ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Bundesverfassungsgericht contro la Corte UE o contro l’Europa? A margine della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea.
di Marina Castellaneta
Lo scontro tra gli Stati membri dell’Unione europea dovuto, da ultimo, agli interventi per sostenere l’economia dei Paesi UE colpiti dall’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19, è diventato, in un solo giorno, da politico/economico a giudiziario. Questo come conseguenza della sentenza della Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht), depositata il 6 maggio che, accantonando senza troppi complimenti il bon ton istituzionale, non solo mette in discussione l’operato della Banca centrale europea (BCE), ma ancora di più giudica l’attività della Corte di giustizia dell’Unione europea, provando ad accaparrarsi un ruolo che non le spetta, almeno per le modalità con le quali lo ha esercitato.
Un comportamento che ha spinto la direzione della comunicazione della Corte Ue a divulgare, l’8 maggio, una precisione con la quale sono stati chiariti alcuni punti che i giudici costituzionali tedeschi dovrebbero conoscere e – aggiungiamo – applicare, ossia che solo i giudici Ue sono competenti a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto Ue. Questo lo hanno stabilito gli stessi Stati nei Trattati – come ribadito nel comunicato – e questo serve a garantire la certezza del diritto e l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione che anche i giudici nazionali, come autorità degli Stati membri, devono garantire per assicurare l’effettiva efficacia del diritto dell’Unione.
Passando all’esame della pronuncia, per quanto riguarda l'aspetto che, almeno nelle intenzioni dei giuristi ed economisti tedeschi che hanno presentato ricorso alla Consulta, era quello centrale, ossia l’illegittimità delle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea di Mario Draghi nel 2015, la Corte tedesca, con sede a Karlushe, ha salvato il sistema messo in campo dalla BCE con il Public Sector Purchase Programme (PSPP) stabilendo che le misure di Francoforte non servono a finanziare i singoli Paesi. Tuttavia, la Consulta tedesca – ed è questo il punto che desta allarme e sconcerto – ha “accusato” la Corte di giustizia dell’Unione europea di non aver controllato, evidentemente in modo adeguato, le misure della BCE sul punto, omettendo di effettuare il controllo di proporzionalità affermato dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea. E così – come garante supremo non solo della Costituzione tedesca, ma in generale del diritto – Karlushe emette un verdetto sull’operato della Corte Ue, scrivendo che nella sentenza dell’11 dicembre 2018 (causa C-493/17, Heinrich Weiss e altri) i giudici di Lussemburgo non hanno motivato il ragionamento sul rispetto del principio di proporzionalità delle misure e sul pieno rispetto della conformità del programma della BCE al principio di proporzionalità. Un inedito assoluto, perché, semplificando, i giudici interni dicono che gli eurogiudici non hanno fatto bene il proprio mestiere. Non una critica, ma un verdetto, senza una richiesta agli eurogiudici di tornare indietro o di valutare nuovamente, in uno spirito di collaborazione. Proprio per questo, la sentenza potrebbe non solo incidere sul consolidato e ormai non più messo in discussione principio del primato del diritto Ue su quello interno (del quale gli stessi giudici costituzionali dovrebbero essere garanti), ma anche sulla delimitazione delle competenze tra Stati membri e Unione e sul valore delle sentenze di Lussemburgo. Così come potrebbe aprire ad analoghi interventi delle Corti costituzionali di Paesi sovranisti come la Polonia e l’Ungheria che potrebbero ispirarsi al ragionamento della Consulta tedesca e applicarlo, in chiave ultrasovranista, in altre circostanze.
Solo su un punto la Corte tedesca conferma l’operato dei giudici Ue ritenendo che il piano di acquisti di titoli di Stato attraverso il Quantitative easing (QE), funzionale a immettere liquidità per la crescita economica dell’eurozona, non è contrario al diritto dell’Unione proprio perché non è utilizzato per finanziare il debito pubblico degli Stati ed è, quindi, conforme all’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La Corte Ue aveva stabilito che il programma di acquisti dei bond di Stato era in linea con il mandato della BCE, trattandosi, inoltre, di un meccanismo di politica monetaria per gli Stati della zona euro, di esclusiva competenza dell’Unione. Secondo la Corte di giustizia, che era stata investita della questione proprio dai colleghi tedeschi, il sistema attivato per arginare la grave crisi economica che aveva colpito la zona euro non era finalizzato a soddisfare le esigenze e i bisogni di specifici Stati membri e non era selettivo a vantaggio di singoli Paesi. La Corte di Lussemburgo aveva anche accertato che il principio di proporzionalità fissato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea era stato garantito. E su questo interviene la Corte costituzionale tedesca a giudicare il lavoro dei giudici della Corte Ue, sostanzialmente scrivendo che mancava la motivazione su tale conclusione. Così, la Banca centrale europea, entro 3 mesi dovrà motivare la scelta che ha portato nel 2015 all’acquisto dei titoli di Stato. Su questo punto, non c’è dubbio che la Corte costituzionale intacca il principio di indipendenza delle banche centrali rischiando che, anche in futuro, si presentino ricorsi analoghi su altri piani (inclusi, evidentemente, gli interventi decisi in questi giorni da Francoforte per fronteggiare la crisi economica procurata dal COVID-19, aspetto sul quale, va detto, una precisione nel senso di escludere effetti della sentenza in questo campo è stata fatta nel comunicato stampa, ma non nella pronuncia). Dimenticando che l’indipendenza della Banca centrale europea è essenziale per mantenere la politica monetaria libera da interventi politici diretti, accompagnata dall’obbligo per gli Stati membri di non esercitare un controllo o dare istruzioni alla BCE (articolo 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). E che si tratti di un vero ultimatum risulta chiaro laddove la Corte di Karlushe prospetta subito le conseguenze di una mancata risposta: il Governo e il Parlamento tedesco, infatti, in questo caso, dovranno fermare la partecipazione di Berlino al sistema di acquisto di nuovi titoli e intervenire con misure concrete contro il QE “nella sua versione attuale”. Pertanto, per evitare ciò, la BCE deve fornire chiarimenti in modo rapido e con adeguate motivazioni.
L’aspetto che, però, preoccupa di più riguarda proprio il giudizio della Corte costituzionale rispetto all’operato degli eurogiudici. Non si tratta, infatti, della possibilità di attivare i controlimiti per garantire la Costituzione tedesca, ma dei modi con i quali Karlushe lo fa, trasformando, in un attimo, il dialogo tra corti, che ha sempre caratterizzato il rapporto tra Lussemburgo e Corti costituzionali nazionali, in uno scontro frontale. Una strada, quest’ultima, che sembra proprio seguita con determinazione dalla Corte tedesca che ha avuto un atteggiamento ben diverso rispetto alla Corte costituzionale italiana. Quest’ultima, infatti, nella nota vicenda Taricco, a fronte di una pronuncia della Corte di giustizia (C-105/14, dell’8 settembre 2015) che non risultava chiara in alcuni punti e che poteva mettere in discussione alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento, aveva sollevato una questione di interpretazione (ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24) anche con riguardo ad alcuni aspetti della sentenza Ue e i giudici di Lussemburgo (C-42/17, sentenza del 5 dicembre 2017), accogliendo l’invito al dialogo dei colleghi italiani, avevano svolto un ragionamento idoneo a salvare primato del diritto Ue e tutela dei principi fondamentali contenuti nelle costituzioni degli Stati membri. E la Corte costituzionale, poi, a sua volta, proseguendo nella sua azione diplomatica volta a salvaguardare i principi costituzionali e l’impianto dell’Unione europea, che ha il suo fondamento nella stessa Costituzione, con la sentenza del 10 aprile 2018 n. 115 aveva correttamente delineato i rapporti tra ordinamenti mantenendo l’obbligo della stessa Consulta di tutelare i diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno (con riguardo al principio di legalità in materia penale) e la funzione della Corte Ue. Che aveva raggiunto una posizione di compromesso, appunto accettando il dialogo voluto dalla Corte costituzionale italiana. Pertanto, non è in discussione il diritto/obbligo dei giudici costituzionali di vigilare sul rispetto della Costituzione, ma l’iter seguito dalla Consulta tedesca che, rifiutando il dialogo con gli eurogiudici, sembra ergersi su un piedistallo e segnare con la matita rossa i presunti errori di Lussemburgo. Un comportamento che potrebbe avere effetti ad ampio raggio proprio sull’integrazione europea, costruita passo dopo passo, anche per gli interventi di giudici nazionali e giudici Ue. Integrazione che rischia di essere sepolta dalle 100 pagine della sentenza tedesca che, da un lato, riconosce a Lussemburgo la competenza volta ad assicurare “uniformità e coerenza del diritto dell’Unione” e l’obbligo di garantire che le rispettive funzioni giudiziarie siano esercitate in modo coordinato ma, d’altro lato, afferma che agli Stati membri non può essere impedito un esame sulla circostanza che un atto adottato nel contesto Ue e sul quale si sia già pronunciata la Corte di giustizia, sia ultra vires. In caso contrario – ammonisce la Consulta tedesca – sarebbe concessa alle istituzioni Ue un’autorità esclusiva anche quando un’interpretazione porta a un allargamento delle competenze fissate nei Trattati. Così, i giudici di Karlushe si riappropriano del potere di accertare se un atto che arriva da Francoforte è ultra vires: in questi casi non vi è alcuna copertura dell’articolo 19 (che si occupa della Corte di giustizia) del Trattato di Lisbona e l’adozione dell’atto diventa priva di legittimazione democratica, con la conseguenza, quindi, di un intervento della Corte costituzionale per assicurare il rispetto del principio di sovranità e di ripartizione di competenze. Quest’intervento, però, - scrivono i giudici tedeschi – “must be exercised with restraint, giving effect to the Constitution’s openness to European integration”, principio che non sembra poi essere stato seguito. La Corte, infatti, afferma che “If the CJEU crosses the limit set out above, its actions are no longer covered by the mandate conferred in Art. 19(1) second sentence TUE in conjunction with the Domestic Act of Approval”.
E se certo la reazione della Commissione europea non si è fatta attendere nel riaffermare il primato del diritto dell’Unione e l’obbligo degli Stati membri di rispettare le sentenze della Corte di giustizia, non c’è dubbio che la pronuncia potrebbe rompere l’equilibrio nei rapporti tra giudici nazionali e Corte Ue, arrivando a compromettere proprio quel primato che la Commissione europea si è precipitata a ribadire.
E questa volta, rispetto alla saga Taricco, non è detto che si arrivi all’happy end.
Responsabilità Medica e Covid 19. Nubi all’orizzonte per gli eroi in corsia?
Intervista di Michela Petrini a Cristiano Cupelli e a Giacomo Travaglino
SOMMARIO: 1 Le domande. 2. La scelta del tema. 3 Le risposte. 4. Le conclusioni
1. Le domande.
1) Anche nel quadro della responsabilità dello Stato per le cure mediche adeguate alla generalità della popolazione, ribadita a più riprese, ma con precisi limiti, dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo come espressione della tutela sostanziale del diritto alla vita (tra molte, v. Lopes de Sousa c/ Portogallo 19/12/2017), quali problemi e quali rischi può determinare l’odierna emergenza Covid-19 sul piano della responsabilità civile e penale degli operatori sanitari coinvolti in prima linea sul fronte del contrasto al contagio?
2) Ritiene che l’attuale elaborazione normativa e giurisprudenziale in tema di responsabilità medica sia idonea a fronteggiare questa eccezionale situazione, oppure le difficoltà nel fronteggiare un virus in relazione al quale gli studi scientifici non hanno ancora raggiunto approdi appaganti sono tali da rendere concreto il rischio di una “medicina difensiva dell’emergenza Coronavirus” o anche solo di arginare la spinta solidaristica che, in questi mesi, ha consentito di incrementare l’organico del personale sanitario disponibile ad operare negli ospedali? Quali i possibili costi e quali gli ulteriori eventuali profili di responsabilità per gli operatori sanitari?
3) Ritiene opportuni interventi normativi espliciti per arginare il pericolo che, una volta terminata l’emergenza, si trasformino i medici da “angeli ed eroi”, che spesso volontariamente si espongono anche al rischio di mettere a repentaglio la propria salute, in veri e propri “capri espiatori”, per esiti avversi legati al problematico contesto nel quale sono stati chiamati ad operare?
4) L’attuale pandemia ha posto nuovamente all’attenzione dei giuristi la tematica dell’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label. Ritiene che tale specifico aspetto debba essere preso in considerazione da una eventuale modifica normativa che delinei e adeguatamente circoscriva, semmai limitatamente alla fase della emergenza da Covid - 19, le ipotesi di responsabilità dei medici?
5)Ritiene configurabile una responsabilità in capo alle strutture sanitarie per l’eventuale diffusione intramoenia del contagio da Covid - 19? Quanto potranno influire nella valutazione l’organizzazione e la logistica della struttura e quanto, invece, l’eccezionalità della emergenza?
2.La scelta del tema.
La pandemia in corso non solo ha messo in evidenza alcune criticità del Sistema Sanitario Nazionale (v. in questa Rivista, “Guardare oltre covid – 19 proposte per il rinnovamento del sistema sanitario nazionale”di Paolo De Paoli https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/970-guardare-oltre-covid-19-proposte-per-il-rinnovamento-del-sistema-sanitario-nazionale e “Sull’emergenza (annunciata) del Servizio sanitario nazionale” di Alice Cauduro e Paolo Liberati https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/954-sull-emergenza-annunciata-del-servizio-sanitario-nazionale), ma rende attuale, ancora una volta, il tema della responsabilità medica.
Note sono le notizie di stampa relative alla promessa, da parte di alcuni studi legali e associazioni, di avviare azioni civili e penali nei confronti di sanitari per possibili casi di malpratice medica.
Si è così ingenerato un dialogo, a distanza, tra la Federazione nazionale degli ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri ( FNOMCEO) ed il Consiglio Nazionale Forense che, con un comunicato del 2 aprile, si è visto costretto ad assicurare “l’attenta vigilanza di tutte le istituzioni forensi nell’individuare e sanzionare i comportamenti di quei pochi avvocato che intendono speculare sul dolore e le difficoltà altrui, nel difficile momento che vive il nostro paese”.
Giustizia Insieme continua a seguire il relativo dibattito politico e giuridico e sceglie di dare eco a due voci: quella del Prof. Cristiano Cupelli, Professore associato di diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata e quella del Cons, Giacomo Travaglino, Presidente della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione. Un confronto tra la dottrina (penale) e la giurisprudenza (civile) in una materia che è stata già oggetto, negli ultimi anni, di interventi normativi (v. legge “ Gelli – Bianco” del 8 marzo 2017, n. 24 e legge “ Balduzzi” del 13. Settembre 212, n. 158).
Ad entrambi abbiamo chiesto di affrontare alcuni dei molteplici profili che sono emersi in questa fase di emergenza: i limiti della responsabilità individuale, la responsabilità delle strutture sanitarie per la diffusione del contagio, la sperimentazione clinica, i possibili scenari di una riforma legislativa.
Michela Petrini
3. Le risposte.
1)Anche nel quadro della responsabilità dello Stato per le cure mediche adeguate alla generalità della popolazione, a più riprese ma con precisi limiti ribadito dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo come espressione della tutela sostanziale del diritto alla vita (tra molte, v. Lopes de Sousa c/ Portogallo 19/12/2017), quali problemi e quali rischi può determinare l’odierna emergenza Covid-19 sul piano della responsabilità civile e penale degli operatori sanitari coinvolti in prima linea sul fronte del contrasto al contagio?
Cristiano Cupelli: tra i numerosi e densi spunti di riflessione che l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo pone all’attenzione del giurista vi è certamente, oltre alla necessità di limitare la diffusione dell’epidemia sanzionando chi viola gli obblighi di quarantena, anche quella, forse meno evidente, di garantire gli operatori sanitari, impegnati in prima linea nella salvaguardia della salute individuale e collettiva.
Molto si parla, nel dibattito mediatico e politico, dell’esigenza di dotare il personale sanitario, medico e infermieristico, degli indispensabili presidi a garanzia della loro incolumità, in ragione della loro fisiologica e inevitabile esposizione al pericolo di contagio (si contano, alla data del 2.5.2020, 154 morti tra i medici in attività e quelli pensionati, alcuni dei quali richiamati in attività, come riportato sul sito https.//portale.fnomceo.it della Federazione Nazionale degli ordini dei Chirurghi e degli Odontoiatri,) e, conseguentemente, di una successiva e massiva diffusione ulteriore, loro tramite, dell’epidemia.
Ma la diffusione a ritmo esponenziale dell’infezione e l’elevato numero di malati che necessitano di cure e ricovero soprattutto nei reparti di terapia intensiva (con uso di ventilazione assistita) o di pneumologia hanno drammaticamente messo in luce il limite delle risorse disponibili in termini tanto strutturali e organizzativi (numero di posti letto, disponibilità di farmaci e tecnologie) quanto soggettivi (presenza di personale medico ed infermieristico in numero sufficiente e con requisiti di specifica competenza e conseguente effettuazione di turni di lavoro massacranti).
