ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il giudizio di rinvio davanti al tribunale del riesame (S.U. Pres. G. Fumu, est. C. Zaza, ud.16.7.20 - dep. 29.9.20, n. 27104, Colella)
"Nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento di ordinanza che abbia disposto o confermato la misura cautelare personale, il procedimento di riesame si svolge seguendo le stesse cadenze temporali e con le stesse sanzioni processuali previste dall'art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., con inizio di decorrenza dei relativi termini dal momento in cui gli atti trasmessi dalla Corte di cassazione pervengono alla cancelleria del tribunale".
Le Sezioni Unite con la sentenza del 16 luglio 2020 n. 27104 hanno risolto il contrasto in ordine alla questione "Se, in tema di misure cautelari personali, nel caso di giudizio di rinvio a seguito di ordinanza che abbia disposto o confermato la misura, il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, previsto per la decisione dall'art. 311, comma 5 - bis cod. proc. pen., decorra dalla data dell'arrivo alla cancelleria del tribunale o alla cancelleria della sezione del riesame del fascicolo relativo al ricorso per cassazione, comprendente la sentenza rescindente e gli atti allegati, ovvero dalla data in cui il tribunale riceva nuovamente dall'autorità giudiziaria procedente gli atti ad essa richiesti a norma dell'art. 309, comma 5, cod. proc. pen.".
Nell'occasione hanno chiarito che il giudizio di rinvio è disciplinato dalle medesime regole stabilite dall’art. 309 cod. proc. pen. e puntualizzato le scansioni procedurali essenziali.
E’ stato ribadito il principio della necessaria celerità della decisione nonché la rilevanza degli atti sopravvenuti, in linea con la caratteristica rebus sic stantibus del giudizio cautelare, “il generale dovere del giudice di rinvio di uniformarsi al principio di diritto stabilito con la sentenza rescindente non preclude infatti l'esame di circostanze sopravvenute, idonee ad incidere sul quadro cautelare” .
Nel giudizio di rinvio la ricezione del fascicolo da parte della cancelleria del tribunale, a seguito della trasmissione dalla Corte di Cassazione, è equiparata all'atto introduttivo della presentazione della richiesta di riesame.
Come nel giudizio ordinario il termine dei cinque giorni decorre dalla presentazione della richiesta di riesame così nel giudizio di rinvio il termine dei cinque giorni decorre dalla ricezione del fascicolo (la Corte cost., sent. n. 232 del 1998, con sentenza interpretativa di rigetto, ha ancorato la decorrenza del termine per la trasmissione degli atti alla presentazione della richiesta).
La cancelleria alla quale deve farsi riferimento è quella centrale e non quella del tribunale del riesame in quanto “i passaggi burocratici interni” non possono aggravare il procedimento in danno dell’indagato sottoposto alla cautela, “la ricezione del fascicolo trasmesso dalla Corte di cassazione dà pertanto inizio al giudizio di rinvio dal momento in cui gli atti stessi pervengono alla cancelleria del tribunale, essendo irrilevante il tempo impiegato per il successivo passaggio del fascicolo alla cancelleria della sezione del riesame; e da quel momento comincia a decorrere il termine di cinque giorni entro il quale l'autorità procedente, all'uopo avvisata, deve provvedere alla trasmissione degli atti richiesti”.
La ricezione del fascicolo onera il presidente del tribunale del riesame della cura dell'immediato avviso all'autorità procedente ex comma 5 art. 309 cod. proc. pen., fermo restando che è dall’arrivo del fascicolo dalla Cassazione che decorrono i cinque giorni.
L’avviso assicura la messa a disposizione - ad opera dell’autorità procedente - del materiale utile per la decisione, compresi gli atti sopravvenuti nelle more del giudizio di Cassazione e gli elementi di indagine eventualmente acquisiti a favore dell'indagato.
La limitata utilità degli atti del fascicolo trasmesso dalla Corte di Cassazione ai fini di decisione del tribunale del riesame in sede di rinvio, decisione da assumere all’esito di un compiuto esame degli atti delle indagini (anche in ragione del carattere in fieri del quadro indiziario e cautelare) è la ragione per cui l’indicazione “ricezioni degli atti” di cui al comma 5 bis dell’art. 311 è da intendersi riferita agli atti delle indagini e non agli atti del fascicolo della Corte. Come spiegano le Sezioni Unite “la decorrenza di un termine per la decisione è giustificata dalla disponibilità di atti che consentano di assumere tale decisione; e che permettano in particolare al giudice quella piena valutazione del materiale probatorio che si è visto essere necessaria anche nel giudizio di rinvio. Orbene, se gli atti trasmessi dall'autorità giudiziaria che procede, in quanto tali rappresentativi dello stato attuale delle indagini, garantiscono questa completezza di valutazione, altrettanto non può dirsi per gli atti restituiti dalla Corte di cassazione con la sentenza rescindente. Questi ultimi coincidono, infatti, con gli atti trasmessi per la decisione del ricorso per cassazione; la cui individuazione è determinata dall'art. 100 disp. att. cod. proc. pen., come in tutti i casi in cui è impugnato un provvedimento riguardante la liberà personale, negli «atti necessari per decidere sull'impugnazione»”.
La scansione temporale rilevante ai fini dell’efficacia della misura, come declinata dalle Sezioni Unite, è dunque che entro cinque giorni dalla ricezione del fascicolo proveniente dalla Corte di Cassazione l’autorità procedente è tenuta a inviare gli atti.
Il mancato rispetto del termine di cinque giorni, stabilito dal comma 5 dell'art. 309 cod. proc. pen., determina l’inefficacia della misura cautelare come previsto dal comma 10. La ricezione degli atti, anche in sede di rinvio, come previsto dal comma 10 dell'art. 309 cod. proc. pen. per il giudizio ordinario, segna la decorrenza del termine per la decisione che deve essere assunta , sempre a pena di inefficacia, nel termine di dieci giorni.
La motivazione deve essere depositata entro 30 giorni. L'espressa previsione del comma 5 bis dell'art. 311 cod. proc. pen. non consente al giudice di dilazionare detto termine sino a 45 giorni, come previsto dal comma 10 dell'art. 309 cod. proc. pen. per il giudizio ordinario.
