutto all'estremo e poi mollalo lì
Suona pure per Carl Wilson che guarda da lontano alla Gower Avenue suona la tragedia, manda "Twilight Time" Riportami a Tulsa sulla scena del delitto
Mandane un'altra e "Another One Bites the Dust" Manda "The Old Rugged Cross" e "In God We Trust"
Monta il cavallo rosa , prendi la strada deserta Sta lì e aspetta che gli esploda la testa
Manda "Mystery Train" per mister Mistero
L'uomo che cadde morto come un albero senza radici
Suona per il reverendo, suona per il pastore
Suona per il cane che non ha un padrone
Manda Oscar Peterson, manda Stan Getz
Manda "Blue Sky" , manda Dickey Betts Suona Art Pepper, Thelonious Monk
Charlie Parker e tutta quella roba
Tutta quella roba e "All That Jazz" Suona qualcosa per the Birdman of Alcatraz Suona Buster Keaton, suona Harold Lloyd Suona Bugsy Siegel , suona Pretty Boy Floyd Gioca i numeri del lotto, calcola le quote
Suona "Cry Me A River" per il signore degli dei
Suona Number 9 e suona la numero 6
Suona per Lindsey e per Stevie Nicks Suona Nat King Cole, manda "Nature Boy" Suona "Down In The Boondocks" per Terry Malloy Vai con "Accadde una notte" e "One Night of Sin" Ci sono dodici milioni di anime in ascolto
Recita "Il mercante di Venezia", manda i "Mercanti di morte" Suona "Stella by Starlight" per Lady Macbeth
Non si preoccupi, sig. presidente, i soccorsi stanno arrivando
I suoi fratelli stanno arrivando, scateneranno l'inferno
Fratelli? Quali fratelli? Cos'è questa storia dell'inferno?
Ditegli: “Stiamo aspettando, venite pure", sistemeremo anche loro
Love Field è dove atterrò il suo aereo
Ma non si rialzò mai più in volo
Fu un atto difficile da uguagliare, secondo a nessuno
Lo uccisero sull'altare del sole nascente Manda "Misty" per me e "That Old Devil Moon" Manda "Anything Goes" e "Memphis in June" Vai con "Lonely At the Top" e "Lonely Are the Brave" Suona per Houdini che si rivolta nella tomba
Suona Jelly Roll Morton , suona "Lucille" Suona "Deep In a Dream" , suona "Driving Wheel" Manda la Sonata al chiaro di luna in fa diesis
E "A Key to the Highway" per il re dell'armonica
Suona "Marching Through Georgia" e "Dumbarton's Drums" Suona il buio e la morte arriverà quando arriverà
Manda "Love Me Or Leave Me" del grande Bud Powell Manda "The Blood-stained Banner" , manda "Murder Most Foul"
Deduzione naturale e illogicità manifesta nelle argomentazioni giudiziarie
Angelo Costanzo
Sommario : 1.Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria. - 2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità. - 3. La scelta delle premesse e la logica produttiva. - 4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee.- 4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva. - 4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste. - 4.3. Illogicità manifesta e abduzione. - 4.4. L’erroneità epistemologica manifesta - 5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica.- 6. L’illogicità dialettica manifesta
1. Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria
Lo studio della deduzione naturale consente di scomporre i passaggi del ragionamento così da analizzarne l’andamento. Fornisce un metodo per mostrare che una conclusione deriva da certe premesse, ma è un sistema deduttivo senza assiomi (qualunque proposizione può essere introdotta a qualsiasi stadio del ragionamento), basato su una serie di regole di inferenza il cui numero dipende dai connettivi logici che si ritengono accettabili. Nella sua formulazione moderna (a albero) è stata proposta, nel 1935, da Gerhard Gentzen, che per primo introdusse un formalismo logico il più vicino possibile al linguaggio naturale e all’effettivo procedere dei ragionamenti, caratterizzato da regole di introduzione e regole di eliminazione di premesse per giungere, infine, a una conclusione costituita dalla composizione degli enunciati non eliminati[2].
2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità
Le ricerche della psicologia sperimentale mostrano che:
a) il ragionamento spontaneo non usa tutte le regole della logica e alcune inferenze gli sono difficoltose (per esempio il modus tollendo tollens e il ragionamento controfattuale);
b) le inferenze sono influenzate dai contenuti e dal contesto delle premesse e si ragiona in modo diverso su problemi formalmente simili ma con premesse dal contenuto diverso;
c) ordinariamente le persone non applicano regole formali per connettere le premesse ma ragionano mediante rappresentazioni mentali (modelli) costruite, decostruite e ricostruite sulla base del contenuto delle premesse e delle conoscenze.
La peculiarità del ragionamento giuridico - che si caratterizza per la sua necessità di guardare ai fatti non nella loro complessità ma come a possibili fattispecie concrete di fattispecie normative astratte - accentua il rischio di ancorarsi fallacemente a degli stereotipi. Questa è una delle ragioni per le quali un eccesso di esperienza in un dato settore può persino diminuire la qualità della attività professionale.
Il pensiero non esiste propriamente se non quando è anche riflessione su se stesso (meta-cognizione) e vigilanza psicologica sulla sua tendenza a fallare. La soluzione di problemi richiede consapevolezza della formazione dei concetti usati e dello svolgersi dei connessi processi di categorizzazione, della natura e dei limiti del tipo di inferenze utilizzate, dell’articolarsi dei giudizi di somiglianza e delle analogie, degli esatti termini di un ragionamento probabilistico o di una ipotesi di spiegazione causale, della importanza della flessibilità nel passare dalla struttura superficiale a quella profonda di un problema e della capacità di adottare percorsi di ragionamento che non inibiscano la loro successiva rivisitazione critica. Particolare difficoltà sorge quando la incertezza impone al decisore di tenere compresenti più soluzioni.
