ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pandemia 2020: decreti e ordinanze d’emergenza.
Roberto Cavallo Perin
Sommario: 1. Il tertium genus della disciplina avverso la Pandemia 2020. 2. La nuova ripartizione delle competenze tra organi titolari del potere amministrativo d’emergenza. 3. Assenza di forza di legge e carattere amministrativo delle ordinanze di necessità e urgenza. 4. Il limite del principio di proporzionalità-utilità nel vizio di eccesso di potere. 5. La proporzionalità del bilanciamento e i principi dell’ordinamento giuridico. 6. Sindacato di costituzionalità tra decreti legge e principi dell’ordinamento giuridico nel rapporto tra legalità e effettività. 7. Concreta innovazione nell’amministrare ed effettività della Repubblica.
1.Il tertium genus della disciplina avverso la Pandemia 2020. La recente esperienza istituzionale - aperta con la deliberazione del consiglio dei ministri 31 gennaio 2020 e accompagnata da una decretazione d’urgenza indicante un catalogo di tipi di ordinanze utili alla bisogna (d.l. 23 febbraio 2020 conv. in l. 5 marzo 2020, n. 13; d. l. 25 marzo 2020, n. 19) - pare avere riunito gli ambiti di disciplina che, dal ceppo comune delle dichiarazioni dello stato d’assedio, s’erano separati più di un secolo or sono a partire dalle elaborazioni intorno al terremoto calabro siculo del 1908.
Si distinsero così in pochi anni i decreti legge dalle preesistenti ordinanze amministrative contingibili ed urgenti del sindaco, di necessità e urgenza del prefetto o del ministro degli interni, dalla disciplina del provvedere in concreto del governo all’organizzazione dei soccorsi (1919) che poi si sono strutturati in un’organizzazione nazionale di protezione civile (1970).
Quest’ultima è la vicenda istituzionale che dallo stato d’assedio ha ereditato la previa dichiarazione d’emergenza, che nel tempo ha legittimato dapprima funzionari, tra cui i ministri dei lavori pubblici, poi i commissari e in tale qualità alcuni presidenti di regione, poi ancora i ministri della protezione civile, infine il presidente del consiglio dei ministri, a provvedere dapprima disponendo delle risorse eccezionali poi anche ad emanare ordinanze in deroga a ogni disposizione vigente.
2.La nuova ripartizione delle competenze tra organi titolari del potere amministrativo d’emergenza.
In materia d’igiene la competenza ad emanare ordinanze contingibili ed urgenti è sempre stata sin dall’unità d’Italia del sindaco, del prefetto e del ministro degli interni. Con la riforma sanitaria del 1978 oltre il sindaco, s’afferma quella del presidente della giunta regionale e del ministro della sanità poi della salute. Le restanti materie di edilizia e polizia locale delle ordinanze contingibili ed urgenti per motivi di sicurezza pubblica trovano a livello comunale il sindaco in qualità d’ufficiale di governo, oltre il quale vi è competenza del prefetto, mentre in ambito nazionale resta al ministro dell’interno. Per l’ordine pubblico la competenza ad emanare le ordinanze amministrative di necessità e urgenza è di organi senz’altro dell’amministrazione statale e si distribuisce tra prefetto e ministro dell’interno.
Nell’altro ceppo della protezione civile tutto s’incomincia con la deliberazione del consiglio dei ministri sullo stato d'emergenza di rilievo nazionale che in ragione della natura e della qualità degli eventi: ne fissa la durata e l'estensione territoriale, autorizzando al contempo - con limiti e modalità - l'emanazione delle ordinanze di protezione civile anche in deroga ad ogni disposizione vigente, fermo restando il rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e delle norme dell'Unione europea (artt. 24 e 25, d. lgs. n. 1 del 2018).
Tali ordinanze di protezione civile - specificamente motivate ed emanate previa intesa con le Regioni e le Province autonome territorialmente interessate – sono emanate dal presidente del consiglio dei ministri oppure – se non sia diversamente disposto nella dichiarazione d’emergenza – può a tal fine delegare il Capo Dipartimento della protezione civile (art. 5 e 25, d. lgs. n. 1 del 2018).
La decretazione d’urgenza connette i due livelli statale e locale, lasciando dapprima spazio alle ordinanze di sindaci e presidenti di giunta regionale (cfr. d. l. n. 6 del 2020, cit., art. 1, autorità competenti), poi legittimando le ordinanze regionali solo in via sussidiaria (nelle more dei decreti del Presidente del Consiglio e per tale momento), cioè per un sopravvenuto specifico aggravamento del rischio sanitario nel loro territorio, dunque purché siano più restrittive, ma senza poter incidere sulle attività produttive e su quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale (art. 3, d.l. n. 19 del 2020, cit.). Quanto alle ordinanze contingibili e urgenti dei sindaci se ne sanziona l’inefficacia ove siano in contrasto con le misure adottate dal presidente del consiglio dei ministri, o innovino quelle tipiche indicate dai decreti legge.
Al prefetto spetta per la durata dell'emergenza, sentito le parti sociali interessate, disporre lo svolgimento delle attività non oggetto di sospensione, ove ciò sia necessario ad assicurare l’effettività, o la pubblica utilità, all'applicazione delle misure di emergenza (art. 1, d.l. n. 19 del 2020, cit.; Tar Calabria, 9 maggio 2020, n. 841).
3.Assenza di forza di legge e carattere amministrativo delle ordinanze di necessità e urgenza.
La seconda commistione è data dall’efficacia che accomuna le due tipologie di ordinanze. Si nega ad entrambe le ordinanze la forza di legge, seppure alle stesse sia riconosciuta implicitamente (ordinanze di necessità e urgenza, o contingibili ed urgenti) oppure esplicitamente (ordinanze di protezione civile) un potere in deroga alle norme vigenti.
Separata definitivamente la categoria giuridica delle ordinanze amministrative dai decreti legge ed attratto alle teorie sul potere costituente ogni ulteriore definizione di atti o fatti di necessità come fonti del diritto, la parola ordinanza è rimasta nel nostro ordinamento come denominazione -oltreché di alcuni atti giurisdizionali (artt. 131, 134 c.p.c.; art. 21, l. 6 dicembre 1971, n. 1034) - per taluni atti amministrativi, tra cui le ordinanze in esame di necessità e urgenza, contingibili ed urgenti, o per situazioni d’emergenza.
La questione — più volte riproposta — dell’attribuzione della forza di legge alle ordinanze amministrative di necessità e urgenza è stata chiusa[1] dalla riconosciuta impossibilità per il legislatore ordinario di attribuire (o togliere) la forza di legge agli atti legislativi o amministrativi, essendo ciò riservato alla sola fonte costituzionale e così per le leggi (artt. 70 e s. Cost.) e gli atti aventi forza di legge (artt. 76, 77, Cost.) indicati come oggetto del sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale (art. 134, Cost.).
L’impossibilità di riconoscere la forza di legge alle ordinanze di necessità ed urgenza o contingibili ed urgenti ne ha da sempre definito la natura amministrativa, confermandosi anche per queste ordinanze i limiti generalmente imposti dall’ordinamento giuridico agli atti amministrativi. Se condivide con gli atti aventi forza di legge la soggezione alle norme costituzionali sostanziali (artt. 13, 21, 41, 42, 32 Cost.) o sulla produzione (v. riserve di legge), è invece peculiare delle ordinanze in esame non potere derogare ai principi dell’ordinamento giuridico anche se di grado legislativo infracostituzionale.
Ciò perché l’efficacia in deroga alla disciplina vigente, anche quando è espressamente enunciata, è ricondotta - in via interpretativa e più propriamente - alle norme di legge attributive del potere di ordinanza, le quali - sempre più esplicitamente – non consentono alle ordinanze di derogare ai principi dell’ordinamento giuridico, un limite se si vuole che è ridondante ma che conferma il classamento minore delle ordinanze amministrative in esame rispetto ai decreti legge.
La legislazione sulla protezione civile degli anni ‘70 afferma espressamente che le ordinanze di protezione civile possono essere emanate “in deroga alla legislazione vigente”, segnando una differenza formale rispetto alle ordinanze amministrative di necessità e urgenza, le cui norme attributive si limitavano a prevedere il potere di emanare ordinanze “contingibili ed urgenti” o i “provvedimenti necessari” a porre termine o fronteggiare le situazioni di necessità.
La Corte Costituzionale come vedremo – riprendendo una giurisprudenza della Cassazione della seconda metà dell’ottocento - ne dà un’interpretazione restrittiva, imponendo il limite dei principi dell’ordinamento giuridico ad entrambe le ordinanze - quelle di necessità e urgenza o contingibili, sia a quelle per situazioni d’emergenza - un limite che infine è dichiarato esplicitamente per entrambe dalla successiva legislazione (d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50; d. lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, art. 25).
4.Il limite del principio di proporzionalità-utilità nel vizio di eccesso di potere.
La norma attributiva del potere d’ordinanza contiene enunciati che attengono all’organo emanante (soggetto attivo), ai presupposti d’esercizio del potere, al fine (o motivi) d’interesse pubblico, talvolta alle materie d’intervento, manca invece una definizione del tipo di prestazione e — ove necessario — del soggetto passivo che è invece recuperata da altre norme legislative
Le norme attributive del potere di ordinanza in esame perciò — derogando in situazione d’emergenza alla distribuzione delle competenze tra pubbliche amministrazioni e tra organi di queste — richiamano al titolare del potere d’ordinanza tutti i poteri che le leggi hanno attribuito ad organi od enti dell’amministrazione pubblica, liberandoli da ogni specifico presupposto o vincolo procedimentale che sia incompatibile con l’urgenza di provvedere e sostituendoli con quelli più lassi dettati dalle definizioni di materia (es. igiene), di motivi di interesse pubblico (es. sanità pubblica), nonché di presupposti (es. necessità e urgenza, emergenza) definiti dalla norma attribuita del potere di ordinanza di necessità ed urgenza.
Ogni questione di annullabilità delle ordinanze diversa dal vizio di eccesso di potere può da sempre dirsi marginale: l’incompetenza è relegata ai rapporti tra organi monocratici titolari di poteri di ordinanza; del pari la violazione di legge poiché le norme sul procedimento resistono poco e solo in ragione del grado d’urgenza nel provvedere.
Il vizio di eccesso di potere tuttavia non si è espresso in modo eguale nei due tipi di ordinanze.
Per le ordinanze di più antica data di necessità e urgenza o contingibili ed urgenti il vizio di eccesso di potere è sempre stato quello più pieno, con un doppio giudizio di logicità: a) di proporzionalità-utilità fra gravità del presupposti e le limitazioni inferte in concreto ai destinatari; b) di proporzionalità-utilità di quest’ultime rispetto al fine d’interesse pubblico che in concreto l’amministrazione pubblica ha voluto perseguire con l’emanazione di quell’ordinanza. Bastava che uno dei due elementi non fosse proporzionato per ottenerne l’annullamento.
Per le ordinanze di protezione civile il vizio di eccesso di potere è ugualmente incisivo con riferimento al secondo giudizio di proporzionalità-utilità, mentre per il primo esso è circoscritto alla proporzione con lo stato di generale di emergenza della relativa dichiarazione che è giuridicamente uguale per l’intero territorio interessato.
5.La proporzionalità del bilanciamento e i principi dell’ordinamento giuridico. Il solo limite del vizio di eccesso di potere non sempre è riuscito a contenere le ordinanze in esame nell’ambito di un potere amministrativo sia in senso formale, sia sostanziale.
Storicamente la questione si è evidenziata per alcuni casi di potere d’ordinanza che hanno posto gravi limitazioni alle libertà costituzionali che l’ordinamento repubblicano ha assoggettato a riserva assoluta di legge (libertà di religione, di stampa, o di rivolgere petizioni al parlamento), diritti di libertà che già avevano ricevuto protezione sotto lo statuto albertino anche solo come violazione dei principi dell’ordinamento giuridico prevalenti in un determinato periodo storico (infra). Si tratta di vicende originate da conflitti forti tra Stato e Chiesa a fine ottocento, poi in occasione della ratifica del Patto Nato nei primi anni della Repubblica, cui pongono termine alcun sentenze delle Cassazioni del Regno[2] e la Corte Costituzionale (n. 8/1956; 26/1961).
La peculiare struttura della norma attributiva del potere di ordinanza non enuncia un contenuto astratto del potere a limitazione dei diritti soggettivi (il paradigma è dato dall’art. 2, t.u.p.s.: «adotta, in situazioni di necessità e urgenza, i provvedimenti che ritiene indispensabili nel pubblico interesse») e da ciò era sorto il dubbio che, così costruito, il potere d’ordinanza dell’amministrazione pubblica non trovasse limiti diversi da quello sopra detto di proporzionalità-utilità del vizio di eccesso di potere, con la conseguenza che l’aggravarsi di una minaccia per l’interesse pubblico avrebbe giustificato una proporzionata ma crescente limitazione dei diritti soggettivi.
L’emergere dei principi dell’ordinamento giuridico - come secondo limite - al potere di ordinanza di necessità e urgenza ha chiuso spazio a tale evenienza.
Nel volgere di pochi anni dall’unificazione dello Stato italiano i principi dell’ordinamento giuridico sono elevati a limite generale del potere amministrativo regolamentare e di ordinanza contingibile ed urgente.. Il «sindaco non può, coi suoi provvedimenti adottare misure non consentite dalle leggi generali e dai principi che informano la legislazione e le istituzioni dello Stato, o che riguardano o governano interessi pubblici di un ordine più alto e più generale». Gli « atti di imperio del Sindaco non possono uscire dall'orbita assegnata al potere amministrativo»[3].
Nel successivo ordinamento repubblicano si ricordano i limiti sulla produzione (riserve di legge) e quelli sostanziali posti a tutela dei diritti soggettivi: se sono limiti per il legislatore lo sono a fortiori lo sono per l’amministrazione. E’ ribadito il limite dei principi dell’ordinamento come diritto vivente che i giudici riconoscono, bilanciando nel caso concreto le posizioni soggettive tutelate in Costituzione.
Si vede enunciata l’idea – anche solo come obiter dictum - che nelle materie di riserva assoluta è difficile configurare un intervento del potere di ordinanza di necessità ed urgenza, tutt’al contrario in materie di riserva relativa[4].
L’amministrazione può infatti avere necessità di disporre con immediatezza di beni mobili o immobili oppure di prestazioni di fare corrispondenti alle diverse professionalità che appaiono indispensabili a fronteggiare le situazioni di necessità o di emergenza.
Per soddisfare gli obblighi previsti dalla riserva di legge in materia di beni (art. 42 Cost.) è sufficiente ad esempio richiamare il combinato disposto di una norma attributiva del potere di ordinanza e dell’art. 7, l. 20 marzo 1865, n. 2248 All. E — oppure dell’ art. 835 c.c. — poiché entrambe le disposizioni consentono di riconoscere in capo all’amministrazione un generale potere di disporre della proprietà privata in situazioni di necessità ed urgenza, salvo indennizzo al proprietario. La soluzione è sufficiente nella maggior parte dei casi poiché la legge determina al tempo stesso sia la previsione della prestazione imposta (disporre di un bene in proprietà privata di terzi), sia del giudizio di prevalenza tra beni contrapposti, definendo qualsiasi interesse pubblico come bene prevalente sulla proprietà privata, purché un l’indennizzo sia pagato.
La predeterminazione legislativa di prestazioni di fare (es. precettazioni) non consente invece un’esaustiva individuazione ex ante delle posizioni soggettive sacrificate nel caso concreto, né della composizione degli interessi pubblici tutelati di volta in volta con l’ordinanza. Da una previsione di legge - che mette nella disponibilità della pubblica amministrazione ogni prestazione conforme alla «condizione, arte, o professione» del soggetto passivo (art. 258 t.u. san.) non si desumono le posizioni soggettive coinvolte che possono ogni qualvolta essere sacrificate, né a favore di quali interessi pubblici. Vi è differenza tra l’imporre per sei mesi prestazioni di otto o sedici ore al giorno di lavoro: nel primo caso si tocca la libertà di iniziativa economica del destinatario, nel secondo è revocato in dubbio lo stesso diritto alla salute o alla famiglia, con possibile lesione dei limiti massimi riservati alla legge (art. 36, 2° co., Cost.).
