ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Note sul giudizio di appello penale d’emergenza (l’art. 23 del dl 149 del 2020).
Spunti problematici del primo giudizio di appello penale cartolare
di Carlo Citterio
Il ‘legislatore provvisorio’ si è accorto finalmente del giudizio penale di appello, dopo averlo del tutto ignorato nelle varie edizioni della disciplina emergenziale.
Basti pensare che la previsione che esclude il remoto per le discussioni, dettata per il primo grado, tagliava automaticamente fuori tutto l’appello, che ordinariamente è ‘solo’ discussione e decisione, pervenendo ad una apparentemente non consapevole esclusione proprio per un rito che tutt’altro che infrequentemente vede difensori assenti o richiedenti con frettolosi fax dell’ultimo minuto sostituzioni “d’ufficio ex art. 97 quinto comma” e discussioni fantasma (il solo riportarsi ai motivi con deposito delle note spese). Ergastolo o pena pecuniaria, omicidio volontario e minacce gravi, l’appello sulla responsabilità e quello sulle attenuanti generiche, l’appello dell’imputato condannato e quello della parte civile ad azione penale definita con proscioglimento irrevocabile: casi che si trattano con il medesimo rito, sempre: udienza partecipata. Così mai il giudizio penale d’appello potrà raggiungere la propria finalità: una ponderata (e collegiale: è l’unica legittimazione per mutare l’apprezzamento di merito del primo giudice) rivisitazione dei punti della decisione devoluti da atti di impugnazione seri che enunciano motivi specifici, con decisioni nel merito in tempi ragionevoli, e non in rito, possibilmente solo finché l’azione penale è attiva… Finalmente si prevedono riti diversi e si riconosce alle parti, che la gestiscono con le proprie valutazioni libere informate e discrezionali, la scelta del rito.
Certo non si poteva pretendere troppo, per questa prima volta. Così la prima volta dell’appello penale oggetto di una autonoma norma emergenziale si risolve nel riproporre lo schema strutturale e sistematico già predisposto pure da precedenti decreti per il giudizio di legittimità, con minimi accorgimenti. Peccato che quello è un giudizio di legittimità che si chiude con una sentenza non impugnabile, il giudizio d’appello è invece giudizio di merito che si definisce con deliberazione soggetta ad impugnazione (sicchè, ad esempio, prevedere la ‘comunicazione’ del dispositivo alle parti fisicamente assenti ha certo natura solo informativa nel giudizio di legittimità, ma crea gravi incertezze nel raccordo con la disciplina della decorrenza dei termini assegnati per il deposito della sentenza e quindi per quelli di impugnazione nel giudizio d’appello).
Ma cogliamo l’aspetto positivo. La prima volta di una pluralità di riti nell’appello penale, la cui scelta è lasciata alla responsabilità consapevole e informata delle parti. E allora un’occasione preziosa che sollecita l’approfondimento con due parallele prospettive: capire cosa accade dei processi dal 25 novembre al 31 gennaio e cosa si deve fare per bene fare; cogliere gli snodi e gli aspetti applicativi che un rito d’appello penale cartolare con il consenso o con la richiesta della parte privata porrebbe per un legislatore ordinario motivato. La presenza di una previsione specifica nel disegno di legge 2435 Camera dei Deputati (il cd Progetto Bonafede giunto nelle aule parlamentari: art. 7 lettera G) giustifica e sollecita l’approfondimento.
Sommario: 1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza – 2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti: la disciplina – 3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche – 4. L’udienza camerale – 5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti – 6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi – 7. Il rito con trattazione orale – 8. La rinnovazione dell’istruzione – 9. La richiesta di trattazione orale – 10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire – 11. Il rito per i processi già pendenti.
1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza
L’art. 23 del dl 149, in vigore dal 09/11/2020 stesso giorno della sua pubblicazione sulla GU, detta per la prima volta nella disciplina emergenziale covid19 specifiche disposizioni per “la decisione” dei giudizi penali di appello.
Tale disciplina di eccezione riguarda esclusivamente “gli appelli proposti contro le sentenze di primo grado”.
Sono quindi escluse dalla normativa speciale tutte le altre procedure di competenza della corte di appello: esemplificativamente, tutti i procedimenti partecipati di esecuzione, riparazione ingiusta detenzione, mandati di arresto europei ed estradizioni, revisione, rescissione, prevenzione: in definitiva, tutti i procedimenti per i quali la corte d’appello è unico (salvo per i mae) giudice del merito.
E’ previsto in via generale il rito camerale senza partecipazione fisica delle parti, con tre sole eccezioni che determinano l’operatività del rito ordinario (nelle variabili della pubblica udienza per i procedimenti dibattimentali e del giudizio camerale partecipato fisicamente per i riti abbreviati o ex art. 599, comma 1, cod. proc. pen.); si tratta dei casi in cui: la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603), quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale, quando l’imputato manifesti la volontà di comparire (tuttavia formulando la sua richiesta solo a mezzo del difensore: comma 4, seconda parte).
La disciplina non sembrerebbe applicabile all’appello avverso le sentenze penali del giudice di pace, atteso che l’art. 23 fa esplicito ed esclusivo riferimento alla corte d’appello e, trattandosi di disciplina di eccezione, interpretazioni estensive non paiono possibili.
2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti (art.23, commi 1, 2, 3): la disciplina
2.1. Regola generale è che dal 9/11/2020 al 31/01/2021[1] “per la decisione” la corte di appello “procede in camera di consiglio senza l’intervento del ‘pubblico ministero’ e dei difensori” [La norma non fa riferimento espresso all’imputato, ma deve sicuramente ritenersi che neppure l’imputato possa presenziare, in questa tipologia di rito].
Questi i tempi e le modalità della partecipazione delle parti alla decisione:
- entro dieci giorni (non ‘liberi’? [2]) prima dell’udienza il ‘pubblico ministero’ “formula le sue conclusioni” con atto trasmesso alla cancelleria della corte per via telematica [3]
- sempre per via telematica la cancelleria invia “immediatamente” l’atto “ai difensori delle altre parti”
- i difensori delle altre parti “possono” presentare le conclusioni SOLO con atto scritto trasmesso per via telematica alla cancelleria esclusivamente agli indirizzi di posta elettronica certificata dedicati [4]: ciò deve avvenire entro cinque giorni (‘non liberi’?) prima dell’udienza
- non è previsto che la cancelleria inoltri anche le conclusioni di una parte privata alle altre parti.
2.2. La diversità dei termini (“formula”, “possono”) indica inequivocamente che:
mentre la parte pubblica deve formulare le conclusioni per ciascuno dei processi fissati alla singola udienza, i difensori delle parti private possono presentarle ma non sono obbligati.
Così, l’essere stato previsto espressamente l’invio per via telematica alle altre parti (“immediatamente”) solo per le conclusioni del ‘pubblico ministero’ [5] comporta che:
deve escludersi che anche le (eventuali) conclusioni della singola parte privata debbano essere comunicate dalla cancelleria della corte alle altre parti [6].
2.3.1. Quanto alla natura dei termini per il deposito delle conclusioni scritte delle parti, considerando che nella stessa norma (l’art. 23 dl 149) è invece specificato il carattere perentorio del diverso termine per la richiesta di trattazione orale (comma 4), si impone la conclusione che:
i rispettivamente dieci e cinque giorni per la formulazione delle conclusioni sono termini NON perentori.
2.3.2. La non perentorietà dei termini di formulazione delle conclusioni e la previsione della comunicazione delle sole conclusioni del procuratore generale pongono problemi concreti, già presentati dall’esperienza in corso ma ignorati dal ‘legislatore’ e da risolvere in via interpretativa, nell’auspicabile attesa che la legge di conversione (o un nuovo decreto legge, stanti le possibili implicazioni in atto delle diverse soluzioni sulla ritualità del giudizio) possa chiarirli:
3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche
3.1. la struttura della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica (con l’espressa previsione del loro invio “immediato” alle altre parti e del loro minor termine per il deposito delle proprie) parrebbe imporre la soluzione del possibile obbligo di rinvio dell’udienza camerale, quando la comunicazione delle conclusioni della parte pubblica al difensore di parte privata sia omessa o comunque avvenga oltre il sesto giorno prima della udienza. Rinvio tuttavia da disporsi solo su esplicita richiesta della parte privata interessata all’eccezione (trattandosi di vizio del contraddittorio disponibile: si tratterebbe di nullità ex art. 178 cod. proc. pen. ma intervenuta prima del giudizio e pertanto ex art. 180 con onere di espressa eccezione entro la deliberazione d’appello: quindi con la presentazione di conclusioni della parte privata ‘tardive’ ma precedenti il giorno dell’udienza);
3.2. tuttavia, se il termine di cinque giorni per le ‘altre’ parti è solo ordinatorio, ciò comporta che le conclusioni delle parti private parrebbero poter essere presentate anche entro i cinque giorni, con ciò, conseguentemente, tendenzialmente non sussistendo una certa, insuperabile e consumata, violazione del diritto di difesa nel caso di comunicazione tardiva delle conclusioni della parte pubblica: la dinamica ordinatoria della successione dei termini da un lato non parrebbe poter fondare un diritto delle parti private al termine utile minimo di cinque giorni dalla “immediata” comunicazione delle conclusioni del procuratore generale, dall’altro consentirebbe comunque il rispetto in ipotesi dei cinque giorni riducendo il secondo termine di cinque giorni che non è a garanzia delle parti ma del sistema (trattandosi di termine a favore della tempestiva conoscenza del giudice). Si tratterebbe in definitiva di una garanzia tendenziale per i vari beneficiari, ché altrimenti il ‘legislatore’ li avrebbe previsti perentori;
in definitiva, pare soluzione sistematicamente corretta quella di ritenere che l’eccezione di violazione del diritto di difesa (da proporsi specificamente con conclusioni ‘tardive’ rispetto ai cinque giorni prima dell’udienza) possa imporre il differimento della camera di consiglio, pur senza presenza fisica delle parti, solo quando in concreto le conclusioni del procuratore generale: a) non siano state inoltrate [7], b) siano state inoltrate a difensore diverso da quello effettivo al momento dell’inoltro, c) siano state inoltrate in tempi tali da non consentire oggettivamente la presentazione di proprie conclusioni ‘informate’ ai difensori delle parti private.
3.3. Sono connessi corollari della natura ordinaria del termine due altri conseguenti problemi:
quale è allora il momento ultimo di presentazione delle conclusioni delle parti private a pena di inefficacia/inammissibilità delle stesse?
Secondo problema/corollario:
sono possibili repliche scritte diverse dall’atto di conclusioni?
(fermo restando che l’atto con le conclusioni scritte, oltre che le eventuali note spese, pure contenenti la voce fase deliberazione, può fisiologicamente contenere argomentazioni a sostegno dell’accoglimento delle stesse che non si risolvano, per l’appellante, in motivi nuovi ex art. 585, a quel punto intempestivi [8]).
3.3.1. Due le soluzioni possibili:
a) il momento di effettivo svolgimento della camera di consiglio, con i magistrati sia in presenza che da remoto, incombente pertanto da tenersi non prima dell’orario originariamente programmato per la trattazione ordinaria in presenza;
b) almeno il giorno precedente quello della udienza.
La soluzione che individua come momento ultimo della presentazione di conclusioni quello di inizio dell’effettivo svolgimento della camera di consiglio dedicata al singolo procedimento, e conclusa con il deposito del dispositivo[9], è certo astrattamente coerente alla natura ordinatoria del termine, in assenza di alcuna indicazione specifica di un momento o termine finale diverso. Essa però non convince perché non pare tener conto di struttura, finalità e disciplina del rito camerale senza partecipazione fisica (modalità di trattazione che obiettivamente non è più correlata al rispetto di una fascia oraria prevista solo per tutelare esigenze assorbite dall’assenza fisica delle parti).
Si tenga in proposito presente che:
- il termine assegnato per il deposito ultimo delle conclusioni è in realtà a beneficio solo del giudice collegiale e delle incombenze di cancelleria [10]. Esso assolve anche all’obbligo di pertinente tempestiva conoscenza da parte del collegio giudicante il quale, per espressa disposizione speciale (art. 23, comma 3, dl 149 che richiama espressamente la disciplina dell’art. 23, comma 9, dl 137), potrebbe appunto riunirsi anche da remoto, quindi senza presenza fisica dei componenti, o di alcuno di essi, nell’ufficio. La precedente esclusione di tale facoltà, prevista dal dl 137 per le deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione, non rileva infatti per i procedimenti camerali con assenza fisica delle parti ex art. 23, comma 2, dl 149, proprio in ragione di tale rinvio esplicito operato da questa norma, che disciplina solo “la ‘decisione’ dei giudizi penali di appello”;
- le ‘conclusioni’ possono essere depositate SOLO per via telematica (art. 23, comma 2, dl 149), a differenza degli altri atti che ‘possono’ essere depositati per via telematica (art. 24, comma 4, dl 137) o con accesso fisico regolamentato alla cancelleria [11];
- manca l’autonoma (necessaria) articolata disciplina espressa del deposito telematico ‘in entrata’ nel penale, come del resto per il deposito fisico [12], con particolare riferimento all’ultimo momento utile della giornata per l’invio efficace che faccia contestualmente corrispondere la eventuale decorrenza di termini per provvedere.
Conseguentemente, se il termine dei cinque giorni è a beneficio ‘dell’Ufficio’, se il deposito può avvenire solo per via telematica, se la fissazione di orari per fasce è finalizzata all’organizzazione ordinata e rispettosa delle udienze trattate in presenza, dovrebbe ritenersi che l’invio ‘utile’ sia quello che perviene alla cancelleria dell’ufficio giudiziario entro il giorno precedente l’udienza ed entro la conclusione del normale orario di lavoro mattutino.
Sembra utile una considerazione finale: se il ‘legislatore’ avesse previsto, o prevedesse, che i cinque giorni (e quindi i dieci) dovessero essere ‘liberi’, più agevole sarebbe stato concludere sul piano sistematico per l’individuazione del giorno precedente l’udienza come momento ultimo del deposito delle conclusioni, a quel punto l’ordinarietà del termine comunque consentendo l’interpretazione della efficacia di un deposito più ravvicinato all’udienza ma non oltre il giorno precedente.
In ogni caso, nel dubbio della certa affidabilità di una sola delle soluzioni rimane l’opportunità prudenziale di depositare i dispositivi dei singoli procedimenti non prima dell’orario originariamente fissato per la trattazione ordinaria.