Come è ormai ben noto, al cospetto di evidenti deficit di organico, nel tentativo di assicurare il più esteso livello di cura ci si è trovati costretti a fare ricorso, su base volontaria, ad altri operatori sanitari disponibili nella struttura, pure se privi del necessario livello di specializzazione in relazione al tipo di attività medica prestata. Da parte loro, in queste evenienze vi è un’assunzione volontaria del rischio; la particolarità della situazione emerge anche solo pensando come questa situazione sarebbe di norma punibile a titolo di colpa perché riconducibile alla violazione di una regola cautelare prudenziale, che dovrebbe condurre all’astenersi dall’attività. Senonché, è evidente l’iniquità di un siffatto esito, dal momento che il coinvolgimento di tali medici, pur in assenza della richiesta qualificazione specialistica, è spinto dalla necessità di prevenire il verificarsi di un evento avverso altrimenti non fronteggiabile per la carenza di soggetti adeguatamente qualificati disponibili in quel momento.
Oltre a ciò, va considerato come, nonostante gli sforzi organizzativi e finanziari a livello statale e regionale diretti ad aumentare il numero dei posti letto disponibili in terapia intensiva (trasformando e allestendo nuovi reparti, acquistando le tecnologie necessarie, incrementando il personale, ecc.), la potenza diffusiva della pandemia è ben più veloce e adombra l’allarmante scenario che sugli stessi medici possa persino ricadere, in certi casi, la tragica decisione, fra pazienti con diverse speranze e possibilità di sopravvivenza, su chi includere o escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione: in sostanza, la scelta di chi curare prima o addirittura non curare.
Emblematico, in tal senso, l’ulteriore incertezza determinata dalla contrapposizione tra la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Anelgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e il CNB (Comitato Nazionale per la Bioetica); la prima, infatti, ha pubblicato, lo scorso 6 marzo, le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, nelle quali non si escludeva la possibilità di fare ricorso a “criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”, condizioni che potrebbero anche rendere necessario “porre un limite di età all'ingresso in terapia intensiva”, in una logica che privilegi la “maggiore speranza di vita”.
Di contro, l’8 aprile, il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere “Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del ‘triage in emergenza pandemica’”, ha invece scelto una strada diversa, fissando il “criterio clinico” come il “più adeguato” per scegliere come allocare le risorse a disposizione in una situazione di emergenza come quella attuale, ritenendo ogni altro criterio “eticamente inaccettabile” e indica altresì tre condizioni che devono soprassedere al triage in emergenza: “la preparedness (predisposizione di strategie di azione nell’ambito della sanità pubblica, in vista di condizioni eccezionali, con una filiera trasparente nelle responsabilità), l’appropriatezza clinica (valutazione medica dell’efficacia del trattamento rispetto al bisogno clinico di ogni singolo paziente, con riferimento alla urgenza e gravità del manifestarsi della patologia e alla possibilità prognostica di guarigione, considerando la proporzionalità del trattamento), l’attualità, che inserisce la valutazione individuale del paziente fisicamente presente nel pronto soccorso nella prospettiva più ampia della comunità dei pazienti, con una revisione periodica delle liste di attesa”.
In questa situazione, allora, non è irrealistico immaginare, al di là di quello per la loro salute, un ulteriore fronte di rischio per gli operatori sanitari, legato alla possibile responsabilità per eventi avversi che si verifichino nell’ambito dell’emergenza epidemiologica: quante denunce e richieste di risarcimento è ragionevole attendersi nei loro confronti (e nei riguardi delle strutture sanitarie), all’esito del numero, inevitabilmente elevatissimo, di morti per o da coronavirus?
L’interrogativo, tutt’altro che retorico, trova spazio sugli organi di informazione e pone all’ordine del giorno l'urgenza di impedire che, da un lato, abbiano il sopravvento tendenze dirette a placare l’ansia con la ricerca di capri espiatori e, dall’altro che, profilandosi negli operatori sanitari le preoccupazioni per la propria incolumità giudiziaria, possa nell’immediato prevalere in loro sull’ammirevole spirito solidaristico dimostrato sinora il burnout, un logoramento che consuma l’energia della vocazione e produce stanchezza, frustrazione e rabbia, accompagnato dalla tentazione di atteggiamenti autocautelativi improntati a una sorta di medicina difensiva dell’emergenza (non si interviene più perché non si ha esperienza e competenza specifica o non si tentano cure non del tutto validate).
Ecco che allora emerge come ineludibile l’esigenza di fronteggiare a tutela degli operatori sanitari anche il c.d rischio penale: il che si concretizza in uno sforzo di personalizzazione della responsabilità, in chiave di necessaria limitazione della stessa, con riferimento agli esercenti le professioni sanitarie, attori fondamentali e insostituibili nella cura dei contagiati e nella tutela della salute collettiva, oggi celebrati come veri e propri “eroi nazionali”, che non possono perciò rimanere, una volta finita la pandemia, sovraesposti al rischio penale.
Giacomo Travaglino: la responsabilità dello Stato (in ipotesi modellata su quella da trasfusione di sangue infetto) mi sembra difficilmente configurabile, salvo casi di fornitura diretta, da parte del Ministero della Sanità, di materiale non idoneo, che sia stata la causa del danno. Vedrei con favore una legge che preveda una soluzione indennitaria (sulla falsariga della normativa sulle trasfusioni e dell'esperienza francese), ma ho dubbi che, allo stato, sia praticabile e sostenibile per il bilancio dello Stato.
L'attuale disciplina normativa (legge n. 24 del 2017) ha già notevolmente alleviato la posizione processuale degli operatori sanitari sul piano civilistico (più complessa appare la riforma di cui all'art. 6 della legge Gelli, che, modificando le originarie previsione della legge Balduzzi -più efficaci e di più agevole interpretazione - ha posto non poche questioni quanto alle tre forme di di colpa generica e quanto alla delimitazione della colpa grave per imperizia, su cui le stesse sezioni unite non sembra abbiano fatto definitiva chiarezza).
2. Ritiene che l’attuale elaborazione normativa e giurisprudenziale in tema di responsabilità medica sia idonea a fronteggiare questa eccezionale situazione, oppure le difficoltà nel fronteggiare un virus in relazione al quale gli studi scientifici non hanno ancora raggiunto approdi appaganti sono tali da rendere concreto il rischio di una “medicina difensiva dell’emergenza Coronavirus” o anche solo di arginare la spinta solidaristica che, in questi mesi, ha consentito di incrementare l’organico del personale sanitario disponibile ad operare negli ospedali? Quali i possibili costi e quali gli ulteriori eventuali profili di responsabilità per gli operatori sanitari?
Cristiano Cupelli: soffermandoci sul fronte penalistico, occorre preliminarmente interrogarsi sull’adeguatezza dell’attuale disciplina e in particolare dell’art. 590-sexies c.p., introdotto nel codice penale con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) e specificamente dedicato alla responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria.
L’attuale ‘scudo penale’, che consente all’operatore sanitario di essere esonerato dalla responsabilità per colpa, è allo stato (anche del contributo reso dalle Sezioni unite penali della Cassazione nella sentenza Mariotti del febbraio 2018): a) circoscritto alle sole fattispecie di omicidio e lesioni colposi; b) limitato alle sole ipotesi di imperizia non grave, riferibile al solo atto esecutivo; c) ancorato al rispetto di linee-guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali consolidate; d) in ogni caso subordinato a un vaglio di adeguatezza delle raccomandazioni contenute in siffatte linee-guida certificate alle specificità del caso concreto.
È sin troppo evidente come questa ristretta area di non punibilità colposa appaia assolutamente inidonea rispetto alle contingenze emergenziali nelle quali il personale sanitario è chiamato a operare nell’odierna fase di contrasto al Covid-19, in quanto:
i)non vi sono linee guida accreditate o pratiche consolidate a cui legare il giudizio di rimproverabilità o non rimproverabilità (vista la novità della patologia e la sostanziale mancanza, allo stato, di evidenze terapeutiche);
ii) le ipotesi di colpa (non punibili) da considerare nell’emergenza Covid-19 non possono essere limitate ai soli casi di imperizia non grave realizzati nella fase esecutiva, ma devono essere estese anche agli episodi di negligenza o di imprudenza non gravi (si pensi al difetto di attenzione derivante dal dover lavorare per molte ore consecutive, con ritmi massacranti o con insufficiente personale medico-infermieristico specializzato);
iii) vi è la necessità di esonerare da responsabilità penale gli operatori sanitari non solo per omicidio e lesioni colposi ma anche per epidemia colposa causata dalla mancanza di mezzi di protezione individuale o da un non adeguato isolamento dei pazienti derivante dalla incessante affluenza di malati al pronto soccorso.
A ciò, va aggiunto come, sul piano tecnico-giuridico, non si possa nemmeno, in queste ipotesi, fare affidamento sulla sola capacità ‘salvifica’ della c.d. misura soggettiva della colpa. Si tratta di una categoria certamente capace – in linea teorica – di fornire un adeguato strumento di valutazione delle emergenze ‘contestuali’ e personali, legate alle difficoltà contingenti in cui l’operatore sanitario è chiamato a svolgere la propria attività di cura e assistenza.
Questo tipo di accertamento fa leva sull’applicazione, anche in sede penale, della clausola generale contenuta all’art. 2236 c.c., che, in presenza di “problemi tecnici di speciale difficoltà” della prestazione professionale, limita la responsabilità del prestatore d’opera ai soli casi di dolo e colpa grave. Tuttavia, come è ben noto, la giurisprudenza penale in ben poche occasioni vi ha effettivamente fatto ricorso in ambito sanitario, degradando la disposizione civilistica da canone valutativo a mera clausola di stile.
Giacomo Travaglino: l'evoluzione giurisprudenziale degli ultimi 3 anni (a far data dalla sentenza 18392/2017 della Cassazione) sembra univocamente indirizzata nel senso di una maggior tutela del personale sanitario e di un maggior rigore imposto sul piano probatorio al paziente (segnatamente in tema di nesso di causalità e di causa ignota). Naturalmente, è difficile azzardare previsioni sul comportamento della giurisprudenza di merito a fronte di una situazione emergenziale che non ha precedenti nel nostro Paese e non solo. Può solo ipotizzarsi che una corretta applicazione della novella legislativa del 2017 e il rispetto dei recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità - cristallizzati nel cd. "progetto sanità", che ha trovato attuazione nelle 10 sentenze-pilota dell'11 novembre 2019 - possa costituire sufficiente garanzia per il personale sanitario (garanzia che non significa, ovviamente, impunità tout court).
2.Ritiene opportuni interventi normativi espliciti per arginare il pericolo che, una volta terminata l’emergenza, si trasformino i medici da “angeli ed eroi”, che spesso volontariamente si espongono anche al rischio di mettere a repentaglio la propria salute, in veri e propri “capri espiatori”, per esiti avversi legati al problematico contesto nel quale sono stati chiamati ad operare?
Cristiano Cupelli: preso atto che ci si trova al cospetto di una situazione emergenziale nuova, in cui – per le ragioni sin qui evidenziate, che rendono difficile e complesso anche quel che di regola e in condizioni ordinarie è facile e che abbattono le normali capacità di risposta anche per patologie diverse dal Covid, a fronte dello scompaginamento delle tradizionali modalità e priorità di intervento, cui si vanno ad aggiungere discusse iniziative di associazioni o studi legali che spingono a intraprendere azioni giudiziarie per presunte inadempienze nei confronti della classe medica (come stigmatizzato anche dal Consiglio Nazionale Forense oltre che da molti Consigli degli Ordini degli Avvocati su base territoriale) – non si può pretendere dal medico il rispetto delle cautele ordinariamente esigibili, la via obbligata sembra quella di introdurre un’apposita disciplina volta ad ampliare l’area di esonero da responsabilità colposa, plasmata sulle peculiarità della medicina dell’emergenza pandemica, che prospetti uno statuto penale ad hoc per la gestione clinica e assistenziale di tale rischio.
Nello stesso senso, la questione è stata di recente affrontata – con parole chiare – dal Comitato Nazionale di Bioetica, che, nel richiamato parere reso lo scorso 8 aprile, al punto 4.2., ha riconosciuto come - al cospetto delle “limitate risorse sanitarie disponibili durante l’emergenza, in termini tanto strutturali che organizzativi, incluso un organico spesso sottodimensionato, sia negli ospedali che nel territorio”; dell’esigenza di “dover lavorare per molte ore consecutive, con ritmi massacranti, a volte anche con dispositivi di protezione inadeguati, con un alto rischio di infettarsi e persino di morire” (corroborato dai numerosissimi decessi degli operatori sanitari); dell’incertezza scientifica che caratterizza la novità dell’attuale emergenza pandemica (nel combattere il contagio da Covid-19 si opera in assenza di linee guida consolidate, di buone pratiche clinico- assistenziali riconosciute come tali dalla comunità scientifica, di evidenze terapeutiche); della preoccupante “proliferazione di contenziosi giudiziari nei confronti dei professionisti della salute nel contesto dell'attuale emergenza pandemica” - “vada presa in considerazione l'idea di limitare eventuali profili di responsabilità professionale degli operatori sanitari in relazione alle attività svolte per fronteggiare l'emergenza Covid-19”.
Ebbene, dovrebbe trattarsi di un intervento di natura necessariamente sostanziale, volto ad da offrire alla magistratura i necessari strumenti per escludere il rilievo penale di determinate condotte ed operare più agevolmente – dopo – sul piano processuale.
Si tratterebbe, peraltro, di un intervento in grado di svincolarsi da taluni dubbi ‘tradizionali’ legati a una disciplina di maggiore favore per la classe medica sul piano della compatibilità con i principi costituzionali; non v’è chi non veda, infatti, come, sotto il parametro della ragionevolezza e dell’uguaglianza, la peculiarità di un siffatto regime di responsabilità penale troverebbe giustificazione nella pericolosità/difficoltà dell’attività sanitaria che, in questo momento, non è di certo paragonabile alla pericolosità/difficoltà di altre attività professionali, le quali non possono dirsi dotate di “un comparabile significato sociale” e non implicano, a loro volta, rischi altrettanto gravi per la vita o incolumità delle persone.
Ritengo che questo auspicato intervento normativo dovrebbe – all’interno di un ben definito campo di applicazione funzionalmente connesso alla gestione del rischio CODIV 19 e temporalmente limitato al perdurare dell’emergenza sanitaria – tenere conto di alcune direttrici di fondo:
a) limitare la responsabilità penale degli operatori sanitari alle sole ipotesi di colpa grave, di qualunque matrice colposa: oltre all’imperizia, dunque, anche condotte connotate da negligenza e imprudenza;
b) introdurre una definizione di colpa grave (sottraendola così all’assoluta discrezionalità giurisprudenziale), nella quale si dia peso rilevante ai fattori ‘contestuali’ ed ‘emergenziali’ (tra i quali, il numero di pazienti contemporaneamente coinvolti, gli standard organizzativi della singola struttura in rapporto alla gestione dello specifico rischio emergenziale, l’eventuale eterogeneità della prestazione rispetto alla specializzazione del singolo operatore);
c) valutare l’opportunità di allargare l’area di irresponsabilità colposa (sempre dei soli operatori sanitari) anche a fattispecie diverse da lesioni e omicidio (si pensi ad altri eventi avversi e alla possibile contestazione del delitto di epidemia colposa nei riguardi del medico costretto ad operare in assenza di adeguati presidi protettivi);
d) ragionare sul peso da attribuire, in una situazione di incertezza scientifica, al rispetto di linee-guida anche se non accreditate o di buone pratiche clinico-assistenziali non ancora consolidate.
In questa direzione sembravano peraltro orientate alcune proposte discusse in sede di conversione in legge del d.l. n. 18 del 2020 (c.d. decreto “Cura Italia”); la mancata convergenza, in sede politica, sull’opportunità di estendere l’esenzione di responsabilità anche al settore della responsabilità civile e soprattutto con riferimenti ai vertici amministrativi e gestionali delle strutture sanitarie ha impedito l’approvazione della proposta, trasformata in un ordine del giorno che ha impegnato il Governo ad avviare, in tempi molto rapidi, un tavolo di lavoro per approfondire il tema della responsabilità nei suoi vari aspetti, coinvolgendo rappresentanti del Governo, dei gruppi parlamentari, delle regioni e delle province autonome, dell’Ordine dei medici e di altre categorie direttamente chiamate in causa. Da ciò che risulta, il lavoro sta andando avanti e non possiamo che augurarci che, almeno sul fronte penalistico, tenga in considerazione le linee guida’ poc’anzi enucleate, che in gran parte erano state recepite nell’emendamento di maggioranza (primo firmatario il sen. Marcucci) presentato in Senato.
Una volta finita l’emergenza, se ne potrà trarre ulteriore beneficio in termini di più generale ripensamento della responsabilità colposa in ambito sanitario, riflettendo, da un lato, sull’esportabilità di una clausola definitoria generale di colpa grave che tenga esplicitamente conto dei c.d. fattori contestuali e, dall’altro, sui confini applicativi da assegnare alla non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p. oltre gli angusti limiti della sola imperizia lieve nella fase esecutiva.
Soprattutto, la pandemia improvvisa potrà meglio far comprendere come in sanità pubblica non possa essere trascurato l’obiettivo – ricordatoci da ultimo dal comitato Nazionale per la Bioetica - della preparedness, la capacità di essere pronti e reattivi nel campo delle emergenze, attraverso la valorizzazione delle competenze epidemiologiche, virologiche e di gestione di macro eventi, onde evitare che eventi quali le epidemie debbano essere affannosamente rincorsi, mettendo a repentaglio la salute di medici e cittadini.