I principi dell’ordinamento giuridico hanno perciò assunto il significato di limite ulteriore di proporzionalità-bilanciamento. Verificata la conformità al tipo di prestazione imposta (riserva di legge: art. 23 Cost.), permane l’ulteriore limite di una conformità ai principi dell’ordinamento giuridico: della prevalenza che la pubblica amministrazione ha espresso per alcune posizioni soggettive (diritto alla salute di tutti o di alcune categorie di cittadini) rispetto ad altre ad essa sacrificate (libertà economica, diritto al lavoro, alla libera circolazione, all’istruzione, ecc.).
Al giudice è sempre assegnato il sindacato sul bilanciamento tra posizioni soggettive dato con l’ordinanza, secondo un costrutto argomentativo che nella nostra tradizione giuridica è passata per l’argomentare per principi dell’ordinamento giuridico (C. Cost., n. 26/1961) assoggettando così al sindacato del giudice ordinario o alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo l’interpretazione del confine concreto tra libertà e autorità.
Trattasi di un bilanciamento dato per il caso concreto, dunque soggetto a diverse soluzioni, soprattutto in ragione di una diversa percezione della differente necessità del momento, da cui è dipartito un conflitto tra differenti posizioni soggettive e di cui il legislatore non ha offerto un’esaustiva soluzione in via generale e astratta.
6.Sindacato di costituzionalità tra decreti legge e principi dell’ordinamento giuridico nel rapporto tra legalità e effettività.
In tale contesto la novità per l’Italia è stata la definizione ad opera della decretazione d’urgenza di un “catalogo” di contenuti possibili d’ordinanze (dapprima non esaustivo d. l. n. 6 del 2020, cit., art. 1, co. 2), che a livello legislativo indicano tipi astratti di decreti o ordinanze di protezione civile, che potranno essere poi selezionati dal presidente del consiglio dei ministri e in via sussidiaria dal presidente della giunta regionale o in via residuale dai sindaci, rispettivamente con decreti (in luogo delle ordinanze di protezione civile) o con ordinanze contingibili ed urgenti, fermo restando per tutti i limiti dettati dal “principio di adeguatezza” (sic!) o dal “principio di proporzionalità”, entrambe in ragione del rischio effettivamente presente sul territorio nazionale o in parti di esso (art. 1, co. 2°, d.l. n. 19 del 2020, cit.).
Si ritrovano enunciati nella decretazione d’urgenza in esame tipi di ordinanze che pongono forti limitazioni alla libertà di circolazione (art. 16, cost.)[5], alla libertà di riunione, salva la modalità a distanza (art. 15, Cost.)[6], all’esercizio del culto (art. 19, cost.)[7], alla fruizione dei beni culturali (art. 9, cost.)[8], alla limitazione delle relazioni famigliari (art. 30, cost.)[9], alla libera iniziativa economica (art. 41, cost.)[10], al lavoro (art. 4, Cost.)[11], sino alla sospensione dell’istruzione scolastica di ogni ordine e grado, di quella universitaria e della formazione dei lavoratori, salva la possibilità di uno svolgimento in modalità a distanza (art. 34, 33, 38, Cost.)[12]. Tra tutte ha assunto una particolare notorietà l’assorbente divieto di uscire dalla propria abitazione se non per ragioni determinate.
Non si può non notare la vasta gamma di limitazioni alla libertà che involgono materie soggette a riserva assoluta di legge, con limitazioni a diritti diversi da quelli di natura essenzialmente patrimoniale, che pure vengono ribaditi per le requisizioni in uso e in proprietà, [13]ma ove la forte ingerenza sull’autonomia imprenditoriale non esprime neppure indirettamente il contenuto né delle requisizione di impianti[14], né di quelle norme speciali su vincoli ed obblighi temporanei – comparse in altri eventi storici - affinché la produzione sia convertita a soddisfazione di una domanda pubblica o privata di determinati beni indispensabili a fare fronte all’emergenza (art. 836, c. c.).
Quanto all’eccezione della modalità a distanza occorre rilevare che, se è stata correttamente prevista contestualmente alla limitazione del diritto di riunione e forse in implicito per il diritto culto e di fruizione dei beni culturali, colpisce che sia stata indicata unicamente come possibilità, non invece come modalità incomprimibile dell’esercizio del diritto all’istruzione o alle relazioni famigliari con persone non libere, verso i quali parrebbe invece necessario vederlo ribadito come modalità di esercizio del diritto da ritenersi coessenziale alle indicate drastiche limitazioni dei diritti di libertà in situazioni d’emergenza.
Si coglie qui la differenza almeno di prima approssimazione –discutibile come tutte le classificazioni - tra c.d. libertà negative, come quella di riunione in luogo pubblico o di esercizio del culto rispetto ai c.d. diritti sociali come l’istruzione o la formazione, cui si affianca il diritto alle relazioni familiari verso coloro che di necessità sono ristretti per motivi sanitari o penali (carcere).
Se per il diritto di riunione – compresi congressi, convegni, seminari - in luogo privato, pubblico o aperto al pubblico, è sufficiente enunciare contestualmente all’ipotetico divieto che ne è salva la possibilità d’esercizio a distanza, non così è per i diritti la cui fruizione necessita di una prestazione di servizi pubblici o privati sia come oggetto principale (es. istruzione, anche universitaria: artt. 34 e 33, cost.), sia come prestazioni accessorie che accompagnano la (principale) limitazione del diritto di libertà personale, non importa ora se in via consensuale (art. 32, cost.) oppure imposta per legge e per atto motivato della autorità giudiziaria (art. 25 e 27, cost.).
Al di là di queste considerazioni è l’effetto di sistema che ha realizzato l’indicata definizione di un catalogo legislativo del contenuto tipico e non esaustivo delle ordinanze che possono essere emanate tra autorità locali e nazionali.
Con tali disposizioni legislative si afferma un accentramento avanti alla corte costituzionale di parte rilevante del precedente sindacato di costituzionalità sulle ordinanze in esame, che nei 150 anni di storia d’Italia si era in modo diffuso svolto avanti ai giudici ordinari e ammnistrativi, poiché la definizione legislativa segna la competenza della corte costituzionale sulla validità costituzionale di un bilanciamento tra posizioni soggettive che è stato direttamente definito da atti aventi forza di legge.
Ciò reca con sé una simmetrica ridefinizione dei principi dell’ordinamento giuridico come un continuum costituzionale e legislativo sia per i decreti del presidente del consiglio dei ministri, sia per i decreti legge che li hanno accompagnati con definizioni tipo di limiti ai diritti, che tuttavia non riescono ad essere esaustivi di quel bilanciamento in concreto che la nostra corte costituzionale ha da tempo offerto anche e soprattutto con riferimento a casi che certo non possono dirsi di emergenza nel senso sinora considerato, ma che in situazioni d’emergenza traggono un particolare carattere, già considerato in altre epoche della storia d’Italia.
I casi che verranno all’attenzione della corte non sono quelli caratterizzati da un conflitto ideologico come per la fine’800 o nel secondo dopoguerra, piuttosto quelli che forse non a caso hanno portato il governo e poi il parlamento a radicare questa esperienza istituzionale più nel ceppo delle situazioni di emergenza nazionale che tra le ordinanze sanitarie di contingibili ed urgenti.
Ciò che assume particolare rilievo non è solo la deroga a ogni disposizione procedimentale di legge, che si è detto cedono alle ragioni d’urgenza, ma assume rilievo la necessità di procedere per il tramite dell’argomentare per principi ad una proporzionalità-bilanciamento tra posizioni soggettive, che certo la tecnologia aiuta a comporre, ma che la cultura giuridica deve ricordare come un carattere proprio, di portata ultracentenaria e secondo il quale la composizione d’interessi - non esaurientemente disposta dalla rappresentanza popolare con legge - va definita per ogni singolo caso ricorrendo ai principi dell’ordinamento giuridico, cioè ricordando che, oltre la legge, una legittimazione poggia inevitabilmente sull’effettività dei propri atti, sia per l’amministrazione sia per il giudice.
7.Concreta innovazione nell’amministrare ed effettività della Repubblica. Principio di effettività[15] che caratterizza ogni diritto di necessità, anche di quello con un carattere amministrativo, che un tempo si denominava come ultra o praeter legem, per il quale gli atti s’affermano come giuridici solo ove gli stessi – oltreché formalmente adottati - risultino in concreto osservati, non importa ora se per convinzione, per sudditanza istituzionale o culturale, con la conseguenza che – in questo come in ogni altro caso di integrazione del diritto legale con l’effettività - ogni previsione deve trovare conferma in un successivo atto, non importa ora se della giurisdizione o del parlamento. Trattasi di un atto che, intervenendo a distanza di mesi, risente degli eventi che nel frattempo si sono verificati, diversamente bilanciando il conflitto tra interessi che inizialmente hanno trovato composizione con i decreti dei primi mesi d’emergenza. Può non essere più compresa, dunque risultare osservata, la scelta di un largo sacrificio dei diritti individuali senza che dagli stessi sia percepita una significativa azione di governo, capace di provvedimenti di maggiore intelligenza: 3T, raddoppio dei posti letto da terapia intensiva, riorganizzazione di scuole e ospedali, protezione speciale di chi deve lavorare in presenza, ordini di riconversione produttiva alle industrie su prodotti essenziali a tal fine (art. 836, c.c.)
Nei primi mesi di Pandemia 2020 il sacrificio dei diritti costituzionalmente tutelati si è rivelato sorretto dall’effettività del comportamento delle popolazioni locali e poi nazionali, legittimando decreti ed ordinanze il cui bilanciamento si è fondato essenzialmente sulla tutela del diritto alla salute, come tutela dell’individuo e interesse della collettività (art. 32, cost.). Ciò ha dato tempo al governo per approntare quanto necessario a una limitazione informata ad una maggiore intelligenza selettiva delle restrizioni sia ai diritti di libertà (art. 16, 19, Cost.), sia a diritti che solo in parte possono dirsi economici come il diritto al lavoro (art. 4, Cost.), sia a quelli che impropriamente non sono talora annoverati tra le libertà come l’istruzione (artt. 33 e 34, cost.).
In pochi mesi a richiedere un nuovo bilanciamento sono la necessità di riprendere la propria attività economica, di tornare a scuola o all’università[16], la voglia di riavere i propri rapporti famigliari e più in genere interpersonali, di riunirsi per manifestare il proprio credo religioso u culturale, poiché il disconoscimento radicale di molti di questi diritti soggettivi non è più sorretto dall’effettività iniziale, quella che si è avuta nell’immediatezza della scoperta di una malattia diffusiva come la Pandemia 2020.
Un’effettività che potrebbe tornare forte ove agli sforzi degli ospedali e dei sanitari in genere si vedessero aggiungere quelli di altre amministrazioni pubbliche, provando a cimentarsi con misure che almeno in parte riportino gli studenti nelle università e nelle scuole, a cominciare dai figli di chi già lavora, riaprendo almeno in parte i tribunali e gli altri servizi che non possono non dirsi essenziali, ridisegnando comportamenti individuali, metodi e tecniche di lavoro e di fruizione che debbono essere sottoposti a rigorose analisi, meglio se algoritmiche, che dei flussi rivelano minuziose peculiarità delle differenti realtà correlata a ciascuna istituzione.
L’erogazione a distanza - di qualità - è modalità che sin da subito alcuni possono svolgere con poco aiuto (help desk, call center esperto, ecc.), ove per altri è necessaria una formazione breve ma molto utile se d’accompagnamento all’uso di piattaforme di videoconferenza. L’on line può essere normale parte di un servizio o dell’esercizio di una funzione pubblica, poiché trattasi di una tecnologia che consente vertiginose crescite di qualità e di personalizzazione delle prestazioni, largamente attese in questi anni, che dunque non sono più procrastinabili in situazioni d’emergenza come la nostra, senza gravi danni per l’effettività del nostro sistema costituzionale. Non c’è innovazione senza sperimentazione concreta di un diverso amministrare nelle funzioni e nell’erogazione dei servizi; perciò la Pandemia imponendo da subito un cominciamento ci rivela della crisi al contempo la soluzione.
Anche sul piano della tecnica processuale la corte costituzionale, a partire dal potere tipico d’annullamento (arg. ex art.136, Cost.), ha da tempo elaborato sentenze che hanno individuato, oltre al monito, anche pronunce d’incostituzionalità la cui statuizione d’annullamento è però stata sottoposta a termine o a condizione, oppure ove il rigetto della questione di costituzionalità è stato accompagnato da una riserva di nuovo esame ove persista l’insufficiente attività d’amministrazione. Si tratta di tipi di sentenze molto note alla nostra cultura giuridica, che hanno esplicitato una tradizione in parte sperimentata dal giudice amministrativo e che trova precedenti anche in taluni provvedimenti cautelari innominati dei giudici ordinari.
Sia l’elaborazione ottocentesca dei principi generali dell’ordinamento giuridico, sia le più recenti e sperimentate tecniche processuali, possono dunque oggi coadiuvare fattivamente l’opera di governo verso l’innovazione nell’amministrare con buona amministrazione, quella capace di ridestare, soprattutto in periodi di crisi, quell’effettività del sistema istituzionale della Repubblica italiana che è sempre più coessenziale all’amministrare di fenomeni “complessi”, secondo principi giuridici che sono generali perché a tutti comuni.
[1] Cfr. tra le prime: C. Cost. n. 8/1956; n. 26/1961; n. 100/1987; n. 14/1971.
[2] per la libertà di culto: Cass. Torino, 11-7-1877; Cass., 13-5-1877, in Riv. amm., 1877, 479; Cass., 30-5-1888, Manelli, ivi, 1888, 557.
[3] V. Conti, Il sindaco nel diritto amministrativo italiano, Napoli, 1875, 286-87; Carnevali, Trattato di diritto comunale italiano, Mantova, 1899, 1893
[4] Artt. 42, 41, 23, 16, Cost.: C. Cost. n. 8/1956, n. 26/1961; n. 100/197.
[5] Chiusura al pubblico di spazi pubblici (strade urbane, parchi, aree gioco, ville e giardini pubblici); limitazione o divieto di allontanamento e ingresso in territori (comunali, provinciali, regionali, o nazionale); quarantena precauzionale di chi abbia avuto contatti stretti con malati infettivi o diffusivi; quarantena assoluta di chi è risultato positive al virus; la limitazione, la riduzione, la sospensione o la soppressione di servizi di trasporto di persone e di merci (automobilistico, ferroviario, aereo, di trasporto pubblico locale, marittimo nelle acque interne), anche non di linea.
[6] Limitazione, sospensione o divieto di riunioni o assembramenti in luoghi pubblici o aperti al pubblico, di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato (di carattere culturale, ludico, sportivo, ricreativo, ecc.) di ogni tipo di riunione o evento (congressi, convegni), salva la possibilità di svolgimento a distanza
[7] Con sospensione delle cerimonie civili e religiose, limitazione dell'ingresso nei luoghi destinati al culto e di ogni forma di riunione di carattere religioso, in luogo pubblico o privato.
[8] Con limitazione, sospensione o chiusura dei servizi di apertura al pubblico di musei o altri istituti o luoghi della cultura, o dell’accesso libero o gratuito a tali istituti e luoghi.
[9] Con specifici divieti o limitazioni dell’accompagnamento dei pazienti ai dipartimenti emergenza, accettazione o pronto soccorso (DEA/PS); di parenti e visitatori a strutture sanitarie o socio sanitarie (di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite, hospice, strutture riabilitative e residenziali per anziani), nonché visite presso gli istituti penitenziari ed istituti penitenziari per minorenni.
[10] Con limitazione, sospensione o chiusura dei luoghi di aggregazione (cinema, teatri, sale da concerto sale da ballo, discoteche, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, centri culturali, centri sociali e centri ricreativi) e delle attività di somministrazione al pubblico e di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti; di fiere e mercati e di tutte le attività commerciali di vendita al dettaglio, salvo per i generi agricoli, alimentari e di prima necessità, evitando per quest’ultime assembramenti di persone e garantendo la distanza di sicurezza; con limitazione o sospensione di ogni altra attività d'impresa o professionali, o lavoro autonomo, salva la possibilità d’esclusione dei servizi di pubblica necessità e previa definizione di protocolli di sicurezza ed adeguati strumenti di protezione individuale.
[11] Escludendo la presenza fisica dei dipendenti negli uffici pubblici, salve le attività indifferibili e l'erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile; limitazione o sospensione delle procedure concorsuali e selettive finalizzate d'assunzione di personale presso datori di lavoro pubblici e privati, salvo che ciò sia effettuato esclusivamente su basi curriculari o con modalità a distanza, fermo restando gli atti d’avvio delle procedure entro i termini di legge e la conclusione di quelle con valutazione dei candidati già effettuata e di svolgimento dei procedimenti per il conferimento di specifici incarichi.