Oltre Granital. Divisione o fusione degli orizzonti di senso?*
di Andrea Morrone
1. Non si può comprendere quello che molti hanno qualificato come un nuovo corso della giurisprudenza costituzionale senza capire o senza tornare a riflettere sul precedente da cui tutto ha preso le mosse. E, quindi, sul significato che la sent. n. 170 del 1984 (Granital) ha avuto nella definizione dei rapporti inter-istituzionali in Europa, non soltanto tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, quanto pure tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento europeo.
Partire da quella lontana ma attualissima pronuncia deriva dal fatto che essa – al pari di altre storiche decisioni di altri giudici costituzionali degli stati membri dell’Unione europea, tra cui soprattutto quelle del Bundesverfassungsgericht [1] – ha rappresentato il punto di sutura di un conflitto, per usare una categoria rilanciata da Francesco Medico (MEDICO 2020), che aveva visto lungamente distanti le posizioni rispettive dei due custodi della legalità in Europa. La sent. n. 170 del 1984 offriva un punto di equilibrio, nella sua struttura euclidea, che rappresentava finalmente il traguardo – o, almeno, così si pensava – di un’integrazione che, forse, non avrebbe chiesto niente di più di quello che si poteva pretendere dal punto di vista costituzionale, e che non fosse già stato raggiunto. Come ogni altra soluzione di un conflitto, quel compromesso rappresentava l’approdo su una posizione di armonia nel quadro dei rapporti tra ordinamenti giuridici considerati, e non a caso, «separati ma coordinati» [2], assicurando così quella condizione minima di certezza giuridica necessaria tanto ai singoli individui quanto agli operatori economici.
Dal punto di vista del diritto, si stavano salvando sia l’ordinamento costituzionale sia l’ordinamento europeo, ai quali si consentiva di svolgere una coesistenza non polemica, all’interno di coordinate certe (e non oltre), che avrebbero dovuto contenere gli sviluppi a venire dell’integrazione [3]. Com’è noto, la quadratura del cerchio, offerta dal teorema di Granital elaborato dalla sent. n. 170 del 1984, è stata rinvenuta nella contemporanea esistenza di due principi: il primato della costituzione nei suoi principi e diritti fondamentali da un lato, l’applicazione diretta del diritto europeo dall’altro. L’art. 11 Cost. ha svolto una funzione ultra vires ma perfettamente utile a questo riguardo. Ha legittimato la posizione assunta dalla Corte di giustizia sulla primauté e sulla conseguente applicazione diretta del diritto europeo e, al contempo, ha permesso la salvaguardia del nucleo duro dell’ordinamento costituzionale, valorizzato dalla dottrina dei controlimiti alle limitazioni di sovranità rese possibili da quella clausola costituzionale. Una geometria euclidea che, nella sua coerenza formale, non avrebbe ammesso deroghe. O, almeno, così sembrava. Il punto di una possibile rottura, infatti, sarebbe stato (solo) la messa in discussione dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili che, tuttavia, la Corte costituzionale e la dottrina nettamente prevalenti non erano (e non sono) disposti ad accettare – e non solo in Italia. Ma una simile soluzione eversiva non avrebbe potuto compiersi, se non per mezzo di un processo costituente europeo che, però, il tempo ha dimostrato tutt’altro che prossimo dal venire. La stessa vicenda Taricco [4] – nel dare concretezza a ciò che la stessa Corte costituzionale considerava allora «sommamente improbabile» anche se «pur sempre possibile» [5], ossia una effettiva violazione dei controlimiti – ha dimostrato tutta la stringente attualità del teorema Granital; e, all’esito del fecondo dialogo inscenato in quella saga tra il nostro giudice e la Corte di giustizia, ha confermato che nessuno dei due protagonisti sia disposto a rinunciare alle virtù moderatrici del compromesso raggiunto negli anni Ottanta del secolo scorso.
2. Nel nuovo millennio, viceversa, ci siamo resi conto di quanto quell’equilibrio potesse divenire – più che essere in sé – precario. La novità della sent. n. 269 del 2017 sta soprattutto nell’avere squarciato il velo di ignoranza.
Il motivo fondante che ne ha giustificato l’elaborazione – fatta attraverso un obiter dictum che, però, è tale solo rispetto alla vicenda che ne ha dato il là, ma che ha il pregio di un’autentica dottrina, che la giurisprudenza ha fatto propria a partire dalla teoria elaborata da Augusto Barbera (BARBERA 2018, pp. 149 e ss.) [6] – è che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) contiene principi e situazioni giuridiche soggettive che hanno un tono costituzionale, che sono, per dirla con Antonio Ruggeri (RUGGERI 2017, pp. 1 e ss.) [7], materialmente costituzionali e che, come tali, non possono non entrare in dialettica con i principi e i diritti della Costituzione. Da questa premessa discende la specifica soluzione offerta: ovvero che il giudice comune, di fronte a una disposizione che, al contempo, si ponga in contrasto tanto con la Costituzione quanto con la Carta dei diritti, sia tenuto a sollevare una quaestio legitimitatis, rendendo così prioritaria la pregiudiziale di costituzionalità su qualsiasi valutazione concernente (pure) la compatibilità del diritto interno con il diritto europeo (rectius: con la Carta dei diritti).