3.3.2. Quanto alle ‘repliche’, vanno escluse. Si considerino a sostegno dell’assunto: la ristrettezza del termine (cinque giorni ordinatori), la sua disciplina specifica di contenuto palesemente diverso da quelle delle situazioni procedimentali correlabili espressamente disciplinate (611, comma 1, ma con termini molto più ampi) e, con rilievo assorbente, la consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude l’applicabilità dell’istituto della replica (prevista, pur con rigorosi limiti, nella discussione di pubblica udienza ex art. 523) ai procedimenti camerali: per tutte, Sez.4 sent. 12482/2011 e 19200/2016, Sez.6 sent. 45182/2019 e 19810/2009. In altri termini, il diritto di replica sussiste solo quando il legislatore espressamente lo attribuisce alle parti, il che non è avvenuto con il dl 149/2020 [13].
Quindi, nel nostro caso, si comprende così la piena coerenza sistematica (e confermativa degli approdi giurisprudenziali di legittimità) della disciplina che prevede l’inoltro alle altre parti solo delle conclusioni del procuratore generale e non di quelle delle altre parti, nonché i due diversi termini ordinatori. Si conferma pertanto che le conclusioni delle parti private non devono essere comunicate dalla cancelleria alle altre parti, pubblica e private.
3.3.3. E’ doveroso dar conto di come il quadro ricostruttivo e le soluzioni pertinenti, che precedono, potrebbero astrattamente essere poste in crisi dal rilievo che, se a fronte dell’eventuale mancata presentazione delle conclusioni da parte del procuratore generale (vuoi per errore vuoi per altra ragione) si dovesse necessariamente rinviare, si sarebbe attribuito alla parte pubblica e in particolare al deposito delle sue conclusioni l’efficacia di una sorta di condizione di procedibilità. Ciò condurrebbe, paradossalmente e in situazioni patologiche, ad attribuire alla discrezionalità della parte pubblica la stessa possibilità di definire il processo, sicchè ciò che solo rileverebbe è che la parte pubblica sia stata nelle condizioni di presentare le proprie conclusioni.
La suggestività del rilievo (il cui accoglimento ‘sconvolgerebbe’ la ricostruzione che precede, in definitiva prospettando una ricostruzione alternativa per cui le parti, pubblica o private, concludono se vogliono, ciascuna nel termine proprio assegnatogli, 10 e 5 giorni prima dell’udienza) non conduce tuttavia a condividerlo. E’ la consapevole struttura della procedura con tre momenti essenziali e convergenti (l’obbligo di presentazione delle conclusioni solo per la parte pubblica: “formula”/”possono presentare”; la diversità dei termini: dieci, cinque giorni; la necessità di inoltrare solo le conclusioni del procuratore generale alle parti private) che in modo francamente inequivoco assegna alle conclusioni del procuratore generale una funzione obbligatoria indefettibile: del resto, a ben vedere, la patologia immaginata (non l’errore, che è rimediabile con il differimento anche brevissimo, ma il ‘rifiuto’ discrezionale) ben potrebbe verificarsi anche nel caso di conclusioni orali necessarie (rito con udienza pubblica). Ma sono situazioni eccentriche alla disciplina del rito che inevitabilmente innescano meccanismi sostitutivi di genere organizzativo/sanzionatorio.
Neppure risulta appagante il richiamo alla natura camerale del rito. E’ proprio la diversità palese di disciplina tra l’art. 127, comma 3 (il p.m. conclude se compare, altrimenti si procede oltre) e la ‘nostra’ struttura appena esposta ed espressamente prevista dall’art. 23, comma 2, dl 149 (il ‘pubblico ministero’ “formula” le sue conclusioni, i difensori delle altre parti “possono presentare”), che rende conto di una disciplina di eccezione, diversa da quella camerale ordinaria e con un proprio equilibrio interno autonomo.
4. L’udienza camerale
L’udienza camerale può essere svolta dai tre giudici in presenza nell’ufficio giudiziario ovvero da remoto (alcuno dei componenti del collegio o tutti). Nel secondo caso il collegamento deve avvenire con il sistema teams e ai fini formali il luogo da cui si collegano i singoli magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti (il già ricordato art. 23, comma 9, dl 137/2020, richiamato espressamente dall’art. 23, comma 3, dl 149).
All’udienza partecipa anche l’ausiliario del giudice, sempre dall’ufficio giudiziario (art. 23, comma 5, dl 137/2020, da ritenersi applicabile anche nel caso delle udienze camerali ex artt. 23, comma 3, dl 149 e 23, comma 9, dl 137): lo stesso annoterà nel singolo verbale la composizione del collegio e l’orario di inizio e conclusione della camera di consiglio, ricevendo altresì il dispositivo cartaceo nel caso di presenza fisica del collegio, o di un suo componente, nell’ufficio.
E’ indubbio che il collegio dovrà comunque preliminarmente accertare la regolare costituzione delle parti (pur senza qualificare la posizione dell’imputato in termini di assenza o contumacia) e verificare, con l’assistente di udienza, l’avvenuta presentazione delle conclusioni da parte di alcuna o tutte le parti, pubblica e privata, verificandone il contenuto, in particolare nel caso di parziali rinunce ai motivi ovvero di sollecitazione all’esercizio dei poteri d’ufficio previsti dall’art. 597, comma 5, al fine di evitare vizi di omessa motivazione.
5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti
5.1 Il dispositivo della “decisione” deve essere comunicato “alle parti” (art. 23, comma 3, seconda parte, dl 149). Lo stesso, sottoscritto dal presidente o da uno dei componenti del collegio, è depositato in cancelleria “il prima possibile”. Nel caso di udienza svolta presso l’ufficio giudiziario il deposito avverrà in esito alla deliberazione.
La previsione della comunicazione del dispositivo riproduce l’analoga disposizione che l’art. 23, comma 8, dl 137 disponeva solo per il giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Tuttavia, aspetto essenziale che pare essere stato dimenticato dal ‘legislatore provvisorio’, mentre le decisioni della Corte di cassazione non sono impugnabili (anche il termine per eventuale richiesta di ricorso straordinario decorre dal deposito della sentenza), sicchè la comunicazione del solo dispositivo ha sicuramente una mera valenza conoscitiva/informativa (come il termine stesso “comunicazione”, in luogo della “notificazione”, sembrerebbe confermare), quelle di appello lo sono.
Diviene pertanto essenziale comprendere il significato sistematico della ‘comunicazione del dispositivo alle parti’ per il giudizio d’appello camerale senza presenza fisica delle stesse, in relazione alla disciplina delle impugnazioni con particolare riferimento agli articoli 544 e 585 cod. proc. pen. ed alla disciplina dell’assenza o della contumacia dell’imputato.
Il punto, molto rilevante anche per le implicazioni sul lavoro di cancelleria, purtroppo non è stato disciplinato e sarebbe auspicabile che già in sede di conversione del decreto legge 149/2020 venisse chiarito: a garanzia innanzitutto delle difese di parte privata, che rischiano di trovarsi dichiarati inammissibili per tardività gli eventuali ricorsi presentati facendo riferimento alla data della comunicazione all’imputato.
Il problema riguarda due aspetti: la decorrenza del termine di deposito della sentenza assegnato nel dispositivo e conseguentemente di quello per impugnarla per il procuratore generale e i difensori della parte privata e quella per l’imputato.
In particolare:
il termine assegnato nel dispositivo per il deposito della sentenza decorredalla data della deliberazione o da quella della comunicazione?
nel primo caso, cosa accade se la comunicazione del dispositivo all’imputato avviene oltre la scadenza del termine assegnato dal dispositivo per il deposito della sentenza e questa è stata effettivamente depositata in quel termine?
Va infatti notato che l’art. 23, comma 3, dl 149 non reitera la disciplina della notificazione solo al difensore di fiducia anche per conto dell’imputato, già presente nella disciplina di prima fase della emergenza covid19 (art. 83, comma 14, dl 18/2020 come convertito nella legge 27/2020: dove comunque rimaneva l’onere di autonoma ‘notifica’ all’imputato assistito da difensore di ufficio che non avesse efficacemente eletto domicilio presso di lui). Conseguentemente la ‘comunicazione’ dovrà essere inviata anche all’imputato (che il mero riferimento alle “parti” deve ritenersi comprendere, in mancanza di diversa specifica esclusione).
Nel caso di valenza solo genericamente informativa della comunicazione (come in concreto è per la Corte di cassazione), il termine per l’eventuale impugnazione decorrerebbe per tutte le parti, pubblica e private, compreso l’imputato, dal giorno della deliberazione tenendo conto dei termini per il deposito della sentenza in essa assegnati.
Se invece la comunicazione avesse una qualche efficacia ‘costitutiva’ della conoscenza, si dovrebbe ritenere che anche il decorso del termine per il deposito della sentenza assegnato nel dispositivo (e produttivo dei correlati diversi termini di cui all’art. 585 per l’impugnazione di tutte le parti) decorrerebbe dalla data di effettiva esecuzione della ‘comunicazione’.
Evidenti le implicazioni della seconda soluzione, specialmente pensando al fatto che la comunicazione all’imputato non eseguibile ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, o al difensore dichiarato domiciliatario, o ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., dovrebbe avvenire per le vie ordinarie con la tutt’altro che imprevedibile dilatazione dei tempi di effettiva, o ritualmente formale, conoscenza. Il che condurrebbe, nella prassi, alla frequente possibilità che la sentenza venga depositata dall’estensore, specialmente se il termine assegnato è quello dei quindici giorni o di un mese, prima ancora che sia compiuta la ‘comunicazione’ del suo solo dispositivo.
Peculiare è poi la situazione nel caso di sentenza redatta con motivazione contestuale, che dovrebbe allora determinare direttamente la ‘comunicazione’ della intera sentenza, con decorso dei quindici giorni per impugnare, quanto all’imputato, dalla sua positiva effettuazione.
5.2. A favore della prima soluzione concorrerebbero una considerazione formale (appunto il termine ‘comunicazione’ in luogo di ‘comunicazione e notificazione’, la prima per il procuratore generale, la seconda per difensori delle parti private e imputato) e due sistematiche: la previsione dell’incombente anche davanti alla Corte di cassazione che, per quanto prima argomentato, ha sicuramente solo una valenza informativa improduttiva di effetti processuali specifici; il fatto che anche il processo d’appello con rito camerale in assenza presuppone la compiuta informazione di difensori e parti della trattazione del processo in una determinata data, eventualmente solo la mancata deliberazione dovendo essere comunicata per il prosieguo (conclusione supportata dall’insegnamento recente di SU sent. 698/2020 per il rito abbreviato). In tal caso dovrebbe pertanto concludersi che in contesto di assenza o contumacia, il termine per il deposito della sentenza nei termini assegnati in dispositivo decorra per tutti (parti pubblica e private e loro difensori) comunque dalla data di deliberazione e non dalla data di (mera) ‘comunicazione’ del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale.
Si tenga infine conto che poiché la trattazione del processo in rito camerale con assenza fisica è esito di una specifica discrezionale scelta di tutte le parti interessate al singolo processo di non trattare oralmente la causa, nessun pregiudizio potrebbe addebitarsi agli effetti del rito in ipotetico danno sia del diritto di difesa, per le parti private, che dell’interesse pubblico ad un eventuale contraddittorio orale.
La delicatezza della questione, in relazione alle sue implicazioni in termini di modalità dell’esercizio dei diritti processuali e organizzativi delle cancellerie delle corti di appello, davvero sollecita un pronto chiarimento ed una eventuale integrazione della disciplina da parte del legislatore.
6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi
La prima esperienza applicativa ha segnalato infine incertezze nell’attivazione delle parti, privata e pubblica, per l’eventuale definizione del processo con rito camerale in assenza attraverso il concordato per l’accoglimento dei motivi ex art. 599-bis cod. proc. pen.. Ci si è posti il tema del rapporto tra tale richiesta e la disciplina dei termini (dieci e cinque giorni, pur ordinatori) per il deposito delle conclusioni scritte.
Un’impostazione formale condurrebbe a concludere che l’accordo debba essere presentato dalla difesa (ultima a concludere) con tali conclusioni scritte, che rappresentano il momento di definizione della posizione della parte per la deliberazione. In realtà, ragioni di opportunità, con l’aggancio normativo alla previsione dell’art. 589, comma 4, cod. proc. pen. (che per i riti camerali indica il termine ultimo della rinuncia a “prima dell’udienza”) deve ritenersi che, prescindendo dall’eventuale già avvenuto deposito delle conclusioni scritte, la richiesta di concordato, sottoscritta o fatta comunque propria dalla parte privata e dal procuratore generale, possa essere presentata fino al giorno prima della udienza, comunque prima del suo inizio [14].
Ovviamente, quanto più tempestivo sarà il deposito tanto più possibili saranno eventuali interlocuzioni informali anche della Corte sul contenuto del concordato nella prospettiva del suo accoglimento.
Rimane infatti onere delle parti (obbligo per il procuratore generale, facoltà per il difensore dell’imputato) presentare le conclusioni subordinate, per il caso del mancato accoglimento, non trovando applicazione la disposizione dell’art. 599-bis, comma 3, per la specialità eccezionale del rito emergenziale.
7. Il rito con trattazione orale (art.23, commi 1 e 4)
Sono come detto tre i casi in cui anche nel periodo emergenziale (per ora fino al 31/01/2021) si deve procedere con i riti ordinari, dibattimentali ex art. 602 e camerali ex art. 599, trattati in presenza:
1) quando la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603)
2) quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale
3) quando l’imputato manifesti la volontà di comparire.
8. La rinnovazione dell’istruzione
8.1. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non può che essere disposta, su richiesta dell’appellante o d’ufficio e nei casi disciplinati dagli artt. 603 e 604, comma 6, dalla corte con ordinanza nel corso del giudizio.
Questo significa che fintanto che non è stata disposta la rinnovazione, se non è stata chiesta autonomamente la trattazione orale la corte d’appello procederà con il generale rito camerale in assenza. Se all’esito della camera di consiglio riterrà sussistere le condizioni per disporre la rinnovazione, la disporrà deliberando con ordinanza notificata alle parti, contestualmente fissando successiva udienza con trattazione orale nel rito, dibattimentale o camerale, proprio del caso.
Nessun problema di contraddittorio perché l’appellante deve aver proposto motivo specifico che, pertanto, è suscettibile di confronto nelle conclusioni scritte delle altre parti. A seconda delle peculiarità dei casi la corte d’appello potrà sempre adeguare poi il proprio provvedimento all’esito del confronto dialettico orale nell’udienza di rinvio.
8.2. Non muta la soluzione nel caso di appello della parte pubblica o della pur sola parte civile avverso sentenze di proscioglimento, quando l’appello solleciti la rivisitazione dell’apprezzamento di prove dichiarative decisive. L’obbligatorietà della rinnovazione prevista dall’art. 603, comma 3-bis, anche in tal caso non opera automaticamente, perché la corte in tanto procederà alla rinnovazione in quanto riterrà essenziale per decidere la rivalutazione della prova dichiarativa indicata dall’appellante.