[12] Con sospensione dei servizi educativi per l'infanzia, delle attività didattiche delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni di formazione superiore, comprese quelle universitarie; di ogni attività formativa (master, corsi professionali, università per anziani) comprese le prove di esame, ferma la possibilità di uno svolgimento in modalità a distanza
[13] Art. 835 c.c., art. 6, d. l. n. 18 del 2020, cit.
[14] Ricondotte, salvo leggi speciali, all’art. 835, c.c
[15] Per tutti P. Piovani, Il significato del principio di effettività, Milano 1953; voce Effettività (principio di), dell’Enciclopedia del diritto, vol. XIV, 1965, 420 e s.
[16] Per la scuola si veda da ultimo: d.l. 8 aprile 2020, n. 22.
Il mare dei diritti (Atti del convegno) Comunicazione al Procuratore presso la Corte internazionale sui crimini nel Mediterraneo.
di Omer Shatz (presentazione di Calogero Ferrara)
Giustizia Insieme pubblica la Comunicazione redatta da Omer Shatz, avvocato internazionalista esperto in contenzioso di natura internazionale, al Procuratore presso la Corte Penale Internazionale ai sensi dell’art. 15 dello Statuto di Roma avente ad oggetto una disamina degli effetti delle politiche dell’Unione Europea e degli Stati Membri in materia di immigrazione soprattutto sulla c.d. rotta Centrale Mediterranea ed in Libia, nel periodo 2014-2019.
Come è noto il menzionato art. 15 disciplina il potere di indagine del Procuratore della CPI che può essere esercitato motu proprio, anche sulla base di informazioni ricevute da organizzazioni non governative (art.15, 2) ed è condizionato all'autorizzazione (art.15, 3-4-5) della Camera dei giudizi preliminari, competente a valutare la ragionevolezza dell'accusa.
Ebbene nel caso di specie, la Comunicazione oggetto di pubblicazione si inquadra proprio nelle attività delle NGO finalizzate ad informare l’Autorità Giudiziaria Internazionale di eventuali crimini ritenuti di sua competenza, poichè è il frutto del progetto pro bono di una “legal clinic” in materia di diritto internazionale e delle migrazioni tenutasi nel biennio accademico 2017-2019 presso il Capstone on Couther-Terrorism and International Crimes e il Master sui Diritti Umani e Azioni Umanitarie della Scuola degli Affari Internazionali di Parigi (PSIA).
Lo scopo della Comunicazione è ben chiaro sin dal preambolo ove si evidenzia che vengono sottoposti al Procuratore della CPI elementi di prova relativi ai crimini contro l’umanità commessi da pubblici ufficiali della Unione Europea e degli Stati Membri come parte di un progetto premeditato finalizzato a contenere il flusso migratorio dall’Africa sulla rotta del Mediterraneo centrale sin dal 2014.
La Comunicazione si articola in 4 differenti sezioni.
Nella Prima si analizzano dal punto di vista fattuale le politiche seguite dalla EU e dagli Stati Membri per regolamentare il flusso migratorio, soprattutto attraverso la Libia, prendendo le mosse dalla disamina del Regolamento di Dublino del 1990 e proseguendo con quello del Trattato dell’Amicizia Italia – Libia del 1998.
In seguito si procede alla analisi della situazione politica che conduce alle c.d. “Primavere Arabe” e, in particolare, alla caduta del regime di Gheddafi, e alle conseguenze sulle politiche europee di contenimento con l’adozione delle varie operazioni sia nazionali (come Mare Nostrum) o comunitarie (Triton e Triton plus).
Da ultimo vengono altresì esaminati alcuni casi concreti ritenuti significativi, anche ponendo attenzione a due tra i profili più controversi i questi anni: il ruolo delle NGO nel Mediterraneo ed i poteri e le capacità di intervento della Guardia Costiera Libica.
La Seconda sezione è dedicata alla individuazione ed alla esplicazione dei presupposti legali, sia sostanziali che processuali, che legittimano il potere di intervento del Procuratore della CPI ritenendosi integrate, nei casi sottoposti, fattispecie di reato rientranti nella giurisdizione di detto organo e la ricorrenza degli elementi sia di tipo oggettivo che soggettivo nelle condotte esaminate.
Nella Terza sezione della Comunicazione si analizzano i risultati del progetto, anche alla luce dei documenti riportati in allegato nella Quarta sezione (tra cui le dichiarazioni rese da una vittima, il parere di un Esperto sulla situazione della politiche migratorie in Libia e uno schema di 11 eventi SAR tra il 2017 ed il 2019), formalizzandosi le richieste di attivazione dei poteri di indagine del Procuratore.
Invero, si ritiene che i risultati derivanti dalle politiche adottate sono stati: a) la morte per annegamento di migliaia di migranti; b) il respingimento illegittimo di decine di migliaia di migranti che stavano cercando di scappare dalla Libia; c) la complicità di uomini politici e pubblici ufficiali dell’UE e degli Stati Membri nei conseguenti crimini di deportazione, omicidio, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, persecuzione ed altri atti inumani, commessi ni campi di detenzione in Libia ed in altri centri di tortura.
Alla luce di quanto sopra esposto e del fatto che da oltre otto anni è pendente presso l’OTP (Office of the Prosecutor) della Corte Penale Internazionale l’indagine per crimini commessi in Libia si sottopone detto materiale probatorio e la relativa disamina legale e fattuale per intraprendere tutti i necessari step procedurali ed investigativi al fine di fornire una risposta giudiziaria a tali orrendi crimini.
Le decisioni BCE in tema di “quantitative easing” erroneamente aggredite dal Giudice delle Leggi tedesco.
di Roberto Succio “A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura”. Divina Commedia, Purgatorio, canto XVI.
Sommario: 1. La questione posta e la soluzione del Giudice di Karlsruhe - 2.Discontinuità della pronuncia rispetto alla precedente giurisprudenza - 3. Politica monetaria e politica economica tra diritto e politica “tout court” - 4. Sull’erronea interpretazione dell’art. 123 TFUE. - 5.Conclusioni
1.La questione posta e la soluzione del Giudice di Karlsruhe
Con pronuncia resa in data 5 maggio 2020 la Corte Costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht) ha ritenuto fondate alcune delle svariate questioni di costituzionalità poste dai ricorrenti contro la realizzazione da parte della Banca Centrale Europea del c.d. Public Sector Purchase Programme (PSPP)[1].
Con decisione n. 2015/774 la BCE stabiliva, all’art. 1, che “nell’ambito del quale le banche centrali dell’Eurosistema acquistano sui mercati secondari titoli di debito negoziabili idonei, come definiti all’articolo 3, da controparti idonee, come definite all’articolo 7, sulla base di specifiche condizioni”.
Tale decisione costituisce quindi la formalizzazione giuridica dell’adozione del programma in parola; esso si colloca all’interno di una serie di attività (costituenti l’«Expanded Asset Purchase Programme» (EAPP) annunciate dalla BCE il 22 gennaio 2015. Esse prevedono accanto ai sottoprogrammi esistenti per l’acquisto di titoli del settore privato, l’acquisto di titoli del settore pubblico sui mercati secondari.
Questo tipo di programma viene generalmente qualificato come «allentamento quantitativo» («quantitative easing») per l’aumento di volume della moneta della banca centrale determinato dagli acquisti di titoli effettuati in gran numero. È stato deciso dalla BCE, nel gennaio 2015, come reazione alla forte pressione al ribasso sull’inflazione nell’area dell’euro.
Il PSPP rappresenta la quota maggiore del volume totale dell'EAPP. A partire dall'8 novembre 2019, il valore totale dei titoli acquistati nell'ambito dell'EAPP dall'Eurosistema ammontava a 2.557.800 milioni di EUR, compresi gli acquisti nell'ambito del PSPP per un importo di 2.088.100 milioni di EUR.
Secondo i ricorrenti di fronte alla Corte nei procedimenti principali, il PSPP violerebbe il divieto di finanziamento monetario degli Stati membri previsto all’art. 123 TFUE e il principio di attribuzione delle competenze previsto all’art. 5, par. 1, TUE, in combinato disposto con gli artt. 119 e 127 TFUE.
Le decisioni relative al PSPP violerebbero, peraltro, il principio di democrazia sancito nel Grundgesetz (Costituzione tedesca), e segnatamente l’art. 38 primo comma, l’art. 20 primo e secondo comma, l’art. 79 terzo comma della Grundgesetz e pregiudicherebbero, pertanto, l’identità costituzionale di quella nazione.
In specifico, le censure dei ricorrenti – tutti soggetti privati – erano dirette, quanto all’effetto voluto, a contestare il contributo fornito dalla Deutsche Bundesbank (Banca federale di Germania) all’attuazione di tali decisioni o sulla sua presunta inerzia dinanzi a dette decisioni, nonché sulla presunta inerzia del governo federale e della camera bassa del Parlamento federale dinanzi a tale contributo e alle medesime decisioni della BCE.
Infatti, l’adozione del PSPP secondo tal prospettazione sarebbe violerebbe il divieto di finanziamento monetario dei titoli di Stato imposto all’art. 123, par.1, TFUE in quanto non consente assistenza finanziaria del SEBC (Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea) ad uno Stato membro. Inoltre, il PSPP pure violerebbe il principio di attribuzione di cui all’art. 5 TFUE, in relazione agli artt. 119 e 127 TFUE, secondo il quale l’Unione agisce solo entro i limiti delle competenze che i paesi dell’UE le hanno attribuito nei trattati. Tali competenze sono definite agli art. da 2 a 6 TFUE. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione europea dai trattati resta quindi in capo agli Stati membri.
In forza di tali violazioni, secondo la Corte, alla luce degli artt. 119 e 127 TFUE e dell’art. 17 dello Statuto della BCE, la decisione del 4 marzo 2015 (EU) 2015/774, come le seguenti (e meramente reiterative della precedente) n. 2015/2101, n. 2015/2464, n. 2016/702 e n. 2017/100 vanno quindi tutte qualificate come “ultra vires acts” e sono prive di effetti nell’ordinamento tedesco.
Come precisato nel comunicato stampa della Corte, infine “the decision published today does not concern any financial assistance measures taken by the European Union or the ECB in the context of the current coronavirus crisis”.
E ciò, come si legge ancora nel comunicato stampa della Corte di Karlsruhe, “despite the CJEU’s judgment to the contrary”.
Con riguardo proprio al PSPP in parola, la Corte di Giustizia dell’Unione – pronunciandosi ex art. 267 TFUE a seguito di rinvio pregiudiziale proprio del Bundesverfassungsgericht – è di recente andata in diverso ed opposto avviso proprio rispetto alla posizione proposta dal giudice remittente, statuendo l’insussistenza di alcun elemento idoneo ad inficiare la validità della decisione 2015/774, della quale si contestava proprio la non conformità al diritto eurounitario negli esatti termini ora esaminati, con esito contrario, dal giudice federale germanico[2].
La circostanza, come vedremo, è indicativa.
Alla luce dell’opposta decisione ora assunta – ed è su questo punto che si incentra l’azione della Corte come giudice tra poteri dello Stato – il Governo Federale tedesco e il Bundestag sono invece tenuti, secondo la pronuncia in commento, a prendere iniziative contro l’attuale forma del PSPP per assicurare che la BCE agisca, nel programma di acquisti di titoli di Stato, in modo proporzionale[3].
Per consentire l’adozione di tali iniziative, la Corte di Karslruhe fissa a tali Autorità un termine di tre mesi, necessario per il coordinamento tra istituzioni, a seguito del quale la Bundesbank potrà legittimamente non partecipare all’esecuzione delle decisioni della BCE.
Ciò a meno che la BCE stessa, oggetto di una sorta di invito-ingiunzione da parte della Corte federale, adotti una nuova decisione che consenta di dimostrare “in a comprehensible and substantiated manner that the monetary policy objectives pursued by the PSPP are not disproportionate to the economic and fiscal policy effects resulting from the programme”.
Immediatamente, a fronte di tal dispositivo, sorge il dubbio che il Tribunale delle Leggi tedesco ignori (consapevolmente o meno) la previsione dell’art. 130 TFUE che con tutta evidenza sancisce che “nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell'assolvimento dei loro compiti”.
Alla luce di tal disposizione, è chiaro che il dispositivo dell’Alta Corte di Germania non solo è contrario al diritto UE, ma resterà inutiliter datum non dovendo la BCE darvi esecuzione.
2. Discontinuità della pronuncia rispetto alla precedente giurisprudenza.
Venendo alla disamina del contenuto della pronuncia in commento, va in primo luogo sottolineato come la sentenza del 5 maggio scorso risulti decisamente innovativa e contrastante rispetto alla precedente sua stessa giurisprudenza.
Infatti, nel passato la stessa Corte si era limitata ad assicurare al Parlamento di Berlino la competenza a decidere sullo stanziamento dei fondi destinati al salvataggio degli Stati in difficoltà ed al governo tedesco la possibilità di porre il veto in sede eurounitaria su tal questione, in linea con la posizione del proprio Parlamento[4].
Ancora, in un’altra pronuncia sia pur formulando qualche riserva, la Corte tedesca aveva condiviso la sentenza Gauweiler della Corte di Giustizia del 15 giugno 2015: il Bundesverfassungsgericht non aveva qui pertanto rinvenuto le condizioni per esercitare il controllo ultra vires né il controllo di identità, considerando che il programma OMT, nel rispetto delle condizioni precisate all’esito dell’itinerario giurisprudenziale avviato con il suo primo rinvio pregiudiziale, non andasse a ledere i ricorrenti nel loro diritto fondamentale alla democrazia (artt. 38 Abs. 1 S. 1, 20 Abs. 1-2 e 79 Abs. 3 GG) e neppure pregiudicasse la responsabilità generale del Bundestag in materia di bilancio («haushaltspolitische Gesamtverantwortung»).[5]
Non solo.
In una statuizione ancora più risalente[6], il giudice costituzionale Federale ha giustificato il suo potere di controllo per gli atti ultra vires o per il controllo relativo al rispetto dell’identità costituzionale tedesca chiarendo come, nel rispetto del principio di leale collaborazione, «the guarantee of national constitutional identity under constitutional and under Union law go hand in hand in the European legal area. The identity review makes it possible to examine whether due to the action of European institutions, the principles under Article 1 and Article 20 of the Basic Law, declared inviolable in Article 79.3 of the Basic Law, have been violated. This ensures that the primacy of application of Union law only applies by virtue and in the context of the constitutional empowerment that continues in effect» (traduzione ufficiale)[7].
Ne deriva che la relazione tra l’ordinamento tedesco e quello eurounitario va perseguita come relazione armonica (quasi amicale o affettiva, se potesse dirsi così: “hand in hand”) in primo luogo con l’adozione di atti muniti di idonei requisiti formali, quale certamente è la motivazione.
L’asserita mancanza di motivazione specifica delle decisioni della BCE relative al PSPP, che induce la Corte tedesca a censurare le decisioni oggetto di causa, è qui peraltro valutata sussistente e sufficiente a sorreggere i provvedimenti contestati.
Ove infatti un’istituzione dell’Unione disponga di un ampio potere discrezionale, la verifica del rispetto delle garanzie procedurali – tra le quali figura l’obbligo per il SEBC di esaminare, con cura e imparzialità, tutti gli elementi pertinenti della situazione in questione e di motivare le proprie decisioni in maniera sufficiente riveste certamente un’importanza fondamentale (v., in tal senso, CGUE sentenze del 21 novembre 1991, Technische Universität München, C‑269/90, punto 14, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punti 68 e 69).
E’ però altrettanto vero che anche se la motivazione di un atto dell’Unione imposta dall’art. 296 secondo comma TFUE, deve far apparire in maniera chiara e inequivoca l’iter logico seguito dall’autore dell’atto di cui trattasi, in modo da consentire agli interessati di conoscere le ragioni della misura adottata e alla Corte di esercitare il proprio controllo, non è però necessario che detta motivazione specifichi tutti gli elementi di diritto o di fatto pertinenti (CGUE sentenze del 19 novembre 2013, Commissione/Consiglio, C‑63/12, punto 98, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punto 70).