La stessa persona muta lo stile dei suoi giudizi secondo l’oggetto della decisione e i propri stati psicologici, anche tendendo a utilizzare informazioni non contenute nelle premesse per decidere se una conclusione segue da quelle premesse (c.d. effetto di congruenza con le credenze).
Le condizioni psicofisiche possono distorcere il percorso della decisione, rendendo difficoltoso reggere il dubbio (cioè mantenere come compossibili ipotesi fra loro discordanti) e resistere alle suggestioni fuorvianti. Lo stato d’animo prevalente di un soggetto può focalizzarne l’attenzione su alcuni aspetti e orientare il recupero dalla memoria di dati consoni a quello stato rendendoli disponibili più di altri. La vigilanza psicologia sui propri ragionamenti e sulle proprie propensioni emozionali ha un costo psichico ma l’impegno a pensare al problema prima di provare attiva la volontà di non costruire tesi parziali.
L’arte di ragionare si sviluppa con la capacità di pensare il contrario dell’ipotesi di partenza. Gli errori più comuni derivano dall’adagiarsi sul già valutato, non accorgendosi di controragionamenti a volte persino ovvi. Invece, l’affinarsi dei ragionamenti deriva dalla dialettica fra gli schemi già utilizzati e i nuovi dati che richiedono un riequilibrio delle conoscenze. Si conosce tramite i confronti fra posizioni contrarie (la misura dell’equilibrio fra i contrari porta alla precisione dei particolari: lucem demonstrat umbra), soprattutto tramite la consapevolezza della differenza fra quello che ci si aspettava e quello che si è trovato. Allora, dietro ogni soluzione prescelta può intuirsi la moltitudine delle soluzioni rifiutate.
Sappiamo che l’attività razionale della mente costituisce una minima porzione delle sue dinamiche. Le componenti emotive e affettive dominano sul ragionamento e possono condurre a cercare conferme a intuizioni fallaci. Negli itinerari mentali si intrecciano percorsi euristici e percorsi analitici e spesso i secondi vengono adoperati per coprire le fallacie dei primi, per razionalizzare intuizioni e precomprensioni. A volte, prevale la propensione verificazionista (corroborazionista) che enfatizza gli elementi confermativi della responsabilità dell’imputato, assecondando la naturale propensione della mente a ricercare la conferma di un’idea acquisendo nuove informazioni coerenti con la stessa e a espungere i dati contrari. I suoi rischi non devono eclissare quelli della opposta inclinazione negazionista: esiste la tendenza a negare o a ridimensionare alcuni generi di fatti illeciti (ad esempio: i reati più disturbanti o le condotte colpose più macroscopicamente negligenti o imprudenti) per meccanismi psicologici che possono instaurarsi nei testimoni e persino nelle vittime (per espungere dalla mente cosciente stati d’animo penosi), estendersi a un intero contesto sociale e penetrare nelle smagliature dell’attenzione degli attori professionali del processo e dei loro consulenti.
3.La scelta delle premesse e la logica produttiva
La natura oggettiva della logica non comporta che essa debba occuparsi solo del giudizio sulle conoscenze già acquisite. Infatti, sue varie articolazioni sono strutturalmente idonee a ampliare la conoscenza: non esiste solo una logica del controllo e della giustificazione delle conoscenze ma anche una logica della scoperta[3]. Basta un minimo di immaginazione logica per prefigurarsi una ipotesi contraddittoria o semplicemente contraria rispetto a quella adottata, per configurare un antimodello delle relazioni fra i dati sul quale si sta lavorando, per ragionare in termini di controfattuali, per costruire un esperimento mentale falsificante la ricostruzione degli eventi che è delineata.
Il metodo analitico di Aristotele nasce dall’esigenza di connettere premesse e conclusioni. a sillogistica ha privilegiato la via che va dalle premesse alle conclusioni (“quale conclusione nasce da premesse date?”), ma per Aristotele era altrettanto interessante trovare le premesse necessarie per dimostrare una data conclusione (“quali premesse per una conclusione data”?), perché lo scopo principale della logica è trovare un metodo che permetta di costruire per ogni problema un discorso che ne prospetti una soluzione [Aristotele: Topica, A1, 100° 18-20; Analytica Priora, A27, 43 a 20-24, B3 90 a 35]. La scoperta non si risolve nel concepire una idea (magari vaga) nuova ma include i metodi di controllo che consentono di precisarne e a volte di modificarne il contenuto: il contesto della giustificazione non è scindibile da quello della scoperta.
Il cosiddetto paradosso dell’inferenza considera che le inferenze non possono essere nello stesso tempo ampliative e corrette. Ma questo vale solo per quelle meramente deduttive, mentre ordinariamente la argomentazione è per sua natura ampliativa perché deve rivelare “per mezzo di alcune proposizioni ritenute vere, una conclusione non evidente [Sesto Empirico, Pyrrohonianum Hypotyposeon].
A tale scopo servono: l’analisi (scomposizione di un ragionamento nelle sue parti o riduzione di un problema a un altro) l’astrazione (estrazione di dati oppure spostamento dell’attenzione da certi aspetti a altri), l’abduzione (l’indizio che conduce all’ipotesi esplicativa), la esplicitazione dei presupposti e la precisazione delle conseguenze di una tesi, l’analogia (che si fonda sulla logica della somiglianza) e l’induzione (che valorizza il reiterarsi di dati analoghi). Queste operazioni intellettuali sono tutte fonti di nuove possibili premesse da introdurre nel ramificarsi dei ragionamenti.