Giacomo Travaglino: eventuali interventi normativi dovrebbero, in premessa, porsi l'interrogativo di fondo circa il risultato che ci ripromette di conseguire, se, cioè, evitare a monte il coinvolgimento dei medici nel processo, ovvero, a valle, garantir loro una più intensa tutela in sede decisionale. Nel primo caso, si potrebbe modellare l'intervento legislativo sulla falsariga dell'attuale normativa sulla responsabilità dei magistrati; nel secondo, potrebbe essere introdotto un articolo 2045 bis nel codice civile, prevedendo, come causa di giustificazione funzionale ad elidere l'antigiuridicità del fatto, la forza maggiore, con connessa inversione dell'onere probatorio (sarebbe il paziente a doverne provare l'a mancanza, nel caso di specie, e non il medico a provarne l'esistenza, secondo le ordinarie regole probatorie); ancora, si potrebbe introdurre l'art. 1218 bis nel codice civile, prevedendo che costituisca causa non imputabile, ai fini dell'affermazione della responsabilità del sanitario, la sproporzione tra le risorse disponibili e il numero dei pazienti determinatasi a seguito dell'emergenza da Covid 19 (come suggerito da Enrico Scoditti in un suo recente intervento su Questione Giustizia).
3. L’attuale pandemia ha posto nuovamente all’attenzione dei giuristi la tematica dell’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label. Ritiene che tale specifico aspetto debba essere preso in considerazione da una eventuale modifica normativa che delinei e adeguatamente circoscriva, semmai limitatamente alla fase della emergenza da Covid - 19, le ipotesi di responsabilità dei medici?
Cristiano Cupelli: nell’attuale condizione di incertezza scientifica e di assenza di terapie di comprovata efficacia, torna inevitabilmente ad assumere rilievo la tematica relativa all’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label (o fuori etichetta o fuori scheda tecnica), fenomeno dilagato negli ultimi anni e disciplinato dalle leggi n. 648 del 1996 e n. 94 del 1998, che riguarda le ipotesi in cui un farmaco venga prescritto per un’indicazione terapeutica diversa da quella contenuta nell’autorizzazione ministeriale di immissione in commercio (indicazione poi trasfusa nel foglietto illustrativo accluso alla confezione) ovvero l’indicazione terapeutica sia stata autorizzata, ma non sia stata autorizzata la via o la modalità di somministrazione in concreto prescelta.
La nuova e in gran parte sconosciuta patologia viene infatti affrontata, oggi, curando i sintomi attraverso l’impiego di medicinali commercializzati per altre indicazioni, i quali vengono resi disponibili ai pazienti, pur in assenza di indicazione terapeutica specifica per il Covid-19, sulla base di evidenze scientifiche spesso limitate; senza trascurare le ipotesi in cui per fronteggiare l’emergenza stessa si faccia un “uso compassionevole” del presidio farmacologico ricorrendo a prodotti in fase di sperimentazione (è il caso, ad esempio, del “Remdesivir”, molecola sperimentale pensata e testata dall’americana Gilead per combattere il virus Ebola e ora allo studio per il trattamento di Covid-19).
Va altresì aggiunto che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) attraverso una circolare emanata il 6 aprile ha, da un lato, fornito ai clinici elementi utili ad orientare la prescrizione e a definire, per ciascun farmaco utilizzato, un rapporto fra i benefici e i rischi sul singolo paziente con riferimento all’uso off label di medicinali in commercio in Italia; dall’altro, per quanto concerne l’uso compassionevole, ha adottato procedure straordinarie e semplificate per la presentazione e l’approvazione delle sperimentazioni e per la definizione delle modalità di adesione agli studi e di acquisizione dei dati; tutto ciò, in attuazione di quanto previsto all’art. 17, comma 5 dal decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, abrogato e sostituito dall’art. 40 del decreto-legge n. 23 del 2020, con il quale è stato inoltre istituito un comitato etico unico nazionale – individuato nel comitato etico dell’Istituto Nazionale Spallanzani di Roma – con il compito di provvedere alla valutazione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali per uso umano e dei dispositivi medici per pazienti con COVID-19 e di esprimere il parere nazionale, anche sulla base della preventiva valutazione della Commissione Tecnico Scientifica (CTS) dell’AIFA, sulle sperimentazioni cliniche dei medicinali per uso umano, degli studi osservazionali sui farmaci, dei programmi di uso terapeutico compassionevole per pazienti con Covid-19.
Ebbene, tornando alla prospettiva penalistica, il regime delle eventuali responsabilità connesse agli effetti avversi derivanti dalla somministrazione di un farmaco off label è chiamato, ancora una volta, a fare i conti con le carenze della disciplina attuale: in questo caso, seppure la procedimentalizzazione attuata nei termini appena segnalati dall’articolo 40 del decreto-legge n. 23 del 2020 (e prima ancora dall’art. 17 del decreto-legge n. 18 del 2020) proprio al fine di fronteggiare l’emergenza può innescare un meccanismo in grado di evocare una buona pratica (come qualificata nella pagina relativa al Corona Virus Desease del sito del Sistema Nazionale delle Linee Guida dell’Istituto Superiore della Sanità), questa sarebbe tuttavia priva di una sufficiente stabilità per i già segnalati deficit di certezza dell’attuale quadro scientifico che ne determinano una continua variabilità, cui si sommerebbero gli altri limiti strutturali che rendono comunque non risolutiva – come si è provato a dimostrare poc’anzi - la causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p.
Giacomo Travaglino: sui farmaci Off-label - e previa necessaria acquisizione del consenso informato del paziente - è possibile un intervento ampliativo delle regole della Convenzione di Oviedo del 1997 (credo...)
4. Ritiene configurabile una responsabilità in capo alle strutture sanitarie per l’eventuale diffusione intramoenia del contagio da Covid - 19? Quanto potranno influire nella valutazione l’organizzazione e la logistica della struttura e quanto, invece, l’eccezionalità della emergenza?
Cristiano Cupelli: il tema della responsabilità delle strutture sanitarie, su cui si è diviso il fronte politico nella discussione in Senato, è un punto estremamente delicato, che chiama in causa principalmente il profilo civilistico e amministrativistico. Ciò nonostante, la questione non è del tutto svincolata dal rilievo penalistico, dal momento che una volta esclusa in sede penale la responsabilità del singolo operatore occorrerà interrogarsi se e a quale titolo si potrà poi chiamare in causa la struttura. Per ragioni di uniformità, dunque, sarebbe auspicabile – in prospettiva di riforma - un allineamento dei regimi di imputazione della responsabilità; sulla falsariga di quanto prospettato nel corso dell'esame del decreto ‘Cura Italia’, anche in ambito civile ciò comporterebbe il dare rilievo alla sola colpa grave, potendosi altresì richiamare l'art. 651-bis c.p.p. quanto agli effetti, nel giudizio civile o amministrativo, della sentenza penale di proscioglimento pronunciata per mancanza di colpa grave a seguito di dibattimento.
Si potrebbe al contempo ipotizzare un indennizzo a carico dello Stato, a favore di medici e più in generale di esercenti le professioni sanitarie che si siano deceduti o abbiano subito danni permanenti a seguito di contagio nell’ambito del lavoro svolto in strutture sanitarie; tale soluzione avrebbe un non irrilevante effetto deflattivo del carico giudiziario, evitando la proposizione di azioni da parte di sanitari o loro eredi, dirette proprio a ottenere il risarcimento dei danni subiti nell’esercizio dell’attività lavorativa durante la fase emergenziale. Si potrebbe riflettere altresì sull’opportunità di prevedere forme indennitarie - in chiave di riequilibrio - anche nei confronti di familiari di pazienti deceduti, previo accertamento giudiziario della riconducibilità di tali eventi avversi a condotte dei sanitari connotate da colpa non grave (per le quali si sia previsto il prospettato esonero di responsabilità civili e penali).
Queste considerazioni, legate alla condizione degli operatori sanitari quali vittime del contagio nell’esercizio delle loro funzioni, ci consente di precisare ulteriormente come le responsabilità penali dei vertici amministrativi e gestionali – tema caldissimo, al centro di scontri politici accesi in merito all’estensione anche nei loro confronti di una clausola di esenzione della responsabilità – vadano necessariamente ancorate all’accertamento di eventuali violazioni da parte di coloro che rivestano posizioni apicali e ruoli decisionali di disposizioni cautelari volte a garantire la sicurezza sul lavoro degli operatori stessi che ne abbiano cagionato la morte o lesioni per colpa. Si tratta, dunque, di un capitolo distinto e svincolato da quello della responsabilità dei medici, a meno che questi ultimi non rivestano ruoli gestionali o che nei loro riguardi non emergano atteggiamenti di connivenza o addirittura complicità.
Ciò apre peraltro la strada, sempre sul versante penalistico, all’ipotesi anche di una responsabilità della struttura sanitaria ai sensi dell’art. 25 septies del d.lgs. n. 231 del 2001, in caso di omicidio e lesioni colposi nei confronti dei medici in caso di violazione di norme relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, qualora ovviamente ne ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi (vantaggio in termini di risparmio di spesa e colpa di organizzazione).
Ancora e infine, nel caso in cui dovesse emergere negli stessi operatori la consapevolezza dell’epidemia in atto in una determinata struttura e che gli stessi, per evitare pregiudizi economici e non spaventare i pazienti, non abbiano adottato scientemente le dovute precauzioni, contemplate in precise disposizioni protocollari che siano state macroscopicamente violate, si profila una vera e propria accettazione del rischio e dunque una responsabilità a titolo di dolo eventuale, con il paradossale corollario di escludere tuttavia la responsabilità dell’ente per l’assenza del reato presupposto.
Giacomo Travaglino: il tema delle infezioni nosocomiali è assai delicato, poiché la giurisprudenza di legittimità largamente maggioritaria è orientata nel senso di una responsabilità sostanzialmente oggettiva, in presenza di alcuni presupposti di fatto (assenza di infezioni pre-ricovero e sviluppo dell'infezione nelle 48 ore successive alle dimissioni). Anche in questo caso, potrebbe risultare utile un intervento normativo, che, peraltro, non mi sembra di facile attuazione
4. Conclusioni.
L’emergenza sanitaria ha introdotto nuovi aspetti che il legislatore (forse) e i giudici (certamente) dovranno esaminare per individuare l’eventuale grado della colpa del sanitario o, addirittura, per esonerare quest’ultimo da qualsivoglia rimprovero: la situazione organizzativa e logistica della struttura ove il paziente è stato ricoverato oppure ha ricevuto la diagnosi e/o la prestazione sanitaria; l’eccezionalità del contesto emergenziale; la dotazione di attrezzature, dispositivi di protezione e personale anche in rapporto al numero dei pazienti ricoverati ed alla gravità delle loro condizioni di salute, lo stato del sapere scientifico nel momento storico nel quale è stata effettuata la prestazione; il grado di specializzazione del singolo operatore sanitario.
La strada che verrà intrapresa è - allo stato - ancora incerta e molteplici sono gli scenari che si aprono all’orizzonte di medici che, finita l’emergenza e sciolto l’abbraccio di riconoscenza che oggi li accompagna, potrebbero vedersi costretti a percorrere non più le corsie delle terapie intensive, ma i corridoi dei tribunali italiani.
Ciò che sicuramente non è auspicabile, per il futuro, è una acutizzazione dei conflitti e delle controversie tra pazienti e medici; la drammaticità della situazione vissuta dovrebbe essere l’occasione per rafforzare una alleanza, che, oggi più mai, deve essere non solo terapeutica, ma deve esplicarsi in un vincolo solidaristico di comunità che si snodi attraverso la lealtà della comunicazione, l’ascolto e la fiducia reciproca.
Sanatoria dei clandestini: tanti buoni motivi per dire sì
Intervista a Stefano Mantegazza, segretario generale Uila-Uil
a cura di Fabrizio De Pascale
In queste ultime settimane si sta affrontando su più tavoli il tema della sanatoria dei clandestini.
La Ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, ieri ha dichiarato apertamente che “scegliere la via della sanatoria significa decidere da che parte stare: se con la legalità e la tutela del lavoro, in agricoltura e dovunque, o con i caporali, la criminalità, la concorrenza sleale che danneggia le migliaia di aziende che scelgono la competitività sana e difendono ogni giorno il valore della responsabilità sociale dell'impresa”.
Il tema riguarda le centinaia di migliaia di clandestini che vivono in Italia ed è un tema da affrontare con urgenza per far fronte ad una situazione aggravata dalla pandemia. La cronica carenza di manodopera in agricoltura è aggravata dall’assenza dei migranti stagionali che abitualmente arrivano nel nostro paese in primavera per le operazioni di raccolta e che a causa della pandemia quest’ anno non arriveranno.
Quali in questo contesto le ragioni del sì alla sanatoria dei clandestini?
Stefano Mantegazza: la presenza di stranieri irregolari nel nostro paese rappresenta una costante nella nostra vita quotidiana con migliaia di persone impegnate nei mestieri più umili o anche semplicemente nell’accattonaggio. Solo che preferiamo non chiederci dove va a dormire il “vu cumprà” che, di giorno, vende i giornali in spiaggia o fa il posteggiatore abusivo. Solo una parte è occupata illegalmente nel settore agricolo.
Comunque se affrontassimo la questione con la testa e il cuore, scopriremmo che l’Italia ha un disperato bisogno di aprire le porte a lavoratori provenienti da altri paesi.
Qualche numero vale di più di molte parole. In Italia nel 2019 sono state registrate 435.000 nascite e 647.000 decessi ( ndr: nel 2020 sappiamo che il numero sarà molto più alto, come emerge dai dati Istat relativi al solo mese di marzo). È come se una città popolosa come Padova fosse improvvisamente sparita. Questo calo procede ininterrottamente da 5 anni e porta con sé una conseguenza evidente: il paese diventa sempre più vecchio e quindi più malato, più stanco, meno disponibile a investire sul proprio futuro.
Gli italiani fanno pochi figli, il tasso di natalità è di 1,29 per donna. Nel 2038 gli over 65 saranno un terzo della popolazione. Dobbiamo prendere atto che, come dice l’Istat, il ricambio generazionale è ormai compromesso e che abbiamo disperatamente bisogno di persone giovani, dinamiche, desiderose di costruire il loro futuro nel paese in cui decidono di vivere.
Per cui dobbiamo preoccuparci non se arrivano gli stranieri ma, al contrario, se smettono di arrivare.
Dobbiamo allargare la nostra comunità e integrarci con altre che si devono impegnare e rispettare il nostro ordinamento, le nostre leggi.
Qual è la situazione dell’integrazione degli stranieri in Italia?
Stefano Mantegazza: in Italia l’integrazione è in atto da tempo e con risultati positivi. Anche in questo caso i numeri, poco conosciuti ai più, ci aiutano. Pochi sanno che il 20 % dei bambini nati nel 2019 hanno madre straniera o che il Pil prodotto da lavoratori stranieri regolari rappresenta il 9% del totale, circa 139 miliardi. C’è poi un altro dato che spiega quanto queste persone rappresentino per noi una speranza futura: negli ultimi dieci anni il numero di imprenditori italiani è diminuito del 10% mentre quello dei nati all’estero si è impennato del 41%.
Gli stranieri che vivono in Italia versano tasse per 3,5 miliardi di euro e quasi 14 miliardi di contributi previdenziali e assistenziali, pagando buona parte delle nostre pensioni. La realtà è che l’integrazione è già in atto, da buoni risultati e sarebbe nostro interesse regolarla e trasformarla da un movimento spontaneo a un percorso ordinato e ben organizzato.
Queste le ragioni della testa e il cuore che racconta?
Stefano Mantegazza: il cuore ricorda la leggenda di Enea che fugge da Troia in fiamme con il padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Ascanio per mano. Vagherà per tutto il Mediterraneo prima di arrivare a stabilirsi definitivamente in Italia. La realtà è che siamo tutti immigrati e che il Mediterraneo, nel corso dei secoli, ha visto quasi quotidianamente ripetersi le stesse storie. C’è chi scappa da guerre, da carestie e da persecuzioni e cerca un’altra patria.
Immigrazione, accoglienza, integrazione sono parole che portano con sé un percorso complesso, per nulla scontato. Accoglienza significa, non aver paura dello straniero, non considerarlo “diverso” perché appartiene a modelli etici, religiosi e culturali differenti. È una scommessa che dobbiamo vincere dentro di noi. Sarebbe tutto più facile se provassimo tutti, a partire dalla politica, a risolvere paure e contraddizioni con scelte chiare. Dovremo prevedere flussi di immigrati regolari più consistenti, almeno 100.000 l’anno, favorendo gli stranieri che abbiano competenze e attitudini rispondenti alle reali esigenze del nostro tessuto produttivo.
Occorre puntare alla loro integrazione attraverso politiche attive del lavoro e, per quanto riguarda le seconde generazioni, contrastare l’abbandono scolastico e l’esclusione sociale. Cercare competenze in aree dove abbiamo o avremo carenze: per esempio, l’agricoltura, l’alimentare e le professioni sanitarie. Dovremo utilizzare la rete di rappresentanza all’estero per attirare e selezionare questa immigrazione qualificata.
Tra l’illusione del “meglio soli” e la certezza che da soli si è semplicemente soli, noi continueremo a perseguire un percorso di “cittadinanza attraverso il lavoro”, accompagnando l’immigrato e la sua famiglia sulla strada dei diritti e dei doveri, di giuste rivendicazioni e di inevitabili responsabilità. È la via del Sindacato, libera associazione di donne e uomini liberi ma anche di una “comunità educante” che ha nel rispetto per l’altro e nell’integrazione, i suoi valori fondanti.
