ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’istanza di discussione orale da remoto e la relativa opposizione. Prime applicazioni da parte del giudice amministrativo.
La V sezione del Consiglio di Stato, con decreto 3 giugno 2020 n. 881 a firma del Presidente Barra Caracciolo, ha accolto l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa formulata dall’appellante. Il decreto non consente di comprendere quale fosse la giustificazione dell’opposizione, si segnala soltanto che il g.a. sembra aver valorizzato l’eccezionalità della discussione da remoto. Si legge infatti che “stante il contesto circostanziale e normativo speciale relativo allo svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche e fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita … la causa debba passare in decisione della causa senza la relativa discussione orale”.
Il TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, con decreto 5 giugno 2020 n. 102 a firma del Pres. Migliozzi, ha rigettato l’opposizione della ricorrente all’istanza di discussione orale da remoto, in quanto esclusivamente motivata sulla circostanza che le controparti (resistente-controinteressata) – avendo depositato una memoria difensiva ed essendo ancora pendenti i termini per replicare – difettassero dei presupposti per chiedere la discussione orale dell’istanza cautelare. Il g.a., invece, ha ritenuto che la piana e coordinata lettura delle disposizioni disciplinanti la trattazione collegiale delle domande cautelari escludesse che “la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio alla memoria depositata dalla parte avversaria comport[asse] la preclusione della discussione orale da remoto”, tanto più che lo stesso art. 55 c.p.a. al suo settimo comma dispone che i difensori “sono sentiti ove ne facciano richiesta e la trattazione collegiale si svolge oralmente e in modo sintetico”. In tale prospettiva il Presidente, nel precisare che “l’interesse a sentire le parti ex art. 73, secondo comma c.p.a appare in base al regime giuridico processuale descritto dalla normativa emergenziale … una opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti (senza cioè discussione)”, ha definito espressamente la discussione orale come “estrinsecazione del diritto di difesa assolutamente incomprimibile”. Nella specie, pertanto, il giudice, in ragione della natura della controversia, degli interessi in gioco e dello stato dei fatti, ha ritenuto “ammissibile oltre che consigliabile la discussione orale sia pure da remoto”.
Ancora, con il decreto 4 giugno 2020 n. 43, il Pres. Silvestri del TAR Molise ha respinto la richiesta di discussione orale da remoto avanzata dalla ricorrente, ritenendo superfluo consentire siffatta discussione al (solo) fine di valutare la relativa istanza di rinvio per termini a difesa, ferma la possibilità di riproporla per l’eventuale successiva udienza. Nella specie, avendo il controinteressato depositato (il 21 maggio 2020) ricorso incidentale e avendo conseguentemente il ricorrente chiesto termini a difesa con successiva memoria (25 maggio, reiterata il successivo 30 maggio 2020), il g.a. ha espressamente ritenuto che “al fine di valutare l’istanza di rinvio per termini a difesa, risulta superfluo, per l’udienza prossima, prevedere la discussione orale da remoto, ferma restando la possibilità di ripresentarla per l’eventuale udienza successiva”.In tale fattispecie, peraltro, il g.a., nel respingere la suddetta istanza, ha ritenuto di dover non considerare le ragioni addotte dalla resistente nell’opposizione all’istanza di discussione orale, giacché, sostanziandosi nell’assunto che “la causa [era] matura per la decisione sulla base di tutte le eccezioni formulate negli scritti difensivi, non necessitando la discussione orale”, esse erano inidonee a escludere l’opportunità della trattazione orale della controversia.
Infine, il Presidente della sezione di Reggio Calabria del TAR Calabria, con decreto 8 giugno 2020 n. 55, ha disposto la discussione orale della controversia – data la peculiarità e la complessità della fattispecie dedotta – sebbene la relativa istanza fosse stata presentata tardivamente dalla parte. In particolare, il giudice ha deciso in tal senso, (i) evidenziando nella specie una “oggettiva ragione di incertezza su questione di diritto ai sensi dell’art. 37 c.p.a., considerato che con il computo a ritroso il termine per il deposito dell’istanza veniva a scadere in un periodo sì successivo all’entrata in vigore del D.l. n. 28/2020, ma antecedente a quello fissato dallo stesso art. 4 (“A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale ...”) e alla stessa data di adozione e pubblicazione delle Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato e del Protocollo d’intesa con l’Avvocatura sulle udienze da remoto”; e (ii) chiarendo che “il potere presidenziale ufficioso, siccome previsto “anche in assenza di istanza di parte”, può ritenersi esercitabile sia ove manchi l’istanza di parte, “ma anche, e a fortiori, ove quest’ultima sia stata formulata oltre i termini di legge””, proprio al fine di temperare gli effetti preclusivi determinati dal decorso dei termini.(V.S.)
Le "collaborazioni" tra strutture pubbliche ed operatori privati nel campo biomedico e la necessaria osservanza dei principi dell'evidenza pubblica (nota a T.A.R Lombardia Milano, sez. I, 8 giugno 2020, n. 1006)
Saul Monzani
sommario: 1. La questione oggetto di ricorso e la verifica dei presupposti dell'azione. - 2. La specifica disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). 3. La qualificazione giuridica della convenzione contestata in base al suo contenuto concreto e alla luce della normativa specifica. - 4. La sottoposizione ai principi generali dell'evidenza pubblica della convenzione contestata quale contratto pubblico attivo e/o quale concessione di beni pubblici.
1. La questione oggetto di ricorso e la verifica dei presupposti dell'azione.
Il T.A.R. Lombardia è stato chiamare a decidere sul ricorso presentato da un soggetto imprenditoriale operante nel campo delle tecnologie biomediche a livello diagnostico e terapeutico, nonchè della produzione e commercializzazione di apparecchiature medicali e di prodotti ottenuti mediante tecniche di ingegneria genetica, avverso una convenzione stipulata dal Policlinico San Matteo di Pavia con un altro operatore del medesimo settore, potenziale concorrente del primo, senza la previa effettuazione di alcuna procedura ad evidenza pubblica.
Tale convenzione, secondo la definizione stabilita dalle parti, ha avuto ad oggetto una collaborazione finalizzata alla valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 da sviluppare sulla base di un prototipo fornito dall'operatore privato e successivamente da produrre da parte di quest'ultimo.
Preliminarmente, i giudici amministrativi lombardi hanno accertato la sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire in capo al ricorrente, in quanto “operatore economico dello specifico settore" che, come tale, è da ritenersi abilitato a contestare in sede giurisdizionale un affidamento diretto suscettibile, anche solo in astratto, di apportare un beneficio ad un soggetto concorrente apprezzabile in termini di utilità economica e di vantaggio competitivo.