4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee
La depurazione di un ragionamento da premesse viziate da fallacie è condizione necessaria - anche se non sufficiente - affinché risulti accettabile.
Il codice di procedura penale italiano considera due categorie (di invenzione legislativa): le illogicità manifeste (che viziano le decisioni e producono la loro nullità) e le illogicità non manifeste (che non producono nullità). La seconda categoria non è rilevante per il giudizio di legittimità, ma lo è per valutare la logicità della ricostruzione dei fatti compiuta nei cosiddetti giudizi di merito e, quindi, comunque, la loro plausibilità.
La “illogicità” è considerata rilevante solo se “manifesta”, come se gli errori logici meno manifesti (quelli più sottili, quelli che a prima vista non sembrano errori) non determinassero egualmente un vizio del ragionamento, spesso rilevante (magari perché più insidioso) e non necessariamente incidente soltanto su aspetti secondari del percorso della argomentazione: un anello della catena inferenziale che non tiene, la smaglia anche se piccolo[4].
In realtà, come è stato è stato osservato, nei ragionamenti giuridici “le esemplificazioni di manifesta illogicità non sono molte, fatta eccezione per qualche patente contraddizione o qualche generalizzazione induttiva troppo affrettata. Forse è più facile incontrare delle manifeste violazioni del senso comune; le quali, tuttavia, non possono identificarsi con le illogicità manifeste, perché in molti casi la logica rilascia verdetti contrari all’intuizione e in altrettanti il senso comune conduce a ragionamenti manifestamene erronei”[5].
La evidenza della illogicità non può essere intesa in senso meramente psicologico (come se potesse dipendere solo dalla attenzione di chi la valuta), ma deve avere una valenza oggettiva, connessa alle basi elementari della logica, valide per tutti e, in parte, anche intuitive.
Il rispetto dei principi fondamentali della logica formale è il livello minimo al di sotto del quale non è ammissibile scendere (il che non esclude che una più evoluta cultura giudiziaria possa aspirare a livelli di maggiore rigore logico). Una premessa che sia manifestamente illogica non deve essere inserita nella argomentazione e, comunque, se scoperta, è un ramo dell’albero del ragionamento che va eliminato (o, ma solo nelle inferenze abdu-induttive, accantonato (per un possibile reinnesto). .
La riduzione della fiducia nella forza della logica che caratterizza molte manifestazioni del pensiero contemporaneo è stata operazione frettolosa e incauta. Tanto più se si valuta che lo sviluppo dello studio della psicologia del pensiero e della linguistica consentono oggi un uso meno ingenuo e fideistico dello strumentario della logica. Allora, sostituire ai limiti (ormai ben conosciuti) delle forme logiche quelli sterminati, vaghi e variamente interpretabili dell’inafferrabile senso comune non sembra operazione fruttuosa.
La tipologia delle illogicità manifeste è strettamente connessa alla struttura del ragionamento che esse viziano.
4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva
4.1.1. La prima forma di illogicità manifesta nella logica deduttiva (ma non soltanto in questa) è la violazione del principio di determinazione. Nel ragionamento, il significato dei termini (delle nozioni, dei concetti e delle idee) deve mantenersi costante. Questo non impedisce che molti termini siano intrinsecamente indeterminati o che il loro significato abbia un nucleo centrale ben definito e frange periferiche più o meno indeterminate: ma quando (come è spesso inevitabile) nei ragionamenti si introducono premesse veicolanti termini indeterminati è importante esserne consapevoli per non cadere nelle varie fallacie dell’equivocazione e non scivolare nella fallacia quaternio terminorum (o del medio ambiguo) che inficia ogni sillogismo (usando lo stesso elemento del discorso, ma con un significato diverso di volta in volta, si crea un quarto termine, pur utilizzando in apparenza solo tre termini distinti, e questo inficia la deduzione).
In secondo luogo, anche se la gran parte dei ragionamenti può svolgersi senza utilizzare il principio di contraddizione, certamente la contraddizione rende insignificante (se non trincerata entro ambiti circoscritti, come suggeriscono le logiche paraconsistenti) ogni discorso riducendolo - per il principio ex contradictione quodilibet sequitur - a un’insalata di parole.
Inoltre, nei ragionamenti ispirati da esigenze pratiche per la regolazione della vita sociale non sono accettabili più di due valori di verità: per il principio del terzo escluso una conclusione o è vero o è falsa: tertium non datur. Si dimostra A, dimostrando che il suo opposto (non-A) è contraddittorio. Sono di questo tipo tutte le dimostrazioni per assurdo e le confutazioni dialettiche, delle quali - però - sono rare le condizioni di possibilità perché le tesi con cui ordinariamente si opera sono fra loro meramente contrarie ma non anche contraddittorie, perciò la eliminazione di una non prova l'altra, rimanendo possibili altre tesi incompatibili con entrambe (tertium datur) e, non autorizza a concludere il discorso.
4.1.2. Senza la posizione di condizioni antecedenti iniziali (postulati, massime di esperienza, endoxa, ipotesi), alle quali collegare le conseguenti, il ragionamento né si avvia né procede. I modi fondamentali del ragionamento condizionale sono: il modus ponendo ponens [(se P allora Q); sussiste P, allora sussiste Q] e il modus tollendo tollens [(se P allora Q); non sussiste Q, allora non sussiste P]. Sono canoni di regole di inferenza dominabili intuitivamente, eppure è facile cadere nelle correlate fallacie: la fallacia della affermazione dell’antecedente [(se P allora Q); sussiste Q allora P] e la fallacia della negazione del conseguente [(se P allora Q); non sussiste P, allora non sussiste Q].