Sul problema della sicurezza cosa dice?
Stefano Mantegazza: È importante non confondere il tema della sicurezza che lo Stato deve garantire a tutti, con quello della integrazione con gli immigrati. Mi spiego meglio: gli spacciatori vanno arrestati al di là del colore della pelle. Chi spara va arrestato, a prescindere dalla sua provenienza. Chi violenta, deve essere perseguito al di là della sua nazionalità. Non si deve delinquere, non si deve uccidere: i crimini non hanno nazionalità. Il problema è rafforzare, comunque, la presenza dello Stato sul territorio.
I clandestini in Italia vanno regolarizzati, non solo per una scelta di civiltà ma per un motivo in più: la pandemia da cui stiamo a fatica uscendo.
Solo dando un documento di identità e una tessera sanitaria agli oltre 500 mila fantasmi che si aggirano nel nostro paese si può diminuire il rischio epidemiologico portato da persone che vivono in contesti degradati e rifuggono dagli ospedali, anche quando sono malati. Ora che il paese riparte, anche i clandestini torneranno a uscire dai ghetti in cui vivono per cercare lavoro. Vanno censiti e identificati. In questo contesto di emergenza, quindi, questa sarebbe anche una scelta a tutela di tutti sul versante della sicurezza sanitaria.
La sua conclusione è quindi regolarizzare tutti e subito?
Stefano Mantegazza: la sanatoria potrebbe cominciare da quelli che sono in condizione di ricevere una proposta di lavoro perché già censiti.
Io comincerei dai cittadini stranieri che hanno già lavorato regolarmente in Italia e che sono diventati irregolari perché, in conseguenza dell’emergenza Covid 19, hanno perso il lavoro e non hanno potuto rinnovare il loro permesso di soggiorno. Si tratta di una platea circoscritta che potrebbe colmare la carenza, urgente e indifferibile, di manodopera agricola in alcune aree del Paese. Sono lavoratori stagionali che avendo già lavorato in Italia sarebbero immediatamente disponibili al lavoro. Essendo già censiti, l’emanazione di un nuovo permesso di soggiorno non dovrebbe richiedere nessuna particolare verifica di carattere burocratico.
La conferma dei termini previsti dall’attuale normativa per il lavoro stagionale rappresenterebbe solamente la possibilità per questi lavoratori di avere a disposizione un’altra opportunità rispetto alla precedente. Tale opportunità, si potrà concretizzare in una stabilizzazione della loro presenza in Italia, con le stesse regole già vigenti per gli ingressi stagionali.
Per gli altri ci vorrà sicuramente più tempo. Rilasciare un nuovo permesso di soggiorno a dei clandestini “sconosciuti” richiede “una serie di verifiche burocratiche” dai tempi molto lunghi e dall’esito non scontato. Ma questo non deve far dimenticare l’esigenza del nostro paese di poter contare su tanti nuovi cittadini per il suo futuro.
Emergenza pandemica, diritto di visita dei familiari in r.s.a. e questioni etico-giuridiche nella giurisprudenza inglese
di Mario Serio
Sommario: 1. La frequenza delle scelte etiche nell'esperienza giuridica inglese: conflitti ed allineamenti tra fattispecie e principii. La propensione della giurisprudenza inglese a misurarsi con la Convenzione europea sui diritti umani del 1950 e lo Human Rights Act del 1998; 2. Il sistema delle Corti specializzate nel common law inglese: ragioni e dubbi. La Court of Protection ed il Mental Capacity Act del 2005; 3. Il caso BP and Surrey County Council and RP deciso nel marzo 2020 dalla Court of Protection: le possibili limitazioni agli incontri con i propri familiari imposte alle persone dichiarate incapaci; 4. Brevi considerazioni finali: il ruolo del giudice inglese nella decisione intorno a questioni di coscienza.
1. La frequenza delle scelte etiche nell'esperienza giuridica inglese: conflitti ed allineamenti tra fattispecie e principii. La propensione della giurisprudenza inglese a misurarsi con la Convenzione europea sui diritti umani del 1950 e lo Human Rights Act del 1998
Se è vero che l'esperienza giuridica è destinata, nel suo continuo divenire, a piegarsi, a conformarsi, a ripensarsi e ad essere ripensata in stretto rapporto alle mutevoli, cangianti, imprevedibili esigenze della vita individuale e collettiva, così andando incontro al non agevolmente evitabile rischio di discontinuità nella sua rappresentazione e nella natura delle risposte che da essa derivano, non è per questo da trascurare che il discorso giuridico, inteso come scenario di impronta teorica che attorno ad essa viene razionalmente organizzato, sappia in via tendenziale manifestare la capacità di strutturarsi attraverso criteri argomentativi orientati a, ed ispirati da, principii. Tanto più se il corso degli eventi che genera la necessità di riallineamento tra tradizione ed innovazione ha evidente matrice etica (o anche bioetica)[1] e, comunque, impegna scelte metagiuridiche.
Da anni, ed in susseguenti, rilevanti occasioni, nel common law inglese, ed anche in ordinamenti continentali, si agitano questioni, riferibili a singolari, laceranti casi della vita[2]. Sin da adesso può osservarsi che la locuzione “in the best interest of” (di volta in volta il paziente, il minore[3], l'incapace) racchiude, costituendone suggestivo simbolo, il nucleo centrale delle questioni implicate dalla costruzione del fenomeno giuridico su un fondamento che sviluppa conoscenze, valutazioni, decisioni eccedenti il semplice ambito del diritto positivo. Il diritto inglese è stato in tempi recenti attraversato da domande di giustizia di talmente profonda tessitura morale da imporre orientamenti giurisprudenziali, preceduti o seguiti da significativi commenti dottrinari, che, animati come non potevano non essere da sofferte considerazioni conducenti appunto alla individuazione del genere di interesse di cui si discute, hanno aperto la strada ad importanti opinioni, anche aspramente divise. Circostanza, questa, che di per sé né affievolisce l'intimo valore della singola scelta né meccanicamente dovrebbe indurre all'auspicio che le scelte stesse siano avulse da inevitabili nodi problematici e controversi, come è nella natura della materia discussa. Ed allora, un primo motivo di interesse nei riguardi di questo genere tematico è costituito dalla ricognizione estesa delle ipotesi più comunemente presenti nella quotidiana esistenza che richiamino, a propria volta, tutte le formazioni di giuristi al compito di misurarsi con nuove categorie di giudizio, aspirando ad una classificazione in senso tassonomico delle “rationes decidendi” e, in genere, degli argomenti spesi a suffragio od in opposizione ad esse.
Ma non è solo euristico lo scopo di questo tipo di ricerca: essa, invero, cospira a guidare chi la pone in essere verso la sponda del dialogo interordinamentale europeo, al cui interno è ben possibile, come il prosieguo del lavoro si propone di render chiaro, reperire testimonianze di un filo unico di riflessione, non importa quanto diversificata nelle conclusioni.
Un netto sintomo di questa interazione tra sistemi giuridici differenti, ma utilmente integrabili nel rispetto delle reciproche autonomie, può percepirsi nella travagliata storia riguardante il neonato inglese affetto da una grave ed irreversibile patologia neurodegenerativa congenita[4]: si trattava di stabilire se l'ospedale che aveva in cura il piccolo malato potesse sospendere il trattamento terapeutico, particolarmente invasivo e responsabile di probabili sofferenze, inidoneo a conferire alcun benefico e duraturo risultato che potesse prevenire o debellare il certo ed imminente esito infausto. Alla drammatica prospettiva si opposero sia i genitori del bambino sia il suo curatore speciale (“guardian ad litem”) nominato per la miglior tutela processuale della sua posizione, assumendo la sussistenza di una possibilità terapeutica vagliata come possibile da un clinico statunitense, seppur dai circoscritti e congetturali margini di successo. La disputa si concentrò sulla determinazione della congruenza del nuovo tentativo terapeutico rispetto al massimo interesse del minore. La risposta fu unanimemente negativa nei tre gradi di giudizio ed essa fu giudicata del tutto compatibile con le norme convenzionali dalla Corte europea dei diritti umani[5]. Non è questa la sede per ripercorrere puntualmente le concordi sentenze, tutte votate alla confutazione della ricorrenza di una sufficiente base scientifica a sostegno del tentativo terapeutico adombrato[6], che avrebbe con ogni verosimiglianza aggravato lo stato di dolore provocato dalla malattia ed esposto il piccolo paziente ad un disagevole trasferimento presso strutture ospedaliere americane senza in alcun modo garantire un accettabile grado di prognosi favorevole, anche in termini di miglioramento delle condizioni generali o di allungamento delle aspettative di vita, rispetto alla acclarata previsione di un brevissimo periodo residuo di sopravvivenza. Di sicuro interesse ai fini del presente studio si rivela piuttosto la chiara definizione, fatta propria nella interpretazione del diritto interno dalla Corte EDU, della locuzione “best interests of the patient” presa a mutuo da un precedente del 2006 della House of Lords[7], intesa come ogni tipo di considerazione medica, emotiva, sensoriale, istintiva capace di avere un impatto sulla decisione[8]. Da una siffatta configurazione si comprende l'esattezza della posizione di chi motivatamente afferma la insovrapponibilità della volontà genitoriale rispetto a quella del minore al fine della protezione del relativo interesse[9], che, infatti, dal punto di vista processuale è autonomamente rappresentato, come visto, da un curatore speciale (“guardian ad litem”) appositamente nominato.
In altre non meno stimolanti ed ardue occasioni la giurisprudenza inglese si è trovata, negli anni '10 di questo secolo ad occuparsi della linea di confine che contraddistingue il perimetro del “best interest” della persona necessitante della tutela ordinamentale[10]: se si è preferito estrapolare da questa lista il caso Charlie Gard è solo per la sua attitudine esemplarmente riassuntiva del nugolo problematico che si addensa intorno a questioni di bioetica, che saranno di nuovo riprese nel paragrafo finale.
La completezza del discorso vuole che si faccia anche menzione di una decisione della stessa Supreme Court dell'anno successivo[11] che, in un caso in cui si discuteva circa la necessità che l'ospedale presso il quale era ricoverato un paziente insuscettibile di qualsiasi miglioramento e dalla prognosi irreversibilmente negativa, si trovò a pronunciarsi sulla richiesta della stessa struttura, pur in presenza dell'assenso dei familiari, dell'autorizzazione giudiziale alla sospensione delle terapie. La Corte delineò i casi in cui è imprescindibile la pronuncia della magistratura, identificandoli in quelli in cui vi sia discordanza di opinioni mediche o dissenso dei familiari in ordine alla proposta sospensione del trattamento. Nel decidere la Supreme Court dichiarò di attenersi al ragionamento, ritenuto del tutto applicabile alla fattispecie, sviluppato in un caso precedente giudicato dalla Corte EDU[12] in cui si era detto che in simili evenienze i giudici non autorizzano un trattamento sanitario che sarebbe altrimenti antigiuridico ma si limitano a verificare la legittimità della sua eventuale interruzione[13]. Nella sentenza del 2018, redatta dalla Presidente del Collegio, Lady Hale, è stata anche richiamata adesivamente la pronuncia della medesima Corte, ancora una volta con la medesima redattrice, di cinque anni precedente[14]. In essa i giudici di ultima istanza, nel condividere il diniego opposto dal primo giudice alla richiesta della struttura ospedaliera di porre fine al trattamento terapeutico di un paziente in stato comatoso , sottoposto a ventilazione forzata e privo di prospettive di guarigione benché i parenti avessero convenientemente dedotto che egli sembrava aver manifestato la volontà di essere tenuto in vita, avevano, tuttavia, sottolineato come, a tenore del Code of Practice annesso al Mental Capacity Act del 2005, dovesse ritenersi rispondente al “best interest” della persona in cura la cessazione delle terapie volte a fornire supporto vitale ogni volta che queste possano apparire futili in termini di risultato, troppo pesanti o incapaci di assicurare concrete possibilità di guarigione[15].
Prima di ascrivere al novero di tali questioni anche quelle, di recente, dirompente avvento, riguardanti i rapporti tra situazioni emergenziali e godimento di diritti direttamente riferibili agli “status”[16] familiari, nell'accezione di condizioni soggettive meritevoli di particolare e rafforzata considerazione ordinamentale, conviene soffermarsi introduttivamente sull'atteggiamento di indiscutibile e rispettosa cooperazione instaurato e continuativamente perseguito tra la giurisdizione inglese e quella europea in materia convenzionale di diritti dell'Uomo. Può bastare a questo punto menzionare l'assenza di barriere intellettuali o di gelosie sciovinistiche che hanno consentito, sin dall'entrata in vigore nel Regno Unito nel 2000 dello Human Rights Act del 1998[17], un fruttuoso scambio di indirizzi interpretativi delle disposizioni convenzionali in termini di identificazione della circonferenza dei diritti ivi garantiti e dei relativi ambiti di affermazione[18]. E', infatti, costante il riferimento da parte dei Giudici del common law inglese alle pronunce della Corte di Strasburgo ed ai principii in esse enunciati, concepiti come parametri di valutazione della compatibilità con la Convenzione del 1950 delle disposizioni, legislative, amministrative, giudiziali, interne. Che di disposizione culturale del tutto amica ed armoniosa è esplicitamente confermato dalla profusa motivazione della Corte europea dei diritti umani nella sentenza del 2017 sul caso Garde laddove respinge tutte le censure di allontanamento dai principii convenzionali sul diritto inviolabile al rispetto della vita umana mosse dai genitori del minore alle conformi sentenze inglesi. Sembra, pertanto, che questa piena compenetrazione nel tessuto ordinamentale inglese non sia il semplice frutto dell'ingresso della Convenzione nel sistema interno per effetto della legge traspositiva, spiegandosi, al contrario, come prodotto della convinta e meditata adesione ad un complesso di valori che trascende l'elemento geografico e si proietta in un vasto orizzonte di “ius commune europeum”.
2. Il sistema delle corti specializzate nel common law inglese: ragioni e dubbi. La Court of Protection ed il Mental Capacity Act del 2005.
L'ordinamento inglese ha mostrato un'immutata nel tempo inclinazione a creare settori di giurisdizione dedicati alla trattazione di materie ed affari specialmente richiedenti competenza e sensibilità nei giudici ad essa destinati. Non si tratta della costituzione di plessi giurisdizionali speciali, ossia del tutto estranei all'ordinario circuito giudiziario (si pensi che delle Corti specializzate vengono normalmente chiamati a far parte magistrati che esercitano le proprie funzioni in uno dei tre livelli delle giurisdizioni superiori), quanto di organi versati nella risoluzione di categorie di questioni di tale rilevanza e frequenza da suggerire che di esse si occupino settori operanti in via esclusiva. Si potrebbe dire, aderendo ad un ordine concettuale e terminologico proprio del sistema processuale italiano, che si è di fronte a Giudici titolari di una specifica, inderogabile competenza funzionale. Alla loro qualificata azione il mondo professionale e quello degli utenti della giustizia è da sempre positivamente assuefatto per la fiducia nutrita nella vasta esperienza maturata da chi le amministra.
Una cura precipua il legislatore inglese ha tradizionalmente riservato alle materie interferenti con la condizione giuridica delle persone[19], la cui situazione individuale, per ragioni fisiche o mentali, reclami interventi e misure rivolti all'eliminazione, anche attraverso azioni positive, di ogni svantaggio o fattore sfavorevole alla piena e soddisfacente esplicazione della relativa personalità o alla realizzazione delle rispettive esigenze.
Il Mental Capacity Act del 2006 rappresenta uno dei capitoli legislativi meglio descrittivi di questa tendenza normativa diretta alla configurazione di un sistema integrato e razionale di disposizioni a tutela delle persone ricadenti nel suo raggio applicativo.