Che questa esatta lettura sia stata scalfitta o emendata nella giurisprudenza successiva non mi pare decisivo (anche se piace discorrerne all’infinito, specie da parte dei cultori dell’entomologia costituzionale) [8]. Il punto centrale della sent. n. 269 del 2017 è invece un altro. La pregiudizialità costituzionale ha la priorità, anzi deve essere oggetto di un accertamento pre-giudiziale, proprio perché nella species facti è concretamente possibile fare applicazione della norma europea e, quindi, il giudice comune è tenuto a investire il giudice delle leggi indipendentemente dall’applicazione della norma europea. Quel che voglio dire è che con la sent n. 269 del 2017 non si sta ponendo la questione del conflitto tra pregiudiziali (quella costituzionale e quella europea): questo modo di vedere, diventato oramai un luogo comune nel dibattito scientifico, non è corretto fino in fondo, e non solo per i motivi di cui discorre Roberto Mastroianni in un saggio recente (MASTROIANNI 2020, pp. 1 e ss.) [9]. Porre nella sent. n. 269 del 2017 la questione della pregiudiziale costituzionale è funzionale ad affermare quel che è proprio di un giudice costituzionale: il primato della costituzione su qualsiasi altra fonte o norma giuridica. Se il contenuto della Carta dei diritti è materialmente costituzionale, proprio per questo quel suo contenuto di principi e di diritti fondamentali non può essere trascurato da un custode della Costituzione. La priorità del thema costituzionale, detto altrimenti, si giustifica in sé e per sé dal punto di vista di una Corte costituzionale. E, come corollario, ne consegue che l’accertamento pregiudiziale della compatibilità costituzionale della norma interna, vieppiù qualora la stessa si ponga in problematico rapporto con la Carta dei diritti, non può che precedere (logicamente, oltreché per il diritto positivo vigente) il tema (eventuale, perché tutto da stabilire in concreto) della applicazione diretta della carta dei diritti (o, in genere, del diritto europeo).
3. Nel ragionamento della Corte costituzionale, rimane aperto un dubbio, che non è stato chiarito neppure dalla giurisprudenza successiva alla sent. n. 269 del 2017. Il riferimento alla Carta dei diritti e, come nella sent. n. 20 del 2019 al diritto derivato quale strumento di attuazione dei principi e dei diritti derivanti dalla carta europea, va inteso in questi limiti stringenti? Oppure, siamo alle soglie di un orientamento che – nella prospettiva di un deciso ri-accentramento di poteri operato dalla giurisprudenza costituzionale più recente, come rilevato dall’attenta analisi di Diletta Tega in un bel libro recente (TEGA 2020) – è diretto ad affermare la priorità della questione di costituzionalità avente ad oggetto qualsiasi conflitto tra norma interna e norma europea?
Se fosse vera questa seconda, e ben diversa, lettura, allora saremmo certi che la geometria del teorema di Granital sarebbe stata superata definitivamente. Detto altrimenti: in questa seconda interpretazione, l’applicazione interna del diritto dell’Unione europea si avrebbe solo previo accertamento della compatibilità costituzionale della norma europea e non solo di quella della Carta europea dei diritti. La soluzione, allora, sarebbe un allineamento, nel trattamento giurisprudenziale, tra la norma europea e la norma convenzionale, nella maniera tracciata a partire dalle sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007, ma con un evidente superamento della sostanziale differenza stabilita proprio in quest’ultima giurisprudenza tra il regime dell’una e dell’altra [10].
Una simile prospettiva, che nel campo dell’integrazione europea riporterebbe le lancette dell’orologio agli anni Settanta – ad un momento, quindi, addirittura precedente a quello del teorema di Granital – cacciata dalla finestra, tuttavia, potrebbe rientrare dalla porta.
Se la sent. n. 269 del 2017 si riferisce direttamente alla Carta dei diritti, la successiva giurisprudenza prende in considerazione atti europei di diritto derivato, direttamente e indirettamente riconducibili ai principi e ai diritti fondamentali enunciati nella Carta di Nizza. È, però, evidente che il confine tra il diritto europeo conseguente all’attuazione della Carta dei diritti e il diritto derivato che nulla ha a che vedere con la Carta dei diritti può presentare un’utilità sul piano scientifico; ciò, tuttavia, non ha pregio dal punto di vista empirico, dove ogni limen è destinato a sfumare, e dove ogni interpretazione può avere dalla sua margini di verosimiglianza apprezzabili e non trascurabili. Del resto, noi popoli latini non siamo climaticamente e, quindi, culturalmente avvezzi alle traiettorie, così nette e sicure, che orientano la giurisprudenza tedesca [11]. La separazione tra un ambito di diritto armonizzato e uno di diritto non armonizzato, che darebbe luogo a due diversi approcci del giudice costituzionale di Karlsruhe, mi pare di difficile innesto nella nostra tradizione giuridica: anche perché oltralpe si ammette che il Bundesverfassungsgericht operi come giudice europeo nell’ambito di applicazione del diritto armonizzato, mentre la Corte italiana sembra meno disposta fino in fondo a svolgere questo ruolo, riservandosi piuttosto e in ogni caso quello consueto di giudice della Costituzione (e, quindi, del diritto europeo).
Sia come sia, seguire quella strada non risolverebbe il nodo centrale, che sta a monte del giudizio sull’esistenza o meno di un’armonizzazione: quali sono i criteri per stabilire quando siamo all’interno dei margini della Carta dei diritti e quando fuori di essi? Per via di metafora: l’attuazione costituzionale non è un fenomeno che si risolve solo nella puntuale esecuzione di disposizioni fondamentali della costituzione; ma si estende a qualsivoglia norma legislativa che sia riconducibile in qualche modo nel recinto della costituzione. Lo stesso discorso può valere oggi, soprattutto dopo la sua incorporazione nei Trattati, per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: il diritto derivato tutto, oggi, trova la sua legittimità nei Trattati e nella Carta. Sicché, quindi, direttamente o indirettamente, tutte le norme europee poste dagli atti fonte derivati possono trovare a monte un riferimento in questo o quel principio, in questo o quel diritto della CDFUE.
In definitiva, dunque, anche se il margine oggettivo della sentenza n. 269 del 2017 sia quello della Carta dei diritti e del diritto derivato che ad essa direttamente si riferisce, nulla impedisce di considerare quei confini estensibili a qualsiasi norma europea, la cui legittimità non può che essere tracciata dai Trattati e dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il problema qui evocato, dunque, non è chiuso: anche il teorema di Granital, come la geometria euclidea di fronte alle geometrie non-euclidee, potrebbe conoscere la via di un suo superamento.