E’ interessante considerare che gli studi sulla psicologia del ragionamento mostrano che le persone, non hanno difficoltà a utilizzare il modus ponendo ponens, ma hanno difficoltà a utilizzare il modus tollendo tollens e, comunque, facilmente incorrono nelle due fallacie del condizionale (affermazione della conseguente e negazione dell’antecedente). Conclusioni affette da queste fallacie vanno eliminar dall’albero del ragionamento deduttivo.
4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste
A differenza di quella deduttiva, la logica induttiva mira a ampliare le conoscenze e perciò deve convivere con le cosiddette fallacie del condizionale (in particolare quella della affermazione dell’antecedente), che sono tali nella logica deduttiva, ma che, invece, impregnano necessariamente la logica induttiva, in cui le conclusioni veicolano informazioni (che potrebbe rivelarsi false) maggiori di quelle offerte dalle premesse.
Comunque, anche nella utilizzazione delle variegate espressioni della logica induttiva possono presentarsi della illogicità manifeste prodotte da macroscopiche fallacie: la generalizzazione indebita (o secundum quid, o generalizzazione affrettata) presenta quel è vero in alcuni casi come se fosse vero per ogni caso oppure una conclusione riguardante un'intera classe di oggetti partendo da premesse riguardanti uno solo o su alcuni dei suoi componenti e consiste nel derivare una regola generale a partire da dati insufficienti o inadeguata, o perché relativi a casi speciali o perché il campione considerato non è rappresentativo; la generalizzazione statistica - che si basa su una campionatura ma pretende di avere una conclusione generale; la falsa causa - che fa apparire per causa di un evento qualcosa che non lo è oppure attribuisce arbitrariamente una certa causa a un evento senza aver considerato le concause o le possibili cause alternative.
4.3. Illogicità manifesta e abduzione
Tradotta nel linguaggio giudiziario corrente, l’abduzione si risolve nel ricorso alle massime di (comune) esperienza, ossia a generalizzazioni di senso comune che costituiscono il tramite tra i fatti conosciuti e i fatti da dimostrare ponendosi come premesse maggiori di un ragionamento in cui l'indizio è una premessa minore. Il criterio che regge la massima non può trarsi da un evento singolo quale è quello oggetto di indagine perché, in questo caso, non potrebbe costituire una massima di (precedente) esperienza.
Il ricorso alle massime di esperienza comporta il rischio della fallace confusione fra generalità e generalizzazione insito nella tendenza a attribuire carattere di generalità a quelle che potrebbero rivelarsi mere indebite generalizzazioni, tanto più se si considera che esse si formano secondo vie non vigilate dal rigore del metodo scientifico.
La valutazione atomistica degli indizi è fallace perché trascura che l’indizio - per sua costituzione - è un dato la cui ambiguità va emendata collegandolo a altri. Rifuggire da questa operazione significa accantonare indebitamente elementi di valutazione rilevanti.
All’opposto, l’indebita proliferazione degli indizi (praesumptio de praesumpto) è fallace perché diluisce la valenza sintomatica di un indizio: il giudice, che ben può partire da un fatto noto (indizio) per risalire a uno ignoto, non può porre il fatto (originariamente) ignoto come fonte di una ulteriore presunzione perché la doppia presunzione contrasta con il requisito della sua precisione, richiesto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen..
4.4. L’erroneità epistemologica manifesta
L’utilizzo della conoscenza scientifica nei processi non apporta massime di esperienza ma leggi scientifiche (proposizioni di contenuto generale) da applicare a eventi singoli, con le specifiche problematiche epistemologiche derivanti dalle difformità fra la logica delle asserzioni singolari (che guida la ricostruzione degli eventi singoli) e la logica delle asserzioni generali (che tesse le leggi scientifiche): la confusione fra le due forme di logica può condurre a forme di erroneità epistemologica manifesta. Le tesi che applicano agli eventi singoli leggi scientifiche accettate sic et simpliciter vanno eliminate dall’albero del ragionamento e, eventualmente, accantonate in attesa di una loro opportuna concretizzazione.
5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica
5.1. Per risultare logicamente accettabile la argomentazione che organizza i dati raccolti deve risultare consistente (priva di interne incompatibilità). Ma solo una argomentazione coesa (retta da una tesi ricostruttiva) può risultare persuasiva. Spesso l’insieme dei dati acquisiti con una apposita ricerca non è più importante di quello già disponibile con una istruttoria ordinaria e, in molti casi, la conclusione non si raggiunge tanto sviluppando inferenze esplicite da premesse esplicite, ma estraendo dalla serie disordinata di informazioni di sfondo le premesse adatte a renderle coese. Chi argomenta o esamina le altrui argomentazioni solitamente concentra la sua attenzione sulla presenza di incompatibilità nel discorso e si cura di sviluppare ulteriori argomentazioni per sanarle - se mira a confermare il discorso - o per rimarcarle - se mira a confutarlo. Questo atteggiamento è incoraggiato dal fatto che, dopo essere state riscontrate, le incompatibilità pongono problemi ineludibili, mentre le questioni relative alla coesione fra i dati e gli argomenti non emergono con la stessa facilità, né sempre sono immediatamente rilevanti perché affinano il discorso compattandolo, ma non pongono problemi ineludibili.