Ciò posto, la sentenza ora in commento è passata ad individuare i riferimenti normativi entro cui si situa la convenzione contestata e poi ad esaminare il contenuto della stessa, al fine di qualificarla da un punto di vista giuridico, con le relative conseguenze in tema di procedura di selezione del contraente da osservarsi.
2. La specifica disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS).
Nella parte centrale della sentenza in commento si è trattato sostanzialmente di inquadrare da un punto di vista giuridico la convenzione contestata, tenendo conto della natura pubblica di uno dei soggetti contraenti e della specifica disciplina ad esso applicabile.
Lo specifico quadro normativo di riferimento entro cui si colloca la questione in esame è dato dal disposto di cui al d.lgs. 16 ottobre 2003, n. 288, recante "Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico” (IRCCS), stante l'appartenenza dell'amministrazione resistente a tale categoria, sia pure sotto forma di fondazione, rispetto alla quale è comunque indubitabile la “natura pubblica”, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del testo normativo predetto.
Una prima ipotesi valutata, sulla base delle argomentazioni presentate dalle parti resistente e controinteressata, è consistita nella considerazione dell'accordo in questione come finalizzato alla (mera) valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov 2, allo scopo di ottenere la marcatura CE e, ove possibile, l’FDA clearance (autorizzazione per il mercato statunitense). In tal caso, l'atto oggetto di giudizio sarebbe da iscriversi nella fattispecie degli accordi di collaborazione scientifica, rientranti nelle funzioni istituzionali di assistenza e ricerca proprie degli IRCCS e disciplinati dall'art. 8 comma 5, del citato d.lgs. n. 288/2003.
L'altra ipotesi considerata è quella per cui, come ritenuto dal ricorrente, si sia trattato di un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, con il quale la fondazione resistente, a fronte del pagamento di un compenso variamente articolato, ha messo a disposizione di un operatore economico la propria capacità tecnica e scientifica al fine di giungere all’elaborazione di nuovi prodotti da commercializzare, sulla base di un mero prototipo presentato dal predetto operatore.
Dal punto di vista della procedura di selezione o individuazione del contraente applicabile, sussiste una certa differenza, perlomeno da un punto di vista normativo letterale.
Infatti, per quanto riguarda gli accordi di collaborazione scientifica, l'art. 8 predetto, dettato in vista di una possibile produzione industriale dei risultati della ricerca, consente la formazione di accordi anche con soggetti privati, ponendo taluni vincoli (la trasparenza dei flussi finanziari e la rendicontazione, nonchè la destinazione dei proventi economici al finanziamento delle attività istituzionali della struttura pubblica), ma non prevedendo alcunchè in ordine alle modalità di individuazione della controparte contrattuale.
Per inciso, i giudici amministrativi lombardi hanno ritenuto che pure siffatti accordi, integrando “veri e propri contratti con uno specifico contenuto economico e patrimoniale e con obbligazioni a carico di entrambe le parti, sono, in linea di principio, soggetti al rispetto dei principi interni ed eurounitari in materia di contratti pubblici”.
Il successivo art. 9 del d.lgs. citato, invece, riconosce la possibilità da parte degli IRCCS di svolgere anche attività diverse da quelle strettamente istituzionali, ovvero attività di natura “strumentale”, rispetto alle quali è ammessa la stipulazione di accordi e convenzioni o la costituzione di consorzi e società di persone o di capitali con soggetti pubblici e privati, ma con l'espressa previsione per cui questi ultimi devono essere “scelti nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria”.
Ebbene, i giudici amministrativi lombardi, con la sentenza in commento, sono pervenuti ad escludere il carattere di accordo di mera collaborazione scientifica della convenzione oggetto del giudizio, riconducendola alla diversa fattispecie delle attività “strumentali” e a tale conclusione essi sono pervenuti attraverso una minuziosa analisi del testo convenzionale, condotta alla luce dei criteri ermeneutici di cui agli art. 1362 e 1363 del Codice civile, ovvero indagando la reale intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole utilizzate, valutando il loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione dell’accordo, nonché interpretando ciascuna clausola del contratto tenendo conto del senso che risulta dal complesso dell’atto.
3. La qualificazione giuridica della convenzione contestata in base al suo contenuto concreto e alla luce della normativa specifica.
Come appena rilevato, nella sentenza in commento si è proceduto a qualificare da un punto di vista giuridico, nonchè tenendo conto della specifica qualificazione dell'amministrazione coinvolta, la convenzione contestata, svolgendo una dettagliata analisi del suo contenuto interpretato secondo i criteri civilistici anzidetti, ovvero in concreto e nel suo complesso.
Ebbene, svolgendo siffatta operazione ermeneutica si è giunti ad accertare “la complessità e la molteplicità delle diverse attività dedotte nell’accordo, che non è diretto alla semplice validazione di un prodotto finito, ma si articola nello sviluppo di un prototipo fornito dalla società, sulla base di una valutazione analitica e clinica, cui potrà seguire un ulteriore studio clinico per determinare le prestazioni diagnostiche conseguibili mediante un kit molecolare da sviluppare e, quindi, non ancora ultimato”, in una prospettiva di ottimizzazione delle prestazioni dei prodotti ai fini della loro immissione sul mercato da parte dell'operatore privato.
Ai fini predetti, si è tenuto conto delle seguenti circostanze:
- la durata dell’accordo è fissata in dieci anni e a tale periodo è commisurata una quota consistente del compenso previsto in favore del Policlinico (il che farebbe escludere un'attività limitata alla semplice testazione di un prodotto finito, facendo verosimilmente riferimento ad un prodotto ancora da sviluppare);
- il contratto ha carattere evidentemente sinallagmatico: infatti il Policlinico si obbliga a tenere a disposizione della parte privata le sue strutture, le sue conoscenze scientifiche, la sua tecnologia, il suo know how, il suo personale a fronte del riconoscimento un compenso variamente determinato (tra cui una royalty, che non avrebbe giustificazione in caso di mera attività di validazione da parte dell'ente pubblico, pari all'1% sul prezzo netto praticato per la vendita di ciascun Kit Sierologico al cliente finale eseguita dall'operatore privato, con un minimo dì curo ventimila per anno nel corso dei dieci anni di durata dell’obbligazione);
- è prevista una minuziosa disciplina di esonero da responsabilità del soggetto privato per eventuali danni a terzi o al personale del Policlinico, anche per mancata remunerazione delle prestazioni rese (tale disciplina assume senso, secondo la sentenza in commento, solo presupponendo che l’accordo non abbia oggetto l’ordinaria attività di testazione di prodotti, per cui il personale opererebbe secondo le consuete mansioni e in base all'ordinario regime di responsabilità, ma prestazioni diverse ed ulteriori, a fronte delle quali può sorgere un problema di esposizione a rischio da parte di terzi e del personale);
- l’accordo disciplina in modo dettagliato la spettanza della “proprietà esclusiva” in capo al soggetto privato, al quale viene riservata la proprietà di invenzioni suscettibili di brevetto con l'impegno del soggetto pubblico a rinunciare a qualsiasi diritto e pretesa per qualsivoglia titolo o ragione, anche in caso di risoluzione o caducazione dell’accordo stesso (sul punto, si è osservato che se l’accordo avesse ad oggetto solo la testazione di un prodotto finito, autonomamente elaborato in via definitiva dall'operatore privato, la disciplina indicata sarebbe priva di giustificazione, perché il prodotto stesso sarebbe già necessariamente di proprietà esclusiva del medesimo, senza necessità di un’esplicita riserva in suo favore).