E’ pertanto infondato l’assunto che nel caso di appello avverso sentenze di proscioglimento provenienti dalle parti interessate ad un giudizio di affermazione di responsabilità (penale e/o civile) si debba, per ciò solo, sempre e comunque procedere con rito in presenza.
8.3 Problema particolare è quello in cui la rinnovazione richiesta dalle parti si risolve nella domanda di produzione di documenti.
Va condiviso l’insegnamento di Cass. Sez. 5, sent. 32427/2015, secondo la quale per l’acquisizione di un documento non è indispensabile procedere a formale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Ciò che solo rileva è la possibilità del contraddittorio, che si risolve nella conoscenza tempestiva della richiesta per le altre parti e della loro effettiva concreta possibilità di interloquire sul punto, anche quando poi non esercitino in effetti la facoltà.
Conseguentemente, quando la richiesta di acquisizione documentale sia già contenuta nell’atto di appello, o in tempestivi motivi aggiunti, sarà onere delle altre parti concludere anche sulla stessa, in particolare quando i documenti di cui si chiede l’acquisizione siano stati allegati all’atto di impugnazione, la mancata concreta interlocuzione lasciando libera la corte di deliberare sul punto nella camera di consiglio in assenza fisica delle parti. Stessa soluzione nel caso che sia il procuratore generale a chiedere l’acquisizione di documenti allegandoli alle proprie conclusioni scritte (perché queste vengono inviate alle altre parti).
Quando invece la richiesta di acquisizione del documento provenga da una parte privata e intervenga solo con il deposito delle conclusioni scritte, deve ritenersi che la corte valuterà la natura del documento e la conseguente necessità di una interlocuzione delle altre parti, con apprezzamento estremamente prudenziale, tenendo conto che se si trattasse di documenti il cui contenuto effettivamente possa influire sulla decisione (venendo poi addirittura richiamato nel percorso logico-giuridico argomentativo della deliberazione), l’omessa interlocuzione potrà per sé costituire ragione di annullamento della deliberazione per violazione del contraddittorio.
Anche per i documenti si pone il tema dell’individuazione del momento ultimo della richiesta: in particolare se questa possa intervenire tra il già avvenuto deposito delle proprie conclusioni e fino all’inizio della camera di consiglio per la deliberazione [15].
9. La richiesta di trattazione orale
9.1. La richiesta di discussione orale, insindacabile e non sottoposta ad alcuna condizione, deve essere formulata per iscritto entro il termine PERENTORIO di quindici giorni liberi prima dell’udienza. Essa va trasmessa, sia dal procuratore generale che dai difensori delle parti private, alla cancelleria della corte di appello attraverso la pec dedicata (comma 4, prima parte), indicata dal provvedimento DGSIA richiamato e dal conseguente provvedimento organizzativo dell’Ufficio giudiziario.
Formulata la richiesta di trattazione orale, il processo viene trattato secondo il rito ordinario di udienza pubblica o camerale partecipato, corrispondente al rito del primo grado ed alla disciplina dell’art. 599, comma 1, cod. proc. pen., applicandosi le regole proprie.
È sufficiente la richiesta di una sola delle parti, pubblica o private, per imporre la trattazione orale del processo per le altre.
L’insindacabilità della richiesta attesta l’attenzione a che il regime emergenziale e la rinuncia alla presenza fisica trovi la condivisione di tutte le parti protagoniste del processo, giudicate opportunamente tutte e ciascuna titolari degli apprezzamenti di merito pertinenti all’idoneità del rito alla salvaguardia dei propri interessi e diritti processuali.
9.2. Tre problematiche sulla scelta del rito: se sia ammissibile una richiesta tardiva, ancorché in ipotesi congiunta di tutte le parti interessate; se la richiesta di trattazione orale sia revocabile; se sia ipotizzabile disporre d’ufficio la trattazione orale.
La risposta, sul piano formale, sembra necessariamente negativa per tutte.
Alla natura perentoria del termine (per sé esaustiva a negare una richiesta tardiva) si accompagna la considerazione della natura emergenziale della disciplina e delle sue ragione e finalità. Una volta esercitata o non esercitata la facoltà, appunto pure insindacabile, attribuita, il ‘ripensamento’, pur collettivo, non trova spazio, salve sempre le situazioni oggettive che possano fondare una richiesta di restituzione in termine.
Ciò perché, sul piano sistematico, esercitata la facoltà il rito non è più nella disponibilità della e delle parti.
Il potere di ufficio di disporre la trattazione orale anche quando le parti non lo chiedano va pure escluso per la medesima ragione sistematica. In presenza di un contesto emergenziale il ‘legislatore provvisorio’ ha indicato nel camerale senza presenza fisica il rito ‘ordinario’ e le eccezioni sono tassative e quindi solo quelle indicate.
9.3. Un’ulteriore problematica nasce dall’ennesimo silenzio dell’impianto normativo: l’art. 23, comma 4 non prevede come la richiesta di trattazione orale della prima parte che la propone (così, per quanto ora detto, incardinando il rito ordinario) giunga alle altre. Non è stato in particolare riprodotto l’obbligo della cancelleria, che quella prima richiesta riceve, di inoltrarla alle altre parti.
Esigenze sistematiche di elementare buona organizzazione (principio costituzionale di efficienza della giurisdizione) e ragionevole durata del processo (principio costituzionale che sarebbe posto a rischio nel caso di stallo sul punto, per la mancata attivazione spontanea del richiedente nella comunicazione della propria richiesta alle altre parti del suo processo, tra l’altro potendosi innescare la contemporanea sequela di presentazione di conclusioni scritte per le altre parti, determinando una situazione che comunque alfine dovrebbe essere gestita d’ufficio dalla corte) impongono di ritenere che sia onere della cancelleria, anche solo su provvedimento organizzativo interno, dare ‘immediatamente’ notizia di tale richiesta alle altre parti (mutuando l’attivazione che consegue al deposito delle conclusioni scritte del procuratore generale).
Si avverta che non vi è contraddizione tra sollecitare questa attivazione organizzativa ‘spontanea’ e l’aver negato che la stessa sia doverosa anche nel caso di ricezione delle conclusioni scritte delle parti private nel rito camerale in assenza. Basta rilevare le dinamiche temporali ben diverse (quindici giorni liberi, termine perentorio: termine più che sufficiente per comunicare alle altre parti la richiesta di trattazione orale prima dei dieci giorni per le conclusioni del procuratore generale; solo cinque giorni prima e ordinatori, nel caso delle conclusioni scritte delle parti private) per cogliere l’assenza di alcuna irrazionalità delle diverse soluzioni.
10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire
10.1. La terza ‘eccezione’ al rito camerale in assenza è rappresentata dalla “manifestazione della volontà di comparire” proveniente dall’imputato (art. 23, comma 1, ultima parte).
Quella dell’imputato non è una tecnicamente formale richiesta di trattazione orale, ma la conseguenza della manifestazione di tale volontà è proprio quella di imporla.
È per questo probabilmente che la disciplina prevede una disposizione saggia: la manifestazione della volontà dell’imputato di comparire impone la trattazione orale ma è ammissibile solo quando pervenga alla cancelleria della corte di appello a mezzo del difensore. Tale disposizione raggiunge due risultati utili: informa il difensore che, quindi, può concordare con l’assistito la linea difensiva anche sul rito e, comunque, è avvisato del rito di trattazione orale con cui si procederà, obbligandolo ad una presenza effettiva, sia pure eventualmente attraverso sostituto fiduciario ex art. 102 cod. proc. pen. [16]
10.2. L’esperienza ha subito posto il tema della richiesta di partecipazione dell’imputato detenuto il quale chieda direttamente, tramite l’ufficio matricola dell’istituto dove si trova, di partecipare all’udienza, nelle due situazioni possibili del prima e dopo il decorso dei perentori quindici giorni, quando il suo difensore non abbia presentato nei termini l’autonoma richiesta di trattazione orale.
Si è ipotizzata la possibilità che i due commi (1 e 4, seconda parte, dell’art. 23) afferissero il primo all’imputato ristretto e il secondo all’imputato libero, così ‘sganciandosi’ l’imputato detenuto da tempi e modalità riservati all’imputato libero. Ma la norma non pare permettere tale conclusione: basti pensare che il comma 1 individua i casi nei quali non si procede con il generale rito camerale in assenza e il comma 4 ne disciplina i modi e i tempi, quindi vi è assoluta congruità e complementarietà dei due momenti della disciplina.
Deve quindi ritenersi che nel caso in cui l’imputato detenuto o agli arresti domiciliari abbia manifestato direttamente, tramite l’ufficio matricola o a mezzo polizia giudiziaria delegata al controllo o personalmente, la volontà di comparire:
- se non sono decorsi i quindici giorni la cancelleria possa inoltrare la richiesta al difensore perché si attivi al contatto con l’assistito o veicoli direttamente lui la richiesta, condividendola;
- se sono decorsi i quindici giorni e il difensore non abbia già autonomamente chiesto la trattazione orale, la richiesta debba essere dichiarata inammissibile (apparendo opportuno comunque dar notizia all’interessato che si procederà in assenza) [17].
10.3. Diverso è il caso in cui la trattazione orale sia stata chiesta dal procuratore generale o dal difensore di parte privata e si debba quindi procedere con gli ordinari riti di pubblica udienza o camerale partecipato.
In tal caso l’imputato parteciperà, salvo rinuncia, con collegamento di videoconferenza o informatico nel caso di rito in pubblica udienza disposto d’ufficio. Avrà l’usuale ordinario onere di richiedere la partecipazione nel caso di giudizio camerale, ferma la partecipazione a distanza (art. 23, comma 4, dl 137/2020, non derogato).
11. Il rito per i processi già pendenti
11.1. Due ultime questioni.
La prima riguarda i processi per cui è fissata udienza nel periodo dal 25 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e provengono da precedenti differimenti da udienze trattate con rito ordinario prima del 9 novembre.
Il quesito è se anche ad essi si applichi la disciplina eccezionale del dl 149.
La risposta pare possa essere differente secondo che il differimento precedente sia avvenuto in via preliminare (accertamento della costituzione delle parti e rinvio per legittimi impedimenti, astensioni, trattative, altre ragioni che abbiano impedito di procedere alla relazione della causa) ovvero dopo la relazione introduttiva.
Nel primo caso la trattazione del processo in definitiva non è iniziata: ne è controprova il fatto che la nuova udienza può essere trattata in composizione collegiale differente (Cass. Sez.3, sent. 47471/2013; Sez.4, sent. 4460/2006). In questo caso dovendo il processo essere trattato ex novo non vi sono ragioni per non applicare la disciplina dell’art. 23 dl 149/2020 nella sua integralità, in applicazione del principio di applicazione del rito previsto per il periodo di trattazione.
Nel secondo caso, la regressione dalla trattazione orale a quella cartolare non pare possibile, in assenza di una disciplina transitoria specifica pertinente. Questo perché nel periodo di emergenza non sono in assoluto precluse le trattazioni in presenza, ma solo diversamente disciplinate, comunque consentite per sola insindacabile scelta di una delle parti.
11.2. La seconda riguarda i casi di processi con detenuto (anche per altra causa) fissati per la trattazione nel periodo divenuto emergenziale, ma con decreto di fissazione dell’udienza già notificato e traduzione (o partecipazione da remoto) già disposta o richiesta di partecipazione già pervenuta prima del 9 novembre. In applicazione di quanto appena argomentato dovrebbe concludersi che quel ‘contatto con il detenuto’, o comunque il ristretto, avvenuto nella fase ‘organizzativa’ dell’udienza non sia per sé idoneo ad imporre la trattazione orale del processo. Sono mutati i presupposti fattuali (l’emergenza sanitaria) e normativi (nel periodo la regola generale è la trattazione camerale in assenza, salvo le tre eccezioni), sicchè deve concludersi che anche la precedente manifestazione di volontà di comparire sia divenuta inefficace e debba essere rinnovata nei tempi e nei modi stabiliti dall’art. 23.
[1] Termine di vigenza dell’emergenza sanitaria, dal rinvio operato dall’art. 23 dl 137/2020 all’art. 1, comma 1, dl 19/2020, senza pure il richiamo ai DPCM applicabili ai sensi del comma 2 [Relazione Massimario 02/11/2020 sulle novità introdotte dal dl 137/2020 nel giudizio penale in Cassazione].
[2] Secondo la stessa relazione (p. 5) anche questi termini sarebbero ‘liberi’ in applicazione della regola generale ex art. 172, comma 4, cod. proc. pen.. L’affermazione tuttavia è palesemente ‘incompleta’ perché non si confronta con il fatto che nello stesso articolo è espressamente specificato che i giorni indicati per la presentazione della richiesta di discussione orale (in Cassazione art. 23, comma 8, quarto periodo, dl 137/2020; per l’appello, art. 23, comma 4, dl 149/2020) sono giorni ‘liberi’. Se nella medesima norma alcuni termini vengono indicati specificamente come ‘liberi’ ed altri no, dovrebbe spiegarsi, ritenendosi anche per i secondi operante la disciplina generale, quale sarebbe la ragione della specificazione solo per i primi.
[3] L’art. 23, comma 2, dl 149 richiama in alternativa sia la generica previsione dei “mezzi telematici” in dotazione alla cancelleria (ex art. 16.4 dl 179/2012 con modifiche) sia i sistemi specificamente resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale DGSIA.
[4] L’art. 23, comma 2, ultima parte, dl 149 richiama l’art. 24, comma 4, dl 137/2020, secondo cui il deposito degli atti è consentito agli indirizzi PEC degli uffici giudiziari specificamente dedicati. Ora la presentazione delle conclusioni nel giudizio penale di appello nella generale procedura senza l’intervento fisico deve avvenire, solo, a mezzo PEC dedicata (gli indirizzi PEC sono stati assegnati ai diversi Uffici giudiziari con provvedimento del DGSIA del 9.11.2020 e con provvedimento organizzativo interno del singolo Ufficio sono stati stabiliti gli abbinamenti tra indirizzi e servizi).
Ai sensi dell’art. 3 del provvedimento del DGSIA risulta che: L'atto del procedimento in forma di documento informatico da depositare attraverso il servizio di posta elettronica certificata deve essere: 1. In formato pdf , 2. ottenuto da una trasformazione di un documento testuale senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, quindi non è ammessa la scansione di immagini, 3. sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata.
I documenti allegati all’atto del procedimento in forma di documento informatico devono rispettare i seguenti requisiti: 1. Essere in formato pdf, 2. le copie per immagine di documenti analogici hanno una risoluzione massima di 200 dpi, 3. le tipologie di firma ammesse sono PAdES e CAdES. Gli atti possono essere firmati digitalmente da più soggetti purché almeno uno sia il depositante, 4. la dimensione massima consentita per ciascuna comunicazione è pari a 30 mega byte.