In questo caso, poi – e sempre a prescindere dalla ampia motivazione che invece è comunque dato ritrovare nelle premesse e nelle conclusioni delle decisioni[8] (che invero poiché altamente tecniche nel loro contenuto vanno non solo lette ma anche ben comprese mediante l’ausilio di conoscenze macroeconomiche) - ove tratti di un atto destinato ad un’applicazione generale, dal quale emerga, nelle linee essenziali, l’obiettivo perseguito dalle istituzioni, non può richiedersi una motivazione specifica per ciascuna delle scelte tecniche che tali istituzioni hanno operato (v., in tal senso, CGUE sentenze del 10 gennaio 2006, IATA e ELFAA, C‑344/04, punto 67; del 12 dicembre 2006, Germania/Parlamento e Consiglio, C‑380/03, punto 108, nonché del 7 febbraio 2018, American Express, C‑304/16, punto 76).
Pur facendo sue queste indicazioni, la sentenza in commento non prosegue completamente sulla via sin qui tracciata, come vedremo, cadendo in evidente contraddizione.
In realtà, dalla lettura della stessa emerge chiaramente come il punto di frizione sia costituito da un aspetto ben più pratico, vale a dire dalle aderenze sussistenti tra il concetto di politica monetaria e quello di politica economica, sulle quale è bene soffermarsi anche perché sotto questo profilo è lecito parlare probabilmente non solo di mera superficialità della Corte, ma di vera e propria maliziosa interpretazione.
In sintesi, posso ora premettere come proprio dalla elevata tecnicità e ampia motivazione poste a base delle decisioni contestate – dalle quali dipende con tutta evidenza la sopravvivenza dell’Unione, delle sue istituzioni e dei diritti che esse garantiscono ai cittadini - si sarebbe dovuto immediatamente concludere per la sussistenza del potere di censurarle solo in capo al giudice dell’Unione; è evidente che tali atti tutelano (o danneggiano) la comunità composta da tutti i cittadini europei ed è veramente inspiegabilmente miope chi pretende di esaminare solo le conseguenze in capo a cittadini di uno o alcuni degli Stati membri.
3.Politica monetaria e politica economica tra diritto e politica “tout court”.
Da un lato, infatti, la politica monetaria, intesa restrittivamente come garanzia della stabilità dei prezzi e controllo dell’inflazione, è di competenza esclusiva della BCE; dall’altro, il coordinamento delle politiche economiche, lo spazio democraticamente legittimato di intervento delle istituzioni dell’UE, non consente al momento una reale politica economica unitaria in quanto le politiche di bilancio, la leva delle entrate tributarie[9] e il ricorso al debito pubblico sono ancora rimessi, sia pur entro certi limiti, ai singoli Stati.
E’ sin qui rimasto del tutto inascoltato l’invito (espresso proprio dalla BCE per prima, tempo fa) l’auspicio che venga presto istituito un Ministero delle finanze europeo che possa farsi forza di una legittimazione democratica piena per agire finalmente in modo congiunto a sostegno della politica economica dei Paesi dell’UE e che, più o meno contestualmente, sia aperta una discussione sulla possibilità di creare un vero e proprio bilancio europeo.[10]
Evidenti freni a tali sviluppi sono certamente, come dimostra anche la pronuncia in commento, la paura di una “Costituzione economica” o “finanziaria” avulsa dal controllo politico nazionale, e dunque democratico, e preda di un governo europeo sollecitato spesso dalle esigenze della contingenza attuale, se non dell’emergenza sanitaria come oggi purtroppo avviene; di qui, come reazione eguale e contraria, la conseguente ostilità nei confronti di un possibile coinvolgimento diretto della cittadinanza, in particolar modo in materia tributaria e finanziaria[11].
Per quanto corrette, le sopra esposte considerazioni si collocano al di fuori del diritto e possono al più fornire una spiegazione esogena – certo da non trascurare per comprendere sociologicamente il contesto nel quale le norme concretamente operano - alle ragioni poste alla base del decisum che si commenta.
Si è detto come nel provvedimento di rinvio ex art. 267 TFUE del 18 luglio 2017, il Secondo Senato della Corte di Karlsruhe avesse sottoposto le stesse – numerose – qui poste questioni (in quella sede come pregiudiziali) alla medesima CGUE. In particolare, si trattava in sintesi del divieto di finanziamento monetario dei bilanci degli Stati membri, del mandato di politica monetaria della BCE e di una potenziale violazione delle competenze e della sovranità degli Stati membri in materia di bilancio.
Nella sentenza dell'11 dicembre 2018, resa in risposta al quesito sollevato nella sede pregiudiziale appena citata, la CGUE aveva quindi già risolto tutte le questioni in argomento e dichiarato che con l’adozione del PSPP la BCE non ebbe a esondare dai limiti del proprio mandato né violato il divieto di finanziamento monetario.
Orbene, è di tutta evidenza come la pronuncia in commento costituisca, nei fatti, una evidente e quasi belligerante (in senso davvero eversivo) reazione ai risultati – evidentemente inaspettati – sin qui ottenuti dal giudice costituzionale germanico. Tal Curia si è trovata sonoramente smentita dalle opposte conclusioni della CGUE e sotto lo specifico profilo della violazione dell’art. 123 TFUE si è limitata a prenderne atto nella sentenza in commento, salvo poi in concreto ribellarsi in ordine agli altri aspetti controversi.
Pertanto, se quale prima osservazione sorge spontaneo (forse anche banale) il dire che perseverare è diabolico, alcune considerazioni ulteriori meritano diverso approfondimento.
Proprio la Corte costituzionale tedesca ha condivisibilmente affermato tempo fa, da ultimo nella sentenza OMT II, che nel caso in cui a legittimare una politica dell’UE sia una sentenza della CGUE, essa in nessun caso può arrivare ad avallare comportamenti arbitrari[12].
Tale sarebbe, ad esempio, una sentenza della CGUE che si spingesse sino a dare un’interpretazione del diritto dell’Unione tale da conferire ad essa diritti di sovranità mai delegati dai singoli Stati membri.
In tale caso, e solo in tale caso, gli Stati membri legittimamente non devono considerarsi ad essa vincolati.
Tale è in sostanza la questione qui posta; questione che investe con dirompente evidenza forza i termini del primato del diritto dell’Unione europea, introducendo degli elementi di potenziale incertezza che peraltro possono risolversi solo nel senso appena sopra proposto.
Ove quindi la pronuncia della CGUE non sia del tutto extra ordinem come appena sopra detto, mi pare che l’istituzione che ponga in essere un comportamento apertamente repulsivo delle indicazioni vincolanti del giudice dell’Unione si collochi in situazione di aperta, consapevole e intenzionale violazione dei Trattati. E lo Stato di appartenenza della stessa dovrebbe piuttosto, a ben vedere, coerentemente, lasciare l’Unione europea[13].
Nel porsi quindi apertamente in contrasto con quel giudicato, il giudice germanico si estromette – ed estromette la sua nazione – dall’Unione; e ciò pare evincersi in almeno due chiari passaggi della pronuncia in commento: “the Court cannot concur with the referring court’s view that any effects of an open market operations programme that were knowingly accepted and definitely foreseeable by the ESCB when the programme was set up should not be regarded as ‘indirect effects’ of the programme” (p. 62); “therefore, the Judgment of the CJEU of 11 December 2018 manifestly exceeds the mandate conferred upon it in Art. 19(1) second sentence TEU, resulting in a structurally significant shift in the order of competences to the detriment of the Member States. To this extent, the CJEU Judgment itself constitutes an ultra vires act and thus has no binding effect 57/94 (p. 120)”.
E d’altronde che la distinzione tra politica monetaria e politica economica costituisca poco più di un proclama, certo non un argomento giuridicamente rilevante, risulta evidente se si considera quel che segue.
Dapprima la sentenza in commento ammette come “the distinction between economic policy and monetary policy is a fundamental political decision with implications beyond the individual case and with significant consequences for the distribution of power and influence within the European Union. The classification of a measure as a monetary policy matter as opposed to an economic or fiscal policy matter bears not only on the division of competences between the European Union and the Member States; it also determines the level of democratic legitimation and oversight of the respective policy area, given that the competence for monetary policy has been conferred upon the ESCB as an independent authority pursuant to Arts. 130, 282 TFEU (cf. CJEU, Judgment of 9 March 2010, Commission v Germany, C-518/07, ECR 2010, I-1897, para. 42; BVerfG, Judgment of the Second Senate of 30 July 2019 - 2 BvR 1685/14, 2 BvR 2631/14 -, para. 132 et seq.)”.
Ed invece, poco dopo, sostiene che “the adoption of economic policy measures by the ESCB would necessitate a treaty amendment pursuant to Art. 48 TEU (cf. CJEU, Opinion 2/94 of 28 March 1996, ECHR Accession, ECR 1996, I-1783 <1788 para. 30>), which in turn would require involvement of the German legislature (cf. BVerfGE 142, 123 <201 and 202 para. 151>; 146, 216 <259 and 260 para. 63>)”.
E’ chiaro quindi come la sentenza da un lato prenda atto della vicinanza tra politica monetaria e politica economica, e dall’altro riservi agli Stati, quali “padroni dei Trattati” la sola gestione della politica economica, attribuendo evidentemente all’Unione per mezzo della BCE la gestione della politica monetaria senza però attribuire, conseguentemente, alla sola CGUE e non anche a se stessa il conseguente potere di sindacato degli atti di gestione di detta politica monetaria.
La contraddizione insita nel ragionamento mi pare del tutto indiscutibile e completamente insanabile.
E’ noto infatti come l’art.3, paragrafo 1, lettera c), TFUE stabilisca che l’Unione ha competenza esclusiva in tale settore per gli Stati membri la cui moneta è l’euro (CGUE, sentenze del 27 novembre 2012, Pringle, C‑370/12, punto 50, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, EU:C:2015:400, punto 35).
Come previsto poi dall’art. 282, par. 1, TFUE, la BCE e le banche centrali degli Stati membri la cui moneta è l’euro, le quali costituiscono l’Eurosistema, conducono la politica monetaria dell’Unione. Ai sensi dell’art. 282, paragrafo 4, TFUE, la BCE adotta le misure necessarie all’assolvimento dei suoi compiti in conformità degli art. da 127 a 133 e 138 TFUE, nonché delle condizioni stabilite dallo Statuto del SEBC e della BCE (CGUE, sentenze del 27 novembre 2012, Pringle, C‑370/12, punto 49, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punto 36).
In virtù dell’art. 127, par. 1 e dell’art. 282, par. 2 TFUE, l’obiettivo principale della politica monetaria dell’Unione è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Queste stesse disposizioni stabiliscono, inoltre, che, fatto salvo tale obiettivo, il SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’Unione, al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi di quest’ultima, come definiti all’art. 3 TUE (CGUE, sentenze del 27 novembre 2012, Pringle, C‑370/12, punto 54, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punto 43).
Proprio nel citato caso Pringle, la CGUE ha chiarito inequivocabilmente come “spetti alla Corte, nella sua qualità di istituzione che assicura, in forza dell’art. 19 par. 1 primo comma TUE, il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, esaminare la validità di una decisione del Consiglio Europeo fondata sull’art. 48 par. 6 TUE”.
Potrebbe rispondersi che al fine di esercitare un influsso sui tassi di inflazione, il SEBC è necessariamente portato ad adottare misure che hanno determinati effetti sull’economia reale, i quali potrebbero altresì essere ricercati, per altri scopi, nell’ambito della politica economica. In particolare, qualora il mantenimento della stabilità dei prezzi imponga al SEBC di cercare di aumentare l’inflazione, le misure che il SEBC deve adottare al fine di alleggerire, a questo scopo, le condizioni monetarie e finanziarie nella zona euro possono implicare interventi sui tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico, in ragione, in particolare, del ruolo determinante di tali tassi di interesse sulla fissazione dei tassi di interesse applicabili ai diversi soggetti economici (CGUE sentenza del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punti 78 e 108).
E’ agevole replicare che escludere qualsiasi possibilità, per il SEBC, di adottare simili misure quando i loro effetti sono prevedibili e scientemente accettati vieterebbe, in pratica, al SEBC di utilizzare i mezzi messi a sua disposizione dai Trattati al fine di realizzare gli obiettivi della politica monetaria, e potrebbe, segnatamente nel contesto di una situazione di crisi economica implicante un rischio di deflazione, costituire un ostacolo dirimente alla realizzazione della missione di cui esso è investito in virtù del diritto primario.
Del tutto erronea quindi è la pronuncia nel non conformarsi al principio secondo il quale la sindacabilità dei provvedimenti della BCE può darsi unicamente di fronte alla CGUE[14], non di fronte ad altro giudice dei singoli Stati membri.
4.Sull’erronea interpretazione dell’art. 123 TFUE.
Profilo co-essenziale della pronuncia in oggetto è quello relativo alla compatibilità della decisione 2015/774 con l’art. 123, paragrafo 1, TFUE.
Esso vieta alla BCE e alle banche centrali degli Stati membri di concedere scoperti di conto o qualsiasi altro tipo di facilitazione creditizia alle autorità e agli organismi pubblici dell’Unione e degli Stati membri, nonché di acquistare direttamente, presso tali soggetti, titoli del loro debito pubblico.
Correttamente, nota la Corte germanica come tal previsione intenda precludere l’assistenza finanziaria del SEBC ad uno Stato membro; ciò per vero senza escludere, in maniera generale, la facoltà, per il SEBC, di riacquistare, presso i creditori di tale Stato, titoli in precedenza emessi da quest’ultimo (sentenze del 27 novembre 2012, Pringle, C‑370/12, punto 132, nonché del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punto 95).
E difatti, proprio nell’ambito del PSPP, la BCE è stata autorizzata ad acquistare titoli non direttamente, presso le autorità e gli organismi pubblici degli Stati membri, bensì soltanto indirettamente, sui mercati secondari. L’intervento del SEBC previsto dal suddetto programma non può dunque essere equiparato ad una misura di assistenza finanziaria ad uno Stato membro.
Nell’ammettere infatti l’adozione di un programma di acquisto di titoli emessi dalle autorità e dagli organismi pubblici dell’Unione e degli Stati membri, la disposizione del Trattato appena citata deve garantire che tale programma non sia idoneo a sottrarre gli Stati membri coinvolti all’incitamento a condurre una sana politica di bilancio che tale disposizione mira ad instaurare (v., in tal senso, CGUE sentenza del 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C‑62/14, punti da 100 a 102 e 109).
L’intervento del SEBC sarebbe incompatibile con l’art. 123, par. 1, TFUE qualora gli operatori possibili acquirenti di titoli di Stato sui mercati primari avessero la certezza che il SEBC procederà al riacquisto di questi titoli entro un termine e a condizioni tali da permettere ad essi operatori di agire, de facto, come intermediari del SEBC per l’acquisto diretto di detti titoli presso le autorità e gli organismi pubblici dello Stato membro in questione. Le concrete modalità di esecuzione degli acquisti da parte del SEBC, come descritti nelle decisioni, sono però in concreto tali da impedire tale effetto.
Si tratta sia del rispetto del periodo di blackout previsto dall’articolo 4, paragrafo 1, della decisione 2015/774, il quale assicura che i titoli emessi da uno Stato membro non potranno essere riacquistati dal SEBC immediatamente dopo la loro emissione (che per la sua durata non è idoneo a far sorgere una certezza, in capo agli operatori potenziali acquirenti di titoli di Stato sui mercati primari, riguardo al fatto che il SEBC procederà a brevissima scadenza al riacquisto di questi titoli), sia del fatto che l’importo di tali acquisti da realizzare può in concreto variare ogni mese in funzione del volume dei titoli emessi da operatori privati disponibili sui mercati secondari. A fronte di ciò il Consiglio direttivo della BCE può a discostarsi, in via eccezionale, dall’importo mensile previsto, qualora ciò sia imposto da specifiche condizioni di mercato.
Complessivamente, quindi, le previsioni contenute nel testo delle decisioni rendono impossibile per un operatore privato essere certo, al momento dell’acquisto di titoli emessi da uno Stato membro, che questi ultimi verranno effettivamente riacquistati dal SEBC in un futuro prevedibile.
Va osservato come questi aspetti non paiono per nulla appropriatamente esaminati dal Bundesvessfassungsgerecht, che semplicemente su di essi sorvola in quanto ritiene semplicemente di allinearsi al dictum della CGUE; diverso approfondimento avrebbe certamente consentito a maggior ragione, secondo ragionamenti unicamente giuridici, di comprendere le ragioni poste alla base della sottoposizione degli atti della BCE unicamente al sindacato del giudice eurounitario.
5.Conclusioni
La sentenza in commento è quindi, senza dubbio, un grave fuor d’opera rispetto ai binari del diritto dell’Unione.