Ne consegue, in definitiva, che secondo la sentenza in commento la convenzione contestata non è riconducibile alla fattispecie degli accordi di mera collaborazione scientifica di cui all'art. 5, comma 8, del d.lgs. n. 288/2003, nell'ambito dei quali il soggetto pubblico è sì legittimato ad avvalersi di altri soggetti per industrializzare i risultati della sua ricerca scientifica, svolta come attività istituzionale, senza però porre la sua struttura e le sue capacità a disposizione di un particolare soggetto privato al fine di consentirgli di conseguire risultati scientifici che resteranno nell’esclusiva disponibilità del medesimo, anche per ciò che attiene alla proprietà e alla titolarità dei brevetti.
Viceversa, sempre in base alla pronuncia in considerazione, il rapporto instaurato dal Policlinico con il soggetto privato, pur non potendosi ritenere sottratto alla capacità negoziale del primo, tuttavia non rientra nell'attività istituzionale del medesimo, bensì in quella strumentale, con la conseguente, certa, necessità di selezionare il partner privato, ai sensi di quanto prescritto testualmente dall'art. 9 del d.lgs. citato, nel rispetto della normativa nazionale ed eurounitaria.
4. La sottoposizione ai principi generali dell'evidenza pubblica della convenzione contestata quale contratto pubblico attivo e/o quale concessione di beni pubblici.
La necessità, da parte di un soggetto avente natura pubblica, di selezionare il soggetto partner di un rapporto come quello in esame con una procedura quantomeno informata ai principi generali in tema di contratti pubblici è stata individuata, nella sentenza ora in commento, anche alla luce di una riflessione di portata più generale, che prescinde dall'applicazione della specifica normativa dettata per i soggetti qualificabili come Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.
La predetta riflessione è consistita nel fatto che l'accordo in questione si è tradotto in un contratto attivo, “in forza del quale è l’amministrazione ad obbligarsi ad eseguire una serie di prestazioni in favore di un soggetto privato in cambio di un compenso variamente articolato”. In particolare, si è osservato, dal punto di vista ora in esame, che a tale fine l'amministrazione resistente ha messo a disposizione dell'operatore privato “una specifica e composita utilità, dotata di valore economico e propria del Policlinico, consistente in un insieme di beni mobili, materiali e immateriali, quali conoscenze scientifiche e pratiche, tecnologie, laboratori, professionalità, personale, mezzi e strumenti; utilità, che nella sua variegata composizione, integra un complesso aziendale”.
In tale ottica, occorre considerare che i contratti attivi delle pubbliche amministrazioni, per espressa previsione di cui all'art. 4 del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 s.m.i., pur essendo esclusi dall'applicazione del Codice stesso, rimangono tuttavia subordinati al rispetto dei principi di “economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”. In giurisprudenza si trova conferma sul punto, di recente, in T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 6 febbraio 2019, n. 88.
Inoltre, occorre pure considerare che sono tuttora vigenti le disposizioni del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, il quale, all'art. 3, prevede che i contratti dai quali derivi un'entrata per le pubbliche amministrazioni debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata. Analogamente dispone anche l'art. 37, comma 1, del r.d. 23 maggio 1924. n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato).
Alla medesima conclusione, poi, si è pervenuti anche per altra, ulteriore, via. Infatti, partendo sempre dal presupposto per cui le fondazioni Irccs costituiscono enti pubblici, si è osservato che tale qualificazione comporta la sottoposizione dei beni di cui esse sono titolari, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 830, comma 2 e 828, comma 2, del Codice civile, al regime del patrimonio indisponibile, per cui tali beni non possono essere sottratti alla loro destinazione di pubblico servizio se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. Si tratta, nel caso concreto, degli strumenti, apparecchiature, laboratori, materiali impiegati, conoscenze scientifiche, tecnologie, professionalità di cui l’ente dispone e che deve riservare al raggiungimento dei suoi scopi istituzionali.
Ciò non toglie, osserva la sentenza in commento, che i beni del patrimonio indisponibile possano anche essere destinati ad un uso “particolare”, purchè coerente con la loro funzione istituzionale, ma tale ipotesi presuppone l’utilizzo degli strumenti previsti dalla legge ed, in particolare, la costituzione di un rapporto concessorio, caratterizzato dalla sottoposizione alla disciplina pubblicistica per quanto riguarda i profili che attengono tanto alla gestione dei beni e all’individuazione della loro concreta destinazione, con i relativi limiti, quanto alla procedura di individuazione della controparte in favore della quale i beni vengono messi a disposizione. Diversamente, come si è ritenuto essere accaduto nel caso in commento, si finisce per impegnare risorse pubbliche, materiali ed immateriali, con modalità illegittime, sottraendole, così, alla loro destinazione indisponibile, con i conseguenti profili di responsabilità contabile che ne possono scaturire in capo ai responsabili della struttura pubblica.
Ne deriva, in definitiva, l'inquadramento del rapporto in questione come concessione di beni pubblici la quale, come tale, è sottoposta al rispetto dei principi di trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento quanto alla selezione del concessionario (in tal senso, di recente, si v. Anche Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874; Cons. St., sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3377, rese in tema di concessioni demaniali marittime).