Questa legge, coeva all'approvazione del fondamentale Constitutional Reform Act dello stesso anno, istitutivo della Supreme Court, reca nel preambolo il proprio contrassegno teleologico: provvedere alla predisposizione di norme in tema di persone prive di capacità di agire; prevedere la istituzione, in luogo del precedente omonimo organo, di una Corte di rango superiore munita di apparato organizzativo e documentario completo (una Court of record[20]) denominata Court of Protection; emanare disposizioni aventi nesso con la Convenzione internazionale per la protezione delle persone adulte sottoscritta all'Aja il 13 gennaio 2000 e con gli scopi relativi[21]. Ben può dirsi che al patrimonio normativo del common law inglese è venuto ad essere ascritto un autentico statuto delle persone affette da incapacità correlabile ad una menomazione delle facoltà mentali-cognitive ,vale a dire un complesso organico di disposizioni, sia sostanziali sia processuali, il cui oggetto è formato dalla descrizione di una figura soggettiva dalle irripetibili caratteristiche implicanti una risposta ordinamentale in senso solidaristico e tale da ridurre, se non eliminare, la distanza psicologica, emotiva, pratica rispetto ad ogni altro soggetto di diritto. Di alcune di esse, per la loro diretta incidenza sugli angoli visuali di questo studio, è utile il richiamo. In primo luogo è posta la presunzione “iuris” di capacità fino alla prova contraria consistente in una pronuncia giurisdizionale: nel medesimo senso si prevede che a tale risultato deprivativo possa solo giungersi dopo l'infruttuoso esperimento di ogni tentativo di prevenirlo; nè tale estrema soluzione potrebbe giustificarsi sulla base esclusiva della constatazione che la persona ha preso decisioni poco sagge. Se quelle appena citate si prospettano come disposizioni protettive della persona in senso preventivo della dichiarazione di incapacità, altre intervengono a delinearne lo “status” nell'ipotesi che tale situazione sia effettivamente venuta in essere. La prima e principale, di assorbente rilievo in questa sede, consiste nella proclamata necessità che ogni atto o provvedimento afferente alla persona incapace ne presupponga la piena conformità al suo interesse e risponda, in ogni caso, all'imperativo di contenere al massimo la compressione dei relativi diritti e della libertà d'azione. L'opzione legislativa si esprime nel senso che a legittimare le misure incapacitanti debba essere l'inettitudine della persona a decidere autonomamente ovvero di comprendere o ritenere i dati informativi sui quali fondare la decisione. Anche la nozione del prima evocato criterio del “best interest” è declinata secondo un modello definitorio rivolto a preservare, seppur in forma deduttivo-ipotetica, la volontà della persona in quanto chi è chiamato a rappresentarla è tenuto, nella prefigurazione di ciò che più fedelmente corrisponda all'interesse del rappresentato, a porsi l'interrogativo circa la possibilità che in futuro questi possa riacquistare la capacità di amministrarsi in relazione ad uno specifico oggetto, sì da non rendere irreversibilmente opponibile all'interessato la scelta da altri per suo conto effettuata e, quindi, permanente la condizione limitativa. Questa, a propria volta, non può giammai convertirsi in un'indebita privazione della libertà personale, se non nei casi in cui essa consegua ad un ordine giudiziale volto anche a surrogare in casi di necessità la carenza di condizioni limitative della libertà stessa ed in particolare ad un provvedimento disposto in vista della somministrazione alla persona incapace di trattamenti sanitari vitali e, comunque, necessari per ragioni di mantenimento in esistenza. Egualmente non infrange il divieto di impedire la libertà della persona l'iniziativa che chi è chiamato a prendersene cura assuma nella ragionevole convinzione che essa valga a prevenire pregiudizi all'incapace.
In tale contesto normativo di somma protezione della persona e della personalità dell'incapace si pongono le fitte previsioni (sezione 46 ss.) che disciplinano la Court of Protection, determinandone prerogative, competenze, funzionamento. Proprio in omaggio all'obiettivo di contemplare un giudice funzionalmente competente, nei termini prima precisati, viene avvertita come indispensabile l'attribuzione ad un giudice specializzato, perchè preventivamente selezionato dal Lord Chief Justice[22] nei ranghi della Family Division della High Court (il cui complesso di poteri, facoltà, attribuzioni è espressamente riconosciuto in capo alla medesima Court of Protection, presieduta, appunto, dal Presidente della stessa Family Division), della cognizione degli affari ricadenti nella sfera giuridica delle persone dichiarate incapaci ai sensi dello stesso Mental Capacity Act del 2005. Largo è il terreno di azione garantito alla Corte. Essa esercita, in particolare, le proprie funzioni per quanto attiene: all'accertamento delle necessarie facoltà cognitive al fine di assumere decisioni consapevoli da parte di singole persone; alla nomina di rappresentanti per il disbrigo dell'ordinaria amministrazione a favore di persone che non sarebbero capaci di provvedervi; alla definizione di istanze e ricorsi aventi carattere di urgenza proposti nell'interesse di persone incapaci; all'attribuzione di poteri duraturi o temporanei di rappresentanza di persone incapaci; all'autorizzazione a compiere per costoro atti di ultima volontà o di disposizione a titolo di liberalità di propri beni; alla decisione circa la possibile limitazione della libertà di persone incapaci. L'individuazione delle varie forme di provvedimenti adottabili nei confronti delle persone incapaci, ed il relativo regime autorizzatorio (sia di natura ordinaria sia di natura urgente), nonchè l'identificazione delle disparate categorie di soggetti muniti di specifici ruoli istituzionali nella vita ,nelle relazioni e nella costante valutazione delle condizioni psico-fisiche delle persone dichiarate incapaci formano poi oggetto di numerose, puntuali disposizioni di carattere sostanzialmente regolamentare e sono contenute in due delle appendici (rispettivamente Schedule A1 e AA1) alla legge. Questa, come si è già avuto modo di richiamare alla mente, si muove lungo un crinale di respiro sovranazionale, tanto riconducibile - e questo sarà il principale motivo di trattazione nella prossima parte - all'arena europea quanto collegato a Convenzioni internazionali di ancor più spaziosa portata.
E' all'interno del descritto quadro normativo che si inscrive una recente pronuncia della Court of Protection di sicura rilevanza nell'ambito della delimitazione del complessivo “legal status” delle persone dichiarate incapaci e della attenzione loro riservata nel generale contesto transanazionale, di decisivo impatto nell'economia del peculiare caso.
3. Il caso BP and Surrey County Council and RP deciso nel marzo 2020 dalla Court of Protection: le possibili limitazioni agli incontri con i propri familiari imposte alle persone dichiarate incapaci
Il caso di recente deciso dalla Court of Protection nelle fasi iniziali, almeno per il Regno Unito, della pandemia nota come SARS 2-Covid 19 aggrega in sé, in forma paradigmatica, alcune delle maggiori questioni etico-giuridiche che sono solite presentarsi con riferimento ad ipotesi ricadenti nell'ambito della disciplina posta dal Mental Capacity Act del 2005. E ciò sia per ciò che attiene alle condizioni legittimanti l'adozione di provvedimenti a tutela delle persone per qualunque causa rese incapaci di porre in essere decisioni autonome sulla base dell'acquisizione in forma critica e ritenzione delle necessarie informazioni che ne costituiscono il presupposto storico e logico sia relativamente alla puntuale determinazione del loro “best interest” nelle circostanze date.
Quel che si può già adesso anticipare a proposito della locuzione appena riportata è la straordinaria flessibilità una volta di più esibita dalla giurisprudenza inglese nell'adattarla alle singole circostanze, di guisa che non di una singola, statica nozione possa parlarsi ma di un nucleo concettuale mobile in diretta proporzione alle esigenze ed alle caratteristiche soggettive della persona (minore, malato, totalmente o parzialmente incapace) della cui posizione e dei cui specifici interessi debba tenersi conto nell'apprezzamento e nella statuizione giudiziale.
I fatti da cui si è diramata l'urgente richiesta di intervento in forma monocratica della Court of Protection vanno così brevemente riepilogati e risalgono alla seconda metà del mese di marzo 2020. Presso unna struttura ospedaliera specialmente dedicata alla cura di pazienti anziani anche sofferenti di patologie di rilievo neurologico e cerebrale, rientrante nella vigilanza e nell'organizzazione di un'autorità locale (il Surrey County Council) si è trovato in quei giorni ricoverato un uomo di 83 anni, affetto da disturbi cognitivi che ne riducono l'attitudine ad adottare decisioni responsabili e a comprendere pienamente gli effetti della malattia neurologica nonché da ipoacusia. A seguito di una consulenza medica disposta in conformità del Mental Capacity Act 2005 egli, sin dal 12 agosto 2019 (dopo un inziale ricovero a far data dal 25 giugno 2019), è stato giudicato (sebbene definito come soggetto in grado di capire e ritenere la maggior parte delle informazioni veicolategli) incapace di autodeterminarsi congruamente in quanto colpito dalla malattia di Alzheimer e, pertanto, sottoposto, attraverso uno dei provvedimenti previsti per simili evenienze dalla legge in parola ( una “standard authorisation”), al regime di ricovero, a proprie spese, nella casa di cura fino al 3 giugno 2020, allorchè sarebbe stato sottoposto a nuova valutazione delle proprie condizioni. Con costante regolarità il paziente ha sempre ricevuto visite dai propri familiari, in particolare di una delle figlie con cadenza quotidiana e della moglie trisettimanalmente. Ripetutamente egli, dal momento della “deprivation of liberty” (tale considerandosi nel lessico legislativo la condizione del destinatario del prima descritto provvedimento), ha senza alcuna ambiguità espresso il proprio desiderio di ritornare a casa, cui si è frapposta l'efficacia della disposizione incapacitante. Con una lungimiranza (che in Italia sarebbe stata auspicabile da parte degli enti territoriali con riferimento ai problemi dei degenti nelle residenze sanitarie assistite) forse sfortunatamente mancata a livello politico, prima ancora che il Governo inglese adottasse misure di contenimento della diffusione e della trasmissione della pandemia (pur non così radicali come quelle di cui si sta per dire), ed esattamente con un anticipo di 3 giorni , alle 17 del 17 marzo 2020,la casa di cura ha disposto che per tutto il tempo dell'emergenza sanitaria siano sospese visite e contatti esterni con i pazienti in essa degenti. Il divieto ha diviso i parenti del paziente, in quanto la figlia che lo visita assiduamente ha ritenuto, contrariamente all'avviso materno, che sia meglio rispondente agli interessi paterni il temporaneo ritorno nella propria abitazione dove potrebbe ottenere adeguata assistenza in virtù dell'approvvigionamento dei necessari mezzi di cura. Al diniego di flessibilità nell'osservanza di questa disposizione da parte della casa di cura o di deroga circoscritta al singolo paziente, la figlia, nel frattempo assunta la posizione processuale di “litigation friend”, di cui si è prima detto, implicante il perseguimento processuale di azioni rivolte alla miglior protezione della sua condizione[23], si è rivolta alla Court of Protection, nella persona del giudice designato Hayden[24], formulando un'articolata e progressiva serie di istanze urgenti. In primo luogo, la domanda ha avuto ad oggetto la dichiarazione della Corte che, nell'ipotesi in cui entro 72 ore il padre non avesse ricevuto la visita del consulente designato a rivalutarne le condizioni giustificatrici della sua permanenza nella struttura o quella dei familiari, non fosse ulteriormente nell'interesse del paziente la prosecuzione del ricovero; la conseguenziale e subordinata domanda è stata nel senso che dovesse essere revocato il provvedimento autorizzativo del ricovero privativo della libertà paterna. Ed ancora, si è sollecitata una pronuncia di accertamento che il divieto assoluto di visite si pone in contrasto con i diritti assicurati ai pazienti dagli articoli 5 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'ulteriore istanza è stata diretta a conseguire un provvedimento interinale ed urgente dichiarativo della miglior rispondenza all'interesse paterno del suo ritorno a casa con adeguato supporto di dispositivi per le cure necessarie.
La premessa scientifica da cui ha preso le mosse la sentenza è stata quella secondo cui l'eventuale contrazione del virus da parte dell'anziano paziente ne avrebbe messo seriamente a repentaglio la vita. Su di essa si è imperniato tutto il ragionamento successivo.
Il metodo applicato dalla Corte nell'esame delle domande è stato chiaramente improntato alla verifica preliminare della compatibilità della misura disposta dalla casa di cura con le varie fonti di diritto transnazionale di origine convenzionale. La prima di esse è stata individuata nell'art.11 della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità che impegna gli Stati contraenti ad assicurare ad esse tutela in termini di sicurezza in situazioni di rischio (quali, intuitivamente, osservò il giudice Hayden, quella nascente dalla pandemia), nonchè nel successivo art. 11 che proclama il diritto alla salute di costoro[25].
Anche l'articolo 5 della CEDU, la cui violazione è stata espressamente lamentata dalla ricorrente, è caduto, nei suoi profili di intangibilità dei diritti individuali di libertà e sicurezza, sotto la lente d'ingrandimento dell'organo giudicante. Al riguardo si è osservato che le limitazioni alla prima di tali libertà possono essere imposte a condizione che si osservino le forme procedurali prescritte dalla legge interna e che esse siano indirizzate alla prevenzione di fenomeni patologici contagiosi ed alla protezione di persone deboli di mente. È stata, al riguardo, dalla Court of Protection richiamata la giurisprudenza EDU che impone agli Stati contraenti l'adozione di effettive disposizioni protettive di persone soggette a rischio, comprese quelle dirette a prevenire limitazioni di libertà attraverso mezzi dei quali le pubbliche autorità abbiano o siano tenute ad avere conoscenza[26]. In particolare, conformemente a consolidata giurisprudenza domestica[27], si sottolinea il triplice dovere incombente sulle autorità locali, consistente, rispettivamente, nel condurre le appropriate indagini sulle concrete circostanze, nel predisporre i necessari servizi di supporto e nel rivolgersi per gli opportuni provvedimenti al giudice competente. Altre norme della Convenzione del 1950 sono state esaminate per i loro riflessi di rilevanza ai fini della decisione, segnatamente l'art.8 in materia di rispetto della vita privata e familiare,l'art.14 sul carattere generale ed indiscriminato della tutela dei diritti umani in essa contemplati e,infine,l'art.15 quale disposizione che consente, in situazioni di emergenza che pongano in pericolo la vita della nazione, la deroga alle disposizioni dei citati articoli 5 e 8.
La ricognizione del quadro internazionale destinato ad esser tenuto presente nella fattispecie si espande verso la dichiarazione di principio pronunciata il 20 marzo 2020 in occasione dell'emergenza COVID 19 dall'apposito comitato del Consiglio d'Europa che ha preso una risoluta posizione a favore di ogni azione orientata alla protezione di tutti coloro che soffrano della privazione della libertà, nel senso di garantirli dal pericolo di diffusione del morbo, purché si tratti di iniziative munite di fondamento legale, necessarie, proporzionate, rispettose della dignità umana e temporalmente ristrette.
Nella ricostruzione dell'impianto normativo, interno ed internazionale, di rilievo nell'aspro conflitto denunciato tra libertà di movimento e tutela della salute assumono significato, a giudizio della Corte, le linee guida governative che confermano l'indirizzo delle case di cura proibitivo delle visite esterne e, nel presupposto dell'impossibilità di dotazioni complete di locali per l'isolamento di chi abbia contratto, o sia sospettato di aver contratto il virus, suggeriscono le maggiori cautele praticabili, dirette ad evitare contatti all'interno della struttura anche tra i degenti ed a rifornire tutti i frequentatori per ragioni di servizio di dispositivi di protezione individuale.
Alla luce di questo complesso di disposizioni, e nella consapevolezza della funzione svolta dalle norme convenzionali di parametro della legittimità di quelle interne, la Court of Protection perviene ad un gruppo di conclusioni di carattere generale, qui di seguito esposte.
La prima osservazione riassuntiva rispecchia un'interpretazione evolutivamente orientata del testo normativo fondamentale come applicabile al grave momento pandemico ed al correlato impatto socio-etico-giuridico. Recependolo nel modo più largo ed appropriato alle sconvolgenti circostanze il Giudice volge ad esse l'insegnamento della Corte EDU, affermando l'esistenza di uno specifico obbligo a carico dello Stato di assicurare condizioni di eguaglianza, rispetto al resto della collettività, nei confronti delle persone affette da disabilità, evitando che restino indietro, ossia seriamente svantaggiate. L'ulteriore deduzione ermeneutica tratta dalla legge in parola consiste nella declamazione del valore fondamentale della tutela dell'autonomia decisionale, anche nella forma surrogata delle competenti figure assistenziali, delle persone con ridotte facoltà cognitive.
Partendo da queste premesse metodologiche, al cui centro è evidentemente collocata la dignità del disabile costituente lo sfondo su cui si staglia il Mental Capacity Act del 2005, la Court of Protection dirige la propria attenzione verso il maggior problema agitato, come sempre accade allorquando venga invocata questa legge, nella fattispecie, ossia quello volto alla individuazione del “best interest” del paziente, sotto il particolare aspetto della compatibilità con esso delle misure restrittive del diritto di ricevere visite poste in essere dalla casa di cura, anche alla luce delle disposizioni sovranazionali richiamate dalla ricorrente. Il criterio risolutivo del dilemma cui la Corte si è attenuta è stato di stampo finalistico, vale a dire quello indirizzato a cogliere lo scopo ultimo delle disposizioni impugnate. Esso è stato agevolmente individuato nell'inderogabile esigenza di far fronte ad una pubblica emergenza capace di travolgere la vita del Paese e dei cittadini. In questa chiave protettiva ravvisato lo scopo della restrizione ed apprezzatane la commisurazione della durata al solo periodo emergenziale, la Corte ha deciso per l'insussistenza di violazioni dell'art. 5 della Convenzione europea del 1950, in perfetta simmetria con la giurisprudenza andatasi formando attorno a tale norma. Nè a mutare lo scenario poteva valere la mancata emanazione, al momento in cui la casa di cura è intervenuta drasticamente con il vietare le visite esterne ai degenti, da parte del governo di provvedimenti proibitivi a tappeto delle stesse o di altre forme di socialità, essendo, al contrario, del tutto lodevole la più tempestiva sensibilità mostrata dalla struttura sanitaria.