Il giudizio di coesione costituisce connessioni ragionevoli fra i dati[6]: non appartiene esclusivamente al ragionamento analitico e al mero controllo formale delle enunciazioni, perché comporta la decisione di fare emergere le consonanze tra i vari elementi in ragione del loro collegamento a una certa precomprensione.
La coesione è una qualità graduabile e, più che singoli elementi, concerne porzioni significative del discorso, la concatenazione dei dati e la completezza delle risposte alle questioni che il caso pone.
Inoltre, è instabile perché può mutare secondo l'ampiezza del contesto individuato: può perdersi se il contesto viene ampliato con altri dati (si rischia di sconnettere una argomentazione estendendola oltre misura).
Per la sua maggiore compattezza e per la interna concatenazione fra le sue componenti, una ricostruzione più coesa può risultare preferibile, a altra dalla trama più lasca; a volte la coesione si impianta persino nonostante la presenza di qualche divergenza fra i dati.
Ma la ricostruzione degli eventi può anche essere scartata a causa dei nessi che non riesce a fornire o che fornisce ma non spiega[7]. In altri termini, il giudizio su una certa ricostruzione degli eventi può dipendere dalla sua compatibilità/connessione con i dati acquisiti come anche dalla sua interna composizione: le inadeguatezze non sono così facilmente censurabili come gli errori propriamente logici.
La completezza di una ricostruzione dei fatti è una qualità riassuntiva e unificante della validità delle argomentazioni utilizzate a suo sostegno. Soltanto la incompletezza grave della motivazione può qualificarsi come una modalità attraverso la quale si rende manifesta la sua illogicità, risolvendosi, in definitiva, nel vizio di mancanza di argomentazione. Al di là di questo confine, le disarmonie nella composizione delle argomentazioni, il disordine della esposizione, le ridondanze che ingenerano confusione, non costituiscono illogicità ma inadeguatezze retoriche, che, semmai, possono allertare il lettore perché indici di possibili illogicità (più o meno rilevanti, certamente non manifeste).
In ogni caso, in presenza di premesse fra loro incompatibili, l’interprete deve approdare a una composizione dei dati esente da incompatibilità e questo comporta un impegno mentale che si conclude quando emerge uno spunto per risolvere il problema ricomponendo i dati, rivedendone l’insieme in modo nuovo (la ristrutturazione che, secondo i gestaltisti, prelude allo insight). L’emergere di nuove premesse per un discorso si ha “combinando le idee” e selezionando alcune fra tutte le combinazioni possibili. La produzione di tutte le combinazioni possibili non può essere realizzata soltanto dall’io-conscio (che può produrre un insieme limitato di combinazioni) ma avviene tramite l’io-inconscio che, con la sua libertà e potenza produttiva, può in poco tempo formare una amplissima gamma di combinazioni delle quali soltanto alcune emergono. L’interesse di una combinazione può derivare da un giudizio estetico (in termini di armonia, semplicità, chiarezza economia espositiva) o da una valutazione degli scopi perseguiti. Il risultato può apparire come una posizione apodittica o una intuizione improvvisa (insight), ma ritenerlo veramente tale sarebbe fallace come scambiare il proscenio per la realtà.
5.2. Comprendere equivale a rendersi conto che si ha che fare con qualcosa che può essere espresso dal discorso che si è sviluppato e esposto con “queste parole, in queste posizioni”. La comprensione si raggiunge all’interno del sistema di premesse che si è adottato e “non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto l’elemento vitale della argomentazione”. Essa si traduce in certezza quando è collegata a tutte le domande e a tutte le risposte emerse nel ragionamento che la precede. A questo approdo concorre una convalida estetica della forma discorsiva che espone le giustificazioni delle conclusioni raggiunte[8].
All’inizio si comprende solo ciò che ci si aspetta, ma una riflessione successiva può permettere di rendersi conto di un errore e condurre a una rivisitazione delle premesse del ragionamento.
6. L’illogicità dialettica manifesta
Tuttavia, la chiarificazione del contenuto di una tesi che conduce alla sua accettazione non autorizza ancora la conclusione del ragionamento.
La conclusione (provvisoria) raggiunta va esposta al vaglio dialettico della confutazione: se non le resiste deve essere modificata o sostituita. In sintesi: una base induttiva di dati empirici viene resa coesa da una o più ipotesi ricostruttive e il risultato va sottoposto alle critiche. Vale la formula (induzione & coesione) & assenza di refutazione = prova.
Anche una argomentazione esente da illogicità al suo interno può risultare viziata se omette di confrontarsi con le argomentazioni di segno contrario. La logica della dialettica confutativa si pone su un piano ulteriore rispetto a quella delle affermazioni meramente assertive e il termine “contraddizione” ha avuto origine, appunto, nella prassi dialogica volta a contrastare il pensiero dell’avversario nell’agone giudiziario.
Collaudare un ragionamento esponendolo al confronto con altre tesi richiede operazioni intellettuali che fuoriescono dal discorso sviluppato e vanno oltre il mero controllo della sua logicità. Comportano una attività di metacognizione che non permane senza una vigilanza psicologica che richiede disponibilità di energie mentali e capacità di riflettere sui propri pensieri, individuandone le limitazioni e aprendosi al fluido confronto con altri ragionamenti.
A questa attività la psicologia può fornire utili schemi di comportamento intellettuale per ridurre il rischio di giudicare senza possedere informazioni sufficienti[9] .
Una prima mossa sta nell’individuare i pregiudizi impliciti dubitando della oggettività dei propri credenze e esaminando come queste si sono formate.
Una seconda mossa sta nel generare (o ascoltare) tesi alternative a quella sostenuta, fino a considerare imparzialmente ogni altra ipotesi e non solo l’opposta[10].