[5] Si noti che la disciplina, pur dettata specificamente e solo per l’appello penale, non utilizza mai la locuzione ‘procuratore generale’.
[6] Del resto, occorre considerare che l’arretratezza dello stato informatico delle procedure penali (esito di consapevoli scelte del passato privilegianti la compiuta tempestiva informatizzazione del solo settore civile) non prevede alcun automatismo di reinvio delle conclusioni alle parti pur risultanti dal registro sicp, sicchè gli incombenti connessi a tale eventuale invio sarebbero insostenibili per gli attuali organici delle cancellerie penali, oltretutto spessissimo scoperti in percentuale consistente (basti pensare che per ogni singolo processo d’appello con un solo imputato e una sola parte civile le notifiche da curare potrebbero giungere ad almeno quattordici: decreto di fissazione udienza 4, conclusioni pg 2, conclusioni imp 2, conclusioni pc 2, comunicazione dispositivo 4, tutte da eseguire singolarmente con il sistema snt).
[7] La tesi dell’irrilevanza della mancata presentazione delle conclusioni per la parte pubblica non convince: vedi oltre nel testo il par. 3.3.3
[8] Ancorché la differenza tra ‘motivi nuovi’ e ‘argomenti a sostegno delle conclusioni’ risulti più formale che sostanziale, posto che per consolidata giurisprudenza di legittimità i motivi nuovi non possono afferire a punti della decisione diversi da quelli soli devoluti con l’originario atto di impugnazione. Del resto, è l’intera disciplina processuale ordinaria ad essere palesemente insoddisfacente laddove prevede i motivi nuovi ex 585, comma 4, poi le memorie e richieste ex art. 121, che la norma dichiara depositabili in cancelleria in ogni stato e grado del procedimento ma, quanto alle memorie, pure allegabili al verbale di udienza quando presentate in giudizio a sostegno di richieste ma anche delle conclusioni finali (482, comma 1), senza contemporaneamente disciplinare il contraddittorio sul contenuto. Sicché, paradossalmente, affermato il diritto al pertinente contraddittorio, il deposito di memoria articolata con le conclusioni potrebbe imporre la violazione del principio costituzionale della ragionevole durata con il necessario differimento. Sarebbe essenziale estendere la disciplina che invece solo per il rito di cassazione il legislatore ha disciplinato espressamente, e con diverso contenuto, stabilendo termini precisi: art. 611, comma 1, per i procedimenti in camera di consiglio, tuttavia la giurisprudenza di legittimità avendo esteso in via interpretativa estensiva la medesima disciplina anche ai procedimenti con pubblica udienza: per tutte da ultimo, Sez.6 sent. 11630/2020. In realtà la disciplina processuale penale pare da sempre timorosa di stabilire modalità e termini certi e seri per l’esercizio insindacabile di facoltà discrezionali, privilegiando (accettando) l’intempestività dell’esercizio a detrimento della ragionevole organizzazione dei tempi di trattazione, anziché impegnarsi per conseguire un equilibrio efficace tra salvaguardia rigorosa dei diritti delle parti ed efficienza della giurisdizione.
[9] Problema nel problema è, appunto, se in tal caso l’eventuale riferimento al momento dell’udienza debba pure tener conto dell’originario orario di udienza fissato per la originaria prospettiva di trattazione ordinaria in presenza, con fasce orarie determinate solo per limitare i rischi dell’assembramento, in aula ma pure, nel caso di trattazione ‘a porte chiuse’, nei locali esterni per l’attesa. La soluzione proposta nel testo assorbe questo problema peculiare, tuttavia dovendosi osservare che la fissazione dell’orario è strettamente collegata alla celebrazione del processo secondo le forme ordinarie, risultando tendenzialmente, sul piano strutturale, irrilevante, e quindi incompatibile, con la trattazione camerale senza partecipazione fisica delle parti.
[10] Sul presupposto della mancata contestuale previsione di una disciplina di eventuali repliche: vedi par. successivo.
[11] Il punto (deposito solo per via telematica alla pec ‘dedicata’) è importante, perché la prima esperienza applicativa ha presentato più casi di difensori che, non avendo chiesto la trattazione orale e non avendo presentato entro i cinque giorni le conclusioni, accedono all’aula di udienza, comunque all’assistente dell’udienza in corso, prima dell’orario precedentemente fissato per l’originaria trattazione orale, chiedendo allora di depositare fisicamente le conclusioni con eventuali note spese. La conclusione, sul piano formale, dovrebbe essere quella della ‘irricevibilità’ di un tale deposito ‘fisico’, quindi anche il tema dell’orario riguardando allora solo il pervenimento di depositi tramite pec nel giorno di udienza e prima dell’orario di inizio della camera di consiglio.
[12] Il riferimento è all’orario ultimo di efficace/legittimo pervenimento della pec ‘depositante’ rispetto all’orario di ordinario funzionamento delle cancellerie (si veda per tematica sostanzialmente sovrapponibile Cass. Sez. 6, sent. 42710/2011, paragrafo 3.1.2, pertinente l’art. 123 cod. proc. pen.). Si pensi infatti ad un’istanza cautelare che pervenga attraverso pec dedicata alle 18 del venerdi: quando decorrono i cinque giorni per provvedere?
[13] Non convince sul punto la Relazione Massimario 02/11/2020, già richiamata, laddove pur dando atto della mancata previsione delle repliche ritiene per la Cassazione (ma è il principio che rileva) applicabile analogicamente il sistema ex art. 611, tuttavia non affrontando l’aspetto essenziale dei termini ben più ristretti, unici per il deposito delle conclusioni, e degli eventuali modi, tempi e attribuzione dell’onere di comunicazione delle conclusioni delle parti private.
[14] Si ripropone la questione trattata al paragrafo 3.3.1
[15] Ancora una volta il tema trattato al paragrafo 3.3.1
[16] Volutamente non si approfondisce in questa sede il tema, prettamente deontologico, della condotta del difensore che in ipotesi chieda la trattazione orale in proprio, o veicoli la manifestazione di volontà di partecipare dell’assistito, e poi non compaia all’udienza ed eventualmente si limiti a chiedere sostituzione d’ufficio ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc,. pen.
[17] Sembra opportuno sensibilizzare formalmente gli istituti carcerari sulla tematica, perché svolgano la prima attività informativa con i detenuti, per consentire più efficacemente, quando il termine perentorio non è decorso, il contatto con il difensore.
La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi
di Federica Resta*
Sommario: 1. La direttiva 2016/680 - 2. Il recepimento della direttiva - 2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi.
1. La direttiva 2016/680
Una delle componenti più significative (ma, paradossalmente, anche meno conosciute) del nuovo quadro giuridico europeo in materia di protezione dei dati personali è rappresentato dalla direttiva 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, “relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio”.
La direttiva reca la disciplina- speculare a quella del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali, n. 2016/679, “GDPR” – della protezione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giudiziaria penale e di polizia, affidandola tuttavia a uno strumento giuridico di armonizzazione (e non di diretta unificazione) delle legislazioni, in ragione delle peculiarità della materia e della diversità dei sistemi processuali tra Stati membri, secondo quella specificità richiesta dalla dichiarazione 21, allegata all'atto finale della Cig che ha approvato il Trattato di Lisbona[1] .
Innovando rispetto alla decisione quadro, che abroga, la direttiva estende la sua sfera applicativa dal solo ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria a quello delle attività (giudiziaria penale e di polizia) svolte in ambito interno.
La distinzione dell’ambito applicativo tra regolamento e direttiva 680 è, dunque, tutta giocata sul duplice elemento soggettivo (svolgimento del trattamento da parte di autorità nazionali competenti nelle materie individuate) e teleologico-funzionale (perseguimento di fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica).
La concorrente applicazione dei due strumenti normativi, Gdpr e direttiva (fondata tanto sull’elemento soggettivo quanto su quello teleologico-funzionale della preordinazione del trattamento a fini preventivi o repressivi) determina, quindi, il singolare effetto di scindere la stessa disciplina dei trattamenti svolti per fini di giustizia in due sotto-sistemi distinti. L’attività giudiziaria (corrispondente all’esercizio di funzioni requirenti e giudicanti, anche in ambito esecutivo o di sorveglianza), in sede penale è soggetta (al pari dell’attività di polizia in senso stretto), per quanto concerne la disciplina di protezione dati, alla direttiva 2016/680
Così anche – come chiarito dal d.lgs. 51 del 2018 - l’attività giurisdizionale connessa all’applicazione di misure di sicurezza e prevenzione, correlata comunque alla prevenzione di reati , è disciplinata, ai fini privacy, dalla direttiva (e, naturalmente, dalle norme nazionali di recepimento: per l’Italia il d.lgs. 51).
Di contro, l’attività giudiziaria svolta da ogni altra giurisdizione (anche dalla stessa autorità giudiziaria, ma in sede civile) è attratta nell’ambito applicativo del Regolamento, con ciò che ne consegue in termini di diversa puntualità ed estensione degli obblighi del titolare, nonché di minore margine di flessibilità per la disciplina nazionale.
Tra le peculiarità della direttiva (che sono state peraltro oggetto di critiche da parte del Working Party 29, precedente organismo di coordinamento delle Autorità di protezione dati), vi sono la limitazione dei diritti dell’interessato nell’ambito di procedimenti penali in base alle norme processuali interne, l’esclusione (necessaria) di competenza dell’Autorità di controllo rispetto ai trattamenti effettuati dalle “autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” e quella (facoltativa) rispetto ai trattamenti svolti “da altre autorità giurisdizionali indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” (art. 45, c.2, riferito in parte qua alle Procure, come chiarisce il C 80).
Le medesime autorità possono inoltre essere esentate dall’obbligo di designazione del responsabile della protezione dati (art. 32, c.1), deputato all’osservanza delle norme della direttiva e alla tenuta dei rapporti con l’autorità di controllo. Pur evitando ogni possibile interferenza di organi altri rispetto al giudiziario- la cui indipendenza è tutelata dalla stessa Carta di Nizza in funzione della garanzia del diritto di difesa- tali limitazioni avrebbero forse potuto essere sostituite da un sistema analogo a quello previsto dal previgente Codice privacy (d.lgs. 196 del 2003), in cui il potere di controllo sui trattamenti rimesso all’Autorità aveva incontrato il limite esterno del divieto di interferenza sull’esercizio della giurisdizione (cfr. anche art. 160, c.6), come espressamente rivendicato, tra l’altro, rispetto alle obiezioni sollevate rispetto al provvedimento del Garante del 2013 sulle misure di sicurezza negli uffici giudiziari (cfr. comunicato del Garante 25.9.2013).
Nel complesso, tuttavia, il testo finale della direttiva delinea un bilanciamento apprezzabile tra esigenze investigative e protezione dati, rappresentato ad esempio dalla differenziazione tra i dati “fondati su fatti” e quelli “fondati su valutazioni personali”, dalla tutela rafforzata accordata a “particolari categorie di dati”, nonché dal divieto di profilazione suscettibile di determinare discriminazioni fondate sulle stesse categorie di dati (si pensi al racial profiling). Importante anche il “paniere” di diritti riconosciuti all’interessato, ancorché comprimibili in ragione di particolari esigenze investigative o di sicurezza, purché la limitazione “costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica, tenuto debito conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi” dell’interessato, secondo la dizione Cedu.
Importante l’affermazione del diritto dell’interessato al risarcimento del danno derivato da trattamento illecito, nonché alla tutela amministrativa e giurisdizionale effettiva.
2. Il recepimento della direttiva
La direttiva 2016/680 è stata trasposta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 51 del 2018, secondo un criterio di recepimento assai puntuale, anche in ragione dell’assenza, nella legge di delegazione, di principi e criteri direttivi specifici, ulteriori rispetto a quello inerente la cornice edittale per le fattispecie delittuose da introdurre.
Ciononostante, il decreto ha compiuto alcune scelte essenziali, tra le quali:l’introduzione di una specifica fattispecie delittuosa modellata sulla falsariga del trattamento illecito di dati personali (con dolo, specifico, di danno o di profitto e condizione obiettiva di punibilità intrinseca fondata sul nocumento altrui) volta a colpire alcune forme qualificate di abuso del potere di trattamento in danno del cittadino; l’obbligatorietà della nomina del responsabile della protezione dati anche per l’autorità giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni (laddove la direttiva consentiva anche di prescinderne); una tutela forte del terzo coinvolto in procedimenti penali; l’esenzione (doverosa) della competenza del Garante rispetto al controllo sulla legittimità dei trattamenti di dati personali svolti “ dall’autorità giudiziaria nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, nonché di quelle giudiziarie del pubblico ministero” (art. 37, c.6); ambito, questo, in cui conseguentemente si esclude la tutela amministrativa di tipo sanzionatorio. Relativamente a questi trattamenti non è stata indicata un’autorità altra, ma si è rimesso il controllo di legittimità alla stessa sede processuale, con gli strumenti del processo, secondo la soluzione percorsa dal legislatore tedesco.
Vi è certo da dire che, nella direttiva, l’esclusione di competenza dell’autorità di protezione dati rispetto all’attività giudiziaria non equivale ad esclusione assoluta di attribuzione di altri organi di controllo, pur con modalità e garanzie tali da escludere ogni possibile violazione dei requisiti costituzionali di autonomia, soggezione esclusiva alla legge e indipendenza della magistratura da ogni altro potere. Una delle possibili soluzioni, ad esempio, avrebbe potuto essere l’attribuzione della relativa competenza al CSM, eventualmente anche integrandone la composizione (previe opportune modifiche normative) con esperti in materia.
2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi
Una delle innovazioni più importanti introdotte dal legislatore interno[2] concerne, però, l’introduzione, all’art. 14, del diritto di “chiunque vi abbia interesse” (dunque anche del terzo) di “richiedere la rettifica, cancellazione o limitazione dei suoi dati contenuti in atti giudiziari o indagini, anche in sede processuale, con le modalità di cui all’art. 116 c.p.p.”, precisandosi che “il giudice provvede con le forme dell'articolo 130 del codice di procedura penale”[3].
Vista la latitudine interpretativa della nozione di dato personale di cui all’art. 2, c.1, lett.a) d.lgs. 51, la norma è inequivocabilmente applicabile anche ai dati contenuti alle conversazioni intercettate, sia nella forma del file audio che della relativa trascrizione. Depone in tal senso la prassi del Garante, oltre che la giurisprudenza pronunciatasi in anni di vigenza del d.lgs. 196 del 2003, che recava una nozione di dato personale appena più limitativa dell’attuale.