4. Resta allora da chiedersi, rebus sic stantibus, se la sentenza n. 269 del 2017 possa essere ricondotta al teorema Granital, ossia se essa rappresenti, nonostante l’enfasi nuovista, un ritorno allo spartiacque tracciato nel secolo scorso tra primato della costituzione (rectius: dei controlimiti) e applicazione diretta del diritto europeo. Se così fosse non si tratterebbe di una novità autentica. Neppure potrebbe parlarsi di una dottrina del ri-accentramento, facendo cadere il presupposto degli studi che rimarcano questo profilo [12]. Ciò nonostante, anche i tentativi di riconduzione della sentenza n. 269 del 2017 nei margini del teorema Granital mi paiono, come in fondo ciò che da essa deriva, un po’ grossiers.
Il nostro sforzo va rivolto su tutt’altro orizzonte. Andrebbe sviluppato o, meglio, va portato allo scoperto il non detto della sent. 269 del 2017, ovvero ciò che la dottrina in essa contenuta potrebbe offrire al discorso pubblico europeo nel terzo millennio. La precedenza della pregiudiziale costituzionale dovrebbe essere esattamente intesa come l’affermazione della priorità del giudizio costituzionale non solo e non tanto per assicurare la supremazia della costituzione, ma anche e soprattutto per fare dire, alla Corte costituzionale, la propria parola sulla Carta dei diritti dell’UE; o, anche, e meglio, sui rapporti tra la Costituzione italiana e la Carta dei diritti europei. Questa è la posta in gioco; e da come essa sarà trattata da parte del giudice costituzionale dipenderanno l’andamento dei rapporti tra le Corti, e i contenuti del diritto europeo di matrice giurisprudenziale.
La priorità del giudizio costituzionale è un mezzo e non il fine. L’obiettivo sotteso alla presa di potere della nostra Corte costituzionale è quello di stabilire il significato e il contenuto della materia costituzionale in gioco nei casi concreti, sia che quella materia sia direttamente riconducibile alla nostra Costituzione, sia che essa derivi direttamente o mediatamente dalla Carta dei diritti e per effetto della sua incidenza sulla Costituzione. Anzi – questa la consapevolezza del giudice costituzionale (nel quadro di una tendenza che è, e sarà in futuro, comunque, sviluppata anche da qualsiasi altro giudice costituzionale di uno stato membro) – proprio perché c’è ora la Carta dei diritti, che contribuisce a determinare i margini della materia costituzionale, il Custode della legalità di quest’ultima non può che dire la sua parola, e pretendere, quindi, dai giudici comuni, che sia messo in condizione di farlo sempre.
Siamo nell’ambito di quella che si chiama la diuturna lotta per il diritto: una contesa alla quale la Corte costituzionale vuole partecipare da protagonista, il cui oggetto specifico è il diritto europeo, in tutte le sue possibili accezioni (sia come diritto altro rispetto al diritto nazionale, sia come diritto espressione di una koinè comune a tutti gli ordinamenti degli stati membri e dell’Unione europea).
Tre possono essere gli ambiti di determinazione di questa materia costituzionale e dei relativi contenuti. Essa riguarda: 1) i margini della Carta dei diritti e dei suoi possibili significati; 2) i margini e i significati della Costituzione in rapporto alla Carta dei diritti; 3) i margini e i significati desumibili dalle ipotesi di conflitto normativo tra la Costituzione e la Carta dei diritti.
Viene così in rilievo una cognizione del giudice costituzionale ad ampio raggio, che può avere diversi contenuti, che vanno dalla possibilità di interpretare il senso proprio delle disposizioni di principio della Carta dei diritti, di allargare le ipotesi di lettura della Costituzione alla luce della portata normativa della Carta dei diritti, per arrivare alla soluzione estrema di risolvere gli eventuali contrasti tra le disposizioni della Costituzione e quelle della Carta dei diritti. Il problema della competenza – soprattutto della Corte costituzionale a pronunciarsi su un atto che, sì, è formalmente atto normativo di un altro ordinamento ma che, tuttavia, materialmente è parte integrante del nostro diritto positivo – resta ai margini (senza, con ciò, perdere di pregnanza: ma è un altro discorso).
Le conseguenze di un simile sfondo, almeno nell’ordinamento interno, sarebbero le seguenti: per un verso, la Carta dei diritti (e, per estensione, il diritto dell’Unione europea), anche se lo fosse per l’ordinamento europeo, non potrebbe essere applicata direttamente da parte dei giudici comuni; per altro verso, la Carta dei diritti, nei suoi principi e nei suoi diritti fondamentali, sarebbe il prodotto dell’interpretazione della giurisprudenza tanto della Corte di giustizia quanto – questa la novità assoluta – della Corte costituzionale.
Insomma, se fosse questo il quadro concettuale nel quale andrebbe collocata la svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017, la domanda fatta dalla Corte costituzionale, nei confronti dei giudici comuni, sarebbe quella di accentrare il discorso sui principi e sui diritti discendenti dalla Carta dei diritti, nella prospettiva, immediata, di contribuire a stabilirne la portata normativa e, in un percorso di più lungo termine, di contribuire a realizzare un’integrazione normativa tra paramount laws. Coloro che, come la stessa Corte costituzionale, hanno valorizzato il tema delle tradizioni costituzionali comuni, credo colgano nel segno: se, ovviamente, il senso del richiamo è che ciò che la Corte costituzionale pretende ora, è di offrire il proprio contributo all’elaborazione dei contenuti di quella categoria giuridica, al fine di fornire una base costituzionale alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che possa superare dialetticamente eventuali conflitti in materia (costituzionale) europea.
5. La sentenza 269 del 2017 è un dispositivo di conoscenza che trascende la sua stessa portata ma che dirige la riflessione scientifica verso un nuovo corso. Mi sono tornate in mente, a questo proposito, i versi di Dante Alighieri: «Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte» (ALIGHIERI 1965, p. 200) [13].
La svolta impressa alla giurisprudenza costituzionale – che, dopo le procelle, era finalmente approdata ai quieti lidi della sent. n. 170 del 1984 – va apprezzata guardando in avanti piuttosto che rivolgendosi all’indietro. Questo è il primo importante risultato della sentenza n. 269 del 2017: l’orizzonte sta davanti a noi e non dietro di noi. Se tenessimo lo sguardo – come probabilmente molti di noi hanno fatto, io stesso – rivolto soltanto all’interno, la sent. n. 269 del 2017 presenterebbe più di un punto critico.