Del resto, i predetti principi eurounitari, emergenti dal Trattato e dalla giurisprudenza della Corte UE, si devono applicare ogni qual volta un’amministrazione, intesa in senso lato, offra sul mercato un bene o un’utilità, o un complesso di beni e utilità, nella sua esclusiva disponibilità, che si traducano in un’occasione di guadagno per gli operatori economici, anche sotto forma di vantaggio competitivo sul mercato di riferimento, e che, pertanto, devono essere assegnati sulla base di procedure competitive (così, Corte di Giustizia, ordinanza 3 dicembre 2001, in C-59/00; Corte di Giustizia, sentenza 7 dicembre 2000, in C-324/98; nel nostro ordinamento si v., in tal senso, Cons. St., sez. VI, 31 gennaio 2017, n. 394, per cui un “bene demaniale economicamente contendibile che può essere affidato in concessione ai privati, a scopi imprenditoriali, solo all'esito di una procedura comparativa ad evidenza pubblica”; Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2016, n. 889, secondo il quale, analogamente, la sottoposizione delle concessioni di beni pubblici ai principi di evidenza pubblica “trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con essa si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato”).
Pertanto, sulla base (anche) delle argomentazioni poc'anzi illustrate, i giudici amministrativi lombardi hanno concluso che “I principi comunitari non possono essere elusi attraverso l’utilizzo di moduli convenzionali che, al di fuori del necessario confronto competitivo e della necessaria apertura al mercato, abbiano l’effetto di attribuire ad un operatore determinato una particolare utilità, formata da un complesso di beni sottoposto a vincolo di indisponibilità”.
I due piatti della bilancia: la necessità del bilanciamento tra libertà di culto e tutela del territorio
(Nota a T.A.R. Toscana, Sez. I, 1 giugno 2020, n. 663)
di Roberto Leonardi
1. L’Associazione Culturale Islamica di Pisa è proprietaria di un’area, nel medesimo comune, destinata dal Regolamento urbanistico a servizi religiosi per il culto e le attività culturali e sociali e presenta, all’amministrazione comunale, la richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un complesso edilizio costituito da un edificio per il culto e un centro culturale.
Su tale istanza si era espressa, con parere favorevole, ma con prescrizioni paesaggistiche e archeologiche, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno, prescrizioni che venivano recepite dall’Associazione ricorrente con una nuova soluzione progettuale.
Tuttavia, l’amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 10 bis, l. n. 241/1990, comunicava all’Associazione l’esistenza di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza. Tra questi motivi veniva contestato all’Associazione il mancato rispetto delle prescrizioni della locale Soprintendenza, venendo così meno i presupposti necessari per procedere con l’istruttoria finalizzata al rilascio del permesso di costruire. A rendere ancora più complesso il caso in esame viene indicata dal comune di Pisa alla ricorrente l’esistenza di un diniego di autorizzazione paesaggistica da parte del Collegio del Paesaggio del medesimo comune e, altresì, un atto di annullamento in autotutela del parere favorevole espresso in precedenza dalla Soprintendenza “per un errore materiale tale da provocare un vizio logico dell’atto”. L’amministrazione comunale dispone, così, il diniego di permesso di costruire che viene impugnato dall’Associazione Culturale Islamica di Pisa.
A seguito di nuove elezioni amministrative, con un atto di indirizzo della nuova giunta, il comune dava l’avvio ad una variante urbanistica, relativa all’area di proprietà dell’Associazione islamica, destinata a spazi pubblici e non più alle attrezzature religiose e ai luoghi di culto. In un secondo momento, con una seconda delibera di giunta, il comune di Pisa abbandonava il progetto della variazione dello strumento urbanistico appena citato e inseriva la variante della destinazione d’uso dell’area della ricorrente nell’ambito della più complessa variante finalizzata alla riqualificazione dello stadio della città. A seguito di questo nuovo atto di indirizzo della giunta, l’area dell’Associazione culturale islamica veniva destinata a parcheggi pubblici e a verde pubblico, con conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Da qui seguono le doglianze, con motivi aggiunti al ricorso principale avverso il diniego di permesso di costruire, dell’Associazione culturale che ha visto modificare, con una delibera di giunta, la destinazione urbanistica dell’area di cui era proprietaria, da area destinata a servizi religiosi per il culto e le attività culturali e sociali ad area destinata, invece, a verde pubblico e parcheggi.
I giudici toscani, partendo dai motivi aggiunti, ritengono fondata l’impugnazione della delibera comunale sulla variante urbanistica per i motivi che si approfondiranno in seguito. Così, in riferimento all’originaria impugnazione del diniego di permesso di costruire, viene ritenuta fondata perché basato sull’annullamento d’ufficio della Soprintendenza del parere favorevole in precedenza espresso. In realtà, se l’amministrazione comunale non aveva l’obbligo di accogliere l’istanza del ricorrente in presenza di un atto in autotutela, allo stesso tempo non poteva negare il permesso di costruire all’Associazione in mancanza di un parere espresso negativo da parte della Soprintendenza, la quale, inoltre, aveva indicato alla ricorrente la necessità di presentare un nuovo progetto, con delle motivazioni che i giudici toscani hanno ritenuto palesemente insufficienti.
2. Con la sentenza del Tar Toscana, Sez. I, 1 giugno 2020, n. 663, si ripropone un tema oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale ormai noto, sul quale si è espressa una copiosa giurisprudenza, sia amministrativa, sia costituzionale[1]. Il tema della localizzazione degli edifici di culto[2] ha acquisito nel tempo una crescente rilevanza anche dal punto di vista giuridico, accompagnata da una complessità della sua disciplina. La tematica, infatti, come ben emerge dalla pronuncia in commento, incide sostanzialmente sui diritti di uguaglianza, sulla tutela delle differenti identità ideologiche, culturali e religiose dei singoli e dei gruppi, garantiti dalla Costituzione, la quale con l’art. 8 ha introdotto nel nostro ordinamento l’idea di pluralismo[3], destinato a garantire le diverse identità religiose, mentre, allo stesso tempo, l’art. 19 Cost. ha sancito il diritto di professare liberamente la propria fede e di esercitarne, in pubblico o in privato, il culto[4]. La disponibilità di edifici e di luoghi di culto da adibire alla celebrazione dei riti è, quindi, un elemento necessario per assicurare effettivamente non solo al singolo, ma anche alle comunità di praticanti, il libero esercizio del loro credo. Allo stesso tempo, la disciplina per la costruzione di questi edifici, nell’esercizio delle competenze sul governo del territorio, è un compito al quale l’amministrazione non può sottrarsi, nell’esercizio di una discrezionalità che dovrà sempre ponderare tutti gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa.