La prima reazione ufficiale della BCE[15] che l’ha seguita mi pare produttiva dell’effetto di isolare del tutto il giudice che l’ha pronunciata rispetto alle altre Corti con le quali invece ogni autorità giurisdizionale di vertice dovrebbe muoversi con spirito di collaborazione e di rispetto per le funzioni proprie e altrui.
Inoltre, nel piegare a interpretazioni solipsistiche i principi costituzionali, al di là di ogni logica di tutela di diritti fondamentalissimi dell’individuo, essa costituisce un pericoloso precedente.
Potranno infatti invocarla quegli Stati illiberali i cui governi sono avvezzi ripararsi dietro situazioni di tutela di principi fondamentali del proprio sistema (sia il diritto alla salute, sia l’emergenza economica, sia quant’altro) veri o proclamati, per sospendere de facto la supremazia del diritto dell’Unione e sottrarsi all’obbligo di garantire i diritti fondamentali dei Trattati e agli altri doveri derivanti dall’appartenenza europea.
E’ auspicabile che lo stesso Bundesverfassungsgericht, resosi conto dell’errore in cui è incorso sia quanto all’interpretazione del diritto UE, sia quanto alla violazione di ogni principio regolante i rapporti tra Corti nei sistemi multilivello costituiti dagli ordinamenti nazionali in relazione con l’ordinamento eurounitario, riveda quanto prima la propria posizione.
Tale ravvedimento potrebbe ben operarsi all’esito delle operazioni di chiarificazione disposte dalla stessa Corte; essa ben potrebbe – quale commodus discessus – valutare in modo soddisfacente il loro contenuto, in questo finalmente accodandosi alle pronunce della Corte di Giustizia, che sono e restano ad essa sovraordinate anche se non in senso strettamente gerarchico.
Diversamente, l’architettura giuridica dell’Unione europea dovrà fare i conti una ferita i cui danni sono già evidenti.
[1] Sul medesimo tema in questa rivista https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-dell-emergenza-covid-19/1072-bundesverfassungsgericht-contro-la-corte-ue-o-contro-l-europa-di-marina-castellaneta).
[2] CGUE, sent. 11 dicembre, Weiss and Others, C-493/17.
[3] Diversamente, risulterebbe violata da un atto dell’Unione l’identità costituzionale tedesca; per riferimenti alla giurisprudenza della stessa Corte, si veda BVerfG 2 BvR 2728/13 del 21 giugno 2016, Rn. 163. In dottrina si rimanda a E. DENNINGER, L’identità costituzionale tedesca e l’Unione europea: riflessioni a partire dalla pronuncia sulle OMT, cit., spec. p. 265.
[4] BVerfG, 12 settembre 2012, in Entscheidungen des Bundesverfassungsgerichts, 132, 2013, p. 195 e segg.
[5] BVerfG 2 BvR 2728/13 del 21 giugno 2016.
[6] BVerfG 2 BvE 2/08 del 30 giugno 2009, Rn. 240.
[7] Sul complesso rapporto tra art. 4 II e identità costituzionale tedesca di recente cfr. anche T. WISCHMEYER, Nationale Identität und Verfassungsidentität. Schutzgehalte, Instrumente, Perspektiven, in AöR, n. 3/2015, pp. 415 ss. che definisce l’identità come una «buzzword». Riflette anche sul punto L. CORRIAS, National Identity and European Integration: The Unbearable Lightness of Legal Tradition, in European Papers, n. 2/2016, pp. 383 e segg.
[8] I tassi annuali di inflazione della zona euro erano all’epoca largamente inferiori all’obiettivo del 2% fissato dal SEBC, in quanto essi non superavano il ‐ 0,2% nel dicembre 2014, e che le previsioni di evoluzione di tali tassi disponibili a quella data prevedevano che questi ultimi si sarebbero mantenuti a un livello molto basso o negativo nel corso dei mesi successivi. Sebbene le condizioni monetarie e finanziarie della zona euro siano in seguito progressivamente mutate, ciò non toglie che, alla data dell’adozione della decisione 2017/100, i tassi annuali di inflazione effettivi restavano sensibilmente al di sotto del 2%, con un tasso dello 0,6% nel novembre 2016.
[9] G. RIVOSECCHI, L’indirizzo politico finanziario tra costituzione italiana e vincoli europei, Padova, 2007 e, più di recente, M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione. Per una critica della ragione costituzionale dell’Unione europea, Napoli, 2016, spec. pp. 36 ss., pp. 40 ss. e pp. 110 ss.; C. BUZZACCHI, Bilancio e stabilità. Oltre l’equilibrio finanziario, Milano, 2015; A. GUAZZAROTTI, Crisi dell’euro e conflitto sociale. L’illusione della giustizia attraverso il mercato, Milano, 2016 e G. L. TOSATO, L’integrazione europea ai tempi della crisi dell’euro, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2012, pp. 681 ss. Sulle sfide future e le difficoltà storiche del progetto di integrazione europea, con particolare riferimento alla crisi economica, agli strumenti predisposti per contrastarla e alla struttura dell’Unione economica e monetaria, cfr. da ultimo D. CHALMERS, M. JACHTENFUCHS, C. JOERGES (a cura di), The End of the Eurocrats’s Dream. Adjusting to European Diversity, Cambridge, 2016 e ivi, con particolare attenzione al problema della contraddittoria configurazione della struttura dell’UE e le sue implicazioni, C. JOERGES, Integration Through Law and the Crisis of Law in Europe’s Emergency (pp. 299 ss.).
[10] A. MANZELLA, C. PINELLI, L. GIANNITI, Politica monetaria e politica economica nell’Unione europea, in astrid.it, rassegna n. 19/2015. Riflettono anche sulla necessità di riforme strutturali sul piano della governance economica e della legittimazione democratica a livello europeo F. MASINI, Towards a Federal Structure of Economic Governance in the Eurozone, in STALS Research Papers, n. 1/2016 e, in un lavoro in cui si sostiene che le sentenze Pringle e Gauweiler abbiano innescato trasformazioni di natura costituzionale, M. IOANNIDIS, Europe’s New Transformations: How the EU Economic Constitution Changed During the Eurozone Crisis, in CML Rev., n. 5/2016, pp. 1237 ss., spec. pp. 1274 ss.; M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione. Per una critica della ragione costituzionale dell’Unione europea, cit., pp. 149 ss.
[11] F. SAITTO, Economia e Stato costituzionale. Contributo allo studio della “Costituzione economica” in Germania, Milano, 2015. Sugli strumenti di partecipazione diretta in Germania cfr. A. DE PETRIS, Gli istituti di democrazia diretta nell’esperienza costituzionale tedesca, Padova, 2012.
[12] P. M. HUBER, Verfassungsstaat und Finanzkrise, cit., p. 16. BVerfG 2 BvR 2728/13 del 21 giugno 2016, Rn. 158 ss., spec. 162 ss. Sui limiti dell’interpretazione da parte della Corte di Giustizia come strumento di espansione dei poteri dell’UE, cfr. anche D. GRIMM, Europe’s Legitimacy Problem and the Courts, in D. CHALMERS, M. JACHTENFUCHS, C. JOERGES (a cura di), The End of the Eurocrats’s Dream. Adjusting to European Diversity, cit., spec. pp. 248 ss. che conferma come l’atteggiamento del Tribunale costituzionale tedesco «basically […] is a resistance against the erosion of democracy» (p. 255).
[13] Così R. D. KELEMEN, On the Unsustainability of Constitutional Pluralism. European Supremacy and the Survival of the Eurozone, cit., pp. 136 ss.
[14] Cfr. G. REPETTO, Responsabilità politica e governo della moneta: il caso BCE, in G. AZZARITI (a cura di), La responsabilità politica nell’era del maggioritario e nella crisi della statualità, Torino, 2005, pp. 283 ss. Più di recente, sui poteri della BCE alla luce della sentenza Gauweiler della CGUE, cfr. S. BARONCELLI, The Gauweiler Judgment in View of the Case Law of the European Court of Justice on European Central Bank Independence, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, n. 1/2016, pp. 79 ss. e C. ZILIOLI, The ECB’S Powers and Institutional Role in the Financial Crisis. A Confirmation form the Court of Justice of the European Union, ivi, pp. 171 ss.
[15] Si veda il contenuto online: https://www.ilsole24ore.com/art/lagarde-corte-tedesca-la-bce-va-avanti-imperterrita-e-indipendente-e-risponde-parlamento-europeo-ADGoB2O
La tecnologia nel processo penale e "l’abbaglio della normalita"
di Cataldo Intrieri
Sommario: 1.Premessa - 2. Il pericolo tecnologico come falso problema. - 3.L’emergenza come stato di eccezione del processo. - 4.Un aspetto dimenticato: il principio di pubblicità. - 5.Tecnologia“light“e riforme: un banco di prova per un soggetto politico riformista dell’avvocatura.
1.Premessa
Gli psicologi cognitivi definiscono come “ Normalcy Bias” un processo mentale che porta gli uomini a reagire alle catastrofi ed ai capovolgimenti della fortuna con una sorta di illusione di ritorno alla precedente normalità.
Evidentemente non è, non può essere così ma la prima reazione di chi ritorna a casa dopo una guerra o una malattia è quella di pensare l’ ”heri dicebamus” di Benedetto Croce dopo il Fascismo, l’illusione che la tempesta sia una parentesi da collocare tra i ricordi.
Mentre scrivo sembra ancora lontana una parvenza di normalità nei Tribunali, la “fase 2” appare macchinosa e lenta, all’insegna del confuso accavallamento di protocolli e circolari, e già questo è il segnale indelebile di un non gradevole cambiamento.
Ma il mondo della giustizia deve affrontare anche uno spettro ulteriore che si aggira nei palazzi e minaccia un cambiamento da molti temuto, sia tra gli avvocati che tra i magistrati ed i loro collaboratori amministrativi: la tecnologia.
Il grande filosofo abruzzese, che così tanto ha segnato la vita culturale ed accademica italiana, guardava con radicata diffidenza alla Scienza che egli definiva “un libro di ricette di cucina” e ci vorrà qualche anno dopo la sua morte prima che Charles Percy Snow, fisico e scrittore , teorizzasse la necessità della fusione delle “ due culture” l’umanistica e la scientifica.
Un processo che da diverso tempo anche nel mondo del diritto italiano si è lentamente messo in moto con gli studi di Federico Stella[1] e che ha portato ad un apprezzabile grado di interazione tra i due mondi ed ad un’epistemologia condivisa.
Eppure “ la civiltà delle macchine “[2] non è penetrata completamente nelle aule giudiziarie e non soltanto per le ordinarie inefficienze della burocrazia statale ma anche per una radicata diffidenza culturale dei famosi addetti ai lavori, disposti a malapena a tollerare un qualche supporto meccanico che allevii la fatica ma non a ripensare il diritto in chiave di evoluzione scientifica e tecnica.
Non è questa la sede né vi è l’ambizione di arrivare a tanto, qui ci si limiterà ad una qualche riflessione su un tema che l’epidemia del COVID ha reso improvvisamente attuale: il processo telematico ed in generale la possibilità di interagire con le macchine nel processo.
Una possibilità cui il mondo giuridico è ferocemente contrario anche alla luce di alcuni modelli ed elaborazioni che in verità sono sembrati più la realizzazione di un incubo orwelliano che di un’utopia di progresso.
La causa scatenante è stata la progressiva introduzione di due commi in un articolo del decreto Curitalia che in un’eterogenea quantità di disposizioni ha inserito alcune norme per fronteggiare l’emergenza giustizia causata dalla Pandemia.
Il problema è che gli articoli in questione toccano un nervo scoperto: la temuta dematerializzazione del processo penale, la sparizione dalle aule di magistrati, avvocati ed imputati, ridotti a guardarsi in un acquario l’un l’altro, pure icone visive.
Che poi l’acquario in questione sia stata nelle diverse declinazioni da Skype a Zoom il provvidenziale strumento con cui l’umanità ha mantenuto in vita una parvenza di socialità, di lavoro e financo di affettività non tranquillizza chi teme la fine della liturgia processuale e con essa, evidentemente, del prospero indotto cinematrogafico e televisivo, da Vespa ai legal thriller: il che, invece, dovrebbe tranquillizzare perché al peggio di se stessi non si rinuncia mai.
Tale timore invero non è supportato in alcun modo dal dettato normativo che pone un limite temporale connesso alla durata dell’emergenza e peraltro con le ultime modifiche esclude dal campo d’applicazione del processo da remoto l’istruttoria e la discussione, ancorchè per molti testi sia prevista da ormai molto tempo una forma di audizione protetta a distanza, dietro uno schermo ed al di fuori del dibattimento nelle forme dell’incidente probatorio, una escogitazione processuale ben più diabolica di quella oggi paventata.
E’ da dire che l’opzione è meramente facoltativa ed è rimessa alla volontà delle parti, la si può definire meramente residuale (se non altro per l’elementare considerazione che nel paese esistono vaste zone in cui la connessione ad internet è precaria) ed infatti ha trovato ad oggi una scarsa applicazione, oltre le procedure di convalida degli arresti e di direttissime, su cui l’avvocatura ha volontariamente concordato vari protocolli locali.
A Roma, prima che intervenisse l’ultimo emendamento vi è stata l’iniziativa di un singolo collegio poi modificata sostanzialmente dietro richiesta dei difensori ed altrove (Perugia) una disposizione della presidenza del Tribunale di ordine generale, mentre in altre parti del paese anche particolarmente colpite le disposizioni presidenziali sono state nel senso di rinviare i processi a dopo il periodo emergenziale nella speranza di una normalizzazione o quanto meno di condizioni minime di agibilità.
Non sono allo stato ravvisabili concrete e future minacce alla struttura del processo orale come lo conosciamo. Nessun proposito di cambiamento è contenuto nel disegno di legge di riforma varato dal governo e tranne qualche isolata posizione la magistratura ha ribadito la sua netta contrarietà ad ogni ipotesi di cambiamento strutturale in direzione di un processo da remoto, tuttalpiù proponendo un uso della tecnologia strettamente contingentato all’emergenza.
Pur tuttavia è ben noto l’aforisma di Prezzolini per cui “in Italia nulla è più stabile della precarietà” ed il ricordo della legislazione emergenziale varata negli anni ’90 oggi felicemente estesa a fattispecie di reati totalmente diverse pesa enormemente.
Non è ozioso ed irriguardoso chiedersi se tale valutazione, certamente non irragionevole alla luce delle passate esperienze debba esaurire la gamma delle risposte che un’avvocatura “politica” e moderna è tenuta a dare, scartando ogni inclinazione“luddista” ( la paura della modernità come attacco agli spazi di lavoro).
Non può essere, innanzitutto, indifferente il cambio radicale delle circostanze che hanno determinato la legislazione emergenziale odierna rispetto al contesto storico di trenta o cinquanta anni fa.
Oggi non vi è la reazione ad un attacco eversivo o criminale ma ad una catastrofe sanitaria che ha chiuso non solo l’Italia ma il mondo e di cui anche gli imputati ed i detenuti sono vittime.
Con felice sintesi si è parlato del passaggio dalla “gestione autoritaria del rischio doloso a quello colposo” [3].
Peraltro se è vero che la legislazione Antimafia è rimasta ed anzi peggiorata, quella legata al terrorismo è sparita insieme alle contingenze storiche che l’hanno determinata.
Se dunque, come tutti speriamo, il futuro ci riporterà al passato, sicuramente della realtà odierna forse resterà qualche risorsa telematica in più ma non certo l’evanescente modello di processo da remoto che oggi ci viene proposto. Se invece la realtà ne verrà modificata e ci porterà ad una lunga convivenza con una situazione di precarietà e pericolo allora non credo che l’avvocatura possa cullarsi nell’ “abbaglio della normalità” fingendo che niente sia successo ma dovrà farsi carico della realtà.
Come efficacemente ha spiegato Roberto Bartoli, non bisogna abbandonarsi al vizio nazionale della retorica ma “Occorre evitare che chi si esprime a favore dei provvedimenti fino ad ora adottati venga identificato per il contrasto del coronavirus, ma contro la democrazia e le garanzie e chi è contrario ai provvedimenti sia considerato per la democrazia e le garanzie, ma anche un alleato del coronavirus. “[4]
Con questo autorevole viatico ecco alcune elementari riflessioni e qualche non richiesto suggerimento.
2. Il pericolo tecnologico come falso problema.
Se l’uso delle modalità telematiche incontra un diffuso favore ai fini di semplificare una serie di adempimenti, dal deposito degli atti all’estrazione in tempo reale delle copie dei procedimenti, incontra invece un pressochè totale rifiuto come mezzo di espletamento dell’attività difensiva in senso stretto in funzione del diritto al contraddittorio.