In ragione dell’applicabilità della norma dell’art. 14, c.1 anche ai dati contenuti nelle conversazioni captate, contenute in brogliacci o file audio, essa sancisce in capo non solo alle parti processuali ma anche al terzo, il diritto di ottenere, con le forme particolarmente agili delle procedure di cui agli artt. 116 e 130 c.p.p., la rettifica, cancellazione o limitazione dei dati che lo riguardano.
Tale interpretazione è “suffragata”, oltre che dal C 47 della direttiva 2016/680, anche dalla interpretazione “ufficiale” fornita dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nell’ambito della Relazione indicata, secondo cui “È significativa, ad esempio, la previsione del diritto della persona (a prescindere dalla posizione processuale, includendovi anche il terzo estraneo alle indagini) di richiedere, con una procedura particolarmente agile, la cancellazione o rettifica dei propri dati illegittimamente trattati in ambito giudiziario penale. Norma, questa, che potrebbe risultare particolarmente utile anche rispetto alle conversazioni intercettate”. Analoga posizione è stata rappresentata nell’ambito del Convegno La rivoluzione mancata. A proposito di riforma della disciplina delle intercettazioni, tenutosi alla LUISS il 13 novembre 2018, disponibile su http://www.radioradicale.it/scheda/557504/, in cui si rilevava come la norma coprisse, sostanzialmente, alcune delle lacune derivanti dal differimento (allora vigente) dell’applicabilità dell’art. 2 del d.lgs. 216/2017, quale suo equivalente funzionale[4].
La richiesta va rivolta al titolare del trattamento (cfr. artt. 12-15 direttiva 2016/680, nonché artt. 10, 11 e 12 dello stesso d.lgs. 51, richiamati dall’art. 14) che, secondo la fase processuale, dovrà essere individuato con il regolamento attuativo di cui all’art. 5, c.2, d.lgs. 51. In ogni caso, il giudice (che potrebbe comunque ritenersi competente a decidere, per ragioni di terzietà, anche laddove il titolare per fase processuale sia il Pubblico Ministero) sarà tenuto a osservare le forme della procedura per la correzione degli errori materiali.
Quanto al contenuto delle richieste suscettibili di proposizione in questa sede da parte dell’interessato, la norma menziona anzitutto il diritto di cancellazione, da esercitarsi secondo i criteri generali di cui all’art. 269, c.2, c.p.p. (ove riguardi le intercettazioni) e, dunque, in relazione a dati non necessari a fini probatori o investigativi, dal momento che tale assenza di necessità renderebbe per ciò solo la conservazione di dati personali (a fortiori se di soggetti terzi rispetto alle indagini) illegittima per violazione dei principi di finalità, proporzionalità, non eccedenza di cui all’art. 3 dlgs 51 (salvo volersi riferire la nozione di necessità a procedimenti diversi, nei quali le conversazioni potrebbero rifluire ex art. 270 c.p.p.).
Qualora la cancellazione debba essere rigettata per esigenze di conservazione probatoria, l’interessato può però chiedere la limitazione del trattamento (v. infra), che consiste essenzialmente nel trasferire i dati “ad altro sistema di archiviazione” o nel rendere inaccessibili i dati stessi.
La rettifica concerne la correzione di dati inesatti: “Una persona fisica dovrebbe avere il diritto di ottenere la rettifica di dati personali inesatti che la riguardano, in particolare se relativi a fatti, e il diritto alla cancellazione quando il trattamento di tali dati viola la presente direttiva. Il diritto di rettifica, tuttavia, non dovrebbe avere effetti, ad esempio, sul contenuto di una prova testimoniale”. (cfr. C 47 della direttiva)
La limitazione concerne invece i casi nei quali la legittimità del trattamento del dato sia in discussione, ma non possa accertarsi, almeno nel momento considerato, l’effettiva fondatezza della richiesta o, comunque, quando i dati debbano essere conservati a fini probatori (cfr. C 47 della direttiva).
Il C 47 precisa inoltre che le rettifiche, al pari delle cancellazioni e limitazioni di dati personali “dovrebbero essere comunicate ai destinatari a cui tali dati sono stati comunicati e alle autorità competenti da cui i dati inesatti provengono. I titolari del trattamento dovrebbero inoltre astenersi dal diffondere ulteriormente tali dati”.
La limitazione del trattamento, dunque, potrebbe essere una valida misura (da attuare ad esempio con la custodia nel luogo protetto previsto per le intercettazioni illegali ex art. 240, c.2, c.p.p., ovvero nell’archivio riservato) da attuare rispetto a dati personali contenuti, ad esempio, in conversazioni captate che, almeno in fase d’indagini, il p.m. ritenga di non dover depositare ma che non possa neppure cancellare perché, ad esempio, suscettibili di sviluppi investigativi se si versa in una fase iniziale del procedimento.
Naturalmente, poi, venuta meno la concreta possibilità di un’utilizzazione processuale, le intercettazioni oggetto di limitazione dovrebbero essere cancellate (con le forme dell’art. 269, c.2, cpp) anche d’ufficio, in ottemperanza ai principi di non eccedenza del trattamento che si applicano, appunto, anche agli atti giudiziari ex art. 3 dlgs 51/2018.
Si tratta di una norma che ben potrebbe essere valorizzata a fini di tutela, appunto, dei soggetti a qualunque titolo coinvolti nelle intercettazioni., laddove non abbiano sortito effetto i criteri di “sobrietà contenutistica” e minimizzazione selettiva imposti, in sede di trascrizione, dalla disciplina vigente, come riformata per effetto della successione tra le leggi Orlando e Bonafede.
Al fine di garantire la tutela effettiva dei terzi, tuttavia, sarebbe opportuno prevedere un onere informativo a carico del Pubblico ministero, come era previsto dall’art. 268-sexies c.p.p. di cui il d.d.l. Mastella di riforma delle intercettazioni della XV legislatura, prospettava l’introduzione (AS 1512, art. 10), per evitare che il soggetto apprenda dell’esistenza, in atti processuali, di proprie conversazioni, direttamente dalla stampa, quando ormai l’intervento ablativo sarebbe tardivo.
In alternativa (ove tale onere informativo venisse ritenuto eccessivamente gravoso, soprattutto a fronte di una pluralità di terzi da avvisare), si potrebbe riconoscere al terzo il diritto di chiedere preliminarmente conferma dell’esistenza di intercettazioni che lo coinvolgano e, quindi, previo ascolto delle registrazioni stesse, di attivare la procedura di distruzione di cui all’art. 269 cpp[5] ovvero, in caso di richieste più articolate, di esercitare i propri diritti alla limitazione o (più raramente) rettificazione dei dati.
In tal modo, tramite la connessione procedimentale tra il nuovo diritto di cui all’art. 14 d.lgs. 51 e l’istituto della distruzione di cui all’art. 269 c.p.p. (testualmente rivolto agli «interessati»), ai terzi i cui dati siano occasionalmente captati in sede intercettativa potrebbe essere accordata una tutela effettiva, forse persino più di quanto si sia ipotizzato in, pur ampie e valide, ipotesi di riforma della disciplina delle intercettazioni.
*(le opinioni sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza)
[1] Secondo cui “La conferenza riconosce che potrebbero rivelarsi necessarie, in considerazione della specificità dei settori in questione, norme specifiche sulla protezione dei dati personali e sulla libera circolazione di tali dati nei settori della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia, in base all'articolo 16 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea”.
[2] E tali definite dall’allora Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, nella Relazione 2018
[3] La norma va letta in combinato disposto con il C 40 della direttiva 2016/680 e con il favor lì espresso per l’esercizio dei diritti da parte dell’interessato (“ è opportuno predisporre modalità volte ad agevolare l'esercizio, da parte dell'interessato, dei propri diritti conformemente alle disposizioni adottate a norma della presente direttiva, compresi i meccanismi per richiedere e, se possibile, ottenere, gratuitamente, in particolare, l'accesso ai propri dati personali, la loro rettifica o cancellazione e la limitazione del trattamento.).
[4] V. anche S. SIGNORATO; L’archivio delle intercettazioni. La custodia del materiale e la marcia verso la digitalizzazione delle intercettazioni, in Legislazione penale, 2020, 79 ss; S. RENZETTI, .
[5] S. RENZETTI, Una riforma (radicale?) per tornare allo spirito originario della legge: la nuova disciplina acquisitiva delle intercettazioni tra legalità, diritto vivente e soft law, in Legislazione penale, 2018, 1 ss.
Michele Taruffo, Maestro
di Andrea Giussani
Nell’anno più funesto del secolo, lascia tutti più poveri e soli la scomparsa di Michele Taruffo: come l’umanità nella sua interezza è stata la stella polare della sua avventura intellettuale declinata come riflessione scientifica, così a chiunque era dato attingere facilmente alla sua capacità di esprimere con chiarezza concetti complessi.
Con una produzione scientifica che lo ha visto primeggiare per vastità della visione dalla metà degli anni ’60 (in cui apriva quel dibattito italiano sull’azione di classe che ancora informa le più recenti novità legislative) a tutt’oggi (con la pubblicazione anche quest’anno di una nuova opera, dedicata all’inesauribilità del desiderio di verità e giustizia che si concretizza nell’aspirazione a procedere “Verso la decisione giusta”), e con la diffusione internazionale di questa, assicurata dalla sua infaticabile versatilità, si è reso protagonista di un’esperienza di pensiero volutamente irradiatasi oltre i confini disciplinari, nazionali e generazionali: delle prigioni mentali demoliva le sbarre, per trasformarle in osservatori.
La sua naturale vocazione alla speculazione filosofica, quindi, lungi dall’inaridirsi nell’esplorazione di una materia tecnicamente connotata come il diritto processuale tradizionalmente insegnato, si arricchiva nella concretezza dell’inverarsi, illuminato dalle sue analisi, della giustizia nel giudizio.
Specialmente fortunato, dunque, è chi ha avuto in sorte il destino di poterne essere allievo, poiché la fisica vicinanza massimizzava l’effetto liberatorio del suo confronto proprio incanalandolo nel progetto collettivo: ogni significativa evoluzione del diritto positivo veniva da lui discussa anche attraverso la cura di lavori che soleva rivedere sino alle virgole con rapidità e precisione; ai volumi tempestivamente dedicati alle riforme legislative si accompagnavano le regolari riedizioni del Commentario al codice, da lui guidato insieme a Federico Carpi (nonché inizialmente a Vittorio Colesanti), nei quali ogni novità dottrinale o giurisprudenziale riceveva attenzione critica.
Coerentemente, però, la stessa sua scuola non conosceva rigidi confini: possono infatti ritenersene allievi non soltanto quanti, già suoi studenti a Pavia, hanno più intensamente convissuto con la sua eloquenza, poiché la sua generosità di sé ha reso l’esperienza del confronto personale con la sua brillantezza accessibile a chiunque se ne volesse avvalere.
Questo straordinario talento comunicativo, d’altronde, s’innestava in una passione per l’umanità che ne era l’occulta forza motrice: la sua scienza era battagliera, polemica e intransigente; proprio perché curioso di tutto, combatteva senza ipocrisie né timidezze sotto le insegne del vero, financo assumendo il rischio di inimicarsi quel potere politico da cui pretendeva soggezione alla primazia del bene comune.
Lungo sarebbe l’elenco delle conquiste raggiunte anche grazie al suo impegno (qualche esempio si può ritrovare nel rafforzamento del sistema delle preclusioni, degli oneri di contestazione, della scientificità dell’accertamento del fatto, dell’effettività dei provvedimenti istruttori e di condanna, delle azioni collettive), ma di tutte non mancava mai di rilevare lacune e imperfezioni con energia non inferiore a quella che destinava a temi, come quello della completezza della motivazione, oggetto invece di sviluppi in senso contrario alle implicazioni del suo pensiero.
Compete a chi rimane proseguirne l’impresa con più fatica, ma con non minore dedizione, poiché il suo esempio non permetterà mai più di prescinderne.
La Ciociara: riflessioni sulla rappresentazione cinematografica e giuridica della violenza sessuale
di Antonella Massaro
Sommario: 1. “La Ciociara” di Vittorio De Sica nella cornice del Neorealismo – 2. L’imbarazzo politico di fronte alle “marocchinate” e la rappresentazione della violenza sessuale nel racconto cinematografico – 3. La “reazione” del diritto di fronte alla violenza sessuale: la donna come vittima di reato – 4. La violenza sessuale “di guerra” – 5. La violenza sessuale “semplice” – 5.1. La nozione ampia di atti sessuali – 5.2. L’eccessiva “cautela” della giurisprudenza in materia di stupro – 6. Una riflessione sulla condizione femminile attraverso il diritto penale: limiti e prospettive.
1. “La Ciociara” di Vittorio De Sica nella cornice del Neorealismo
“La Ciociara” di Vittorio De Sica è certamente una pellicola nella quale convergono in maniera mirabile alcuni dei tratti più caratterizzanti del Neorealismo italiano, sebbene il 1960, data di uscita del film, si collochi nella fase discendente di quel “movimento” che nei decenni precedenti aveva conosciuto i suoi fasti più gloriosi.
Anzitutto, si abbandonano i teatri di posa con l’intento di “sorprendere la realtà”, come titolava un articolo di Leo Longanesi del 1936[1]. La natura irrompe nello schermo, ma, lungi dal restare confinata nel ruolo di idilliaco e immobile sfondo della scena, diviene essa stessa personaggio, tratteggiando un rapporto uomo-ambiente fatto di interazioni e scambi reciproci: come osservato da Giuseppe De Santis, il paesaggio assume centralità non in quanto tale, ma per il rapporto uomo-natura in cui si inserisce.
L’immaginario neorealista, poi, è segnato dalle macerie. Se nella cinematografia precedente dominava l’iconografia delle rovine, testimonianza imponente di un passato glorioso, la guerra crea macerie, che sono anche e soprattutto il simbolo di un disfacimento morale da cui il Paese è chiamato a rialzarsi. La “decadenza” di “Germania Anno Zero” di Rossellini, con il disperato vagare di Edmund tra le macerie di Berlino distrutta dai bombardamenti, rappresenta forse l’insuperata traduzione in immagini che il Neorealismo si propone di raccontare o, meglio, di “mostrare”.
Le storie neorealiste parlano del presente, attingendo però spesso alla letteratura del passato. Il rapporto tra “La Ciociara” di Vittorio De Sica e quella di Alberto Moravia è certamente articolato e complesso, ma il fatto che la trasposizione cinematografica sia affidata alla coppia Vittorio De Sica-Cesare Zavattini colloca il film, ancora una volta, nell’Olimpo del cinema italiano impostosi come modello alla scena internazionale.
Sempre restando nel solco arato dai rapporti tra cinema e letteratura, non può fare a meno di osservarsi come la lingua rappresenti un altro dei tratti più caratterizzanti della poetica neorealista: l’italiano “colto” delle istituzioni e del potere lascia il posto al dialetto, la “vera” lingua parlata dai “poveri” personaggi chiamati a sfilare nella galleria neorealista.