Naturalmente il difficile compito della Court of Protection nella persona del giudice Hayden non avrebbe potuto ritenersi esaurito tramite la mera (per quanto persuasivamente motivata nel solco della univoca giurisprudenza EDU) reiezione degli argomenti difensivi incentrati sulla deplorata inconciliabilità della restrizione con norme essenziali a difesa dei diritti umani: restava, infatti, da delibare, in tutta la sua imponenza, la questione del concreto riconoscimento del “best interest” in un caso di tale irripetibile peculiarità. In questo frangente si manifesta il più interessante profilo, in particolare dal punto di vista comparatistico ed in genere del “legal reasoning” circolante nel common law inglese[28], della sentenza. Essa, con grande sensibilità dirigendo la propria attenzione verso la dimensione psicologica, emotiva, affettiva della vicenda, trascorre dal momento “principle oriented” che ne aveva contraddistinto la prima parte, dedicata alla precisa emersione dei parametri di raffronto con il plesso normativo astrattamente deducibile in giudizio, a quello necessariamente “rule oriented”, vale a dire si impegna nella ricerca dei concreti indici sintomatici, direttamente desumibili dalle molteplici angolazioni della fattispecie, idonei a guidare l'identificazione in via complessiva e sintetica dell'universo di atti, fatti, opzioni comprensivamente coperti dalla impegnativa espressione “in the best interests of”. Nel rivolgere il proprio sguardo verso una questione problematica dalla somma significazione conformativa dell'esistenza di più persone interessate la Court of Protection dismette i panni oracolari di testimone del contenuto e della portata ermeneutica della norma per proiettarsi al rango socialmente indispensabile di oculato, ponderato, umanissimo amministratore di vite (al pari di quel che è chiamato a fare, nella più nobile delle accezioni funzionali apponibili alla legge italiana 6/2004,il giudice tutelare nelle amministrazioni di sostegno) altrui, tenendo in considerazione ogni dettaglio di cui esse sono intessute nell'essenziale prospettiva di trovare un comune e risolutivo filo conduttore. In questa umilissima, certosina ricerca della migliore delle condizioni esistenziali risolventisi nella realizzazione del “best interest” della persona incapace certamente risiede il riscatto della funzione giudiziale da quell'aura di disumanità che Salvatore Satta vi apponeva, non già per mortificarla o screditarla, quanto, tutto al contrario, per esaltarne (alla stregua dell'alta opera letteraria di un altro indimenticabile scrittore nato nella medesima terra di Sardegna, Salvatore Mannuzzu) la lacerante, estenuante difficoltà del giudizio promanante da un Uomo e destinato ad un suo simile. Vivere, per deciderne, la vita altrui come se fosse la propria implica immedesimazione, solidarietà, saggezza. In questo tremendo imperativo si illumina e rassicura la figura universale del Giudice.
Venendo al ragionamento, sviluppato attorno a fatti, considerazioni di ordine pratico, risvolti psicologici, che ha guidato la decisione della Court of Protection è possibile scorgerne le due linee potenzialmente antagoniste che essa si è trovata, se non a dirimere in modo netto, a comporre secondo un tendenziale equilibrio.
Da un canto agli occhi della Corte è apparso chiaro ed evidente l'effetto positivo per la persona dichiarata incapace degli incontri sistematici e regolarmente ripetuti nel tempo con i propri familiari, ai quali aveva dichiarato di volersi ricongiungere ritornando al comune domicilio. Convinzione rafforzata dalla precisa dichiarazione della figlia che ha ricordato in dibattimento come per il padre la famiglia abbia sempre rappresentato tutto, anche per il suo carattere socievole ed accomodante. Nel medesimo senso deponeva il tassativo impegno della stessa figlia, perfettamente consapevole della somma difficoltà della decisione del caso[29] particolarmente legata al genitore anche in virtù di una prolungata attività lavorativa comune nel campo degli allibramenti di scommesse, a garantirgli assistenza duratura ed ininterrotta nell'arco della giornata nella casa di famiglia, anche avvalendosi dei preparati e degli strumenti sanitari di assistenza forniti dalla casa di cura.
Ma la Corte non ha potuto trascurare, nell'opera di razionale bilanciamento devoluta ad essa dal Mental Capacity Act del 2005, elementi di segno contrario, ineliminabili nella delineazione del “best interest” paterno. Tra questi, è stato ricordato in sentenza il deterioramento, esclusivamente riferibile al sopravvenuto deficit cognitivo e non alla naturale indole, dei rapporti con la moglie, che nel corso della propria deposizione ha ricordato saltuari episodi di abusi verbali e ancor più sporadicamente fisici, dai quali avrebbe potuto trarre origine una difficoltosa convivenza: ipotesi, questa, non smentita dalla stessa figlia, che ha manifestato la disponibilità a prendere il posto della madre, che si sarebbe nel frattempo trasferita altrove, nella residenza coniugale onde prestare adeguata assistenza. Ed ancora, la severa forma di sordità paterna ,ad avviso della Corte, suggeriva una qualificata cura solo possibile in una struttura attrezzata, della quale la stessa figlia ha, comunque, lodato l'eccellente livello di professionalità e sensibilità umana. Peraltro, è stata giudicata irrealistica la ventilata eventualità di un'assistenza filiale priva di soluzioni di continuità, a differenza di quanto è sempre avvenuto nella casa di cura.
Sulla base di queste considerazioni e dell'irrealizzabilità di soluzioni alternative alla permanente efficacia della sospensione delle visite esterne, la Corte ha ritenuto che questa disposizione, oltre a non ledere alcuna previsione normativa a salvaguardia dei diritti dell'uomo, né giustificasse, seppur in via temporanea e contingente, la revoca della dichiarazione di incapacità e della conseguente autorizzazione al ricovero nella casa di cura in attesa della rivalutazione psico-medica delle condizioni del paziente, né ne rendesse preferibile il trasferimento nell'abitazione originaria, almeno per il periodo di durata della misura restrittiva. Gli effetti negativi di essa, dal versante affettivo e della sopravvivenza dei contatti familiari, sono stati con molto scrupolo dalla Corte attenuati attraverso una miscellanea predisposizione di accorgimenti di carattere pratico, quali il facilitato apprendimento da parte del paziente dell'uso di meccanismi aggiornati di comunicazione (vengono espressamente menzionati in sentenza Skype e Facetime) e l'incontro protetto con i familiari attraverso i vetri della stanza in cui il paziente è ricoverato la quale è situata al piano terra dell'edificio perfettamente visibile dall'esterno.
Il coordinamento di tutte le esposte osservazioni e degli interventi divisati per affievolire la portata delle restrizioni ha definitivamente indotto la Corte a pronunciarsi nel senso che, rigettate le gradate domande della ricorrente, vada giudicata meglio rispondente all'interesse del paziente la confermata presenza nella casa di cura.
4. Brevi considerazioni finali: il ruolo del giudice inglese nella decisione intorno a questioni di coscienza.
La pronuncia della Court of Protection resa in circostanze oggettivamente eccezionali riverbera, tuttavia, il proprio peso su uno scorcio di esistenza individuale che, nella generale cornice che qui si è tratteggiata, finisce con il guadagnare un maggior grado di interesse nella misura nella quale essa contribuisce alla definizione dei nodosi intrecci implicati da interventi autoritativi (legislativi, amministrativi, giurisdizionali) sulla sfera soggettiva latamente intesa e complessivamente riguardata (dal punto di vista affettivo, della salute, dell'equilibrio e del benessere psico-fisico ).Da scelte tragiche ogni ordinamento giuridico a qualunque latitudine (come ci ricorda con Philip Bobbitt, nell'omonimo, formativo volume, Guido Calabresi) è quotidianamente attraversato in ogni area del matrimonio, della filiazione, della salute, della libertà di iniziativa economica, della proprietà individuale e della sua funzione sociale. È indubbio però che il settore della persona umana e dei suoi inalienabili diritti, a partire da quelli alla dignità, alla libertà ed alla salute, occupi un posto preminente nella scala dei valori che tutti i sistemi giuridici non possono declinare dal preservare. È altrettanto indiscutibile che questi stessi valori si configurino in maniera ancor più basilare e drammatica quando siano riconducibili a persone le cui condizioni soggettive per ragioni fisiche o mentali le rendano più deboli, meno autonome, maggiormente bisognose di solidarietà e tutela. Il vero dissecante interrogativo sulle appropriate risposte da dare si propone nelle occasioni in cui per terribile paradosso si tratti di decidere se la migliore estrinsecazione di solidarietà e tutela debba essere perseguita a seguito di una scelta implacabile tra la permanenza in vita , lungo una esistenza martoriata da sofferenze, disagi ed obnubilamento mentale irrimediabili terapeuticamente, ed il suo opposto, meditatamente decretato quale epilogo ineludibile di un'avventura umana impossibile da decorosamente perpetuarsi. Nell'esatta linea mediana di questi contesti decisionali che, per tornare al concetto sattiano, possono apparire, a dispetto della loro strenua aspirazione all'umanità della scelta, inumani, si collocano spunti normativi ed applicazioni giurisprudenziali ormai entrati a far parte per la loro alta incidenza statistica del vasto patrimonio dell'esperienza comune non specialistica.
Il diritto inglese, come si è cercato di illustrare per tratti sommari, ormai con alta frequenza va incontro a scelte, cui è generalmente deputato l'apparato giurisdizionale, che, nel porre il valore della vita e della persona umana come esclusivo punto di riferimento, sono costrette all'innaturale propensione verso uno dei suoi poli alternativi, la prosecuzione o l'estinzione. Va accreditata al Mental Capacity Act del 2005 una rimarchevole forza propulsiva manifestata per il tramite di una indicazione di metodo cui ispirare la scelta, quello della minuziosa ricerca del “best interest” della persona interessata ad essa. Non una bacchetta magica, né una meccanica formula di soluzione dei problemi etico-giuridici che vengono sottoposti al vaglio decisorio dell'autorità pubblica, di quella giudiziaria in particolare. Ma pur sempre un criterio generale di orientamento, da utilizzare sapientemente nel caso concreto: in altri termini, uno strumento atto a prevenire abusi, arbitrii, irrazionalità. E nel caso su cui ci si è qui soffermati la Court of Protection sembra aver fatto buon governo della preziosa indicazione legislativa la quale, proprio per l'insopprimibile esigenza di concretizzazione alla luce delle particolari circostanze, mentre svolge un ruolo di orientamento dell'interprete, mal si presta ad essere imprigionata in confini definitori di portata generale che ne pregiudicherebbero le possibilità espansive richieste dalla non replicabile singola esperienza individuale.
Vi è un aspetto finale di questa ricerca suscitato dalla natura dell'intervento espletato dalla Court of Protection che, tuttavia, estende il proprio raggio visivo all'intera platea di situazioni connesse a scelte dilanianti riguardanti la persona umana. Ridotto alla sua essenza il tema che ci si appresta ad esplorare attraverso una fugace riflessione conclusiva può così enunciarsi: se nell'ordinamento inglese alla disciplina dei casi postulanti un'opzione secca in termini di prosecuzione o meno di trattamenti terapeutici puramente illusori e privi di effettività debba sempre e necessariamente concorrere con un proprio provvedimento decisorio l'autorità giudiziaria. Il dubbio potrebbe apparire incongruo se non ingiustificato o abusivo in ordinamenti come quello italiano che sono dichiaratamente proclivi a forme, in simili casi difficilmente criticabili, di pangiurisdizionalizzazione, nelle quali si tende a vedere un rassicurante baluardo per il bilanciamento equilibrato di interessi o aspirazioni tra loro irriducibili a coerenza[30]. Concezione tendente a sottrarre competenze decisorie agli individui per accentrarle in funzione di garanzia e di neutralità, ma non indifferenza, ad un organo terzo ed imparziale. Ma altre inclinazioni ordinamentali europee sono maturate nel tempo, varcando positivamente anche il vaglio della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'esperienza inglese si pone certamente in questa scia, seguita in un notissimo caso, oggetto di giudizio anche davanti la Corte di a Strasburgo, da quella francese[31]. Vale la pena intrattenersi velocemente e per completezza sulle posizioni assunte nel common law britannico in merito alla fungibilità o non dell'intervento giudiziale in questioni di “life or death”, cui incidentalmente si è fatto cenno nella parte iniziale del lavoro. Non è mai mancata la piena percezione da parte della giurisprudenza inglese che, laddove si affaccino problemi di siffatta alta opinabilità, alle questioni di diritto ne sottostiano altre “morali, etiche, mediche e pratiche di fondamentale importanza sociale”[32]. Ma non per questo essa ha preteso di mettere in atto una politica di inglobamento nelle proprie attribuzioni di questioni che, pur orbitando nella multiforme dimensione appena ricordata, potessero, comunque, trovare soluzione in base a cognizioni scientifiche accreditate e recepite in codici di condotta contenenti precise regole applicative. Una prima, sintomatica pronuncia in questo senso[33] è ascrivibile alla House of Lords nel 1993 nel caso Bland citato in una nota precedente in cui fu autorizzata la sospensione, approvata dai familiari, di ogni trattamento medicalmente assistito di nutrizione ed idratazione (CANH) a favore di un paziente, che da oltre tre anni viveva in stato vegetativo, incapace di vedere, sentire, comunicare o di provare qualsivoglia sensazione a seguito delle gravissime lesioni riportate nel corso degli incidenti verificatisi nello stadio calcistico di Hillsborough, Sheffield nell'aprile 1989. La sentenza in sostanza recepì l'opinione scientifica, asseverata dal consenso dei parenti della persona incapace, e si espresse favorevolmente circa le drammatiche ed immancabili conseguenze cui avrebbe condotto, giudicando, comunque, indefettibile l'intervento giudiziale in assenza di un chiaro e dettagliato codice di condotta etico-sanitario per emergenze del genere. La situazione mutò con l'entrata in vigore del Mental Capacity Act del 2005, entrato in vigore nell'aprile di due anni dopo, e dell'annesso Code of Practice, il cui capitolo 5 intitolato alla configurazione del miglior interesse del paziente di fronte a decisioni riguardanti trattamenti di sostegno vitale[34] esclude la necessità della prosecuzione di questi trattamenti laddove, come già scritto, si rivelino “futili, eccessivamente pesanti e senza prospettive di guarigione”. Da allora l'atteggiamento si trasformò, salva una isolata, divergente posizione[35]. Al capovolgimento della posizione contribuì certamente l'esperienza francese nel caso Lambert, citato in una nota precedente, e la conseguente validazione da parte della Corte europea dei diritti umani della sentenza del Conseil d'Etat secondo cui l'intervento giudiziale è dispensato nel caso di stretta osservanza dei protocolli di fonte normativa disciplinanti i casi ed i criteri per pervenire ad una decisione di interruzione del trattamento terapeutico futile perché destituito di qualsiasi prospettiva favorevole. Nella fondamentale sentenza del 2018 della Supreme Court nel caso NHS Trust v Y, già più volte richiamata, viene prestata adesione all'orientamento riduttivo o del tutto eliminativo dello spazio giurisdizionale se ricorra la duplice condizione che l'abbandono del trattamento consegua all'adozione delle migliori pratiche mediche vigenti e non sorga controversia tra medici e familiari circa la relativa applicazione nel caso concreto. L'orientamento ben può dirsi a questa stregua ormai consolidato.
Ed allora, il tema cruciale che circonda le questioni eticamente sensibili che potrebbero impegnare l'ambito giuridico sembra retrocedere dal momento della discussione del merito della scelta finale a quello della individuazione del livello competente a pronunciarsi, non necessariamente coincidente, secondo la veduta da ultimo esposta, con quello giurisdizionale. Il quesito non sembra di minor significato né di più facile soluzione in ogni ordinamento. È comprensibile rifuggire dalla tentazione di devolvere alla sede giudiziaria ogni vicenda umana che presenti margini di incertezza o perplessità quanto alla sua concreta definizione: a questo spirito sembra far capo l'orientamento franco-britannico e quello della Corte europea dei diritti dell'uomo laddove siano collaudati, dettagliati e di incontroversa applicazione i protocolli frutto di provvedimenti di rango autoritativo. Ma non potrebbe certo reputarsi irragionevole porre la domanda se ciò sia sufficientemente tranquillizzante per rendere automatica e sfuggente ad ogni controllo di legittimità, opportunità, ragionevolezza una scelta, per quanto rispettosa di prescrizioni formali, tra il lasciar vivere ed il decretare la fuoriuscita altrui dal proprio circolo vitale. In altri termini si è pur sempre di fronte ad una decisione di sicura influenza sui principii di ordine pubblico la cui affidabile adozione continua ad esigere tuttora ,come avverte l'esperienza italiana, quella visione generale ed indipendente, che solo la giurisdizione può offrire, di cui il minoritario giudice Baker della Family Division della High Court ha con palpabile passione civile ed etica scritto[36].
[1] G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, pag. 1 ss.
[2] Un’esemplare rassegna tematica in prospettiva europea si riscontra in R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della vita umana?, Roma 2019. Per una specifica area problematica v. V. Lo Voi, Mors omnia solvit? Parto anonimo e valutazione circa l'attualità del diritto all'anonimato della madre biologica nel caso di morte dello stesso, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2018, pag. 1120 ss.
[3] Sulla peculiare condizione del minore in diritto comparato, v., D. Vanni, Il consenso del minore al trattamento medico in prospettiva comparatistica: un nuovo soggetto di diritto?, in Storia ed evoluzione di un concetto nel diritto privato, a cura di F. Bilotta e F. Raimondi, Napoli 2020, pag.131, ss.
[4] Del caso Charlie Gard si occuparono nel breve spazio di poco di un trimestre tra l'aprile e la fine di giugno del 2017 i tre gradi di giurisdizione professionale inglese, High Court, Court of Appeal e Supreme Court, e la Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo quanto brevemente si dirà nel testo.