Come accennato prima l’incubo del processo in pixel è ben lontano dal potersi realizzare.
Innanzitutto ad esso è contraria gran parte della magistratura italiana che ne evidenzia con decisa efficacia la macchinosità ed i pericoli. E’ considerato nella migliore delle ipotesi come una “ norma manifesto”[5] con finalità propagandistiche.[6] Hanno avuto modo di ribadire diversi suoi autorevoli esponenti che la Magistratura ha irreversibilmente fatto propri i principi costituzionali del giusto processo.
Molto è stato scritto e ben più autorevolmente in favore dell’oralità ed immediatezza quali profili di rilevanza anche costituzionale perché si possa aggiunger ancora altro[7].
Vi è solo da aggiungere che la forma tradizionale del processo è stata riconosciuta come indispensabile strumento cognitivo per il giudice in due famose pronunce del massimo consesso nomofilattico ed in un tema, quello della rinnovazione del dibattimento in appello, anche per il giudizio abbreviato [8] che ad un primo momento si presentava come del tutto inconferente e contraddittorio. Ciò è potuto avvenire proprio in ragione della natura del contraddittorio orale come “statuto cognitivo fondante del processo”[9] in funzione del rispetto, in nessun altro modo efficacemente tutelabile, del principio dell’ ”oltre ogni ragionevole dubbio”. Con felice sintesi si è detto come “l’oralità/immediatezza sia un metodo, il convincimento oltre ogni ragionevole dubbio, uno scopo”[10].
Un principio ermeneutico che trova conforto anche negli esiti delle ricerche neuroscientifiche che hanno evidenziato la correlazione tra la parola ed il mutamento delle connessioni sinaptiche nel cervello umano che costituiscono i codici di interpretazione della realtà.[11] Senza il contatto diretto non vi può essere diretta percezione della realtà, ma solo un montaggio filtrato di essa.
3.L’emergenza come stato di eccezione del processo.
Si sostiene che lo stato di emergenza potrebbe costituire il cavallo di Troia con cui coloro che “hanno l’inquisitorio nel cuore” potrebbero finalmente sferrare l’assalto decisivo al processo accusatorio mediante il richiamo ad un automatismo tra tutela della salute ed uso della particolare tecnica “ da remoto” come unico scudo di difesa contro la pandemia.[12]
L’allarme sembra invero eccessivo.
Innanzitutto il sistema di comparazione delineato dalla Corte Costituzionale, in tema di art. 3 esclude ogni predeterminazione nella individuazione di una gerarchia valoriale,[13] anche con riferimento alla tutela del diritto alla salute che non può prevalere su altri valori fondamentali, come la tutela giurisdizionale del cittadino.
E’ ben vero che le situazioni emergenziali autorizzano delle deroghe nella normale tutela dei diritti secondo quanto previsto dall’art.15 della Convenzione Europea ma qui l’aggressione non è quella condotta da un’associazione criminale o da una catastrofe naturale circoscritta ad una precisa zona ma un pericolo diffuso che colpisce senza distinzioni i diritti di tutti, compresi i nemici abituali della società, coloro che scontano pene detentive in luoghi ristretti interessati dall’epidemia e che vengono colpiti due volte: nella salute e nei diritti che loro spettano e che la giurisdizione deve tutelare ma che sono stati sospesi tramite l’aggressione contro di essa e contro l’autonomia dei giudici.
Proprio la Convenzione Europea Sottolinea come l’eccezionalità debba restare confinata “nella stretta misura in cui la situazione lo richieda, quindi cessare alla fine dell’emergenza.
E dunque è pacifico che il ricorso al “ processo da remoto” debba avere una scadenza in quanto la sua introduzione nell’ordinamento è strettamente connessa e motivata ad una specifica ragione di eccezionalità: l’epidemia da Coronavirus, potrà differirsi la data ma non può permanere una misura di tale portata oltre la volontà del legislatore.
Analogo principio è rinvenibile nella Carta e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Vi è innanzitutto la “ norma generale” contenuta nell’art.77 della Costituzione che individua nei “casi straordinari di necessità e d’urgenza”, la legittimazione del Governo ad adottare sotto la sua responsabilità “ provvedimenti provvisori con forza di legge”, che dovrebbe mitigare tanti inutili quanto sordidi strepiti contro presunte svolte autoritarie , perdipiù lamentate da chi avrebbe incerte credenziali di democrazia. Ed in tal senso vi è stato da ultimo un preciso richiamo del nuovo presidente della Consulta nel suo discorso del 28 Aprile.
La Corte Costituzionale sul punto ha poi emesso ripetuti provvedimenti in grado di tranquillizzare anche gli animi più apprensivi, legittimando anche la sospensione di diritti altrettanto incisivi quanto quello al giusto processo [14] purchè non protratta oltre lo stretto contingente periodo di emergenza.
Uno fra tutti nel 1982, con riferimento ai termini di carcerazione preventiva previsti per i reati contro il terrorismo la Corte, presidente Leopoldo Elia, scrisse parole inequivocabili[15] che definiscono l’emergenza sicuramente come forza legittimante le deroghe anche di principi cardine “ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”.
Se ancora si vuole nutrire un qualche dubbio, frutto di amara esperienza, dovrebbe essere di conforto la recente decisione assunta dal Presidente della Corte Costituzionale di procedere “ da remoto” alle prossime udienze “Durante il periodo dell'emergenza epidemiologica, fino al 30 giugno 2020 e comunque sino a nuovo provvedimento” con esplicito riferimento ai provvedimenti emergenziali di cui al decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, rubricato «Nuove misure urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia amministrativa», da ritenersi applicabile ai giudizi davanti a questa Corte, in quanto compatibile, ai sensi dell'art. 22 della legge n. 87 del 1953”.
Difficile pensare ad una stabilizzazione di una legge emergenziale con data di scadenza incorporata, e come tale definita dal Giudice delle Leggi, che certamente non tollererebbe la stabilizzazione di una misura precaria e provvisoria e non ingannino i precedenti che immediatamente vengono alla mente. La criminalità organizzata e le nuove mafie sono purtroppo pericoli attuali non spazzati via e sulle molte false emergenze create ad hoc in questi anni è lecito confidare nell’intervento delle giurisdizioni superiori e della Consulta. Elementi che giustificano questa speranza ve ne sono e sono rinvenibili nel periodo di presidenza di Giorgio Lattanzi in cui la Consulta non si è fatta condizionare dalla (sotto)-cultura dell’emergenza
Occorrerebbe una nuova, specifica iniziativa legislativa per introdurre il processo da remoto oltre l’emergenza, ipotesi certamente possibile, per cui è bene lanciare allarmi, ma sapendo che ciò di cui OGGI parliamo è un’innovazione biodegradabile alla luce del ritorno, sperabilmente non lontano, alla normalità.
Sia chiaro che a chi scrive l’emergenza non piace, ma se con grande senso di responsabilità l’avvocatura ha ritenuto dolorosamente necessari degli strappi all’ordinarietà, ed ha fatto la sua parte nel condividere con gli uffici giudiziari la gravissima situazione, sottolineando in ogni caso l’eccezionalità e temporaneità delle concessioni fatte, non si può legittimamente dubitare che altrettanto definito è l’orizzonte di vita del comma 12 bis introdotto dal DL 8 aprile.
Nel frattempo a depotenziare la temuta, negativa incidenza della novità, la nuova legge ha se non altro escluso l’istruttoria dibattimentale dal campo di applicazione della trasmissione da remoto. Essa invece resta possibile per ogni altra fase del procedimento, indagini comprese , con il periodo emergenziale spinto fino al 31 Luglio.
4.Un aspetto dimenticato: il principio di pubblicità.
C’è infine un ulteriore principio che rischia di essere una sorta di vittima sacrificale: la pubblicità del dibattimento che pure rappresenta un profilo fondamentale di controllo della pubblica opinione sull’amministrazione della giustizia.[16]
Lo stato di emergenza comporta proprio il sacrificio di tale facoltà di controllo, vietando come è successo ai processi celebrati in questi mesi l’accesso alle aule del pubblico, ridotti a riti senza fedeli.
Un’evenienza che tra misure di sicurezza, timori di epidemia ed accessi contingentati rischia di diventare frequente. Sbaglierebbe chi lo ritenesse un sacrificio minore, una sorte di male minore, uno “stato di eccezione debole”e non un “vulnus” che invece viene ad incidere su un aspetto fondamentale della democrazia.[17]
Paradossalmente proprio la tecnologia potrebbe salvaguardare questo aspetto: nel corso degli anni la trasmissione sui media dei processi, talvolta utilizzata in modo improprio e fuorviante, ha consentito molto più spesso l’informazione pubblica su processi spesso rilevanti anche per lo svolgimento della vita democratica.
Penso a cosa ha significato la “diretta“ del processo Cusani nei primi anni novanta e lo splendido servizio pubblico curato da Radio Radicale ed al suo archivio che costituisce un pezzo di storia del Paese.
Ebbene, si può ipotizzare che un’emittente dedita al servizio pubblico di informazione sulla giustizia possa accedere all’aula e consentire come “host” il collegamento anche in diretta alle sue riprese, salvaguardando così nel modo più indolore diverse esigenze meritevoli di soddisfazione, dal controllo pubblico alla tutela della sicurezza .
5.Tecnologia“light“e riforme: un banco di prova per un soggetto politico riformista dell’avvocatura.
A riprova che le crisi recano con sé delle opportunità ed anche dei cambi di paradigma positivi, l’emergenza COVID ha senz’altro causato una insperata accellerazione per una serie di “ buone prassi amministrative” che sperabilmente confermate nella fase di normalità possono sveltire notevolmente gli arruginiti meccanismi del processo penale. Ad esempio si è finalmente ufficializzato l’uso della posta elettronica certificata come strumento di scambio di documenti e di comunicazione con gli Uffici Giudiziari, si tratterà ora di provvedere alle modifiche legislative o giurisprudenziali (in bonam partem una volta tanto) per rendere stabile l’innovazione e non tornare indietro.
In due documenti pubblicati da AREA dg corrente di sinistra dell’ANM e dell’UCPI sono state formulate proposte di buonsenso che indicavano anche possibili punti di convergenza, prima che il reciproco “richiamo della foresta” del conflitto ideologico tornasse a prevalere.
Così ad esempio la possibilità di poter consentire al Gip che ha emesso la misura cautelare di poter svolgere l’interrogatorio di garanzia da remoto che eviterebbe la sovente inutile delega ad un giudice esterno oppure lo svolgimento di atti formali come il conferimento di un incarico peritale.
A sua volta l’Unione ha avanzato delle proposte di cartolarizzare alcune procedure quali patteggiamento, concordato in appello o gli atti introduttivi al giudizio abbreviato ( ma non la discussione). Basterà? E’ legittimo chiederselo ma intanto alcune proposte stanno trovando concreta applicazione tramite protocolli nei vari fori.
E’evidente che da tutte le parti sia abbia piena consapevolezza delle enormi difficoltà che si prospettano: non sarà possibile per molto tempo l’afflusso continuo ed incontrollato alle aule giudiziarie e ciò causerà la riduzione del numero dei processi trattati.
Le cifre tratte dalla relazione del Ministro di giustizia al disegno di riforma del codice di procedura sono crudamente eloquenti e ben note alle parti.[18] Una situazione già ampiamente compromessa prima dell’ulteriore colpo arrecato dall’emergenza COVID.
Sia consentito un qualche non richiesto consiglio.
Va innanzitutto apprezzato lo sforzo dell’Unione della Camere Penali di proporre una forma di cartolarizzazione di alcuni segmenti procedimentali. Essa segna una giusta direzione nel tentativo di individuare forme alternative di trattazione e di accellerazione della procedura.
Tuttavia l’eccesso di timidezza rischia di produrre effetti contraddittori ed addirittura recessivi rispetto al temuto uso della tecnologia. Infatti, perché “ dematerializzare” sulle carte escludendo l’interlocuzione diretta che sarebbe comunque preziosa in caso di dubbi e chiarimenti che il giudicante avesse sulle richieste o sugli accordi concordati dalle parti? Non sarebbe preferibile una diretta comunicazione alla carta? Può diventare uno schermo uno spauracchio penalizzante per gli stessi interessi difensivi?
Soccorre in materia il regime di emergenza del processo amministrativo stabilito dal DL Curitalia che pur prevedendo la possibilità dell’intervento delle parti da “remoto” lo ha subordinato al preventivo assenso di tutte le part [19]. Tale disposizione ha suscitato vivaci e fondate critiche in ragione del potere di veto concesso ad una singola parte che può così negare un diritto fondamentale come l’oralità.[20]
E non solo, ma le associazioni degli avvocati amministrativisti con il CNF hanno concordato con la presidenza del Consiglio di Stato che nel regime di eccezionalità, addirittura derogando a quello ordinario sia possibile l’intervento orale degli avvocati da remoto [21].
Un dato di realtà in assoluta controtendenza rispetto all’atteggiamento dei penalisti, ma che consente di fissare un primo punto di riflessione: se il contraddittorio sulla prova è necessario al giudicante per percepire dal vivo la rilevanza e genuinità delle fonti e dell’oggetto della prova, la discussione costituisce essenzialmente una interlocuzione tecnica col difensore e le altre parti che bisognerebbe avere il coraggio di avviare anche verso una forma di dialogo sui punti controversi, col vantaggio di risparmiare inutili declamazioni su temi su cui i punti di vista delle parti e del giudice già coincidono.
Senza che qualcuno si scandalizzi già oggi in fasi procedimentali di più spiccata natura tecnica (si pensi alle misure di prevenzione o alle procedure incidentali) l’incidenza del contatto ravvicinato e di quello da remoto coincidono senza apprezzabili differenze.
Non si tratta qui di soccombere ad un infantile entusiasmo per i nuovi giocattoli che la modernità ci squaderna davanti, ma di ragionare su un possibile percorso riformatore che governi anche le macchine.
Invece di temere una improbabile sostituzione dello schermo alla presenza in aula si potrebbe ragionare su un possibile piano di recupero dell’arretrato con un programma ponderato e condiviso di intensificazione delle udienze anche da remoto per le procedure che possono essere risolte in tal modo senza danno per il diritto di difesa ( e la modifica che rimette alla scelta del difensore la parola decisiva aiuta in tal senso).
Si potrebbe pensare di approfittare dei fondi per l’ammodernamento dello Stato per un piano di digitalizzazione della giustizia e pensare anche ad un temporaneo reclutamento di giovani avvocati per quella massa di processi considerati di secondo piano ma che sono importanti per chi li vive e soprattutto per il “sentiment” democratico dei cittadini.
Le crisi servono a questo: a cambiare i paradigmi, anche di avvocati e magistrati, ed ad avere coraggio, perché senza non ne usciremo fuori e negheremo a chi verrà dopo di noi l’idea stessa di una giustizia e di uno Stato democratico
[1] F.Stella Giustizia e modernità, la protezione dell’innocente e la tutela delle vittime. Milano 2015.
[2] “ Civiltà delle macchine “ era il nome della rivista fondata ed edita da Finmeccanica, la società finanziaria dell'IRI dal 1953 al 1979, diretta da Leonardo Sinisgalli per unire nel dialogo dialogo la cultura umanistica, la conoscenza tecnica e l'arte.
[3] R. Bartoli: Il diritto penale dell’emergenza “ a contrasto del Coronavirus”. Problematiche e prospettive in Sistema Penale, rivista on line 24 Aprile 2020
[4] R.Bartoli: cit.
[5] P. Borgna , 25 Aprile e stato di eccezione in Questione Giustizia ,Rivista on line 25 Aprile 2020.
[6] G.Santalucia, La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “Curitalia” in Giustizia Insieme, rivista on line 10 Aprile 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/993-la-tecnica-al-servizio-della-giustizia-penale-attivita-giudiziaria-a-distanza-nella-conversione-del-decreto-cura-italia
[7] F.Petrelli e F.Alonzi, La Privatizzazione ( e la privazione) del processo in Diritto di difesa, rivista on line 26Aprile 2020
[8] SSUU sent. 19 gennaio 2017 (dep. 14 aprile 2017), n. 18620, Ric. Patalano
[9] SSUU sent. 28 aprile 2016 (dep.6 luglio 2016) n.27620/16 Ric.Dasgupta
[10] H. Belluta-L. Lupária, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello:s olo la rinnovazione ci salverà?