Il cinema neorealista non è certo un cinema di evasione, impegnando piuttosto lo spettatore in uno sforzo conoscitivo che non si dissolve nell’esito consolatorio dell’happy ending. Sebbene la storia raccontata da “La Ciociara” sia anzitutto una storia “politica”, l’ideologia resta sullo sfondo: il giudizio sulla guerra è filtrato dall’impatto che la stessa produce sulla vita di Cesira e Rosetta, lontane dalle logiche delle strategie militari e delle alleanze politiche. Il cinema neorealista non intende di-mostrare, ma si limita a mostrare, a prendere atto, a constatare, con uno sguardo descrittivo che, scevro il più possibile da pregiudizi, offre all’occhio dello spettatore la rappresentazione della realtà, quasi si trattasse di un documentario.
2. L’imbarazzo politico di fronte alle “marocchinate” e la rappresentazione della violenza sessuale nel racconto cinematografico
Malgrado la “sintesi neorealista” offerta da “La Ciociara”, la sua consacrazione a livello di critica cinematografica non è stata né immediata né scontata.
L’elemento che più di ogni altro spiega la “cautela” da cui, almeno in qualche occasione, si è trovata avvolta la pellicola di De Sica, è certamente rappresentato dall’imbarazzo storico-politico suscitato dalle “marocchinate”. L’effettiva consistenza dell’atroce scia di violenza che ha segnato l’avanzata dell’esercito della liberazione non è ancora del tutto nota o, almeno, non lo è al “grande pubblico” formatosi sulle pagine racconto storiografico ufficiale. Le migliaia stupri, commessi dai soldati marocchini con impareggiabile ferocia, rappresentano uno dei prezzi più alti che il nostro Paese ha pagato come odioso balzello della liberazione, che solo il 1 aprile 1952, durante una seduta notturna, risuona chiaramente nell’Aula della Camera dei Deputati attraverso la relazione dell’onorevole Maria Maddalena Rossi (PCI)[2]: Pontecorvo, Pastena, San Giorgio a Liri e molti altri centri nei territori tra Frosinone e Cassino rivelano una galleria di violenza, morte e contagi lasciati lungo la strada dai “liberatori”.
Una sintesi efficace è offerta delle parole di Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate.
Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali, vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni[3].
La decisione di portare quegli orrori sul grande schermo, scegliendo la via della esplicita rappresentazione dello stupro, non era una scelta né semplice né banale. “La Ciociara” è un film del 1960: in quel momento era poco scontata già l’esplicita rappresentazione filmica della sessualità, a fortiori lo era quella della perversione o, peggio, della violenza. È una scelta che, sia pur con le dovute distinzioni, ricorda i tratti della storia del già citato “Germania anno zero”, con Edmund abbandonato in un universo in cui la devastazione materiale si proietta su uno sfondo privo delle minime coordinate morali.
Nella scena dello stupro di Cesira e Rosetta, il film di De Sica lascia poco spazio all’immaginazione: è esplicito, crudo, senza le musiche di Trovajoli che rendano più sopportabile lo strazio, ma con le urla delle due donne che, ancora dopo 60 anni, ammutoliscono lo spettatore messo di fronte all’orrore della “profanazione”. È una visione potente e moderna: sebbene, in più di un passaggio, il film possa risultare più edulcorato rispetto al romanzo di Moravia, nella scena dello stupro non sembra si possa accusare la pellicola di “eccessiva indulgenza”.
Sebbene il paragone potrebbe rivelarsi per molti aspetti azzardato, l’“atmosfera” potrebbe paragonarsi a quella di Irréversible di Gaspar Noé, con quella scena di una violenza sessuale insistita, prolungata, silenziosa e, anche per questo, “disturbante”.
3. La “reazione” del diritto di fronte alla violenza sessuale: la donna come vittima di reato
Passando dal versante della rappresentazione cinematografica dello stupro a quello della sua “rappresentazione giuridica”, la più ampia cornice di riferimento è certamente quella offerta dalla “violenza contro le donne”, a sua volta intesa come specificazione della “violenza di genere”[4]. Sebbene si tratti di concetti che, in maniera sempre più evidente, si stanno radicando nella nostra esperienza giuridica, resta pur sempre il fatto che l’ordinamento italiano conosca solo rare fattispecie di reato “a vittima qualificata”.
La donna compariva come vittima nei delitti contro l’onore, abrogati solo nel 1981, che prevedevano pene attenuate per l’omicidio o le lesioni commessi, per esempio, a causa di una relazione illegittima del coniuge (secondo la lettera della legge, dunque, anche il marito), della figlia o della sorella.
Nel sistema attuale la donna costituisce il soggetto passivo del delitto di mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis c.p.), introdotto nel codice penale nel 2006 e quasi mai applicato dalla giurisprudenza. Non si parla in realtà di “donna”, ma di “organi genitali femminili”: l’attenzione, a livello terminologico, è cioè focalizzata non tanto sul soggetto passivo, quanto piuttosto sull’oggetto materiale del reato.
Anche quando il riferimento al concetto di donna è inevitabile, il legislatore italiano mostra una certa “cautela” da un punto di vista terminologico. È emblematica, per esempio, la formulazione dell’aggravante della c.d. violenza assistita, introdotta all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. dalla legge n. 119 del 2013 e poi modificata con la legge n. 69 del 2019: nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale la pena è aggravata se il fatto è stato commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza: “persona”, non “donna” in stato di gravidanza. Se il linguaggio (anche giuridico) è lo specchio della cultura di un popolo, non c’è dubbio che la cultura del popolo italiano provi ancora qualche disagio a fronte della tutela della donna.
Immaginando un metaforico edificio di tutela relativo alla violenza contro le donne, i delitti di violenza sessuale rappresentano indubbiamente le fondamenta di quell’edificio: deve trattarsi dunque di una base solida e robusta, affinché anche il resto della costruzione presenti le stesse caratteristiche.
4. La violenza sessuale “di guerra”
“La Ciociara”, raccontata prima dalle pagine di Moravia e poi dal film di De Sica, porta all’attenzione del grande pubblico lo stupro nell’ambito di un contesto bellico, sia pur in un contesto indubbiamente peculiare, in cui la linea di confine tra alleati e nemici appariva sempre più evanescente.
Quanto alle marocchinate, si tratta di delitti rimasti per lo più senza processi e senza giustizia. I processi successivi alla guerra, spesso, rappresentano uno strumento di disvelamento della violazione dei diritti umani cui pressoché inevitabilmente un conflitto armato conduce, con contestuale presa di coscienza dell’opinione pubblica, chiamata a mettersi in ascolto del monito della storia. Si tratta, però, di processi dei vincitori sui vinti: le marocchinate stavano dalla parte dei “buoni”, e questo ha reso estremamente difficoltosa la loro emersione, tanto a livello politico quanto a livello giudiziario.
Più in generale, tuttavia, una risposta sufficientemente definita del diritto penale internazionale a fronte di condotte di stupro può considerarsi relativamente recente, posto che, sebbene i crimini che comportino, in vario modo, abusi e violenze sessuali possano considerarsi delle vere e proprie costanti dei conflitti armati, la loro “collocazione” ha seguito una parabola piuttosto “faticosa”.
I Tribunali di Norimberga e di Tokyo, per esempio, non attribuirono specifica rilevanza a reati sessuali, mentre la giurisprudenza dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda ha contribuito in maniera decisiva ad una valorizzazione delle condotte di stupro come fattispecie autonome.
La soluzione adottata dallo Statuto della Corte penale internazionale è indubbiamente “complessa”: la definizione delle singole condotte criminose, come noto, è preceduta dal c.d. elemento di contesto, il quale consente non solo di distinguere i crimini internazionali dai reati comuni, ma anche di tracciare una più sicura linea di confine tra le varie ipotesi di crimini internazionali. Una condotta di stupro, quindi, può costituire un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, a seconda che sia commesso in connessione con un conflitto armato o nell’ambito di un attacco esteso e sistematico della popolazione civile[5]. L’art. 7 dello Statuto ICC, prevede, tra i crimini contro l’umanità, lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità (lettera g). L’art. 8 del medesimo Statuto di Roma, dedicato ai crimini di guerra, individua le condotte di chi stupra, riduce in schiavitù sessuale, costringe alla prostituzione o alla gravidanza, impone la sterilizzazione e commette qualsiasi altra forma di violenza sessuale costituente violazione grave delle Convenzioni di Ginevra (comma 2, lettera b, xxii e lettera c, vi). Alla fattispecie di genocidio è poi ricondotto il c.d. genocidio biologico (art. 6, lettera d) Statuto CPI), che potrebbe riferirsi anche a condotte di violenza sessuale, se realizzate allo scopo generare un figlio non appartenente alla etnia della madre[6]. Si tratta, dunque, di un crimine “trasversale”: resta pur sempre da verificare se questo carattere si traduca in un rafforzamento della tutela o, piuttosto, evidenzi la difficoltà della fattispecie di stupro a emergere con sufficienti chiarezza e autonomia.
Una più recente tappa è quella che prende in considerazione la violenza sessuale anche come possibile condotta di tortura, a conferma della diversa qualificazione giuridica che le condotte possono assumere a seconda del contesto (oggettivo e soggettivo) in cui le stesse si trovino inserite[7].
5. La violenza sessuale “semplice”
Anche la violenza sessuale “semplice”, del resto, fatica a trovare un proprio statuto giuridico solido e convincente: l’art. 609-bis c.p., rubricato “violenza sessuale”, risale al 1996 e le pene a dir poco irrisorie introdotte in quella occasione sono state inasprite solo lo scorso anno, nell’ambito delle modifiche apportate con il c.d. codice rosso (legge n. 69 del 2019).
A una riforma organica dei delitti di violenza sessuale, come ampiamente noto, si è giunti solo del 1996, con la legge n. 66[8]. Il cambiamento più evidente riguarda la collocazione dei delitti in questione, che nella versione originaria del codice penale italiano erano classificati come delitti contro la moralità pubblica e il buon costume (artt. 519 e ss. c.p.). Nel 1996, invece, i reati contro la libertà sessuale sono inseriti tra i delitti contro la libertà personale. Da un bene collettivo e impersonale, che non tutelava direttamente la donna, si passa a un bene individuale, più aderente a una concezione della sessualità in linea con i principi costituzionali.
Una svolta davvero radicale, in realtà, avrebbe richiesto l’introduzione di un capo apposito relativo alla libertà sessuale, affinché risultasse chiaro che il bene giuridico tutelato dovesse individuarsi nella libertà di autodeterminazione del soggetto in riferimento alla propria sfera sessuale. Al riguardo si è osservato, in particolare, che le nuove fattispecie non avrebbero dovuto più prevedere quali elementi costitutivi la violenza o la minaccia, ma avrebbero dovuto “accontentarsi” del solo elemento della costrizione: la violenza e la minaccia avrebbero potuto pur sempre operare sul quantum della risposta sanzionatoria, senza condizionarne l’an[9]. La condotta penalmente rilevante descritta dall’art. 609-bis c.p. continua invece a far riferimento agli elementi della violenza e della minaccia come strumenti di coercizione rispetto agli atti sessuali. La tutela della libertà di autodeterminazione della vittima, attorno alla quale la giurisprudenza ante riforma aveva tentato di costruire il fuoco della tutela penale, continua a restare in secondo piano.
Il cuore della nuova disciplina è indubbiamente rappresentato dall’art. 609-bis c.p., rubricato violenza sessuale.
La disciplina precedente, infatti, distingueva tra la fattispecie di violenza carnale (art. 519 c.p.), incentrata sulla congiunzione carnale cui la vittima era costretta con violenza o minaccia, e la fattispecie di atti di libidine violenti (art. 521 c.p.), applicabile a chi commetteva atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale e punito con pene inferiori. Si trattava di una distinzione che, pur complessivamente condivisibile sul piano astratto, comportava ineliminabili distorsioni sul piano processuale e che, anche per queste ragioni, si sceglie di superare con l’introduzione dell’art. 609-bis c.p.
Osservando le applicazioni giurisprudenziali del reato di violenza sessuale nei suoi primi vent’anni di vita, l’impressione è quella per cui il reato in questione abbia sofferto una sorta di “bipolarismo applicativo”. Da un lato si è assistito a un progressivo ampliamento dell’ambito applicativo della nuova fattispecie, evidentemente supportato dall’ampia nozione di “atti sessuali”. Dall’altro lato, però, si sono registrate pronunce relative ai casi di stupro (dunque il nucleo irrinunciabile e indiscutibile della fattispecie in questione) che hanno mostrato qualche cautela troppo, probabilmente alimentate da pregiudizi socio-culturali che non possono dirsi ancora superati.
5.1. La nozione ampia di atti sessuali
Quanto alla prima tendenza cui si è fatto riferimento (l’ampio raggio operativo dell’art. 609-bis c.p.), si è fin da subito lamentata la potenziale indeterminatezza del concetto di “atti sessuali”, suscettibile di comprendere condotte troppo eterogenee tra loro.
In una prima fase la soglia minima di rilevanza degli atti sessuali è stata individuata nella nozione di “atti di libidine violenti”, che compariva nel precedente art. 521 c.p.: il difetto fondamentale della categoria in questione era quello, suggerito dalla stessa lettera della legge, di enfatizzare considerazioni di marca soggettivistica e, in particolare, la concupiscenza del soggetto attivo.
Secondo alcuni, dunque, la soglia minima degli atti sessuali sarebbe stata rappresentata dalle molestie sessuali. Anche la nozione di “molestie sessuali”, tuttavia, risulta scarsamente determinata e secondo alcuni si estenderebbe fino a comprendere condotte che non coinvolgono, neppure indirettamente, il corpo della vittima: esibizionismo, raccontare continuamente barzellette o storie oscene, gesti esplicitamente allusivi. I comportamenti in questione, in effetti, sembrano più chiaramente riconducibili alla contravvenzione di molestia o disturbo alle persone di cui all’art. 660 c.p.
La giurisprudenza prevalente sembra essersi attestata su una nozione “mista” di atti sessuali. Si rende anzitutto necessaria una componente “oggettiva”, che, facendo riferimento a un elemento di “corporeità”, richiede un contatto corporeo che coinvolga zone erogene della vittima. In certi casi si richiede poi un’integrazione di tipo “soggettivo” e, in particolare, che l’atto in questione sia tale da suscitare la concupiscenza sessuale, anche se in modo fugace, pur precisandosi che non assume rilievo determinante la finalità perseguita dall’agente o l’effettivo soddisfacimento del proprio piacere sessuale[10].