Una terza mossa sta nel mantenersi consapevoli che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di induzioni e di loro conferme e che, quindi, la conclusione raggiunta potrebbe essere erronea perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto ritenuto [11].
*Relazione al Convegno svoltosi a Roma il 6/11/2019 presso il Consiglio Nazionale Forense sul tema “Gli errori giudiziari e la loro riduzione: le linee-guida psicoforensi”
[1]Secondo la figura del cosiddetto ‘sorite cinese’: Ch.Perelman -L.OlbrechtsTyteca Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique, Presses Universitaires de France, 1958 (trad.it.di C.Schick, M.Mayer, E.Barassi, Trattato dell'argomentazione.La nuova retorica, Torino, 1966, 242ss (ed.it.1976).
[2] Gli schemi della ‘deduzione naturale’ sono stati evidenziati da Gerahard Gentzen in: Untersunchungen über das logische Schliessen in “Mathematische Zeitschrift”, 39 (1934), 176-210, 430-431 (trad.it. parziale in: D.Cagnoni (ed.), Teoria della dimostrazione, Milano Feltrinelli, 1981, 77-116). O anche: Investigation into logical deduction, in G.Gentzen, Collected Papers, a cura di M.E.Szabo, North-Holland Amsterdam, 1969, p.80.
[3] Sulla questione: C.Cellucci, Le ragioni della logica, Bari, Laterza, 1998, 7ss.; P.Engel, Philosophie et psychologie, Paris, Gallimard, 1996. Trad.it. di. E.Paganini, Filosofia e psicologia, Torino, Einaudi, 2000, 19-21. 23, 46-51, 88-94.
[4] L’indeterminatezza del contenuto di una nozione indubbiamente fondamentale quale è quella di “manifesta illogicità” produce una mancanza di regole al centro del sistema delle regole e rende incerta la separazione fra vizio di legittimità e vizio merito dei provvedimenti giudiziari (A. Costanzo, Anomia della illogicità manifesta, in Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326. All’ampiezza di tale indeterminazione sono connesse alcune delle ambiguità che conducono non infrequentemente il giudizio di cassazione a risolversi in una terza istanza, condizione che è concausa del lievitare del numero dei ricorsi e anche di alcuni limiti della nomofilachia.
[5] M. Benzi, Le fallacie logiche, in “Per uno statuto della Logica nel processo penale. Secondo incontro di studio: “Illogicità manifesta, Fallacia Occulta”, Roma, Sabato 28 Aprile 2012. Scuola Nazionale di Alta Formazione dell’Avvocato Penalista.
[6] A.Cerri (ed.), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico nella sfera giuridica, Atti del Convegno di studi, 2-4/10/2006, Aracne, Roma,2007; F.Modugno, Ragione e ragionevolezza, ESI, Napoli, 2009.
[7] Su questi temi: G.Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2015.
[8] Le due citazioni corrispondono alla Proposizione I.531 e alle Proposizioni, 102-102 di L.Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (I:1945; II: 1947-1949), a cura G.E.M. Ascombe e R.Rhees, Blackwell, Oxford, 1953, [trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1968]. Una sintetica esposizione del rapporto fra giudizio logico e giudizio estetico è sviluppata da Giuseppe Di Giacomo (Dalla logica all’estetica, Parma, Pratiche, 1989).
[9] Sulle questioni che seguono, estesamente e con puntuale bibliografia: G.Gulotta, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati. Commento alle Linee guida psicoforensi per un processo sempre più giusto, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 356-376.
[10] A.Costanzo, L’errore giudiziario come difetto di imparzialità, in: A.Incampo e A.Scalfati (a cura di) , Giudizio penale e ragionevole dubbio, Bari, Cacucci, 2017, pagg. 35-48.
[11] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale. Roma, Laterza, 1990.
«L’EPIDEMIA ESIGE UNA SVOLTA» INTERVISTA AL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA
Flick: «Superare il carcere. Detenuti costretti alla promiscuità nonostante il coronavirus: d’ora in poi si pensi a forme di pena diverse, in cella solo i violenti» *
Intervista di ERRICO NOVI
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L’emergenza potrebbe dunque aiutarci a riscrivere la funzione del carcere nel nostro sistema. A pronunciare un “basta” che non è ispirato a utopie, ma a un profondissimo umanesimo. Trattenuto nella terra dalle radici della concretezza «come l’umanesimo integrale di Jacques Maritain insegna», chiarisce il presidente emerito della Corte costituzionale.
Presidente Flick, di fronte all’incubo di un coronavirus che dilaga in carcere ci rifugiamo nella negazione: non accadrà, sono più al sicuro lì dentro. È il riflesso di una cultura che trasforma ogni condannato in
nemico del popolo?
Abbiamo trasformato l’eccezione in regola, innanzitutto, rendendo normale la deroga. È l’eccezione delle leggi speciali, ad esempio, a essere diventata normalità. Si spiega con una nostra storica vocazione a trascurare le sorti del diverso. La Costituzione prima di tutto, e la nostra Corte costituzionale, si battono in una contesa impari per contrastare una simile indole. I successi sono pochi: l’ordinamento penitenziario del 1975, la definizione delle misure alternative al carcere introdotta undici anni dopo. Poi però la nostra Corte compie un doveroso e opportuno viaggio nelle carceri, per testimoniare a chi è recluso la realtà del mondo di fuori e aprire nello stesso tempo la realtà esterna al carcere, alla comprensione dei detenuti. Solo che mentre la Corte entra dalla porta, la Costituzione esce dalla finestra. Anziché assicurare gli spazi residui di libertà a chi è condannato, la politica criminale travisa le pene alternative in meri strumenti di deflazione.