Opportunamente, il Tar Toscana ricostruisce, preliminarmente, il quadro normativo costituzionale ed europeo in tema di libertà di culto[5], per dare così un fondamento costituzionale alle proprie argomentazioni sul caso in esame. Il riferimento è, innanzi tutto, all’art. 8 Cost., che secondo il Tar Toscana si pone a tutela dell’Associazione ricorrente come portatrice di un interesse alla realizzazione di un edificio di culto, l’unico nel comune di Pisa, destinato a soddisfare le esigenze di praticare la religione islamica, considerata sempre dal giudice toscano, una delle religioni più diffuse al mondo e negli ultimi decenni ampiamente praticata anche in Italia. La libertà religiosa è, poi, garantita dall’art. 19 Cost., come diritto inviolabile tutelato dalla Costituzione “al massimo grado”[6]. Una garanzia costituzionale che, secondo una ormai pacifica giurisprudenza costituzionale, definisce la laicità dello Stato “non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità”[7]. Pertanto, l’esercizio pubblico e comunitario del culto deve essere assicurato a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza[8]. In questo quadro costituzionale[9], il libero esercizio del culto diventa un aspetto essenziale della libertà di religione e, secondo una recente sentenza della Corte costituzionale, la libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla esercitare concretamente[10]. Di conseguenza si pone un duplice dovere a carico delle amministrazioni cui spetta gestire l’uso del territorio. Tale dovere implica, da una parte, che le amministrazioni competenti prevedano spazi pubblici adeguati per l’esercizio delle attività religiose e, allo stesso tempo, è necessario che le medesime amministrazioni non introducano ingiustificati ostacoli all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non vengano discriminate le confessioni religiose nell’accedere agli spazi pubblici. Inoltre, nel prevedere degli spazi pubblici per l’esercizio delle attività culto, le regioni e i comuni devono necessariamente tenere conto della presenza nel territorio di riferimento delle diverse confessioni, dal momento che il divieto di discriminazione “non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una e dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”[11]. Nel regolare, quindi, l’edilizia di culto, inserita nella disciplina del più ampio governo del territorio, le regioni e i comuni, nel rispetto delle rispettive competenze, possono perseguire finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere contemplata anche l’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato dei centri abitati e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico, comprendendo in tale obiettivo anche i servizi religiosi. In questo quadro, “la regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure”[12].
Inoltre, in ragione del fondamento costituzionale della libertà di culto, diritto fondamentale dell’individuo espressamente tutelato dalla Costituzione, la stessa disciplina urbanistica-edilizia, in riferimento alle attrezzature religiose, deve provvedere all’esigenza della necessaria previsione di luoghi di culto, con la conseguenza che la tutela dell’assetto del territorio non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture per fini di culto. Da qui la considerazione del giudice di prime cure, con la sentenza in commento, nella quale, ritenendo fondate le doglianze dell’Associazione islamica ricorrente, si afferma che “che quanto deliberato dal Comune resistente frappone un rilevante ostacolo all’esercizio della libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. In altri termini, il comune di Pisa ha la potestà di modificare la disciplina urbanistica del territorio, ma nell’esercizio della sua discrezionalità deve ponderare tutti gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa e tra questi interessi, nel caso di specie, vi è quello della libertà di culto. Più nello specifico, se è vero che la delibera di giunta non impedisce l’esplicazione del diritto di culto della comunità islamica, allo stesso tempo, per una scelta dell’amministrazione toscana, un’area acquistata destinata al culto diventa, in un secondo memento, destinata ad uso parcheggi e verde pubblico, privando di qualunque utilità tutta l’attività dell’associazione svolta fino alla delibera di giunta, dall’acquisto dell’area alla progettazione dell’edificio di culto da costruire. In questo modo, l’amministrazione metterebbe in gravi difficoltà l’Associazione islamica “costretta a ricominciare da capo tutta la procedura, addirittura cercando di acquistare uno dei terreni su cui costruire l’edificio di culto”. Sarebbe così demandata all’amministrazione pubblica una discrezionalità che esorbita le esigenze proprie della disciplina urbanistica[13], e che si traduce in un controllo pubblico totale a maglie strette, a partire dal decidere, se operare una pianificazione e, in caso positivo, fino a predeterminare i tempi, i luoghi la distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto, al di fuori della quale non rimane spazio neppure per la realizzazione di modeste sale di preghiera, in aree urbanisticamente idonee, ad iniziativa privata. L’esercizio di tale potere da parte dell’amministrazione comunale, i cui confini risultano troppo estesi, genera una compressione dell’esercizio al libero culto non giustificata da esigenze di ordine pubblico e buon costume, le sole a poter consentire un sacrificio del diritto alla libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost., ponendosi in chiaro contrasto con quest’ultimo e con gli artt. 2 e 3 Cost..
Emerge, così, in tutta la sua complessità e in modo sempre più forte, la tensione tra il bisogno materiale, da parte di molteplici confessioni religiose, di luoghi da destinare al culto (da realizzare o da utilizzare) e le esigenze di controllo del territorio comunale. Da qui segue il difficile, ma necessario, bilanciamento tra il diritto costituzionale a un edificio di culto, quale dimensione autonoma della libertà religiosa, e il potere pubblico di pianificazione urbanistica. La libertà religiosa ha, infatti, un’incomprimibile doppia anima: non solo quella metafisica, di contatto con la dimensione divina, ma anche quella fisica, urbanistico-edilizia, in cui un certo bene immobile, ad esempio una moschea come nel caso di specie, costituisce esso stesso il ponte tra le due anime. Proprio la dimensione fisica della libertà religiosa la pone in contatto con le scelte delle Amministrazioni locali e genera un autonomo diritto e contestuale problematica costituzionale. Tuttavia, come sottolineato in modo condivisibile in dottrina[14], non si tratta certamente di un diritto costituzionale pieno, che si risolverebbe in un obbligo per le Amministrazioni comunali di soddisfare qualsiasi pretesa di spazio, ma di un interesse legittimo costituzionale a vedere acquisiti e valutati dall’Amministrazione comunale i bisogni materiali delle persone (cittadini o stranieri), che vogliono praticare il proprio culto, qualunque esso sia. Ciò che conta sono proprio le persone prima che i gruppi confessionali organizzati. Nel contenuto minimo essenziale del diritto costituzionale ad un edificio di culto, infatti, deve stare una deistituzionalizzazione della rappresentanza degli interessi. In modo più semplice, ciò che l’Amministrazione comunale deve acquisire sono gli interessi omogenei delle persone. In questa logica il momento fondamentale in cui si misura l’effettività di questo diritto costituzionale non è il momento pianificatorio altamente discrezionale, ma quello prepianificatorio e ancor prima quello della disciplina da parte dei legislatori regionali degli istituti di emersione degli interessi religiosi omogenei[15]. Soltanto la regolazione di ciò che sta prima dell’atto di pianificazione urbanistica, espressione di ampia discrezionalità politica, può operare come limitazione del potere e dell’arbitrio discriminatorio[16]. La previsione di istituti partecipativi prepianificatori pare lo strumento per l’acquisizione dei bisogni sociali ad un luogo di culto, di trasparenza sulla selezione dei bisogni da soddisfare e di quelli da sacrificare, nonché il presupposto per il perfezionamento di accordi pubblici tra i Comuni e le formazioni sociali a connotazione religiosa[17], sia quando queste abbiano la proprietà o la disponibilità del terreno su cui realizzare l’edificio di culto, sia quando non vi sia neppure la disponibilità e si prospetti verso il Comune una pretesa ancora più intensa[18].