È evidente come il requisito in questione, estremamente discutibile e che pare stia subendo un significativo ridimensionamento nella giurisprudenza più recente, possa assumere una qualche rilevanza solo negli atti sessuali diversi dallo stupro, posto che in quest’ultimo caso l’elemento della congiunzione carnale non consensuale sarebbe di per sé sola sufficiente.
Così, a proposito del “bacio rubato”, oggetto di copiosa giurisprudenza relativa all’art. 609-bis c.p., la Corte di cassazione ha più volte precisato che anche il bacio repentino, che riguardi zone erogene di un soggetto non consenziente, può essere qualificato come “atto sessuale”[11].
Determinante risulta, in ogni caso, la valorizzazione del “contesto” in cui si colloca la condotta e, quindi, i rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte e le peculiari condizioni del soggetto passivo, nel tentativo di valorizzare il più possibile la libertà di autodeterminazione della vittima come autentico bene giuridico tutelato dalla fattispecie in questione.
A questo punto, senza scendere nel dettaglio di una casistica quanto mai variegata, viene da chiedersi se la dicotomia proposta dal codice Rocco tra congiunzione carnale e atti di libidine violenti e, soprattutto, le distorsioni che dalla medesima derivavano, possano dirsi davvero superate.
Da questo punto di vista, in effetti, la riforma del 1996 sembra aver superato solo in parte le aporie derivanti dal precedente assetto normativo.
La distinzione, all’interno della categoria unitaria degli atti sessuali, tra la congiunzione carnale e condotte diverse da quest’ultima resta un’operazione necessaria, se non altro ai fini di commisurazione della pena. Uno stupro e un bacio sulle labbra, evidentemente, non possono essere trattati allo stesso modo quando si tratti di individuare la pena concretamente applicabile.
A ciò si aggiunga che l’art. 609-bis c.p., al secondo comma, prevede una circostanza attenuante per i casi di violenza sessuale “di minore gravità”. Quella che a prima lettura suona come un’autentica contraddizione in termini, si spiega proprio con l’esigenza di fornire al giudice uno strumento che consentisse di diversificare la risposta sanzionatoria a fronte delle potenzialità applicative di una fattispecie formulata indubbiamente a maglie molto larghe.
Neppure possono dirsi del tutto superati i rischi di una “vittimizzazione secondaria” derivanti dal processo penale, per esigenze legate strutturalmente all’accertamento di una violenza sessuale. Non solo, infatti, si rende necessario delineare con precisione i contorni degli “atti sessuali” nel caso concreto a fini di commisurazione della pena, ma, anche nel caso di congiunzione carnale, si tratta pur sempre di accertare che la stessa sia avvenuta in assenza di consenso della vittima.
Se le esigenze di garanzia non possono evidentemente subire inaccettabili compromissioni, si può solo auspicare che il pregiudizio e le tare culturali dei professionisti del processo penale diventino sempre meno “ingombranti”.
5.2. L’eccessiva “cautela” della giurisprudenza in materia di stupro
Si tratta a questo punto di esaminare rapidamente il secondo volto della violenza sessuale, che è quello relativo allo stupro vero e proprio. Periodicamente si sono registrati “disorientamenti” giurisprudenziali che sembravano marciare in direzione opposta rispetto al progressivo ampliamento della nozione di atti sessuali, con qualche imbarazzo interpretativo di troppo proprio in materia di stupro, che dovrebbe rappresentare il nucleo irrinunciabile del delitto di violenza sessuale.
Si tratta ovviamente di pronunce che in certi casi sarebbe eccessivo definire veri e propri “orientamenti” e che, sia pur per ragioni diverse, dovrebbero ormai considerarsi superate o in corso di superamento. Nonostante ciò, visto che in una materia come questa è bene non dare mai nulla per scontato, sembra utile una sia pur sommaria disamina di due questioni problematiche.
1) Lo strano caso della vittima in blue jeans
Sulla base di un’interessante riproposizione dell’antico adagio “dimmi come eri vestita e ti dirò se hai subito violenza sessuale” o, meglio, di visioni stereotipate dello stupro modellate sui più radicati luoghi comuni in materia, la Corte di cassazione perviene alla celeberrima affermazione per cui sarebbe un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa[12]. Si precisava poi che sarebbe istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi intenda violentarla e che risulterebbe quindi illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro.
L’idea di fondo, altrimenti detto, è quella per cui non vi sia dissenso senza resistenza o, addirittura, che in capo alla vittima di violenza sessuale sia individuabile un vero e proprio dovere di resistenza[13]. Se possono considerarsi superati i tempi in cui si discuteva della irrilevanza penale della vis grata puellae, quel tanto di forza necessaria a vincere la naturale resistenza della donna, non così scontato è stato il superamento dell’onere di resistenza a carico della donna stessa, una sorta di civilistica inversione dell’onere della prova, tale per cui la vittima di violenza sessuale era chiamata in tribunale a dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
La giurisprudenza più recente tende a ridimensionare la portata di un dissenso esplicito e/o accompagnato da un’adeguata resistenza da parte della vittima, precisando che non è necessario che il dissenso permanga per l’intera esecuzione del delitto, restando lo stesso configurabile anche nel caso in cui la vittima “si arrenda” al suo aggressore o, specie all’intero di un rapporto di coppia, qualora il soggetto attivo abbia la consapevolezza del rifiuto implicito da parte della vittima in considerazione delle numerose violenze o minacce poste in essere dallo stesso[14].
Si tratta però di questioni sulle quali pare opportuno non “abbassare mai la guardia”, anche perché l’accertamento del dissenso, specie in contesti quali quelli della violenza domestica o della violenza nei confronti di prostitute, resta indubbiamente un aspetto particolarmente delicato e complesso.
2) L’attenuante della minore gravità nei casi di stupro commesso nell’ambito di relazioni stabili.
La previsione di una circostanza attenuante per i casi di violenza sessuale di minore gravità di cui all’art. 609-bis, secondo comma c.p. rispondeva all’evidente intento di assicurare un’adeguata dosimetria sanzionatoria nell’applicazione della nuova fattispecie così ampiamente formulata. Sembrava dunque che i casi di accertato stupro dovessero ritenersi strutturalmente incompatibili con l’attenuante in questione.
La giurisprudenza di legittimità, in anni molto recenti, ha invece smentito questa premessa, ritenendo che un rapporto sessuale completo non consensuale non sia, in quanto tale, incompatibile con l’attenuante della minore gravità ex art. 609-bis, secondo comma c.p., posto che il fatto deve valutarsi nella sua complessità, con particolare riguardo agli effetti psico-fisici che la violenza produce sulla vittima.
La Corte di cassazione, per esempio, ha annullato con rinvio una sentenza in cui i giudici d’appello si erano limitati (sic!) a fare riferimento a “plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di autodeterminazione della donna”, senza analizzare, ai fini dell’applicazione dell’art. 609-bis, secondo comma c.p, gli effetti che i “plurimi rapporti sessuali violenti” avessero prodotto sulla donna[15]. O, ancora, in un caso di violenza sessuale consistita nell’aver costretto la vittima a un rapporto sessuale orale e uno vaginale, con contestuali lesioni tradottesi anche nella rottura di tre costole, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte d’appello non avesse adeguatamente motivato in ordine alla mancata concessione dell’attenuante, anche perché la vittima «per sua fortuna» aveva ormai archiviato il fatto e non dimostrava alcuna volontà di ricordarlo. Questo, in estrema sintesi, il ragionamento della Corte di cassazione: se la vittima non ricorda e non vuole ricordare, verosimilmente il fatto non era così grave. Se, tuttavia, la violenza sessuale è posta a tutela della libertà di determinazione della donna, la sola circostanza oggettiva di aver subito un rapporto sessuale completo contro la sua volontà dovrebbe valere ad escludere una possibile operatività dell’attenuante, a nulla rilevando gli effetti, nel medio-lungo periodo, che quella violenza è in grado di produrre sulla vittima[16].
Le pronunce in questione, sarà un caso, sono state spesso relative a violenze sessuali commesse nell’ambito di un rapporto di coppia.
Originariamente si discuteva se il soggetto attivo del delitto di violenza sessuale potesse essere anche il coniuge, visto che alcuni valorizzavano un preteso diritto alla congiunzione sessuale nell’ambito del matrimonio, quasi come se quest’ultimo funzionasse da consenso anticipato rispetto alle future prestazioni sessuali. Si trattava evidentemente di un’impostazione che non poteva reggere per molto a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione e che, per questo, può considerarsi ormai come testimonianza di vera e propria archeologia giuridica.
Anzi, proprio in considerazione della progressiva emersione del fenomeno della violenza domestica, il legislatore ha introdotto nel 2014 una nuova aggravante al catalogo previsto dall’art. 609-ter c.p., prevedendo al numero 5-quater che le pene di cui all’art. 609-bis c.p. sono aumentate per fatti commessi nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza. Proprio questa disposizione dovrebbe determinare un definitivo superamento di quell’orientamento volto ad ammettere l’attenuante della minore gravità per uno stupro commesso dal partner, pena l’innescarsi di un autentico corto circuito sul piano normativo[17].
6. Una riflessione sulla condizione femminile attraverso il diritto penale: limiti e prospettive
Il film di De Sica, forse più che il romanzo di Moravia, ha obbligato a fare i conti con un passato tanto doloroso quanto scomodo, in cui l’imbarazzo politico si sommava alla immaturità socio-culturale italiana di fronte alla “questione femminile” e al ruolo della donna.
I tempi sono cambiati e i passi in avanti sono notevoli ed evidenti, ma certamente si tratta di un percorso culturale e giuridico che, in riferimento alla violenza contro le donne, è ancora lontano da un approdo che possa considerarsi soddisfacente.
Il diritto, specie quello penale, resta un’arma spuntata se non può contare su un supporto socio-culturale sufficientemente solido e sedimentato. La rilevanza penale delle condotte di violenza sessuale, come precisato, rappresenta la base di un ampio e complesso edificio di tutela, che sta diventando sempre più consistente e strutturato. Senza un adeguato supporto, che passi attraverso una più convinta prosecuzione lungo la strada di quel cambiamento culturale già in atto, il rischio, tuttavia, è quello di trovarsi al cospetto di un gigante dai piedi di argilla: maestoso mentre brandisce lo scudo e la spada del diritto penale, ma destinato a polverizzarsi al primo rigurgito di un magma sessista e retrogrado ancora in pericolosa ebollizione.
[1] L. Longanesi, Sorprendere la realtà, in Cinema, 10 ottobre 1936. Molti dei tratti del Neorealismo cui si fa riferimento nel testo sono tratti da S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, 2014, spec. 61 ss., cui si rinvia per tutte le necessarie indicazioni, anche bibliografiche.
[2] Il testo della relazione è disponibile, tra l’altro, su legislature.camera.it.
[3] Molti e interessanti documenti sono stati raccolti in E. Ciotti, Le “marocchinate”, Youcanprint.
[4] Per tutti, A. Merli, Violenza di genere e femminicidio. Le norme penali di contrasto e la legge n. 119 del 2013 (c.d. legge sul femminicidio), Esi, 2015, 5 ss.; F. Mantovani, La violenza di genere sotto il profilo criminologico e penale, in Criminalia, 2013, 59 ss.
[5] M. Costi, E. Fronza, Il diritto penale internazionale: nascita ed evoluzione, in Introduzione al diritto penale internazionale, Giappichelli, 2016, 2.
[6] S. Massi, Le fattispecie di genocidio nell’esperienza giurisprudenziale internazionale, in Strutture del diritto penale internazionale, cit., 2018, 126.
[7] C. Ferrara, Vittime di tortura durante il conflitto nella ex Jugoslavia: una storica decisione del Comitato ONU contro la tortura sulla responsabilità dello Stato, in Giustizia insieme, 23 giugno 2020.
[8] Le ragioni e le ambiguità della riforma sono efficacemente ricostruite da G. Fiandaca, Violenza sessuale, in Enc. dir., agg. IV, 2000, 1153 ss.
[9] M. Bertolino, M.: Libertà sessuale e blue-jeans, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1999, 695-696.
[10] Cass., Sez. III pen., 3 ottobre 2017 n. 3648.
[11] Cass., Sez. III pen., 19 gennaio 2018, n. 20712; Cass., Sez. III pen., 9 febbraio 2017, n. 29235; Cass., Sez. III pen., 1 dicembre 2016, n. 43802; Cass., Sez. III pen., 12 febbraio 2014, n. 10248. Sul punto, per tutti, G. Fiandaca, La rilevanza penale del “bacio” tra anatomia e cultura, en Foro it., 1998, II, 505 ss.
[12] Cass., Sez. III pen., 6 novembre 1998, n. 3355, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1999, con nota di M. Bertolino, Libertà sessuale e blue-jeans e in Foro it., 3/1999, II, 163, con nota de G. Fiandaca, Violenza sessuale su donna “in jeans” e pregiudizi nell’accertamento giudiziario.
[13] Bertolino M., Libertà sessuale e blue-jeans, cit., 701.
[14] Cass., Sez. III pen., 26 settembre 2017, n. 51074; Cass., Sez. III pen., 10 maggio 2017, n. 33049.
[15] Cass., Sez. III pen., 1 luglio 2014, n. 39445.
[16] Cass., Sez. III pen., 14 maggio 2014, n. 23913.
[17] Significativa al riguardo Cass., Sez. III pen., 15 febbraio 2017, n. 7162.
Fratelli tutti. Un’enciclica costituzionale?
di Tania Groppi
Sommario: 1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente - 2. Le parole del costituzionalismo - 3. Uno sguardo nuovo - 4. Costituzionalismo trasfigurato - 5. Contro la “tirannia del merito” - 6. Farsi prossimo.
1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente
L’Enciclica “Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale” (3 ottobre 2020), non è soltanto una summa degli interventi di Papa Francesco, nel corso del suo pontificato, sulla convivenza nell’ambito delle società umane. Certo, essa raccoglie discorsi e documenti presentati in sedi internazionali, di fronte al corpo diplomatico, ad associazioni di giuristi, ad organizzazioni della società civile, in incontri interreligiosi (a partire dalla fondamentale dichiarazione sottoscritta ad Abu Dhabi nel febbraio del 2019 congiuntamente al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb), messaggi per la giornata della pace o del migrante e del rifugiato, sistematizzandoli in un testo che si affianca alla precedente Enciclica “Laudato sì, sulla cura della casa comune” (24 maggio 2015), venendo a costituire un dittico sociale profondamente “francescano”.