Senza risolvere davvero il sovraffollamento.
E il sovraffollamento rende impossibile assicurare di fatto dignità ai reclusi. Abbiamo sprecato l’occasione della riforma elaborata dagli Stati generali dell’esecuzione penale: ora è roba buona solo per le librerie. Ma l’emergenza coronavirus ci offre, seppur nella sua tragedia, un’ulteriore occasione.
Anche rispetto all’umanità della pena? E perché mai?
Il sovraffollamento è una delle contraddizioni messe a nudo dall’epidemia, al pari del contrasto fra eroismi e inefficienze del
sistema sanitario.
Presidente, neppure l’incubo di un’epidemia dietro le sbarre riesce a scalfire il riflesso vendicativo che percuote la maggioranza dei cittadini rispetto alla detenzione?
C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio immotivato e razziale verso gli ebrei alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se solo sfugge; dal migrante che è liquidato solo in base a logiche di sicurezza fino al dramma delle ultime ore, ossia l’anziano positivo al coronavirus dirottato nelle case di riposo, trasformate in lazzaretto.
Perché c’è analogia fra l’anziano lasciato morire di Covid e il detenuto?
Si ritiene che una graduale attenuazione del distanziamento sociale imporrà un trattamento differenziato per gli anziani. Poi però usiamo le case di riposo per anziani come deposito per persone contagiate dal virus: paradossale, no? Ecco, è un paradosso del tutto simmetrico a quello per cui prima si pensa di limitare il contagio con lo spauracchio dell’arresto di chi infrange i divieti e poi, proprio in carcere, si tengono le persone esposte al contagio, lì favorito innanzitutto dalla promiscuità. Ecco, qui arriviamo al punto essenziale della riflessione: l’emergenza coronavirus svela impietosamente diverse contraddizioni nel nostro modo di vivere.
Si riferisce alla negazione del diverso, con l’anziano e il detenuto trattati allo stesso modo di chi cinquant’anni fa era abbandonato nei manicomi?
La risposta è sì. Ma una simile crudeltà merita una spiegazione. E il senso ultimo delle discriminazioni è in un modo di vita in cui il profitto ha conquistato la precedenza rispetto alla persona, anche se alla fine delle fini ciascuno muore solo e non si porta niente dietro. Una idea disumanizzante, che però la tragedia dell’epidemia mette a nudo al punto da offrire l’occasione per liberarsene. Il virus viaggia veloce proprio come la globalizzazione, nuova religione del profitto. In un attimo si dematerializza e si sposta tutto, ogni ricchezza, ma in un attimo anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare, evidentemente.
Impareremo che la globalizzazione può nascondere un retroscena da incubo. Ma perché dovremmo imparare che la pena in carcere è di per sé disumana?
Dinanzi allo spettro di un contagio in carcere, credo sia impossibile non accorgersi che la detenzione inframuraria nega quei residui di libertà personale difesi strenuamente dalla Consulta. Credo sia impossibile non accorgersi che la seconda parte dell’articolo 27, secondo cui la pena non può consistere in trattamenti inumani e deve tendere alla rieducazione, è inattuabile dietro le mura di un penitenziario. L’ergastolo è illegittimo nella sua proclamazione ma legittimo nel suo esercizio, tranne che per i casi ostativi: seppur dopo molti anni prevede una almeno parziale restituzione della libertà. Però ora dobbiamo compiere un ulteriore passaggio dialettico, e comprendere che in realtà la pena inframuraria in sé può essere sì legittima nella sua proclamazione ma è evidentemente illegittima nella sua esecuzione di fatto. Lo si può dire con parole diverse: la privazione assoluta della libertà personale, attraverso la convivenza coatta imposta dal carcere, è di fatto contraria ai principi di tutela della dignità personale scolpiti ai primi articoli della nostra Costituzione.
Se ora a intervistarla ci fosse qualcuno dei rigoristi le chiederebbe come si concilia la sua affermazione con il principio per cui la pena deve essere certa.
Semplice: la Costituzione parla di “pene”, non prevede affatto che il carcere sia l’unica pena. Bisogna fare i conti con una realtà e con modi di pensare diversi, certo. Ma l’emergenza coronavirus potrebbe anche costringerci a fare i conti con una sottovalutazione dell’emergenza carcere analoga ad alcuni errori commessi nella fase iniziale dell’epidemia. Prima i ritardi rispetto alla valutazione di pericolosità del virus in generale; ora si assiste al conflitto fra istituzioni sulla responsabilità della mancata dichiarazione dello stato di emergenza per alcune città lombarde … Vogliamo almeno evitarci il rischio di un terzo, tragico errore proprio sul carcere?
Anche perché non si capisce dove isoleremo i detenuti contagiati.
Incognita che polverizza la tesi di chi considera i detenuti più al sicuro dentro che fuori. Appunto: dove isoleremo i contagiati? Mi perdoni il paragone, ma non possiamo mica ripetere la farsa del Ventennio, quando si spostavano i capi di bestiame in modo da portarli nelle campagne visitate da Mussolini mezz’ora prima che quest’ultimo arrivasse? Spostare non cambia i numeri.
E non c’è il rischio che il panico nelle carceri renda ancora più difficile gestirle?
Se n’è già avuta dimostrazione con le rivolte di inizio marzo. Seppure con diverse variabili, a innescarle sono state soprattutto la paura di perdere i contatti con i familiari, la generale ansia dei reclusi e dello stesso personale di custodia, l’oggettivo carattere di porosità degli istituti di pena. Nei penitenziari c’è un continuo andirivieni di persone che entrano ed escono per lavoro, nonostante la loro pretesa impermeabilità.