Nei confronti dei giudici comuni, essa costituisce un’incursione netta nella trama delle relazioni, fortemente embricate e consolidate, tra la Corte di giustizia e la magistratura, che si dipanano mediante il rinvio pregiudiziale. La Corte costituzionale si è ora immessa da protagonista in quella rete, riempendo uno spazio forse finora troppo generosamente lasciato agli altri giudici, di fronte all’esigenza di dare piena tutela a principi e diritti che si arricchiscono di valore e di contenuto proprio grazie alla prescrittività piena acquisita dalla Carta dei diritti dopo il Trattato di Lisbona. In ottica di retroguardia, del resto, potrebbe vedersi la sentenza n. 269 del 2017 anche riguardo alla particolare lettura che, del processo di integrazione europea, è in quella decisione offerta dalla Corte costituzionale. Io stesso ho contestato, commentando a caldo, che questa giurisprudenza costituzionale fosse espressione di un (preoccupate) atteggiamento conservatore: un retrocedere nella lotta per l’unificazione politica in Europa, sintomo dei tempi correnti, che potrebbe offrire il destro – questo l’aspetto più problematico – alle tendenze politiche, oggi di moda, verso chiusure nazionaliste e sovraniste dello Stato.
Tali ultime considerazioni non perdono di attualità. Vanno, tuttavia, allargate, inserite in una visione presbite, coerente con gli sforzi di una politica e di una cultura giuridica diretti ad edificare un’Unione sempre più stretta tra i popoli europei.
La prospettiva presbite di cui parlo, che a mio parere può (e deve) leggersi nella sent. n. 269 del 2017, sta in un rinnovato e convergente dialogo tra la Corte costituzionale e Corte di giustizia: dalla dialettica dei giudici degli ordinamenti parte del processo di unificazione europea dovrebbe derivare una sorta di fusione degli orizzonti interpretativi che abbia come contenuto (e, in definitiva, come obiettivo) la costruzione di un diritto comune giurisprudenziale, quale base su cui edificare il diritto costituzionale europeo.
Non so se questa che immagino sia anche la visione della Corte costituzionale di oggi: ma dovrebbe esserlo, almeno per alleggerire le ipoteche che altrimenti graverebbero sulla domanda di centralità, che il giudice delle leggi ha manifestato a chiare lettere, in ordine al controllo della materia costituzionale, i cui confini sono stati riscritti proprio dalla Carta dei diritti.
Il futuro dell’integrazione europea, nei ritardi e nelle incertezze della politica dei piccoli passi intrapresa dai governi statali e del governo europeo – al netto, ovviamente, degli scenari aperti a seguito dell’emergenza sanitaria da Covid-19 che sono ancora di là dal venire – è per molti motivi anche il futuro del diritto dell’Unione europea. Un diritto positivo, piaccia o non piaccia, razionalizzato soprattutto dalla giurisprudenza, a tutti i livelli del processo d’integrazione. Che questo diritto comune costituzionale sia contingente o in grado di stabilizzarsi non è predicibile. Quel che può immaginarsi è la direzione di marcia, differente a seconda che si segua la strada della divisione o della fusione degli orizzonti di senso. La portata della svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017, nella dimensione presbite nella quale va correttamente collocata, in definitiva, può essere apprezzata da entrambi i punti di vista: l’esito, tuttavia, è opposto. Inutile dire che come giuristi europei la nostra preferenza non può che andare nella seconda direzione, contribuendo così, a partire da quella teleologia, alla lotta per il diritto europeo di domani.
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* Il presente scritto è in corso di pubblicazione in C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
[1] BVerfGE 73, 339, 22 ottobre 1986, Solange II la quale costituisce la versione tedesca del teorema Granital della Corte costituzionale italiana.
[2] Secondo la formula che ha contraddistinto la giurisprudenza degli anni Settanta e Ottanta e che è stata scolpita proprio nella Corte cost. sent. n. 170 del 1984.
[3] In altre parole: la Corte cost. sent. n. 170 del 1984, nell’indicare nei controlimiti la cornice di legittimità (costituzionale) del primato del diritto europeo e dell’applicazione delle norme europee, finiva per chiudere a qualsiasi sviluppo dell’integrazione europea che, per via del diritto derivato o della giurisprudenza della Corte di giustizia, fuoriuscisse dai suoi confini. Il Trattato di Lisbona ha sostanzialmente confermato quel compromesso, nella misura in cui ha giustapposto identità europea e identità nazionali (MORRONE 2018).
[4] Corte giust., C-105/14, Taricco e altri, 8 settembre 2015; Corte cost. ord. n. 24 del 2017; Corte giust., C-42/17, M.A.S. e M.B., 5 dicembre 2017; Corte cost. sent. n. 115 del 2018.
[5] Corte cost. sent. n. 232 del 1989.
[6] La tesi esposta nel saggio citato era stata annunciata dal Maestro della Scuola bolognese nella Relazione sullo stesso tema tenuta a Siviglia il 26-28 ottobre 2017.
[7] La tesi per cui i diritti dell’ordinamento eurounitario (come piace dire ad Antonio Ruggeri) e dell’ordinamento della CEDU fanno parte di un’unitaria materia costituzionale percorre ormai la produzione più recente del Nostro Autore (scritti pubblicati in RUGGERI 2020).
[8] Dopo la Corte cost. sent. n. 269 del 2017, la Corte costituzionale è tornata più volte sul medesimo tema: cfr. Corte cost. sentt nn. 20, 68, 113 del 2019, e Corte cost. ord. n. 117 del 2019. Non mi pare, tuttavia, che siano venute meno le ragioni ispiratrici della prima decisione, semmai sono state precisati alcuni passaggi e chiariti taluni dubbi (come quello relativo alla possibilità per il giudice comune di continuare a poter esperire, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia che, in linea con la giurisprudenza inaugurata dai giudici di Lussemburgo in, Corte giust. C-188 e 189/10, Melki e Abdeli, 27 luglio 2010, la stessa Corte costituzionale non aveva vietato nella Corte cost. sent. n. 269 del 2017).