Proprio la penuria di territorio occupabile, soprattutto nei centri storici, e i flussi migratori, sempre più massicci, rendono costituzionalmente necessaria quindi la previsione non tanto di inchieste pubbliche o l’attivazione di referendum locali consultivi, ma la regolazione di istituti caratterizzati dai profili propri del giusto procedimento amministrativo, attivati a seguito di avvisi pubblici di manifestazione di interesse, scanditi nei termini e fondati su criteri selettivi trasparenti e non formalistici. Pertanto, la matrice de-istituzionalizzata del diritto costituzionale ad un edificio di culto impone, a monte, al legislatore regionale di non fondare le proprie scelte sul criterio quantitativo, ossia sul criterio maggiormente legittimante il perpetuarsi di esclusioni sociali delle minoranze confessionali.
Se si ammette tale criterio, sono di dubbia legittimità molte leggi regionali vigenti, tese a privilegiare, in una logica quantitativa e istituzionalista, i bisogni religiosi di spazi urbani della maggioranza o di confessioni già fortemente radicate e diffuse. Sono necessarie, di contro, nuove discipline di procedimenti di valutazione e di selezione delle istanze sociali, tese alla formazione degli accordi a monte dell’atto di pianificazione, nella logica della urbanistica consensuale, fondata sulla buona pratica dell’ascolto, quindi di un modello in cui un accordo possa predeterminare la localizzazione degli edifici di culto e la ripartizione dello spazio urbano. Questa auspicabile nuova legislazione, tesa a generare trasparenza sulla edilizia di culto, diventerebbe l’unico strumento effettivo e preventivo, in questo ambito, per il controllo del territorio e per la sicurezza urbana. I legislatori regionali dovrebbero occuparsi della legislazione sull’edilizia di culto, ponendo un problema di governo del territorio in cui i Comuni non possono essere lasciati nella solitudine delle loro competenze, da cui spesso segue la mancata attuazione e garanzia del diritto di libertà religiosa per una ineffettività strutturale di esso e una irreparabile tutela per via giudiziaria[19].
[1] Per ampi riferimenti giurisprudenziali, sia consentito rinviare a R. Leonardi, L’edilizia di culto tra libertà religiosa e tutela del territorio: il caso Lombardia, in Nuove autonomie, 2019, 3, 509.
[2] Sull’edilizia di culto, in generale, v. F. Zanchini di Castiglionchio, voce Edifici di culto, in Enc. Giur., XII, Roma, 1990; V. Tozzi, voce Edifici di culto e legislazione urbanistica, in Digesto IV - Disc. Pubbl., V, Torino, 1990, 285 ss.; G. Casuscelli, Edifici ed edilizia di culto. Problemi generali, I, Milano, 1979; Id., Fonti di produzione e competenze legislative in tema di edilizia di culto: annotazioni problematiche, in Nuove prospettive per la legislazione ecclesiastica, Milano, 1981, 1187 ss.; M. Miele, Edilizia di culto tra discrezionalità ‘politica’ e ‘amministrativa’, in Dir. eccl., 1995, 1995, II, 363; A. Roccella, L’edilizia di culto islamica: contro la tirannia della maggioranza, in Urb. app., 2014, 3, 345; L. D’Andrea, Eguale libertà ed interesse alle intese delle confessioni religiose: brevi note a margine della sentenza costituzionale n. 346/2002, in Quad. dir. pol. Eccl., 2003, 3, 667 ss.; G.P. Parolin, Edilizia di culto e legislazione regionale nella giurisprudenza costituzionale: dalla sentenza 195/1993 alla sentenza 346/2002, in Giur. it., 2003, 351.
Da ultimo, sul tema, si rinvia a A. Travi, Libertà di culto e pubblici poteri: l’edilizia di culto oggi, in Riv. giur. urb., 2018, 1, 12 ss.; A. Roccella, Problemi attuali dell’edilizia di culto, ivi, 22 ss.; A. Ambrosi, Edilizia di culto e potestà legislativa regionale, ivi, 35.
[3] V. Corte cost. 12 aprile 1989, n. 203, in Dir. eccl., 1989, II, 293, in cui si è affermato che compete allo Stato garantire “la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
[4] V. Corte cost. 24 novembre 1958, n. 59, in www.cortecostituzionale.it, in cui si è osservato che “la formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi e oratori e la nomina dei relativi ministri”.
Cfr. TAR Lazio, Roma, 9 agosto 2016, n. 9267, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “la costruzione dell’edificio di culto risponde ad una esigenza costituzionalmente tutelata che trova copertura anche a livello della normativa di origine concordataria e in particolare dell’art. 5, c. 3, dell’Accordo del 1984 tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede (la cui ratifica ed esecuzione è stata disposta con la l. n. 121/1985)”.
[5] In un quadro europeo, la sentenza del TAR Toscana in commento richiama l’art. 10 (intitolato libertà di pensiero, di coscienza e di religione) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ai sensi del quale “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
Deve essere anche richiamato l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, intitolato “libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, ai sensi del quale:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
[6] In questi termini, Corte cost. 10 marzo 2016, n. 52, in Giur. cost., 2016, 2, 537.
[7] Così, Corte cost. 7 aprile 2017, n. 67, in Giur. cost., 2017, 662.
Il principio di laicità non è definito né direttamente chiarito in alcuna norma, ma è stato enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 203/1989, la quale afferma che “il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
[8] Così, Corte cost. 24 marzo 2016, n. 63, in Foro amm., 2016, 3, 544.
[9] Il quadro costituzionale, in tema di libertà di culto, ha trovato applicazione nella normativa sia statale, sia regionale, al fine di garantire la previsione di adeguati spazi per gli edifici di culto.
In base alle leggi 29 settembre 1967, n. 847 e 28 gennaio 1977, n. 10 e al d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, sugli standard urbanistici, le aree per le attrezzature di interesse comune religiose devono obbligatoriamente essere previste in sede di pianificazione urbanistica, mentre per l’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 gli edifici di culto costituiscono opere di urbanizzazione secondaria.