Tutti potenziali vettori di contagio.
Contagio esponenzialmente amplificato dall’impossibilità di far rispettare il cosiddetto distanziamento. E non me la sento di condividere le argomentazioni tecniche di chi sostiene che il metro di distanza valga solo per i luoghi pubblici. Mi pare che la contraddizione con quanto previsto per chi è libero sia enorme, tanto è vero che quasi tutti hanno comunque sentito il bisogno di esprimersi rispetto a un simile paradosso.
Ma non tutti pensano che la risposta sia eliminare il sovraffollamento.
C’è chi infatti è convinto che il carcere sia un posto più sicuro di ogni altro ambiente esterno, in tempo di epidemia. Chi, agli antipodi, chiede un’amnistia o un indulto, che però non troverebbero mai una pubblica opinione disponibile ad accettarli, e che sono impedite dall’attuale norma costituzionale. E poi ci sono posizioni mediane: una in apparenza pragmatica che ritiene prioritario, rispetto al carcere, l’allarme nelle case di riposo o nei conventi, e un’altra, molto ma molto condivisibile, che coincide di fatto con il documento inviato alcuni giorni fa dal procuratore generale Giovanni Salvi ai pg di tutte le Corti d’appello, in cui si prefigura una riduzione sia della carcerazione preventiva sia dell’esecuzione penale in carcere pur senza nuovi strumenti giuridici. E ciò vuol dire che tanta gente sta in carcere anche se potrebbe non starci, se i magistrati usassero in senso positivo quella discrezionalità interpretativa che spesso usano in un senso contrario.
È la via maestra?
È al momento la via migliore nel senso che davvero un’interpretazione analogica delle norme in vigore consentirebbe di ridurre le misure e le pene inframurarie. Si tratta della via d’uscita, non a caso condivisa dal procuratore di Milano Francesco Greco, anche se ovviamente non è vincolante; ma implica inevitabili discriminazioni legate alle diversità di interpretazione tra i magistrati. Differenze che potrebbero generare comunque tensioni.
E come se ne esce, è il caso di chiedersi?
Forse ne usciremo solo con la “fase tre”, quando usciremo a rivedere le stelle ma a condizione di accettare un diverso modo di vivere e relazionarsi con gli altri. A quel punto dovremo comprendere che è impossibile scaricare l’emergenza del sovraffollamento in carcere sull’ennesima azione di supplenza compiuta dai magistrati.
Senza lasciarci intrappolare da un braccialetto elettronico.
Non c’erano neppure quando ero ministro della Giustizia, e non è che il tempo da allora sia trascorso utilmente. Premesso che lascio ai colleghi più giovani l’analisi tecnica delle misure, mi limito a osservare che il braccialetto non impedisce l’evasione dai domiciliari, al massimo ci avverte che l’evasione è avvenuta. Alla precedente domanda, come se ne esce, posso offrire una risposta in apparenza provocatoria.
Perché provocatoria?
Tutti dicono che dovremo cambiare modo di vivere. Io dico che dovremmo anche scegliere altre forme di pena diverse dalla privazione della libertà personale. A quelle inframurarie bisognerebbe far ricorso solo quando giustificate dalla violenza e dall’aggressività della persona. Ad esempio per i reati inclusi nel cosiddetto codice rosso.
Riecco il rigorista che subentra e le ribatte: ne verrebbe un messaggio devastante, in termini di mancata deterrenza.
Diffondiamo messaggi sbagliati, che incoraggiano la violazione delle norme, di continuo. Il modo di formulare certe leggi è quasi un invito a violarle. Ripeto: la detenzione in carcere dovrà essere l’estrema ratio.
Forse ora ce la faremo, ma la questione si riproporrà dopo l’emergenza.
Sì, forse è come dice lei. Ora la sfanghiamo, grazie alla supplenza svolta dai magistrati. Ci dovremo pensare dopo, quando non si tratterà solo di rinunciare ai concerti negli stadi. Dovremo pensare anche alla sorte dei detenuti. E anche se farlo comporterà dei rischi. Ma c’è un rischio in qualsiasi cosa.
Il suo è un messaggio in fondo di ottimismo.
Ma sa, dei segnali ci sono. Penso a un accordo firmato di recente da Regione Lazio, Tribunale di Roma, Ufficio esecuzione penale esterna e Università La Sapienza che valorizza i non molti strumenti resi disponibili dal legislatore per agevolare il recupero dei condannati, anche con l’assegnazione di un domicilio a chi non ne ha uno e che solo per questo finisce per scontare la pena in cella.
Sì, presidente: si può essere profondamente in sintonia con la sua fiduciosa previsione. Ma come la mettiamo con quella irriducibile paura del diverso che avvolge i detenuti?
Non a caso ho citato ebrei, donne, migranti, anziani: possiamo farcela a superare tutte le discriminazioni inclusa la paura e il rifiuto di comprendere la condizione del recluso. Possiamo farcela con la cultura. Con l’umanesimo integrale di Maritain. Con la Costituzione che mette in simbiosi l’uguaglianza e la diversità grazie al rispetto della dignità di ciascuno, alla tutela memoria del passato e al progetto del futuro. Possiamo farcela grazie alla consapevolezza che l’umanesimo parziale del profitto e della globalizzazione ci sradica. Nega la solidarietà. E il senso di solidarietà, invece, è la chiave di tutto.
(*) già pubblicata da “Il dubbio”, 8 aprile 2020
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