[9] Mastrioanni, in particolare, contesta l’abusata locuzione “doppia pregiudizialità” per la «confusione che il suo utilizzo (anche in alcune recenti sentenze della Corte costituzionale) ha provocato»: la «consequenzialità», infatti, delle due pregiudiziali «non sussiste» perché di fronte alla norma europea il giudice comune può o interpretare in modo conforme o disapplicare, essendo il rinvio solo «possibile».
[10] Com’è noto, le sentenze gemelle, nel vietare l’applicazione diretta della CEDU da parte del giudice comune, salva solo l’interpretazione conforme, hanno inaugurato una (ulteriore) centralità della Corte costituzionale nel valutare la validità e, di conseguenza, il significato delle norme convenzionali richiamate per mezzo del rinvio mobile disposto dall’art. 117, c. 1, Cost. Sull’esatta lettura di questa giurisprudenza (MORRONE 2011, pp. 189 e ss.).
[11] Mi riferisco alle recenti decisioni del I Senato del BVerfG del 6 novembre 2019, BVerfGE, 1 BvR 16/13 – Right to be forgotten I e 1 BvR 276/17 – Right to be forgotten II (su di esse, ROSSI 2020).
[12] E che anche io ho sostenuto nella critica al nuovo corso della giustizia costituzionale (MORRONE 2019, pp. 251 e ss.). I temi toccati da quello scritto hanno suscitato reazioni diverse e critiche serrate (BIN 2019, pp. 757 ss., CHELI 2019, pp. 777 e ss, VON BOGDANDY, PARIS 2020, pp. 9 e ss.).
[13] Cfr. Il XXII canto del Purgatorio, vv. 67-69.
Recensione a Franco Della Casa - Glauco Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli, Torino 2020
di Guido Colaiacovo
È una disciplina complessa il diritto penitenziario: serve a determinare i modi nei quali lo Stato, eseguendo una sentenza, priva il condannato della libertà personale, assumendone la custodia e, con essa, l’obbligo di tutelarlo. Diritti della persona e interesse pubblico finiscono, così, per confliggere su aspetti cruciali, soprattutto quando l’esecuzione della pena detentiva diventa una esibizione muscolare, peraltro effimera, tesa a rassicurare l’opinione pubblica. È per questa ragione che la materia è animata da vibranti tensioni, come testimoniano i reiterati interventi del legislatore e della Corte costituzionale.
Il Manuale di diritto penitenziario a cura di Franco Della Casa e Glauco Giostra, che hanno coordinato il lavoro di studiosi e magistrati esperti del settore, è uno strumento fondamentale per orientare l’indagine in questo non sempre armonico avvicendarsi di norme e sentenze.
Strutturato in otto capitoli, che tracciano le linee della trattazione, il Manuale è una bussola che consente di mantenere la rotta sia allo studente che si accinge a sostenere l’esame, sia allo studioso e al professionista del diritto che necessitino di comprendere i meccanismi del sistema espiativo. Conoscenze teoriche ed esperienza pratica si incontrano, conferendo al volume il taglio giusto per interpretare e risolvere le problematiche che si presentano tanto in una sala studio universitaria che in un’aula di giustizia.
L’opera muove dall’inquadramento della disciplina nei principi costituzionali e sovranazionali (Della Casa - Giostra), fondamentali per comprendere “l’essere e il dover esser” dell’esecuzione penitenziaria e decifrare un’evoluzione normativa che non ha ancora raggiunto un punto di quiete. È una premessa ineludibile, poichè descrive i concetti che, declinati in relazione ai singoli istituti, riecheggiano e forniscono la chiave di lettura per i passaggi successivi. Da qui, infatti, si passa all’esame del corpo normativo, iniziando dalla vita detentiva: il secondo capitolo affronta il tema dell’osservazione e del trattamento penitenziario nei principi (Fiorentin) mentre il terzo descrive gli strumenti attraverso i quali la pena può assolvere la finalità rieducativa che le affida la Costituzione (Ruaro - Bronzo).
Particolare attenzione, nel quarto capitolo, è rivolta al tema della tutela dei diritti dei detenuti, la cui analisi consente di cogliere i progressi compiuti sulla strada verso il riconoscimento in favore del detenuto della possibilità di far valere i propri diritti – che non perde insieme alla libertà personale - dinanzi a un giudice. Il quinto capitolo si sofferma, infine, sull’organizzazione penitenziaria e sulla tutela dell’ordine e della sicurezza (Gianfilippi - Lupària).
Un capitolo a parte è riservato alle misure alternative alla detenzione (Carnevale - Siracusano - Coppetta), a sottolineare il ruolo strategico che, pur in tono minore rispetto agli auspici formulati dalla dottrina e nei progetti di riforma, esse hanno assunto in un modello di esecuzione penale che ambisce a superare la tradizionale impostazione “carcerocentrica”.
La trattazione si conclude con una approfondita analisi delle procedure di sorveglianza (Della Casa - Vicoli), la cui conformazione è stata oggetto recentemente di rimarchevoli perfezionamenti, e dell’ordinamento penitenziario minorile (Caraceni), la cui introduzione ha finalmente colmato una grave lacuna del sistema italiano
Il Manuale fornisce dell’ordinamento penitenziario una illustrazione esaustiva e aggiornata, che analizza il dato normativo attraverso le origini storiche e l’elaborazione giurisprudenziale, non mancando mai di segnalare profili critici e questioni problematiche.
Covid, mascherine e diritto penale: precisiamo
di Andrea Apollonio
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto legge).
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo.
Nonostante il XX secolo abbia avuto numerosi geniali scrittori distopici e fantapolitici, non un Huxley, non un Orwell sono riusciti ad immaginare gli scenari che, da un paio di settimane a questa parte, ci sono (tristemente) noti: infatti, con decreto legge n. 125 del 7 ottobre 2020 è stato introdotto l'obbligo, legato alla diffusione del virus Covid19, di indossare la mascherina all'aperto. E' quindi trascorso il secondo fine settimana con vie e piazze - va detto: popolate quanto e più di prima - a presentare uno scenario degno di un film di George Lucas: tutti col viso coperto dalle mascherine. Tutti o quasi.