In Diritto Penale Contemporaneo Rivista on line 8 maggio 2017,
[11] F.Pennachietti ed altri, Nanoscale Molecular reorganization of the inhibitory postsynaptic density is determinat of GABAenergic synaptic potentation in the J
[13] “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona…La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. ( Corte Cost. sent. 85/13)
[14] “Una giurisprudenza costituzionale anche risalente ha giustificato la sospensione di diritti o competenze costituzionalmente garantite sulla base della delimitazione temporale prevista dalle discipline di volta in questione, e volte alla salvaguardia di beni, dall’ordine pubblico (sent.n. 15 del 1982) ai “limiti generali della finanza pubblica” (sent.n. 307 del 1983), collocati e collocabili su un piano comunque inferiore a quello della tutela della salute e della stessa vita umane, al di là della nota assenza di una gerarchia fra princìpi costituzionali. Naturalmente perfino questa conclusione può essere discussa, se si segue la pista della biopolitica di Michel Foucault e dei suoi più o meno consapevoli adepti italiani. In effetti, anche stavolta la retorica di stampo cospirativo sul “diritto di eccezione” o sulla “costituzione dell’emergenza” è scattata immediatamente. Ma continua a andare molto oltre la ragionevolezza se non il mero buonsenso.” (C.Pinelli, Il precario assetto delle fonti impiegate nell’emergenza sanitaria e gli squilibrati rapporti fra Stato e Regioni in Astrid , rivista on line n.5/20)
[15] “Se si deve ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte - anche mediante lo spietato assassinio di "ostaggi" innocenti - e distruzioni, determinando insicurezza e, quindi, l'esigenza di affidare la salvezza della vita e dei beni a scorte armate ed a polizia privata, versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l'emergenza, nella sua accezione più propria, é una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo.” (Corte Cost. sent.15/82)
[16] “Il principio di pubblicità previsto dall’art. 6 Cedu, richiama due momenti procedurali e finalità: rendere trasparenti l’operato e la decisione finale del giudice. La ratio di siffatta disposizione è ravvisata dalla Cedu, nella necessità di tutela «contro una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico» (Corte Edu, 14.11.2000 Riepan c. Austria); visto che la pubblicità rappresenta «il mezzo per realizzare la trasparenza dell’amministrazione della giustizia» (Corte Edu, 25.07.2000 Tierce ed altri c. San Marino)”. ( R. Radi in Camera Penale di Roma -Commissione sulla linguistica giudiziaria: il processo da remoto, 24 Aprile 2020)
[17] T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, in Giustizia Insieme, rivista on line, 19 Aprile 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/997-il-diritto-nello-stato-di-eccezione-ai-tempi-dell-epidemia-da-coronavirus-2
[18] “Sono note e risalenti le difficoltà operative determinate dall’enorme carico di lavoro degli uffici giudiziari: basti ricordare che nel 2019 sono stati 50.801 i procedimenti iscritti nella cancelleria centrale penale della Corte di cassazione e 51.831 i procedimenti esauriti, con pendenze che a fine 2019 assommavano a 23.579 unità. Ancor più drammatico (per numeri di procedimenti e durata media) è il dato delle corti d'appello, ove al terzo trimestre 2019 si è registrato un numero complessivo nazionale di 268.578 procedimenti pendenti; valore leggermente in calo rispetto alla fine del 2018 (271.247 unità), ma certamente ancora allarmante. Quanto ai tribunali, il dato delle pendenze è in crescita, in particolare per ciò che concerne il giudizio monocratico: 1.159.760 le pendenze complessive al terzo trimestre 2019 (delle quali 604.341 innanzi al tribunale in composizione monocratica, 526.244 innanzi al gip/gup, 28.775 innanzi al tribunale in composizione collegiale e 400 innanzi alla corte d’assise), a fronte di 1.157.500 di fine 2018.” ( Relazione Illustrativa del Ministro di Giustizia al DDL 13Febbraio 2020)
[19] Sul punto va considerato che il processo amministrativo è storicamente un processo prevalentemente scritto, basato su prove scritte e precostituite, come dimostra anche la ridotta percentuale delle cause in cui viene chiesta dalle parti la discussione orale. Il sacrificio della oralità costituisce nondimeno un vulnus che, sebbene giustificato per il periodo di emergenza, dev’essere al più presto recuperato –pur sempre limitatamente al periodo emergenziale al venir meno del quale si deve tornare a quella forma di contraddittorio che postula la oralità tra presenti in aula - anche grazie alla previsione e al perfezionamento di forme di collegamento da remoto e al loro adeguamento agli standard di sicurezza, riservatezza e stabilità. Consiglio di Stato seconde note di chiarimento del Presidente sull’emergenza COVID (pubblicato il 20 aprile 2020)
[20] M.A.Sandulli, Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo in Giustizia Insieme, rivista on line, 4 maggio 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1063-covid-19-fase-2-pregi-e-difetti-del-diritto-dell-emergenza-per-il-processo-amministrativo
[21] S.Musco, Udienza telematica,intesa tra Patroni Griffi e avvocati per regole condivise , Il Dubbio 6 Maggio 2020
La magistratura di sorveglianza tra umanità della pena e contrasto alla criminalità organizzata: le soluzioni contenute nel D.L. 30 aprile 2020, n. 28.
di Paolo Canevelli
SOMMARIO
1. La vicenda di Sassari. 2. Il decreto legge n. 28 del 2020. 3. I permessi di necessità. 4. Umanizzazione della pena. 5. Il parere del P.N.A. 6. La detenzione domiciliare per motivi di salute. 7. Le novità del decreto legge. 8. Alcune osservazioni si impongono. 9. Conclusioni.
1. La vicenda di Sassari
Un condannato per delitti di camorra è ristretto in carcere dove è sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis. Sta espiando una lunga pena detentiva ed il provvedimento di rigore è stato applicato nei suoi confronti dal Ministro della Giustizia già molto anni fa (luglio 2010), e successivamente prorogato, in ragione del pericolo di ripresa di collegamenti con il gruppo criminale di appartenenza.
Le sue condizioni di salute, costantemente monitorate dall’area sanitaria del carcere, sono definite particolarmente gravi e necessitano di specifici interventi non disponibili nell’Istituto detentivo né in strutture sanitarie esterne in ambito regionale, poiché la struttura pubblica, che sta eseguendo il follow-up dopo un delicato intervento chirurgico di dicembre scorso, è stata individuata come Centro Covid 19.
Il difensore del condannato si rivolge alla magistratura di sorveglianza per chiedere la sospensione (differimento) della esecuzione della pena, ovvero la sua prosecuzione nelle forme della detenzione domiciliare presso alcuni familiari. Il Tribunale di sorveglianza competente, dopo aver interpellato più volte la Direzione generale dei detenuti del DAP sulla possibilità di disporre il trasferimento del condannato in altro carcere con reparto per i detenuti di 41 bis attrezzato per la cura della patologia, fissa l’udienza, nel contraddittorio delle parti, per assumere una decisione.
Dopo tre rinvii, in mancanza di esaustive risposte da parte del DAP, il Tribunale dispone il richiesto differimento dell’esecuzione, nelle forme della detenzione domiciliare, motivando la propria scelta in ragione della tutela del fondamentale diritto alla salute dell’individuo detenuto, anche se autore di gravissimi reati (416 bis, estorsione ed altro). Il provvedimento ha una solida base normativa nell’art. 147 c.p., che autorizza il giudice ad ordinare la liberazione del condannato, e nell’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. pen., che consente al Tribunale di sorveglianza di applicare, in luogo della scarcerazione, la detenzione del condannato presso un domicilio, stabilendo un termine di durata e forme di controllo adeguate. Nella decisione assumono concreto rilievo anche le esigenze di tutela della collettività, che, tuttavia, il Tribunale ritiene di gravità non così elevata da comportare il sacrificio del diritto alla salute costituzionalmente garantito.
La particolare caratura criminale della persona ammessa alla detenzione domiciliare, suscita una serie di reazioni negative da parte degli organi di stampa che riprendono le forti preoccupazioni espresse da ampi settori della magistratura impegnata nell’azione di contrasto ai fenomeni mafiosi, amplificate dalle dichiarazioni di esponenti della classe politica. Si sostiene che, attraverso provvedimenti del genere, la magistratura di sorveglianza favorisca la bancarotta per l’effettività del sistema penale, cancellando, con un tratto di penna, i faticosi successi raggiunti nell’attività di repressione e determinando, oggettivamente, il crollo della sensibilità e dell’attenzione della società civile e delle Istituzioni rispetto al fenomeno mafioso.
Critiche, in qualche misura, analoghe a quelle che hanno accompagnato la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 253 del 23 ottobre 2019) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del sistema delle preclusioni assolute nei confronti di condannati al c.d. ergastolo ostativo.
2. Il decreto legge n. 28 del 2020
Il Ministro della Giustizia corre ai ripari e predispone un testo, da inserire nel decreto legge in preparazione per l’emergenza da Coronavirus, nel quale prevede che la magistratura di sorveglianza non possa assumere decisioni che riguardano il diritto alla salute del condannato, se non dopo aver acquisito un parere obbligatorio della PNA e della DDA competente per territorio, in relazione al luogo di commissione dei reati.
Questa, in estrema sintesi, la vicenda in cui si collocano le nuove norme che disciplinano il procedimento di adozione da parte della magistratura di sorveglianza di provvedimenti che comportano una scarcerazione di pericolosi boss mafiosi per motivi di salute. Attraverso la previsione dell’obbligo di consultare preventivamente il procuratore della Repubblica del luogo in cui è stata emessa la sentenza di condanna ed il procuratore nazionale antimafia, si è inteso così subordinare le decisioni di competenza della magistratura di sorveglianza al parere dell’autorità giudiziaria inquirente nella sua massima espressione, anche a livello di coordinamento tra tutte le Procure del territorio.
Per illustrare e capire fino in fondo il significato delle nuove norme, anche al di là della loro concreta incidenza sui procedimenti futuri, occorre, tuttavia, fare un passo indietro. Non sarà certo sfuggito al lettore che il sorprendente esito della domanda di scarcerazione per motivi di salute proposta da Zagaria Pasquale ha fatto registrare una evidente crepa nel principio di leale collaborazione tra diversi organi dello Stato sulle cui radici è necessario soffermarsi.
3. I permessi di necessità
Non è un caso che il primo intervento imposto dall’art. 2 del D.L. del 30 aprile 2020, n. 28 riguardi il tema dei permessi di necessità di cui agli articoli 30 e 30 bis ord. pen., rispetto ai quali il rapporto tra la magistratura di sorveglianza ed il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha fatto emergere diversità di vedute che non hanno favorito sempre correttezza e tempestività degli interventi.
La memoria ci riporta ai casi, non infrequenti, in cui un permesso di necessità, concesso dal magistrato di sorveglianza ad un detenuto ristretto in alta sicurezza o in regime di 41 bis per consentirgli di fare visita ad un familiare in imminente pericolo di vita ovvero di presenziare ai funerali di un prossimo congiunto, non sia stato, in concreto, eseguito per la resistenza opposta dal Dipartimento. Non assicurando l’immediata disponibilità della scorta della polizia penitenziaria, indispensabile perché il permesso si svolgesse in condizioni di sicurezza, l’amministrazione ha determinato una inammissibile compressione del diritto del detenuto nella fase di esecuzione del provvedimento. Non si tratta di episodi isolati né di una contrapposizione che concerne le sole modalità applicative di un provvedimento del giudice, dal momento che la particolare urgenza delle situazioni fa sì che un ritardo nella organizzazione dei sistemi di sicurezza, influisce sulla effettiva fruizione del diritto, potendolo, in definitiva, vanificare del tutto.
Un’eco delle situazioni descritte si può cogliere perfino nella giurisprudenza della Cassazione che è stata chiamata a valutare la legittimità di provvedimenti della magistratura di sorveglianza, fin troppo ossequiosi rispetto alle richieste dell’Amministrazione penitenziaria.
Alcune evidenti criticità emergono dall’esame della seguente vicenda. Un magistrato di sorveglianza, invitato dalla Amministrazione a riflettere sulla opportunità di dare esecuzione ad un permesso di necessità, già concesso per consentire ad un detenuto ristretto al 41 bis di recarsi con scorta al funerale del fratello defunto, dispone la revoca del proprio provvedimento, raccogliendo le sollecitazioni del DAP su incombenti situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica. La Corte di cassazione (Cass. Sez. I, 27.11.2015, n. 15953/16, ric. Vitale), intervenendo sul ricorso del detenuto, ha affermato che le positive finalità che l’ordinamento riconosce al permesso per gravi motivi non possono essere del tutto annullate da considerazioni attinenti alle esigenze di sicurezza pubblica, fino ad impedire o comprimere in modo completo la possibilità per il detenuto di fruire di un permesso concepito per venire incontro a circostanze drammatiche della vita familiare. Né può valorizzarsi, al fine di ostacolare la fruizione del permesso, la spiccata pericolosità sociale del detenuto, in quanto la normativa stessa, nel prevedere la possibilità di un accompagnamento armato e con ogni possibile cautela che lo renda compatibile con le esigenze della sicurezza pubblica, offre una soluzione alle argomentazioni relative alla personalità dello stesso. Secondo la Corte, deve trovare affermazione la volontà legislativa certamente non orientata alla soffocazione interpretativa dell'istituto, previsto, viceversa, proprio per tutelare le ragioni profondamente umanitarie che ispirano l’istituto.
L’esempio chiarisce come nei rapporti tra giurisdizione ed amministrazione possano verificarsi momenti di corto circuito che non giovano alla tutela delle posizioni individuali dei condannati, riconosciute dall’ordinamento ad ogni essere umano in quanto tale, a prescindere dalla pericolosità sociale che esprime.
Il riconoscimento di situazioni attraverso le quali l’ordinamento si propone di realizzare forme di umanizzazione del trattamento penitenziario dei condannati, anche se autori di delitti in contesti di criminalità organizzata, si esprime, quindi, attraverso la previsione normativa dell’art. 30 ord. pen., in relazione alla quale non mancano difformità interpretative all’interno della stessa giurisprudenza, anche di legittimità. Non si registrano univoche interpretazioni, ad esempio, nel definire se la nascita di un figlio, ovvero, la grave patologia cronica progressiva di un anziano genitore, possano inquadrarsi nel concetto di evento familiare di particolare gravità. Lo stesso dicasi per situazioni in cui l’assenza, protratta per un lungo periodo, di colloqui visivi con i familiari debba essere considerata come possibile fonte di sofferenza aggiuntiva per il detenuto, tale da determinare una condizione di isolamento affettivo idoneo a produrre conseguenze di notevole gravità.
4. Umanizzazione della pena
In tale contesto di riferimento deve essere inquadrata la modifica normativa introdotta dall’art. 2 del D.L. n. 28 del 2020. La norma intende inserire, nell’ambito del procedimento instaurato dalla domanda di permesso di necessità di un detenuto, una particolare forma di interlocuzione obbligatoria che si pone l’obiettivo di sottoporre all’attenzione dell’autorità giudiziaria competente gli elementi di contesto ambientale o di pericolosità soggettiva che il giudice non può non considerare prima di emettere il provvedimento richiesto. La disposizione si riferisce a tutte le persone detenute, anche se in custodia cautelare, per reati particolarmente gravi come quelli elencati nell’art. 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. nonché ai detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen.
L’elenco dei delitti richiamati coincide solo parzialmente con quelli ritenuti ostativi alla concessione di benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis, comma 1 e 1 ter, ord. pen., attesa la diversa natura del permesso di necessità che non può in alcun modo essere inquadrato tra i benefici penitenziari. Si è osservato, invero, come il permesso di cui all’art. 30 ord. pen. si configuri come rimedio eccezionale, diretto ad evitare, per finalità di umanizzazione della pena, che all'afflizione propria della detenzione si sommi quella derivante all'interessato dall'impossibilità di essere vicino ai congiunti, o di adoperarsi in favore dei medesimi, in occasione di particolari vicende della vita familiare (così, Cass. Sez. I, 12.3.2019, n. 17593, ric. Ribisi).
Viene, quindi, in considerazione una potenziale situazione di conflitto tra il principio di umanizzazione della pena, direttamente enucleabile dalla norma costituzionale di riferimento (art. 27, comma 3, Cost.), e la tutela della sicurezza collettiva. La modifica normativa, inserita nel testo dell’art. 30 bis, prevede un obbligatorio supplemento informativo, non solo per le decisioni di competenza della magistratura di sorveglianza in relazione ai condannati definitivi, ma anche per quelle attribuite all’autorità giudiziaria che interviene nel corso delle varie fasi del procedimento e nei gradi del processo, per ciò che riguarda le istanze presentate da detenuti non ancora definitivamente giudicati. La soluzione prescelta dal decreto legge in esame, al fine di evitare che vengano emessi provvedimenti concessivi di permessi di necessità senza che l’autorità giudiziaria competente disponga di tutte le informazioni disponibili, fa obbligo al giudice, prima di prendere la decisione, di acquisire il parere del procuratore della repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis , anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Oggetto del parere è l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e la pericolosità del detenuto.