A livello regionale, molte regioni hanno approvato norme a tutela delle attrezzature religiose, con un trattamento differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine di agevolarne la realizzazione. A mero titolo esemplificativo, L.R. Lombardia, n. 12/2005, artt. 70-73; L.R. Liguria, n. 4/1985, Disciplina urbanistica dei servizi religiosi; L.R. Piemonte, n. 15/1989, Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature religiose; L.R Campania, n. 9/1990, Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose.
[10] Corte cost., 22 ottobre – 5 dicembre 2019, n. 254, in Riv. giur. edil., 2020, 1, I, 3.
[11] In questi termini, Corte cost., n. 254/2019, cit..
Sull’evenienza che l’obbligo di garantire alla popolazione la possibilità di esercitare le pratiche del culto mediante le attrezzature specifiche non si traduca in automatico accoglimento di tutte le richieste formulate v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 9 marzo 2018, n. 686; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16 aprile 2015, n. 943; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 gennaio 2015, n. 146; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 8 novembre 2013, n. 2485, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Così, Corte cost. n. 67/2017, cit..
[13] La disciplina urbanistica trova infatti la sua essenza nella necessità di assicurare uno sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico. In questo senso, Corte cost. n. 63/2016 e n. 67/2017, cit..
[14] In questi termini, v. N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, in www.federalismi.it, 2015.
[15] Si veda, sul tema, anche M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. amm., 2018, 4, 787.
[16] Per una riflessione sul rapporto tra potere discrezionale della p.a. e diritti inviolabili, v. L.R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società, in Dir. amm., 2013, 309 ss.; D. Florenzano, D. Borgonovo Re, F. Cortese, Diritti inviolabili, doveri di solidarietà e principio di eguaglianza, Torino, II ed. 2015; C. Celone, Il valore dell'equità nell'amministrazione pubblica, in Dir. e proc. amm., 2017, 651.
[17] In riferimento al diritto di libertà religiosa, lo strumento dell’intesa è stato analizzato dalla Corte costituzionale laddove ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle leggi delle Regioni Abruzzo e Lombardia che prevedevano l’erogazione di contributi finanziari per l’edilizia di culto esclusivamente alla chiesa Cattolica e alle confessioni i cui rapporti con lo Stato erano regolati sulla base di intese. La Corte ha precisato che l’ente pubblico può differenziare il trattamento economico delle diverse confessioni religiose, a seconda della loro presenza organizzata sul territorio del comune, ma non può costituire motivo di discriminazione il fatto che una confessione religiosa non abbia concluso con lo Stato un’intesa. Tale differenziazione violerebbe il principio della parità di trattamento e della eguale libertà di culto, art. 8 Cost., e recherebbe pregiudizio all’esercizio in concreto del diritto fondamentale e inviolabile a professare la propria fede religiosa, stabilito dall’art. 19 Cost.. Pertanto, la stipulazione di un’intesa costituisce una mera facoltà e non un obbligo, mentre per tutte le confessioni religiose, senza distinzioni, vale il principio di eguale libertà difronte alla legge”. Corte cost., 16 luglio 2002, n. 346 , in Riv. giur. edil., 2002, I, 1197.
In dottrina, sul punto, e favorevole con l’orientamento della Corte costituzionale, v. S. Lariccia, Nuove tecniche dei pubblici poteri per ostacolare l’esercizio dei diritti di libertà delle minoranze religiose in Italia, in La questione della tolleranza e le confessioni religiose, Napoli, 1999, 97.
[18] In questi termini si era già espresso Cons. Stato, Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8298, in Riv. giur. edil., 2011, 1, 226, in cui, dopo aver evidenziato che le cause in materia di edificazione degli edifici di culto sono rimaste per molto tempo confinate nell’ambito della corretta applicazione della normativa urbanistica, si afferma che “è compito degli enti territoriali provvedere a che sia consentito a tutte le confessioni religiose di poter liberamente esplicare la loro attività, anche individuando aree idonee ad accogliere i fedeli”. Aggiungendo, poi, che i comuni “non possono sottrarsi dal dare ascolto alle eventuali richieste in questo senso che mirino a dare un contenuto sostanziale effettivo al loro diritto del libero esercizio, garantito a livello costituzionale, e non solo nel momento attuativo, ma anche nella precedente fase di pianificazione delle modalità di utilizzo del territorio”.
[19] In questi termini, v. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di, E. Vitale, Bari, 2001, passim; N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit..
IL DRAFTING NORMATIVO: lingua e diritto nella Biblioteca di Babele
di Katia Laffusa
La qualità della scrittura delle norme non è questione tecnica o puramente stilistica, ma pone un reale problema di democrazia.
Occorre riconoscere che la chiarezza del diritto, la comprensibilità e la fruibilità dei testi legislativi sono un imprescindibile valore, uno dei pilastri del vivere democratico.
L’ accessibilità alle norme per i cittadini è sinonimo di certezza del diritto, di effettività ed efficienza dell’impianto normativo: una norma chiara è meglio compresa, dunque meglio interiorizzata e percepita nella sua obbligatorietà.
Del resto, una disposizione normativa acquista senso solo se incontra i suoi destinatari: solo la recezione getta luce su un testo che diversamente rimarrebbe lettera morta.
Il linguaggio giuridico ha in effetti una capacità poietica dirompente: orienta la vita quotidiana di ciascuno, creando una trama di possibilità e divieti, indirizzando l’agire del singolo cittadino e il suo essere nel mondo in una dimensione comunitaria.
E’ innegabile che in questo arcaico meccanismo ci sia qualcosa di straordinario: si tratta probabilmente della più remota forma di fictio collettiva, che nasce e si nutre di linguaggio.
Questa caratteristica è palese in circostanze ordinarie ma in circostanze straordinarie -come una pandemia- è ancor più evidente.
Per c.d. drafting normativo si intende quel complesso di strumenti e tecniche di redazione dei testi legislativi.
Si tratta - perlomeno nel panorama italiano - di un profilo controverso e spesso sottovalutato: in primis perché percepito come attinente ad un ambito tecnico-formale piuttosto che contenutistico-sostanziale e, in secondo luogo, perché non sembra esserci una piena consapevolezza delle implicazioni del tema soprattutto a livello politico-istituzionale.
A questa percezione distorta consegue una sorta di sciatteria della parola che, in un contesto emergenziale, oltre ad essere estremizzata è ancor più insopportabile: il legislatore riversa in Gazzetta Ufficiale fiumi di parole, decine di articoli, commi, rinvii, allegati cui si aggiungono copiose informazioni sui siti istituzionali, FAQ.