Perché non tutti si sono adeguati all'obbligo imposto dalla legge, chi per incoscienza chi per una netta presa di posizione personale. E' il caso dei c.d. "no mask", di coloro cioé che ritengono di non dover utilizzare la mascherina, da un lato perché dannosa alla salute (con il naso coperto dal dispositivo di protezione si respirerebbero microparticelle cancerogene), dall'altro, perché tale obbligo sarebbe illegittimo, frutto di una inconcepibile "dittatura sanitaria". Per forza di cose tra i "no mask" si annidano, in rapporto di genere a specie, anche i c.d. "negazionisti Covid" (quanti neologismi in tempi di pandemia...) secondo i quali il virus sarebbe un'invenzione della politica e dei media. Una clamorosa montatura funzionale agli scopi delle oligarchie mondiali - chi siano però i beneficiari ultimi di questo "complotto", non è dato sapere.
Veniamo a noi. Il tema che, in astratto considerato, per un giurista può suscitare interesse è quello relativo alla legittimità del precetto e quindi, nel nostro caso, alla fondatezza dell'obbligo di indossare le mascherine. Tema che ha già trovato una prima articolazione su questa Rivista nello scritto pubblicato il 16 giugno 2020 da Alberto Rizzo, titolato "Covid e mascherine": un contributo che, senza scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi "la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche", prova a rispondere alla domanda: "i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?". Nel momento in cui è stato scritto l'articolo, infatti, non c'era una legge (recte: un atto avente forza di legge, quale il decreto emergenziale) a disciplinare l'obbligo, bensì un DPCM (quello del 26 aprile 2020) che provava a mettere ordine tra le varie ordinanze regionali e sindacali; inoltre, quattro mesi fa l'obbligo era meno invasivo riferendosi essenzialmente ai luoghi chiusi accessibili al pubblico. Sostituita la fonte, ampliato il divieto, l'interrogativo assume una sua problematicità giuridica e merita oggi una risposta più rigorosa ed esaustiva.
Partendo, anzitutto, da alcuni spunti dell'autore, il quale fa riferimento a due norme di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico: l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931) e l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975 (c.d. Legge Reale). Questo, in sintesi, il ragionamento seguito da Rizzo: poiché in particolare l'art. 5 sanziona penalmente l'utilizzo di ogni mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, e poiché quello da cui origina la pandemia non è "un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio" (questa, l'opinione dell'autore), indossare la mascherina all'aperto non andrebbe a costituire un "giustificato motivo": facendone discendere la conseguenza che tutti quelli che oggi la indossano potrebbero essere passibili di sanzione penale. Sollevando un ulteriore dubbio di tenuta ordinamentale: "o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore".
Anche al di là del fatto che, come detto, l'obbligo di indossare le mascherine sia stato recentemente introdotto con un decreto legge (e quindi, ragionando in termini costituzionali: è stato elevato il rango della fonte normativa), e al netto di quelle che appaiono inesattezze sul piano della teoria del reato (es.: una legge penale, anche se di rango superiore, non potrà mai prevalere su un successivo atto normativo relativo alla stessa materia più favorevole o addirittura scriminante; es.: una pena è applicabile al cittadino solo in quanto accessibile e prevedibile, giammai lo sarebbe se fosse l'Autorità - o addirittura lo stesso legislatore - ad imporre la condotta prevista dalla norma penale, acriticamente valutata), oggi appaiono doverose alcune specificazioni.
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto-legge).
L'art. 5 della Legge Reale adotta infatti una tecnica normativa talvolta utilizzata nella formulazione dei precetti penali: viene definita una condotta (andare in giro col volto coperto, da caschi o da altro) penalmente rilevante ma si introduce al contempo una clausola scriminante, di salvaguardia in punto di illiceità, che è appunto il "giustificato motivo": questa locuzione, che può apparire ad occhi inesperti una formula di stile, è in realtà il principale elemento normativo della fattispecie penale, perché ne consente - per meglio definire i contorni della condotta - una integrazione eteronoma: dentro o fuori il sistema penale, prima o dopo l'entrata in vigore del reato, con norma di rango primario o secondario è possibile - in questo caso - legittimare l'individuo a "mascherarsi", per ogni ragione che, in virtù di un interesse pubblico (quello a cui ogni norma deve tendere), viene in astratto individuata.
In questo modo i compilatori della Legge Reale (una legge che peraltro aveva una finalità ben precisa, di tutela della pubblica sicurezza, emanata in un periodo storico in cui mafia, terrorismo e delinquenza comune - "a volto coperto" - rappresentavano il principale rischio di tenuta per il Paese) avevano intelligentemente prospettato una incriminazione che si espande e si riduce a seconda di altre e diverse esigenze che l'ordinamento deve assicurare all'individuo, giustificando talune sue azioni. Il concetto stesso di "giustificazione" esprime non solo la mera non punibilità, ma qualcosa di più: l'assenza di contrasto con l'ordinamento giuridico complessivamente inteso. Cosicché, il fatto che una norma (ieri di rango secondario: il DPCM; oggi di rango primario: il decreto legge) imponga l'utilizzo della mascherina anche all'aperto per chiare esigenze di carattere sanitario non collide in alcun modo con una fattispecie penale dal precetto elastico (che accoglie già, in via preordinata e astratta, diritti, facoltà e obblighi aliunde previsti nell'ordinamento); la quale peraltro, volendola analizzare sotto l'aspetto teleologico, primo vero criterio interpretativo, è stata ideata per contrastare fenomeni che, con il virus Covid19, non hanno nulla a che fare.
Stesso discorso vale per le esigenze religiose di ciascuno. In questo senso, non appare conferente il richiamo che Rizzo fa, quale termine di confronto del tema trattato, alle problematiche sollevate dall'utilizzo del burqa. Non a caso, alla domanda che egli si pone ("Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?") seguono riferimenti a pronunce del Consiglio di Stato, verosimilmente compulsato a seguito dell'emanazione di atti amministrativi: segno tangibile che la questione, al di là delle speculazioni che possono farsi in astratto, non ha mai avuto significativi dibattiti nel campo giurisprudenziale penale: e possiamo facilmente immaginarne le ragioni.