5. Il parere del P.N.A.
La norma ha, sicuramente, il merito di integrare il patrimonio di conoscenze dell’autorità giudiziaria competente che, prima della modifica, era limitata, secondo il testo dell’art. 30 bis, comma 1, ord. pen., alla verifica della sussistenza dei motivi addotti nella istanza, da acquisire a mezzo delle autorità di pubblica sicurezza, anche del luogo in cui l’istante chiede di recarsi. Ciò non escludeva che il bagaglio informativo a disposizione del giudice fosse integrato, nei casi di autori di delitti particolarmente gravi commessi in contesti di criminalità organizzata, da acquisizioni ulteriori, sulla falsariga di quanto previsto per i benefici penitenziari dall’art. 4 bis, comma 2, 2 bis e 3 bis, ord. pen. Particolarmente utili possono risultare, al riguardo, le informazioni sulle dinamiche del contesto ambientale in cui sono maturati i delitti, anche al fine di consentire alle forze di polizia del territorio di prevenire qualunque possibile occasione di contatto durante la fruizione del permesso.
Deve osservarsi, tuttavia, che gli elementi negativi eventualmente forniti dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo potranno ottenere considerazione da parte del giudice soltanto ai fini della scelta delle modalità di esecuzione del permesso e non anche in ordine alla verifica dei presupposti applicativi della norma. L’imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente ovvero l’evento familiare di particolare gravità sono situazioni di vita non influenzabili dalla caratura criminale del detenuto richiedente o dal contesto associativo di riferimento. Il principio è stato sottolineato da una recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. I, 16.11.2018, n. 56195, ric. P.G./Arena) che ha confermato un permesso di necessità concesso a detenuto condannato per reati associativi concernenti il traffico di stupefacenti, affermando che il profilo di pericolosità del detenuto non entra a far parte del giudizio sull'an ma soltanto sul quomodo di concessione del permesso medesimo (in una fattispecie, in cui l'assenza di visite dei familiari, protrattasi per più di un biennio e per fatto non imputabile alla loro volontà quanto ad oggettive difficoltà di raggiungere il luogo in cui è ristretto il congiunto, è stata considerata come evento di particolare gravità a norma dell’art. 30, comma 2, ord. pen.).
La norma dispone che l’autorità giudiziaria debba attendere ventiquattro ore dalla richiesta di parere prima di adottare il provvedimento richiesto. Resta, comunque, salva la possibilità per il giudice di prendere una decisione anche prima della scadenza delle ventiquattro ore previste per l’informativa degli organi inquirenti e di coordinamento investigativo ed anche in assenza del predetto parere. Ciò è stabilito quando ricorrano motivi di eccezionale urgenza che, nelle ipotesi previste dall’art. 30, comma 1, ord. pen., di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, possono presentarsi con una certa frequenza.
La modifica inserita con il decreto legge in commento ha lasciato inalterata la struttura del reclamo avverso il provvedimento emesso che spetta sia al pubblico ministero sia all’interessato. Così non è mutata la disposizione che prevede un termine di sole ventiquattro ore a disposizione delle parti per la proposizione del reclamo né l’indicazione del termine di dieci giorni dalla ricezione dello stesso concessi per la decisione. Sul punto è opportuno ricordare come, con una recentissima ordinanza, la Corte di cassazione (Sez. I, 13.11.2019, n. 45976, ric. Vatiero) ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30-bis, comma 3, in relazione all'art. 30-ter, comma 7, legge del 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a ventiquattro ore. La Corte ha ritenuto, viceversa, che il brevissimo termine di impugnazione possa essere giustificato in relazione ai permessi di necessità, per i rigorosi presupposti cui la norma subordina la concessione, anche in relazione alla natura ed alla funzione di tale particolare tipo di permesso, misura eccezionale che risponde esclusivamente a finalità di umanizzazione della pena.
Non è stata, neppure, modificata la disposizione contenuta nell’art. 30 bis, comma 7, ord. pen., secondo la quale, in ipotesi di reclamo da parte del pubblico ministero, l’esecuzione del permesso è sospesa sino alla scadenza del termine per la proposizione dell’impugnativa e durante il procedimento previsto per la trattazione della stessa, fino alla scadenza del termine stabilito per la decisione.
L’esecuzione differita del permesso, in conseguenza dell’atto di reclamo del pubblico ministero che, come tutti i mezzi di impugnazione, deve essere corredato da motivi specifici (art. 581, comma 1, lett. d, c.p.p.), rappresenta, quindi, una scelta dell’ordinamento in favore di una più approfondita valutazione di esigenze correlate alla sicurezza pubblica o alla pericolosità individuale del condannato. Efficacia sospensiva che non trova, tuttavia, applicazione quando il permesso è concesso per un imminente pericolo di vita di un familiare o convivente. La norma precisa che, in tali ipotesi, il permesso deve essere fruito obbligatoriamente con scorta.
Alla luce di tale ricostruzione, quale significato può attribuirsi all’intervento normativo di urgenza?
La previsione di un parere obbligatorio in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del detenuto può, senza dubbio, arricchire la fase informativa immediatamente precedente alla decisione del giudice, attraverso la raccolta di elementi utili per un corretto bilanciamento delle diverse esigenze da comparare. Ma, quando ricorrano oggettivamente le situazioni descritte nell’art. 30 ord. pen. e, in particolar modo, quelle di cui al comma 1, anche il regime di maggior rigore previsto per i detenuti sottoposti al 41 bis deve passare in secondo piano nel confronto con la tutela di valori fondamentali di livello costituzionale, quali il rispetto della funzione della pena e della sua umanizzazione.
6.La detenzione domiciliare per motivi di salute
Il secondo tema sul quale è intervenuto il decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020 è più direttamente collegato alla recentissima vicenda della scarcerazione per motivi di salute di un boss della camorra disposta dal Tribunale di sorveglianza di Sassari.
L’art. 2, lett. b, del decreto introduce nell’art. 47 ter, ord. pen. un modello procedimentale applicabile nelle ipotesi previste dai commi 1 ter ed 1 quater della stessa norma, che regolamentano l’obbligo o la possibilità, per il magistrato di sorveglianza in via di urgenza e per il tribunale di sorveglianza in via ordinaria, di disporre il rinvio della esecuzione di una pena detentiva, senza limiti di pena residua, quando ricorrano gravi condizioni di salute, meglio specificate negli articoli 146 e 147 c.p.
Attraverso l’aggiunta di un comma 1 quinquies, si prevede che nei confronti dei detenuti per uno dei delitti previsti dall’articolo 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. o sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, il tribunale o il magistrato di sorveglianza, prima di provvedere in ordine al rinvio dell’esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 o 147 c.p., con applicazione della detenzione domiciliare, ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. pen., o alla sua proroga, debbano chiedere il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, anche quello del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto.
Si tratta, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, delle ipotesi in cui, in ossequio ai principi costituzionali di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.), della illegittimità di una pena comprensiva di trattamenti contrari al senso di umanità e non tendente alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.) e, infine, della rilevanza attribuita alla salute come diritto fondamentale dell'individuo (art. 32 Cost.), il giudice deve valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari, e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena e con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata della pena e dell'età del detenuto (Cass. Sez. I, 17.10.2018, n. 53166, ric. Cinà).
Nell’esaminare una domanda di differimento pena per motivi di salute, il giudice deve, quindi, compiere, specie quando il curriculum criminale del detenuto sia di un certo rilievo, un’analisi comparativa tra il diritto dell’individuo e la sua pericolosità sociale, operando un bilanciamento di interessi tra le esigenze di certezza e indefettibilità della pena, da una parte, e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un'esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, dall'altra, al fine di individuare la situazione cui dare la prevalenza. La verifica di una situazione di incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del recluso, che persegue l’obiettivo di evitare che il mantenimento dello stato di detenzione di una persona gravemente ammalata costituisca un trattamento inumano o degradante, deve essere effettuata comparativamente, tenendo conto delle condizioni complessive di salute e di detenzione. Tale valutazione comporta un giudizio non di astratta idoneità dei presidi sanitari posti a disposizione del detenuto all'interno del circuito penitenziario, ma di concreta adeguatezza del trattamento terapeutico, che, nella situazione specifica, è possibile assicurare al detenuto.
7. Le novità del decreto legge
Le disposizioni contenute negli art. 146 e 147 c.p., pur se inserite all’interno del codice penale del 1930, esprimono, dunque, principi del tutto conformi a precise scelte del legislatore costituzionale in tema di trattamento penitenziario e di tutela del diritto alla salute in carcere. Le riforme successive, che hanno valorizzato la funzione costituzionale della pena e la sua essenziale funzione risocializzante, hanno sempre ribadito la centralità delle norme a garanzia del fondamentale diritto alla salute di ogni individuo, anche se recluso.
Le esigenze di salvaguardia della sicurezza collettiva sono espressamente garantite dalla disposizione (art. 147, ult. comma, c.p.) che impone al giudice di non adottare un provvedimento di rinvio dell’esecuzione, o se già adottato, di revocarlo, quando sussista il concreto pericolo della commissione di delitti. Il riferimento ad un concreto rischio di recidiva, in rapporto alla specifica pericolosità del condannato, rappresenta il criterio interpretativo che guida la magistratura di sorveglianza, in presenza di condizioni di grave infermità fisica di una persona detenuta, nella scelta tra un provvedimento di rinvio puro e semplice dell’esecuzione della pena ed il differimento nelle forme della detenzione domiciliare, ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. pen.
Quali novità introduce, quindi, la norma inserita nel decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020?
Come già evidenziato, la disposizione si limita a prevedere che, quando la domanda di differimento dell’esecuzione della pena per gravi motivi di salute sia proposta da persona condannata per reati commessi in contesti di criminalità organizzata ovvero da detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis, la magistratura di sorveglianza non possa assumere alcuna decisione se non dopo aver acquisito il parere obbligatorio, ma non vincolante, degli organi istituzionali già indicati, al fine di acquisire più aggiornate informazioni sull’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e sulla pericolosità del soggetto.
La nuova previsione normativa tende, quindi, ad evitare che le decisioni del giudice siano fondate su informazioni incomplete o lacunose per via di una fase istruttoria a forma libera, non scandita da passaggi obbligatori con riguardo agli organi da interpellare ed ai tempi da rispettare. E, tuttavia, con una disposizione analoga a quella inserita in tema di permessi di necessità, è previsto che, quando ricorrano esigenze di motivata eccezionale urgenza, il magistrato o il tribunale di sorveglianza possono assumere le decisioni di rispettiva competenza, anche prima della scadenza del termine stabilito per il parere, anche se il parere non sia stato trasmesso.
8. Alcune osservazioni si impongono
La disposizione recupera una previsione inserita nell’art. 4 bis, commi 2, 2 bis e 3 bis, ord. pen,, che disciplina l’ambito dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione richiesti da detenuti condannati per i c.d. reati ostativi commessi in contesti di criminalità organizzata, e ne estende l’applicazione alle diverse ipotesi in cui sia presentata richiesta di differimento della pena per motivi di salute. Deve ribadirsi come, in linea di principio, l’accertamento di una incompatibilità sanitaria con il regime detentivo non richieda la valutazione della specifica pericolosità del condannato in rapporto al trattamento penitenziario in corso e, soprattutto, al mantenimento o meno di collegamenti con le associazioni criminali.
Le informazioni che saranno veicolate nei pareri del procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo saranno, di certo, utili per definire profili di pericolosità specificamente rivolti ai collegamenti del detenuto con l’organizzazione criminale di riferimento nonché ad evidenziare i rischi connessi ad un rientro del medesimo nei contesti ambientali che gli sono propri. Non potranno, tuttavia, influenzare le valutazioni concernenti le specifiche condizioni di salute del condannato in rapporto alla possibilità che allo stesso possano essere assicurati, all’interno del sistema penitenziario, gli interventi terapeutici necessari a prevenire esiti infausti.
La vicenda di Sassari dimostra che al provvedimento di scarcerazione di un condannato per gravi delitti di criminalità organizzata, in atto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis, non si è giunti per un difetto di informazioni sulla personalità e sui collegamenti del detenuto. La sottoposizione dello stesso al regime di rigore di cui all’art. 41 bis, più volte prorogata nel tempo, è già di per sé espressiva di un’attuale capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, nonostante i lunghi anni di detenzione.
La prioritaria tutela del diritto alla salute, in una situazione in cui l’Amministrazione non offriva sufficienti garanzie per assicurare al detenuto gli interventi terapeutici essenziali nell’ambito dell’Istituto detentivo, ha reso la decisione della magistratura di sorveglianza quasi obbligata. La temporanea uscita del detenuto dal circuito carcerario, con applicazione della detenzione domiciliare sostituiva del differimento, trova spiegazione anche nella assenza di tempestive e precise indicazioni da parte della competente Amministrazione penitenziaria sulla possibilità di ricovero e cura del detenuto presso reparti carcerari opportunamente attrezzati in altre parti del territorio.
Il tema che meritava di essere approfondito era, dunque, quello dei rapporti di leale collaborazione tra un’amministrazione che governa le strutture carcerarie e che deve predisporre un sistema coordinato di interventi atti a garantire la salute di tutti i detenuti ed una giurisdizione che deve rendere effettiva, attraverso un penetrante controllo di legalità, la tutela dei diritti delle persone recluse.
Le ragioni di fondo che hanno portato al corto circuito nei rapporti tra organi dell’Amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza non sono state affrontate con il decreto legge né risultano in altro modo rimosse. La previsione di un canale informativo privilegiato, che consenta alla magistratura di sorveglianza di avere immediata conoscenza dei posti eventualmente disponibili nelle strutture penitenziarie dotate di centri clinici specializzati, potrebbe rappresentare una soluzione di buon senso, anche per lo stato di emergenza in cui versano le strutture sanitarie pubbliche alle prese con gli effetti della pandemia in atto.
9. Il testo del decreto legge fa sorgere una riflessione finale
E’ ben noto che un detenuto ristretto in regime di 41 bis può avere una posizione giuridica di condannato definitivo o di semplice imputato sottoposto a misura cautelare (cui è equiparata la posizione di appellante o ricorrente). L’intervento normativo in commento, nel rendere obbligatoria l’acquisizione da parte della magistratura di sorveglianza delle informazioni in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto, trascura completamente di disciplinare un analogo circuito informativo a vantaggio della completezza delle decisioni di competenza del giudice della fase cautelare.
Nessuna modifica normativa è stata, invero, inserita nel testo dell’art. 275, comma 4 bis, c.p.p. che stabilisce il divieto di applicazione e di mantenimento della custodia cautelare in carcere quando l’imputato sia affetto da una malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione e, comunque, tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere.
La lacuna appare evidente, ove si consideri che la scarcerazione di un imputato di gravi delitti di criminalità organizzata, sottoposto al 41 bis, può produrre rischi del tutto analoghi, se non superiori per la prossimità temporale dei reati, a quelli evidenziati nella fase esecutiva di competenza della magistratura di sorveglianza. La mancata previsione di un intervento obbligatorio del procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo nei procedimenti cautelari attivati da richieste di scarcerazione per gravi motivi di salute rappresenta un’anomalia che deve essere prontamente sanata, per ragioni di ordine logico e di unitarietà del sistema.
Sempre che non si voglia attribuire la svista ad una consapevole presa di posizione del legislatore nei confronti della sola magistratura di sorveglianza che, nei commenti suscitati dalla vicenda di Sassari, è stata, con valutazioni un po' troppo sommarie, indicata come colpevole di un eccessivo garantismo non compatibile con il contrasto alla criminalità organizzata. Come se le garanzie ed i valori costituzionali in uno Stato di diritto possano essere sospesi per favorire la sconfitta delle organizzazioni criminali.
Un provvedimento giurisdizionale, se rispettoso delle norme e dei principi costituzionali, non può mai costituire un insuccesso dello Stato di diritto o, peggio, una resa dello Stato alle organizzazioni criminali. Rappresenta, al contrario, la riaffermazione del primato dei valori proclamati dalla Costituzione a cui ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, deve costantemente richiamarsi.
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