“Fratelli tutti” è anche, almeno se letta con lo sguardo del costituzionalista, una summa del diritto costituzionale della nostra epoca, dei suoi acquis, delle sue contraddizioni, delle sfide alle quali è sottoposto nel XXI secolo. Con perlomeno due peculiarità. Essa non proviene da un giurista, ma dalla massima autorità spirituale di una religione. Non una religione qualunque, ma il cristianesimo, che è strettamente intessuto con il fondamento stesso di quell’Occidente che è stato la culla del costituzionalismo e ne continua a costituire la “patria” culturale. Proprio in tale tradizione spirituale e nella sua teologia l’Enciclica va alla ricerca degli strumenti per affrontare le sfide attuali, per rispondere alla impellente domanda sul “che fare”. Qui sta anche, almeno secondo me, il suo principale apporto, come cercherò di mostrare in questo breve intervento.
2. Le parole del costituzionalismo
Fin dal primo capitolo, dal significativo titolo “Le ombre di un mondo chiuso”, risuonano, più o meno espressamente, le parole del costituzionalismo. Non tanto di quello delle origini, radicato nelle rivoluzioni della fine del Settecento, benché ad esso sia riconducibile la triade “libertà, eguaglianza e fraternità”, alla quale sono dedicati diversi paragrafi [ad es. 103-105].
Ma, soprattutto, quelle del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, che ha cercato di rifondare la convivenza umana dopo gli orrori della prima metà del Novecento, andando di pari passo con il rinnovamento del diritto internazionale, nel nome della pace e della tutela dei diritti umani universali. Fin dalle prime pagine si affacciano le speranze sorte in quel momento storico: “per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione”, specialmente sul continente europeo, dove “si è sviluppato il sogno di un’Europa unita” [10].
Dignità, solidarietà, pace, lavoro, ripudio della guerra. Sono le parole dello Stato democratico-pluralista, il cd. “Post-war paradigm” [Weinrib], declinato come Stato sociale e come Stato costituzionale aperto, in particolare nella sua variante “dignitaria” [Glendon]: ovvero, una forma di organizzazione del potere politico incentrata sulla dignità della persona umana, finalizzata ad assicurare la convivenza pacifica nelle società pluralistiche, attraverso una più equa distribuzione della ricchezza e la limitazione della sovranità esterna degli Stati, della quale sono espressioni paradigmatiche la Costituzione italiana del 1948 e quella tedesca del 1949 [Häberle, Cheli, Zagrebelsky].
Questo costituzionalismo è in crisi, ci dice il Papa. “La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” [11], riappare la tentazione di alzare muri [27], “i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi” [30], “velocemente dimentichiamo la lezione della storia, ‘maestra di vita’” [35].
Ed è in questa “pars destruens” dell’Enciclica - che prende le mosse nel primo capitolo, per poi svilupparsi anche in quelli successivi - che riecheggiano le parole del costituzionalismo del XXI secolo, in particolare di quegli studiosi che hanno analizzato, utilizzando diverse espressioni (constititutional retrogression, democratic decay, democratic backsliding ecc.), il processo di arretramento della democrazia costituzionale negli ultimi dieci, quindici anni [Tushnet, Ginsburg, Daly].
Ecco così comparire, in prima linea, la “perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica” [172]. È la globalizzazione (“questa” globalizzazione, verrebbe da aggiungere con Stiglitz), una globalizzazione che unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” [12]. Una globalizzazione di impronta neoliberista, basata sulla fede nel mercato, il cui fallimento è ancor più evidente nella pandemia da Covid-19, che ha messo in luce la fragilità dei sistemi mondiali: “la fine della storia non è stata tale” [168].
Ecco Internet e la comunicazione digitale, “nella quale si generano ‘circuiti chiusi’, che ‘facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio’” [45].
Ecco le migrazioni, che mettono in moto paure ancestrali [27], dalle quali derivano intolleranza, chiusura e razzismo [41].
Ecco il populismo, inteso quale populismo “insano” (da tenere distinto dalla capacità di unificare, interpretando il sentire del popolo in modo “aperto”), definito come “l’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità” [159].
3. Uno sguardo nuovo
Le parole del costituzionalismo del Secondo dopoguerra ritornano anche nella pars construens - specialmente nel capitolo terzo “Pensare e generare un mondo aperto”, e nel capitolo quarto, “Un cuore aperto al mondo intero” - laddove si delineano le linee di azione per costruire un mondo che non sia basato su “cerchie di soci” ma sia fondato sulla fraternità tra tutti gli esseri umani.
Ed ecco ricomparire la solidarietà come “virtù morale e atteggiamento sociale” [114], i “diritti sociali e i diritti dei popoli” [126], la cittadinanza come “eguaglianza dei diritti e dei doveri” [131], la “rinuncia all’uso discriminatorio del termine minoranze” [131], la richiesta di un “ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico” [138], la necessità di assicurare “la sovranità del diritto” [173], il rigetto della guerra, della pena di morte e dell’ergastolo [268], la discussione pubblica come metodo di dialogo [203].
Tuttavia, se per qualche verso il costituzionalismo del Secondo dopoguerra è evocato, in diversi passaggi, come una sorta di eden perduto, da recuperare, anche attraverso la memoria storica [13, 36], mi sento di poter dire che il punto qualificante dell’Enciclica consiste nello svelare il “tarlo” che è venuto allo scoperto nel sistema che su tali solenni principi è stato costruito. Infatti, proprio muovendo da questa constatazione si giunge a ribadire - come già in “Laudato sì” riguardo alla “casa comune” - che occorre un radicale cambio di paradigma, questa volta nei rapporti tra le persone e i popoli, rispetto al mondo così com’è.
Il “tarlo” è l’individualismo radicale, che “non ci rende più liberi, più eguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune” [105].
Se la leggiamo in una dimensione puramente “costituzionale”, “Fratelli tutti” lascia aperta la questione sull’origine del “tarlo”, nel senso che non chiarisce se si tratta di una degenerazione del modello venutasi a determinare a seguito dell’affermazione, a partire dagli anni Ottanta, del paradigma neoliberista, oppure se già nel modello originario fossero insite le contraddizioni che hanno aperto la strada a tali deleteri sviluppi.
Si dice infatti che “osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati” [22].
È intorno alla determinazione delle cause dell’individualismo radicale che si colloca, a mio avviso, lo snodo centrale dell’Enciclica, ed è qui che si mostra la necessità di una lettura in chiave teologica, pena la incomprensione e finanche il travisamento dei suoi contenuti.
Infatti essa, pur riprendendo l’impostazione e il lessico del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, trova la sua forza e la sua suggestione laddove fa parlare più direttamente la sua sorgente, ovvero quando lascia suonare “la musica del Vangelo”, che consente di “trasfigurare” e in qualche modo “fare nuovo” il retaggio del costituzionalismo: “Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo” [277].
In questa prospettiva, si possono richiamare perlomeno due passaggi cruciali.
Innanzitutto, quello in cui si rintraccia nella concupiscenza il fondamento dell’individualismo: in sostanza, benché questa parola non compaia mai nell’Enciclica, nel peccato. Si afferma che la “critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama ‘concupiscenza’: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio” [166].
Inoltre, laddove si rinviene il fondamento della fraternità nell’essere figli di uno stesso Padre, richiamando l’Enciclica “Caritas in veritate”, di Benedetto XVI. “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’eguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»” [272].
Soltanto attingendo a questa dimensione “altra”, che collega la sfera sociale all’annuncio della salvezza, possiamo beneficiare pienamente, tutti, credenti e non credenti, dell’apporto della tradizione spirituale cristiana ed entrare in un’altra logica, che ci dia occhi nuovi e ci renda capaci di “sognare e pensare un’altra umanità” [127]. Riportandoci, come costituzionalisti, alle nostre stesse origini, a quei tempi lunghi dei diritti umani [Bobbio], a quello sguardo profetico verso l’avvenire che ha contrassegnato i nostri costituenti, a quella speranza che continua a nutrire la vita delle costituzioni democratiche.
4. Costituzionalismo trasfigurato
Il punto di partenza per questa trasformazione dello sguardo è la conversione del cuore, che implica una uscita da sé, una vera e propria “estasi”: “Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi una specie di legge di ‘estasi’: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere. Perciò in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso” [88].
Soltanto in tal modo si riesce ad avere uno sguardo che riesca a vedere gli altri, anche gli ultimi, come fratelli: “Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo dell’autentico spirito della politica. A partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima” [187].
A partire da qui sono riletti e vivificati molteplici aspetti chiave del costituzionalismo, cominciando dai principi supremi, quelle “clausolas petreas” o “eternity clauses” che pretendono di sottrarre alle revisioni costituzionali i principi-chiave del vivere comune: “Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile? Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo” [207-209].
La stessa rielaborazione si ha per un altro dei concetti chiave del costituzionalismo contemporaneo, nella sua versione di “transformative constitutionalism”, le norme programmatiche, che divengono direttive per “avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri” [196], in un rapporto con il tempo che abbandoni la tirannia del presente.
Per la stessa nozione di pluralismo, in cui la convivenza pacifica deve essere coltivata attraverso la “carità politica”, chiamata a propiziare l’incontro e il dialogo: “Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo” [190].
Fino ad arrivare alla politica, alla quale sono dedicati molti paragrafi, partendo dalla domanda “può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?” [176]. Una politica che si trasfigura in tenerezza, cioè in una “amore che si fa vicino e concreto” [194], e che “è sempre un amore preferenziale verso gli ultimi” [187].
5. Contro la “tirannia del merito”
Se fin qui ho passato in rassegna alcuni punti trattati esplicitamente nell’Enciclica, mi sembra che lo sguardo nuovo, “trasformato dalla carità”, al quale ci chiama, possa esserci di aiuto anche per affrontare, come costituzionalisti, altri aspetti chiave della nostra epoca, che non sempre riusciamo a vedere, assuefatti come siamo ad un certo senso comune.
È quel che accade col paradigma meritocratico, basato sull’affermazione “a ciascuno secondo il suo merito”. Apparentemente un principio sacrosanto, ma basato su una premessa scivolosa. Che cos’è il merito? Da dove vengono questi supposti “talenti” che andrebbero premiati? Quello che a prima vista consideriamo un “merito” non è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana?
Un paradigma “trasversale”, al punto che si è parlato di una “tirannia del merito”, che non è riconducibile solo all’ideologia neoliberista, a Ronald Reagan o Margaret Thatcher, per intendersi, ma costella i discorsi di Bill Clinton e Barack Obama, che esaltano un sistema nel quale i migliori possono eccellere ed emergere [Sandel]. E che sta avvelenando la convivenza umana, contribuendo ad allontanare le persone l’una dall’altra, riproducendo una divisione in caste (basata sulla “meritevolezza”) che porta in definitiva al mantenimento di una concezione gerarchica della società con al vertice le “élites del merito”, una nuova oligarchia come ebbe a dire a suo tempo Hannah Arendt. L’abbondanza di metafore spaziali di tipo verticale che caratterizza il nostro linguaggio ogni volta che viene in rilievo l’eguaglianza lo testimonia, a partire dalla eguaglianza dei punti di partenza, per proseguire con l’ascensore sociale, la gara della vita, il paracadute sociale. Quante volte si è letta, e non soltanto sulla base dell’“American Dream”, ma anche in Europa, l’eguaglianza come “pari opportunità”, da dare a tutti, in modo tale da premiare, come recita anche la Costituzione italiana, i più “capaci e meritevoli”, mettendo in moto processi “ascensionali” di mobilità sociale.
Senza che ci si renda conto che con tali espressioni si sta inoculando un veleno nella società: si introduce infatti un elemento di giudizio, di disvalore, verso tutti coloro che non ce la fanno, che debbono sì essere aiutati, ma che restano marchiati da uno stigma, o perché non si sono impegnati abbastanza, o non sono stati abbastanza meritevoli, oppure perché non sono abbastanza capaci. Quel che è certo è che manca loro qualcosa, nel senso che sono, in qualche modo, manchevoli e perciò peggiori.
Da lì la sensazione di superiorità di chi sta in alto, che pensa di aver “meritato” la propria posizione, e, invece, quella di inferiorità (e di frustrazione) di chi sta in basso. L’allargarsi della distanza tra le persone sta mettendo in crisi la stessa sopravvivenza della democrazia: come è possibile mantenere un patto di convivenza tra soggetti che sono ormai così lontani al punto da vivere vite separate, in spazi separati, senza incontrarsi mai?
Rispetto a questa nuova forma di divisione, di distanza, invocare la fraternità e l’amicizia sociale, ovvero una “vicinanza”, sostituire alla metafora gerarchica verticale della scala quella orizzontale del poliedro, costituisce un approccio rivoluzionario, che interpella la coscienza di ciascuno di noi, invitandoci a una umiltà che può derivare soltanto dal riconoscerci, tutti, indipendentemente dai propri successi e doti, come creature. Fratelli tutti.
6. Farsi prossimo
Mi pare però che, più di ogni altro aspetto dell’Enciclica, sia la parabola del buon samaritano, narrata nel Vangelo di Luca (Lc 10, 25-37) - alla quale è dedicato, come una apparente parentesi, il capitolo secondo, “Un estraneo sulla strada” - che guida a comprenderne il senso profondo e illumina la prospettiva di azione che essa costantemente sollecita.
Una parabola la cui narrazione “è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza” [69].
Che fare, dunque? Come costituzionalisti e come persone di questa epoca?
Occorre prima di tutto prendere posizione, scegliere da che parte stare: “Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene” [77]. Un richiamo forte, o almeno io lo leggo così, a ricordarci, come giuristi, che il fine del diritto è quello di contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, e di contribuire a ridurre il dolore e la sofferenza umani.
E, quindi, farsi parte attiva nella società. “È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano” [78].
Mi tornano in mente qui le parole pronunciate da Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953, messe in evidenza in un bellissimo libro di Mary Ann Glendon, dal suggestivo titolo “Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani”. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani? Nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora”.
In altri termini, siamo chiamati a farci presenti “alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza” [81]. Per i credenti, ma mi sentirei di dire, per ogni persona di buona volontà, risuonano le parole di Gesù a conclusione della parabola: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).
Opere citate:
H. Arendt, La crisi dell’istruzione (1958) ora in Id., Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 2017
E. Cheli, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale scientifica, Napoli, 2006
T. Ginsburg, A. Z. Huq, How to Save a Constitutional Democracy, The University of Chicago Press, Chicago, 2018
M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani (2001), Liberilibri, Macerata, 2009,
M. A. Graber, S. Levinson, M. Tushnet (eds), Constitutional Democracy in Crisis?, Oxford University Press, Oxford, 2018
P. Häberle, Lo Stato costituzionale, Carocci, Roma, 2005
M. J. Sandel, The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good?, Allen Lane, London, 2020
J. E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013
L. Weinrib, The Postwar Paradigm and American Exceptionalism, in S. Choudrhy (ed.) The Migration of Constitutional Ideas: Rights, Constitutionalism and the Limits of Convergence, Cambridge University Press, Cambridge, 2006
G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992
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