L'oscillazione tra le due possibili soluzioni prospettate (esser incriminati per aver indossato la mascherina o ritenere abrogata la relativa fattispecie incriminatrice) sconterebbe quindi, a nostro avviso, una fallacia argomentativa che non tiene conto da un lato dei meccanismi dell'incriminazione, in ogni caso conformati sul principio di effettiva rimproverabilità del soggetto agente, e dall'altro del concreto dispiegarsi del fenomeno dell'abrogazione implicita, cui l'ordinamento ricorre solo nell'estrema ipotesi in cui un legislatore strabico disciplini diversamente - in termini speculari e opposti - anche in tempi diversi una stessa materia.
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo: basti pensare alle responsabilità colpose di contagio - penalmente rilevanti, queste sì - di chi, bizzarramente sostenendo che "il virus non esiste", vada in giro a fare shopping come se nulla fosse, senza adottare alcuna protezione pur essendo infetto, e magari sintomatico; o di chi addirittura sia consapevole di esserlo, con o senza provvedimenti di confinamento a carico. Un obbligo quindi giuridicamente legittimo e, detto per inciso, fondato sotto l'aspetto scientifico, se è vero che questi provvedimenti, ieri e oggi, sono stati adottati di concerto con gli specialisti del relativo campo medico-sanitario.
Perché poi, in fondo, il diritto si trasforma in un vuoto simulacro senza un bagno nell' "immane concretezza" dei fatti concreti. Io, ad esempio, non so se il virus Covid19 "aleggia libero nell'aria" oppure si trasmetta attraverso un "contatto stretto" con la persona infetta; non so neppure se l'utilizzo prolungato di una mascherina determini o meno effetti dannosi per la salute. So soltanto che mentre scrivo il Presidente del Consiglio dei Ministri sta illustrando le nuove regole anti-contagio (sempre suggerite dalla comunità scientifica nazionale) che sembrano preludere ad un nuovo lock-down, e che comunque avranno ricadute disastrose sull'economia - le ennesime. In questo contesto, il problema (giuridico?) della possibile antinomia tra le norme dell'ordinamento e dell'implicita abrogazione di una legge del 1931 (la cui violazione è sanzionata con l'ammenda massima di mille lire...) e della legge Reale del 1975, una volta ribaditi i principi fondamentali, non assume alcuna rilevanza; ed è comunque lontano dalla realtà che oggi ci circonda.
Il CSM ha deciso: Davigo decade
di Mario Serio
Nel pomeriggio di ieri il Consiglio Superiore della Magistratura ha scritto una pagina di alto valore istituzionale nel corso del dibattito e, al termine di esso, del voto circa la legittimità della permanenza in carica di un Consigliere eletto quale magistrato di legittimità e collocato in quiescenza per il raggiungimento dell'età pensionabile durante il quadriennio.
Il valore che qui si riconosce ad un organo di recente percorso da scosse telluriche non dipende in alcun modo dal tipo di deliberazione adottata o dal merito degli argomenti a lungo e meditatamente discussi da ciascuno dei tanti Consiglieri intervenuti. In effetti, ognuno di essi ha offerto argomenti esclusivamente e motivatamente di tecnica giuridica, in particolare indirizzati al rinvenimento dei fondamenti costituzionali delle contrapposte tesi che si sono decorosamente contese il campo. Argomenti seri, serenamente fatti valere, intessuti del dichiarato rispetto per le contrarie opinioni. Si sono confrontate posizioni molto spesso sofferte sul piano umano e, malgrado ciò, mai viziate da ragioni di carattere personale. Si è trattato di un dibattito limpido e palese, ad onta della segretezza del voto: ammirevole esempio di convinzione e fiducia nell'idea senza remore o infingimenti manifestata. Ancor più rassicurante è stata la circostanza che nessuno dei partecipanti fosse portatore di preconcetti in tal misura radicati da impedirgli di apprezzare l'andamento del confronto: la più affidabile prova è costituita dalla riconsiderazione, anch'essa pubblica e plateale, dell'opinione precedentemente espressa e dalla conseguente modificazione della dichiarazione di voto, occorsa in qualche caso. C'è da nutrire la certezza che l'opinione pubblica non rimarrà insensibile, ed anzi si pronuncerà in termini plaudenti, al criterio aperto e leale di svolgimento di un'attività di non comune impegno in ragione sia della decisione da prendere sia dei valori in essa impliciti.
Vi è poi un altro elemento di indubbio, positivo interesse, che consolida una svolta già da qualche mese riscontrabile nella vita consiliare. Si allude all'interpretazione, coraggiosa e franca, che del proprio ruolo all'interno dell'Istituzione, hanno dato i componenti di diritto. Essi – come, appunto, da qualche tempo accade – hanno inteso contribuire al dibattito, e non con dichiarazioni rinunciatarie e di puro stile, sebbene con profonde riflessioni capaci di orientare, non certo per timore reverenziale o opportunistiche abdicazioni, il corso della discussione. Quel che maggiormente e favorevolmente ha impressionato è stato il dichiarato ed evidente fine degli interventi di Primo Presidente e Procuratore Generale della Corte di Cassazione: quello di concorrere all'adozione di una deliberazione che rinsaldasse funzioni, autorevolezza e solidità del Consiglio Superiore. In altri termini, cooperare al mantenimento del relativo prestigio e credibilità. Non viene qui in rilievo il fatto che il voto espresso dai due componenti di diritto abbia o meno in concreto raggiunto lo scopo (né i loro interventi si sono in alcun modo caratterizzati nel senso di aspirare ad un indebito condizionamento dell'organo): la punta di massima utilità è stata toccata nel momento stesso in cui il relativo sforzo argomentativo è stato votato alla stabilità del Consiglio Superiore, onde proteggerne la futura attività dalle insidie rappresentate dalla temuta discontinuità rispetto all'assetto costituzionale quale da essi divisato.
Se un modo andava cercato per rinfrancare la fiducia nell'operato di un organo dalla recente vita "agra", è certo che esso sia stato esattamente e perspicuamente individuato, nel superiore interesse del Consiglio, dall'apice della Magistratura italiana e dal trasparente e non renitente metodo applicato per far valere ( e non per la prima volta) la propria presenza, lontano dai prudenti ed imperscrutabili silenzi del passato.
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