[5] Le rispettive pronunce furono emesse l'11 aprile 2017 dal Giudice Francis, il successivo 23 maggio da una unanime Court of Appeal (2017) EWCA (Civ) 410, il 19 giugno dalla Supreme Court che non autorizzò e, pertanto, dichiarò inammissibile il ricorso davanti a sé per mancata deduzione di una questione di importanza generale secondo i propri parametri, pur sospendendo l'efficacia del provvedimento del primo giudice - che aveva autorizzato l'ospedale ad interrompere le cure - in attesa della preannunciata decisione della Corte Europea, intervenuta dopo una decina di giorni: c. 39793/17.
[6] Merita di essere ricordato il passaggio della sentenza della High Court in cui il Giudice, riportando le parole di una dei consulenti d'ufficio inglesi interpellati, sottolineò con malcelato spirito polemico come la filosofia della clinica medica britannica fosse improntata a mettere al centro della scena la persona e le esigenze del paziente, mentre quella d'oltreoceano mostrasse spiccata proclività a porre in essere, ad ogni costo, qualsiasi tentativo sperimentale.
[7] An NHS Trust v MB (A child represented by CAFCASS as Guardian ad litem) (2006) FLR 319. Sul caso si può vedere un utile contributo di R. Potenzano, Il consenso informato ai trattamenti sanitari sui minori e decisioni di fine vita. Riflessioni comparatistiche, in Riv. Dir. Fam. Pers. 2019, pag. 1822 ss.
[8] “... every kind of consideration capable of impacting on the decision. They include, not exhaustively, medical, emotional, sensory (pleasure, pain and suffering) and instinctive (the human instinct to survive) considerations”.
[9] Giaimo, La volontà e il corpo, cit. pag. 86, ove in nota 74 si cita a suffragio il pensiero di A. Nicolussi, Il miglior interesse del bambino al centro del triangolo pediatrico: una cifra del modo di intendere la genitorialità e l'esigenza di un “sensus communis”, in BioLaw Journal-Rivista di BioDiritto, 2018, pag. 47 ove si dice che “l'idea di un consenso sostitutivo da parte dei genitori rispetto a quello del figlio è più vicina alla concezione proprietaria della genitorialità piuttosto che a quella della responsabilità genitoriale”.
[10] Una ragionata esposizione critica si ottiene, quà e là, in Giaimo op. cit, ed in particolare a pag. 57 ss., nonchè in Lo Voi, L'etero-determinazione “imposta” per i minori d'età. Un'analisi comparatistica delle DAT alla luce dei casi inglesi Gard ed Evans, in Atti del convegno “Trattamenti sanitari: il diritto all'autodeterminazione del paziente”, Pisa 22 novembre 2019, Pisa University Press, in corso di pubblicazione.
[11] An NHS Trust and others v Y and another, (2018) UKSC 46.
[12] Glass v United Kingdom del 2004.
[13] In questa decisione si avverte nitidamente l'eco di una pronuncia, di due anni anteriore, della medesima Corte di Strasburgo in Burke v United Kingdom dell'11 luglio 2006 in cui si era chiarito che il compito giurisdizionale non ha finalità autorizzative ma puramente dichiarative della legittimità di una dato programma medico.
[14] Aintree University Hospitals NHS Foundation Trust v James (2013) UKSC 67.
[15] “The Mental Capacity Act 2005 Code of practice provides that it may be in the best interests of a patient in a limited number of cases not to give life-sustaining treatment where treatment is futile, overly burdensome to the patient or where there is no prospect of recovery”.
[16] Sulla nozione si veda il fondamentale contributo di G. Criscuoli, Variazioni e scelte in materia di status, Riv dir. civ 1984, pag. 157 ss.
[17] Su cui si veda Serio, Ragionevole durata del processo e diritti delle parti, in I diritti fondamentali in Europa, 2001, pag. 257 ss.
[18] A livello monografico si veda, sull'art. 6 CEDU come recepito dalla Corti inglesi, Serio, Il danno da irragionevole durata del processo, Napoli 2009.
[19] Sull'organizzazione del sistema giudiziario inglese, v. G. Criscuoli, M.Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese. Le fonti, Milano, 2016, pag. 242 ss.
[20] Per la storia delle Courts of record v. Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile,2017,in particolare pag.339 ss.
[21] An Act to make new provision relating to persons who lack capacity; to establish a superior Court of record called the Court of Protection in place of the office of the Supreme Court called by that name; to make provision in connection with the International Convention on protection of adults signed at The Hague on 13th January 2000 and for connected purposes.
[22] In seguito all'emanazione del Constitutional Reform Act del 2005 figura posta al vertice dell'ordine giudiziario inglese, cui, come è noto, è estranea, per il ruolo di garanzia massima dell'ordinamento e di salvaguardia del “rule of law” nella sua significazione oggettiva di Stato di diritto, la Supreme Court. Si veda su quest’ultima il mio Il confronto tra Supreme Court e dottrina inglese: un vento nuovo soffia a Westminster, in AA. VV., Giureconsulti e giudici l’influsso dei professori sulle sentenze, I - Le prassi delle Corti e le teorie degli studiosi, Torino, 2016, pagg. 92 ss.
[23] La fedele interpretazione della delicata funzione, in concreto riconosciuta nel caso in esame, implica che il titolare agisca in modo equilibrato ed equo, soddisfacendo gli elevati requisiti di integrità morale richiesti dalle circostanze: così si espresse il giudice Charles della stessa Court of Protection in Re UF (2013) EWCOP 4289.
[24] Di lui le cronache ricordano un'infelice esternazione nell'aprile 2019 allorchè, nel corso dell'udienza preliminare di un procedimento promosso nell’interesse di una giovane donna la compromissione delle cui facoltà mentali le impediva di prestare un effettivo consenso ai rapporti intimi con il marito, con la conseguenza che il suo curatore ed i servizi sociali chiedevano che al coniuge fosse inibito rivolgerle la richiesta, dichiarò che è un diritto fondamentale del coniuge intrattenere tale genere di rapporti.
[25] Corte EDU in Stanev c Bulgaria 2012, nonchè la sentenza della Court of Appeal inglese in Re (D) (A child) (residence Order: Deprivation of Liberty) ( 2017) EWCA (Civ) 1695.
[26] Viene citato il caso Storke c Germania deciso il 16 giugno 2005.
[27] A and C (Equality and Human Rights Commission intervenors) (2010) 2 FLR 1363.
[28] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, cit., Milano, 2016, pag. 267 ss.
[29] Tanto che la stessa ha dichiarato alla Corte che nella situazione data ogni protagonista sarebbe stato, comunque, un perdente.
[30] A questa logica esattamente si ispira il citato volume di Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana. Relazione di cura,DAT e “congedo dalla vita” dopo la l 219/2017, Roma, 2019, che trae ragione dalla legge italiana menzionata nel sottotitolo in materia di disposizioni anticipate di trattamento.
[31] Lambert c Francia (2016) 62, in cui a maggioranza la Corte Edu giudicò esente da censure di violazione di norme convenzionali la pronuncia del Conseil d'Etat che aveva ritenuto la competenza di un articolato, qualificato ed indipendente (con riguardo ad almeno uno dei componenti) gruppo di medici, che aveva consultato, ottenendone l'assenso, i familiari, a dichiarare, sulla base di un protocollo del 2005 incorporante il codice della salute pubblica, l'inutilità della prosecuzione di cure nei confronti di un paziente tetraplegico e privo di coscienza che viveva in uno stato puramente vegetativo.
[32] Lord Browne-Wilkinson nel caso Airdale NHS Trust v Bland (1993) A.C.789 affermò testualmente che “behind the questions of law lie moral,ethical,medical and practical issues of fundamental importance to society”.
[33] Secondo l'interpretazione datane dalla Supreme Court nel già citato caso del 2018 NHS Trust v Y: si veda l'opinione di Lady Hale a paragrafo 93 pag. 36.
[34] Questo il titolo della sezione rilevante: “How should someone's best interests be worked out when making decisions about life-sustaining treatment?”
[35] In re M (Adult Patient) (Minimally Conscious State:Withdrawal of Treatment) (2011) EWHC 2443 (Fam), il giudice Baker della Family Division della High Court scrisse in sentenza che ogni questione concernente la possibile interruzione dei trattamenti di nutrizione ed idratazione assistita nei confronti di una persona che versi in persistente stato vegetativo o di minima coscienza deve essere portata alla cognizione giudiziale. Lo stesso giudice ribadì la propria posizione in un articolo di sei anni successivo, A matter of life and death, (2017) in Journal of Medical Ethics, pag. 427 ss., in cui si espresse nel senso che non fossero ancora maturi i tempi per prescindere dall'apporto decisorio giurisprudenziale in materia.
[36]A matter of life and death, cit., pag. 434: vi si sottolinea il bisogno di un “independent oversight” e di una maggior chiarezza a proposito di questioni afferenti ai deficit cognitivi ed ai principii giuridici ed etici alla cui stregua governarle.
Il precedente friabile e gli slittamenti della nomofilachia
di Angelo Costanzo
Per la lettura e per i suggerimenti, ringrazio i Colleghi: Angelo Capozzi, Antonio Corbo, Alessandro Centonze, Stefano Civardi, Pasquale D’Ascola, Emanuele Di Salvo, Giorgio Fidelbo, Domenico Gallo, Bruno Giordano, Emilia Giordano, Giuseppe Grasso, Mariaenza La Torre, Luigi Lombardo, Massimo Ricciarelli,
Non mi hanno voluto dissuadere dal pubblicare questo scritto, ma ovviamente questo non li rende corresponsabili delle fallacie che sicuramente contiene.
Sommario: 1. Il riconoscimento di un precedente giudiziale - 2. Livelli del discorso normativo e coobazione della ratio decidendi. - 3. L’influenza della forma logica sul consolidarsi di un precedente
1.Il riconoscimento di un precedente giudiziale
1.1. Sono note le varie ragioni della crisi del ruolo della Corte di cassazione nel nostro sistema giudiziario. Alcune fra le più rilevanti sono connesse ai modi in cui si formano, sono conoscibili e vengono utilizzate le precedenti decisioni nei casi ancora da decidere[1].
Uno degli aspetti centrali della questione sta nel fatto che per essere validamente utilizzabile come precedente, una decisione dovrebbe rimanere comprensibile nel suo significato in relazione al caso concreto da cui scaturisce, perché è dalla considerazione dei fatti che si trae la ratio decidendi e, mentre può considerarsi una fallacia da ignoratio elenchi il richiamo di un precedente non pertinente, ricorre una fallacia di non sequitur (fallacia di falsa causa, salto logico) quando il contenuto del precedente in realtà riguarda un obiter dictum e non la ratio decidendi[2].
Un obiter dictum impegna su questioni che non è necessario affrontare e solo raramente costituisce uno sviluppo accessorio che renda la motivazione più esauriente. Sicuramente deviano dalla funzione di precedente le sentenze-trattato giudiziario, che vorrebbero sostituirsi alla dottrina (ma in modi non vigilati dalla metodologia della ricerca scientifica) esorbitando dalla decisione del caso concreto e in realtà compromettendo la stessa certezza del diritto[3].
Soprattutto, deve registrarsi che frequentemente le tecniche di interpretazione delle norme, le argomentazioni espresse a sostegno delle decisioni e la stessa massimazione delle sentenze non delineano con il necessario nitore i contenuti della ratio decidendi.
Inoltre, è dubbio che l’uso della formula “principio di diritto” valga a coprire, - senza imprecisioni che generino ambiguità - tutta la gamma delle forme di dati normativi utilizzabili per riproporli nella decisione di un nuovo caso.
In generale, le opzioni a favore della stabilizzazione dei significati normativi e la credenza che la certezza del diritto equivalga alla sua prevedibilità, possono attenuare l’attenzione per le specificità dei casi e disincentivare l’affinarsi delle interpretazioni. Quando non è più in discussione, un paradigma tende a cristallizzarsi in uno stereotipo: ne viene oscurata la ratio decidendi generatrice e le informazioni che potrebbero invalidarlo vengono respinte senza una compiuta valutazione, assecondando la naturale inclinazione al pre-giudizio, anche perché l’esplicita intenzione di rifarsi al precedente costituisce un argomento ab exemplo in sé completo e autosufficiente, che può valere come motivazione per relationem[4].
In ogni caso, ancorarsi a un precedente è come appoggiarsi a una scatola contenente un meccanismo a molla momentaneamente compresso ma con l'attitudine a riespandersi non appena l'analisi critica lo reinnesca. La logica argomentativa è in grado di indicare vie per rigettare i precedenti o, al contrario, per indurre a tenerli in qualche modo in conto. Pertanto, il rapporto dell’interprete con le precedenti decisioni dipende essenzialmente dalle sue opzioni interpretative.
Il precedente può essere adoperato come un punto di appoggio e di slancio verso le direzioni interpretative che risultano più corrette: l’espansione inferenziale del precedente si produce tramite operazioni composte da inferenze analogiche in senso stretto (con le sue varianti costituite dagli argomenti a contrario e a fortiori) e dall’argomento a cohaerentia[5].
Inoltre, principi di diritto significativi per la decisione non sono solo quelli attorno ai quali ruota l’asse principale della decisione ma anche quelli a questi logicamente connessi, purché autonomamente isolabili. Rilevano e andrebbero espressi anche i principi di diritto che costituiscono condizioni pregiudiziali di quello centrale e quelli che conseguono al principio espresso perché utili a collaudarne la valenza, sebbene esigenze pragmatiche possano consigliare di circoscrivere l’ampiezza delle inferenze. In generale una asserzione è al contempo l’esito e la condizione di altre asserzioni: presuppone altre asserzioni e richiede che si comprendano almeno alcune delle sue conseguenze e anche a quali altre condizioni essa impegna chi la pone.
Al di là delle possibilità di espansione inferenziale dei contenuti delle premesse interpretative contenute nel precedente, la considerazione del precedente può offrire spunto per un ampliamento della rilevazione dei dati normativi pertinenti al fatto storico in esame e alle questioni che esso propone: mentre analizza i precedenti, l’interprete può ampliare il suo orizzonte e valutare corretto chiamare in campo ulteriori dati normativi perché emergono ulteriori interessi giuridicamente rilevanti (trascurati o sottovalutati dai precedenti giudicanti) e specifici del caso al suo esame.
1.2. Le considerazioni che seguono intendono mostrare la necessità di operazioni intellettuali che conducano a una chiara enucleazione della ratio decidendi che regge un provvedimento giudiziario al fine di valutare se la stessa è riproponibile per il nuovo caso da decidere .
Il tradizionale test di Wambaugh costituisce uno strumento per un controllo, sulla effettiva natura del contenuto di un segmento della argomentazione e sta in questo: se invertendo (dandogli un contenuto di segno contrario) il contenuto del segmento la decisione rimane invariata, allora quel contenuto non veicola una ratio decidendi [6].
Tuttavia, il test non offre un compiuto e saldo criterio per valutare se la ratio decidendi enucleata in un caso precedente possa estendersi al genere di soluzione che si va a adottare.
Sarebbe a questo scopo necessario sviluppare strumenti ermeneutici che consentano di far leva su una valutazione teleologica della precedente decisione per comprendere se gli argomenti che la sorreggono conducono a una regolazione degli interessi giuridicamente rilevanti che sia effettivamente congruente (in geometria la congruenza è una relazione di equivalenza) rispetto a quella verso cui si va indirizzando la decisione in itinere.
2. Livelli del discorso normativo e coobazione della ratio decidendi
2.1. La determinazione della norma pertinente al caso concreto richiede una interpretazione del discorso normativo che tenga conto dei suoi due livelli propriamente giuridici: quello delle regole e quello dei principi[7].
Le norme si presentano ordinariamente come regole, ossia come puntuali prescrizioni corredate da una fattispecie normativa astratta che descrive il genere di casi rilevanti per la regola. Al contempo, ogni regola presuppone e veicola almeno un principio normativo al quale è possibile risalire con una argomentazione che faccia leva su una giurisprudenza consolidata o su una dottrina assunta come autorevole, o che concluda una interpretazione sistematica o consideri i lavori preparatori delle disposizioni normative. Il principio normativo ha un contenuto più generico della regola che lo veicola e attrae una serie di fattispecie più ampia e variegata di quelle sussumibili sotto le regole che lo concretizzano e la pretesa di dedurre una regola da un principio normativo incorre nella fallacia dell’affermazione del conseguente perché trascura sia lo scarto fra il contenuto di una regola e quello di un principio normativo sia la possibilità che la regola veicoli più di un principio normativo.
2.2. Poiché sono meri strumenti che non esprimono il piano essenziale del discorso normativo, le regole dovrebbero risultare più derogabili dei principi. Ma, per le incertezze nella applicazione del diritto che questa impostazione può produrre, prevale la opposta tendenza (che risponde a esigenze psicologiche ma non dipende da vincoli logici) a considerare la regola come l’atomo del discorso normativo, fino a ignorare la ratio che - però - sempre la ispira[8].
A loro volta le decisioni giudiziarie – che riguardano sempre i casi particolari e vanno giustificate in relazione al caso concreto - devono comunque utilizzare criteri generalizzabili che facciano leva sulla ratio (legis o juris), cioè sul complesso delle ragioni giustificative di una norma, riassunte nel suo scopo (o nei suoi scopi) ossia il principio (o i principi) normativo che veicola.
Sulla base delle rationes si compone la ratio decidendi che è, appunto, il complesso delle ragioni di una decisione come svolgimento dei principi normativi costituenti le premesse e/o i passaggi logici necessari per la decisione, ma che è tale in quanto costituisce una soluzione tipizzata, implicita o esplicitata, sufficiente a fondare la soluzione di una questione giuridica generale rilevante per la decisione della causa.
In altri termini: non è ratio decidendi la specifica soluzione della questione posta dal caso, lo è - invece - la soluzione del genere di questioni al quale appartiene quella sollevata dal caso da decidere.
Come nel procedimento chimico della coobazione, la ratio decidendi va estratta dal complesso della argomentazione e poi sviluppata e ricollocata nel contesto della questione dalla quale sorge per verificare se la soluzione adottata è convincente. In generale, se si vuole chiarire la portata di una regola, serve trovare esempi di sue applicazioni che siano fra loro alquanto distanti, perché così si evidenziano i profili inessenziali del suo significato e se ne può cogliere meglio la ratio; più che il numero delle reiterazioni di una ratio decidendi conta il valore intrinseco delle argomentazioni che la sorreggono e l’assenza di precedenti di segno contrario[9].
2.3. Come contributi alla uniformità e alla stabilità della interpretazione del diritto, i precedenti non valgono tanto in sé ma come anelli di una serie che illumini sulle relazioni logiche fra i dati normativi in campo e valga a affinare - tramite distinzioni e precisazioni - l’area di applicazione delle norme. L’importanza di un precedente si coglie nel contesto delle decisioni (sia conformi sia difformi) correlate. Ma è opportuno vigilare sulla formazione di concatenazioni di precedenti fissando un caso (una fattispecie storica concreta) come paradigmatico della applicazione di una data ratio decidendi, e poi raffrontare a questo i casi successivi, per evitare, tanto più quando la ratio decidendi. non è stata compiutamente esplicitata, slittamenti di significato nella utilizzazione della ratio decidendi[10].
2.4. In ogni caso, poiché esistono differenti livelli del discorso normativo, allora anche l’interpretazione di una precedente applicazione delle norme, richiede una scelta del piano sul quale condurla, perché i tre livelli essenziali del discorso giuridico – quello del fatto, quello delle regole, quello dei principi inevitabilmente (espressi o impliciti) si ritrovano nella ratio decidendi. In altri termini, il precedente si individua secondo quel che si cerca: il tipo di premesse normative utilizzate, l’articolarsi delle relazioni logiche fra tali premesse nel loro rapporto con il fatto, spunti ulteriori, soltanto impliciti negli sviluppi del razionale (la giustificazione della ratio decidendi) della decisione.
La correlata fallacia del livello di individuazione del precedente deriva dalle approssimazioni nella scelta del livello normativo al quale viene collocata l’analisi del precedente e del suo rapporto con il nuovo caso: ci si può appellare al precedente richiamo di un principio normativo assunto come non veicolato da regole, trascurando che può esistere una regola ad hoc per il caso da decidere, oppure scambiare il mero richiamo a un valore pregiuridico per il riferimento a un principio normativo, o concentrarsi esclusivamente sulla somiglianza dei fatti storici[11].
3. L’influenza della forma logica sul consolidarsi di un precedente
Le possibilità e i limiti dell’utilizzo dei precedenti dipendono dalla forma logica che regge la loro composizione.
3.1. Il riconoscimento di un precedente è agevolato se il precedente si incentra sulla sussunzione di una fattispecie storica concreta sotto una (una sola) fattispecie normativa astratta veicolata da una regola. Infatti, questo consente di valutare agevolmente la somiglianza fra le due fattispecie storiche e di richiamare il precedente trattandolo come esempio dell’applicazione della regola. Reperire un precedente come enunciazione di una regola generale valevole anche per decisioni future rafforza l’idea del diritto come sistema coerente, e stabile di norme. Per un caso esemplare di analisi dei precedenti in termini di monosussunzione riguardate l’art. 610 cod. pen., vedasi: Cass. pen. Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404 (Considerato in diritto, 2.3.-2.4.).
Tuttavia, per altro verso, fondare una ratio decidendi essenzialmente sulla somiglianza fra i fatti oggetto della decisione da parte del secondo giudice e quelli oggetto della decisione precedente circoscrive la portata della decisione[12].
3.2. Invece, se con il precedente è stato applicato un principio non veicolato da regole, l’interprete deve potere ravvisare nel precedente una via di soluzione per il suo problema, diversamente neanche può considerarlo un precedente.
Una caratteristica dei principi normativi è la loro attitudine a venire attuati secondo gradazioni diverse, che dipendono dalla specifica situazione fattuale e dal contesto normativo in cui - proprio a causa del ricorrere di quella specifica situazione fattuale - il campo di forza proprio del principio esplica i suoi effetti. In altri termini, la concretizzazione della portata normativa di un principio che non sia veicolato da una regola deriva dalla necessità di applicarlo a un caso per il quale il principio rilevi.
Ma come si colma la discontinuità logica tra il fatto storico e un mero principio normativo in assenza di una fattispecie normativa astratta che consenta di ricondurre il fatto al principio ? Come può avvenire la sussunzione di un fatto storico direttamente sotto un principio normativo (quando già è logicamente fallace pretendere di desumere una regola da un principio) ?
Evidentemente, occorre un (terzo) elemento che consenta il passaggio dal fatto storico al principio e che si risolve in un surrogato della fattispecie normativa astratta. Quando con la norma avente la struttura di un mero principio da applicare al fatto storico concorrono altri dati normativi (principi e/o regole) applicabili al caso, tale elemento è fornito dall’assestarsi delle relazioni logiche fra i contenuti dei dati normativi concorrenti. Ma quando con la norma avente la struttura di un mero principio da applicare al fatto storico non concorrono altri dati normativi (principi e/o regole) applicabili al caso, tale elemento va approntato dall’interprete con una operazione produttiva di significati normativi. Per queste vie si formano degli indirizzi dell’attività interpretativa, ma non una vera e propria casistica; non propriamente dei precedenti o dei casi-guida, ma soltanto degli schemi interpretativi di riferimento. In definitiva: l’applicazione diretta dei principi normativi non conduce al conformarsi di precedenti giudiziali in senso stretto[13].
3.3. Analoga conclusione vale quando le norme assumono la struttura di una clausola generale perché anche in questa evenienza manca una ben determinata fattispecie normativa astratta.
Anche nelle clausole generali il contenuto della norma comprende una parte descrittiva del genere di situazioni riconducibili alla previsione legislativa; tuttavia, tale descrizione è talmente ampia che non consente un giudizio di sussunzione se prima il contenuto delle parti elastiche della clausola generale non viene precisato mediante opzioni interpretative che chiamano in causa diversi principi normativi o che, talvolta, possono persino rivelarsi impregnate di assunzioni di valori. Ne sono un esempio le questioni connesse alla l’interpretazione del significato della clausola generale “stato di abbandono” del minorenne che negli anni hanno impegnato le Sezioni civili della Corte di cassazione.
La difficoltà di un ben definito svolgimento del giudizio di sussunzione si accresce quando il testo della disposizione normativa assembla più clausole generali. Si consideri, per esempio, il coacervo di clausole generali (i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) contenuto nell’art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990 nel tentativo di definire il caso di lieve entità nella detenzione illecita di stupefacenti.
Sono evidenti le conseguenze che da queste condizioni derivano in relazione alla determinatezza delle norme, alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie e alla stabilizzazione dei significati delle rationes decidendi nel susseguirsi delle decisioni[14].
3.4. Ordinariamente, il fatto storico acquista il suo compiuto senso giuridico dentro un contesto costituito non da uno solo ma da più dati normativi. La sussunzione avviene a seguito della considerazione, implicita o esplicitata, di una pluralità di dati normativi per cui, in realtà, è strutturalmente una plurisussunzione, sebbene in pratica, la interpretazione non si estenda a tutto l’ordinamento, ma solo a quel suo specifico segmento che l’interprete considera rilevante per il genere di fatti al suo esame. La connessione fra alcuni dati normativi può rivelarsi anche solo nel momento in cui si compie la sussunzione della fattispecie storica sotto la norma che compone i contenuti delle norme in gioco (la cosiddetta norma-ordinamento).
Ovviamente, la ricerca della ratio decidendi nel caso di plurisussunzione comporta modalità più articolate che nel caso di monosussunzione perché occorre non solo inquadrare la struttura dei dati normativi applicati (regole, principi particolari, principi generali, principi fondamentali) ma anche delineare le loro relazioni logiche, il cui articolarsi può mutare al mutare del contesto dei fatti rilevanti, soprattutto quando le regole e/o i principi divergono o addirittura confliggono.
In quest’ultimo caso, l’interprete deve ricorrere a tecniche che, se non si risolvono in una semplice distinzione concettuale, richiedono la scelta di un qualche criterio di contemperamento fra i dati normativi fra loro configgenti, con esiti che possono modificarsi in relazione alle circostanze del caso concreto.
Precipuamente quando fra i dati normativi intercorrono opposizioni reali (che non sono risolvibili tramite distinzioni concettuali ma solo con mediazioni fra le forze normative) l’interprete - proprio perché si trova a ponderare forze normative fra loro contrastanti - non riceve sufficiente materiale dalle norme e deve dotarsi delle categorie che soltanto la riflessione sul caso concreto può fornirgli secondo canoni di ragionevolezza e, quando i dati confliggenti sono più di due, l’interprete dovrà realizzare un bilanciamento fra le plurime forze normative in gioco e la prevalenza dell’una o dell’altra potrà dipendere da una terza forza normativa[15].
Non essendo legittimato, a eliminare alcuno dei princìpi o delle regole fra loro incompatibili, l’interprete dovrà limitarsi a una loro non applicazione, totale o parziale, nello specifico caso al suo esame. La norma disapplicata, totalmente o parzialmente, potrà riespandere la sua funzione nell’ambito di un altro contesto di norme costruito per risolvere altro problema interpretativo e, se del caso, prevalere anche nei confronti di quelle rispetto alle quali fu altrove soccombente. Questo fenomeno è particolarmente evidente quando i dati normativi si presentano articolati fra loro secondo rapporti di regole ed eccezioni, quando il cosiddetto criterio di specialità non sana incompatibilità fra i dati normativi ma conduce - tramite distinzioni concettuali - a individuare la norma specificamente adeguata alla fattispecie restringendo la portata della norma più generale.
In ogni caso, in condizioni di plurisussunzione manca un’unica fattispecie normativa che possa offrire uno stabile paradigma di riferimento per valutare il rapporto fra i precedenti già decisi e il nuovo caso da decidere.
[1] Sulla attuale condizione della nomofilachia e sulla crisi del sistema dei precedenti, fra i molti: G.Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in: Diritto pubblico, 2017, 1, pp. 21-27. Sul configurarsi di un sistema basato su un modello di precedente a vincolatività relativa incentrato sull’art. 618 cod. proc. pen.: G.Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in: Diritto penale contemporaneo, 29/01/2018, 1, pp. 1-18, 17.
[2] Su questa prescrizione metodologica fondamentale (Leibniz, Dissertatio de arte combinatoria) G. Gorla, Precedente giudiziale (voce) in : Enciclopedia Giuridica Treccani, XXIII, 8; M. Bin, Precedente giudiziario, ratio decidendi » e “obiter dictum”, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1988, 107733, 1013). Sui limiti del riferimento ai precedenti: B.Cavallone, Sulla citazione dei precedenti negli scritti forensi, in: Rivista di diritto processuale, 2018, 1, pp. 150-154. Più ampiamente: Atti del Seminari “Leibniz” per la teoria e la logica del diritto- II. I precedenti, Accademia dei Lincei, Roma 6/07/2017.
[3] Conserva autorità di precedente una massima (redazionale o ufficiale) dalla quale si ricava che la sentenza dai cui è tratta contiene solo un obiter dictum?: N.Visalli, La logica del giudice e la funzione uniformatrice della Cassazione, in: Rivista di diritto civile, 1998, fasc. 6, 1, pp. 705-752, 729. perché infarciti di obiter dicta esuberanti rispetto alla indicazione delle essenziali rationes decidendi. Su questi temi: B. Sassani, La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in: Judicium (rivista on line), 2019, 3/06/2019; L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel diritto civile, Torino, 2018.
[4] Su questi temi: A.Costanzo, Logica dei dati normativi, Milano, Giuffrè, 2005, 14ss, 141-155.
[5] Questa idea poggia sul presupposto implicito che: “non è possibile avere alcun concetto a meno di non averne molti, perché l’articolazione del contenuto di ciascun concetto dipende dalle sue relazioni inferenziali con altri concetti: R.B. Brandom, Articolare le ragioni. Un’introduzione all’inferenzialismo, trad.it. C.Nizzo, Milano, Il Saggiatore, 25. Edizione originale: Articulating Reason. An Introduction to Inferentialism, Harward University Press, 2000. Dello stesso autore: Making it Explicit, Harvard University press, 1994. Sul tema con specifico riferimento alle decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione italiana (art. 618 cod. proc. pen.): G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici, in: Diritto penale contemporaneo, 4/02/2019, pp-1-28, 17. Sottolinea l’esigenza di una coerenza sistemica della serie dei precedenti: M.Betzu, Diritto giurisprudenziale "versus" occasionalismo giurisprudenziale, in: Diritto pubblico, 2017, 1, pp. 41-75, 72.
[6] Per questo test: E.Wambaugh, The Study of Cases, Boston, 1892.
[7] Sul tema: A.Costanzo L’ingranaggio normativo, in Ars interpretandi, 10, 2005, pp.219-253; G.D'Amico, Problemi (e limiti) dell'applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in: Giustizia civile, 3, 2015, 247-273 e 2, 2016, 443-507.
[8] A.Costanzo, Percorsi della sussunzione, in S.Mangiameli (ed.), Studi in onore di Antonio D’Atena, Milano, Giuffrè, 2015, pp.692-711;
[9] Circa la rilevanza del numero dei precedenti: M. De Felice, Su probabilità precedente e calcolabilità giuridica, in: Rivista di diritto processuale, 2017, 6, pp. 1546 ss., 1561. Sulla funzione proattiva delle Corti superiori: S.C. Delgado Suarez, Sui modelli di Corti supreme e la revoca dei precedenti, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2018, 2, pp. 689-710.
[10] Sul rapporto fra i casi come rapporto fra particolare e particolare: E. Scoditti, Il diritto che non viene dal sovrano e il precedente giudiziario, in: Giustizia civile, 2017, 2, pp. 277ss, 296. Una disamina specifica in: M-L.Mathieu-Izorche, Gli orientamenti della dottrina in tema di neutralizzazione e di valorizzazione delle divergenze in giurisprudenza, in: A.Mariani Marini (ed.), Teoria e tecnica dell’argomentazione giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, 47-78.
[11] Sono, inoltre, caratteristiche dell’uso del precedente: la fallacia dell’accidente, che trascura le peculiarità del caso di cui si tratta; la fallacia dell’accidente converso (o generalizzazione affrettata), che pretende di trarre una regola da una ratio decidendi valida solo per casi peculiari. Le fallacie dell’accidente ricorrono nel campo giuridico perché frequenti sono le erronee calibrazioni del rapporto generale/particolare e la stessa formulazione delle massime di giurisprudenza in termini generali comporta il rischio ch’esse cadano nella genericità o nella fallacia della generalizzazione indebita.
[12] M. Taruffo, Note sparse sul precedente giudiziale, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2018, 1, pp. 111-129, 128.
[13] Sulla dubbia fruibilità come precedenti delle decisioni pronunciate direttamente nel segno dei valori o dei principi: O.Mazza, Conciliare l’inconciliabile: il vincolo del precedente nel sistema di stretta legalità, in: Archivio penale (speciale riforme), 2018, pp. 1-10; A.Valitutti, Precedente giudiziale e argomento “ex auctoritate”, in: Rivista di diritto processuale, 2019, 2, 494-508, 500; N. Irti, Sulla relazione logica di con-formità; precedente e susseguente, in: Rivista di diritto processuale, 2017, 6, p. 1539-1545, 1542; G. De Nova, Lo stato di informazione circa le future sentenze giudiziarie, in: Rivista di diritto processuale civile, 2016, pp. 1227-1238, 1229; ; G. Cocco, Verso una Cassazione Supreme Court: un parere contrario, la conferma della soggezione del giudice alla legge e una riforma possibile, in: Responsabilità civile e previdenza, 2016, 2, p.382-391.
[14] Sul tema: D.Castronuovo, Tranelli del linguaggio e “nullum crimen”, il problema delle clausole generali nel diritto penale, in: La legislazione penale, 2017, Rivista On line, 7/06/2017, pp.11-16; P.Grossi, Dalle “clausole" ai "principi" a proposito dell'interpretazione come invenzione, in: Giustizia civile, 2017, 1, pp. 5-15, 14.
[15] Sulla differenza fra il modello di decisione che utilizza il precedente “basato su regole” e quello “basato sull’equilibrio delle ragioni”, variabile caso per caso: M. Pollera, Precedente giudiziale e modelli decisionali, in: Cassazione penale, 2018, 3986-4011. Sul canone della ragionevolezza: A.Cerri (ed.), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico nella sfera giuridica, Atti del Convegno di studi, 2-4 ottobre 2006, Università La Sapienza Roma, Aracne, 2007; A.Costanzo, Logica giudiziaria, Roma, Aracne, 2012, pp.90-92.
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