Vocaboli ambigui, barocchismi, formulazioni lunghe e periodi joyciani caratterizzano il nostro legislatore che da tempo persegue una coerente tecnica normativa che genera un’autentica fatica di lettura anche su temi e argomenti su cui si imporrebbe immediata chiarezza di contenuto.
Non fa purtroppo eccezione la recente legislazione emergenziale, dove l’uso reiterato di intricati rinvii risulta dominante: basti pensare che il c.d. decreto Cura Italia contiene un numero preoccupante di rinvii circa 194, tra cui uno addiritutra al Regio Decreto 14 aprile 1910, n. 639).
Da ultimo, si veda il d.p.c.m del 17 maggio 2020 che consta di 11 articoli ma di commi composti da periodi lunghi e dalla scarna punteggiatura, interi alfabeti di lettere e una struttura confusionaria.
Alle difficoltà di comprensione dovute alle ambiguità nella redazione delle norme (sia in riferimento all’uso delle parole che alla struttura del testo) si aggiunge - ad aggravare il quadro - una difficoltà in tema di fonti normative: un mare magnum di decreti, ordinanze, linee guida, protocolli. Un vero e proprio epitaffio del diritto.
«Dunque, l’odierno drafting legislativo suscita grida di dolore, invettive, sberleffi, rimpianti»[1].
Tuttavia, occorre evidenziare come, malgrado l’attuale ed evidente patologia, il tema della buona scrittura delle leggi sia presente da lungo tempo nel dibattito giuridico internazionale ed italiano.
Già alla fine degli anni Ottanta tre circolari emanate dai Presidenti di Camera e Senato, d’intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno affrontato il tema della chiarezza e comprensibilità dei testi legislativi.
Negli anni successivi sono state pubblicate dal Presidente del Senato due Circolari: la prima concernente regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi del 20 aprile 2001[2] e la seconda del 1997 in tema di istruttoria legislativa nelle Commissioni.
Frutto di una certa sensibilità nei riguardi del drafting è poi il c.d. Codice di Stile delle comunicazioni scritte ad uso delle Pubbliche Amministrazioni del 1997, in cui si rinvengono una serie di raccomandazioni in tema di stile e stesura dei testi amministrativi. Le indicazioni contenute nel Codice mirano, ad esempio, a ridurre gli arcaismi, ad utilizzare espressioni di linguaggio corrente, ad evitare latinismi, a preferire l’indicativo piuttosto che il congiuntivo.
Ancora, nella Circolare del 2 maggio 2001 della Presidenza del Consiglio del Ministri ‘Guida alla redazione dei testi normativi’ si legge: «la corretta formulazione della disposizione normativa evita qualsiasi ambiguità semantica e sintattica e persegue gli obiettivi della semplicità espositiva e della precisione di contenuto»[3].
Si aggiungano le suggestioni contenute ad esempio nel Manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome del 2007 laddove si legge: «scrivere una buona legge non è cosa poi troppo diversa dal costruire un ponte»[4].
Ulteriore interessante riferimento è poi la l. n. 69 del 18 giugno 2009 che all’art. 3 detta una disciplina in tema di chiarezza dei testi normativi[5] e di semplificazione.
In ambito giurisprudenziale è poi opportuno ricordare come, a partire dalla storica sentenza n. 364 del 1988 sulla illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. (nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile), si sia fatto strada il tema della conoscenza e della conoscibilità delle norme (in tal caso in ambito penale) come principio fondamentale cui ispirare i rapporti tra norma e destinatari della stessa.
Del resto, soltanto una norma formulata in maniera chiara e comprensibile può pretendere la sua obbligatorietà.
Una particolare attenzione alla chiarezza e alla qualità della normazione deriva inoltre dal prezioso contributo della c.d. Better Regulation di derivazione europea. Le Better Regulation Guidelines si occupano di Better Drafting of Legal Acts, evidenziando il nesso tra scrittura degli atti normativi ed effettività delle norme: «If legislation is clear it can be implemented effectively, citizens and economic actors can know their rights and obligations and the courts can enforce them»[6].
In una prospettiva storica e internazionale è poi doveroso citare alcuni preziosi contributi: di drafting si occupò infatti già nel 1940 Sir Winston Churchill con un memorandum di una sola pagina dal titolo ‘Brevity’, un invito alla redazione dei documenti governativi in modo chiaro e conciso: «But the saving in time will be great, while the discipline of setting out the real points concisely will prove an aid to clearer thiking»[7].
In tempi recenti poi il Presidente Barack Obama ha siglato un importante documento in tema di drafting e qualità della produzione normativa a livello federale, ossia il c.d. Plain Writing Act del 2010, la cui finalità è espressa chiaramente dalle seguenti parole: «citizens deserve clear communications from government»[8].
La buona scrittura delle norme è dunque un tema delicato, presente nella sensibilità del mondo giuridico sia nei sistemi di Civil Law che di Common Law.
Procedendo ad un’analisi in chiave comparativa, ad esempio, è possibile evidenziare come l’approccio al tema del drafting sia diversamente declinato e affrontato per ragioni sia storiche che culturali[9]: nei Paesi di Common Law la redazione dei testi normativi è centralizzata (in genere affidata ad un unico ufficio il c.d. Central Drafting Unit), di competenza di redattori professionisti che nella scrittura dei testi seguono istruzioni dettagliate e standardizzate; i Paesi di Civil Law usano un approccio meno omogeneo, laddove sovente il testo legislativo è oggetto di plurime stesure e revisioni da parte di più autori. La versione finale del testo è pertanto frutto di un lavoro a più mani.
Attenta dottrina[10] ha messo in luce come una caratteristica dirimente tra i due sistemi attenga al rapporto tra drafting legislativo e politica: mentre i sistemi di Common Law concepiscono il drafting come pura forma e pura tecnica [11] , cioè come un’operazione di scrittura avulsa dalla politica, nei Paesi di Civil Law - con maggiore avvedutezza - la scrittura della norma è fortemente connessa alla volontà degli organi rappresentativi, alla circostanza che la legge è soprattutto traduzione di una visione politica in parole.
Il linguaggio del diritto ha dunque una portata programmatica e necessita per tale ragione, più che di altri registri linguistici, di un forte grado di consapevolezza: «poiché non vi è pensiero giuridico se non in quanto sia chiaro, tutto ciò che è oscuro può appartenere forse ad altre scienze, ma non al diritto!»[12].
Il giurista ha cioè per vocazione una predilezione per la parola ed è innegabile la necessità di un tecnicismo e di una specializzazione del linguaggio giuridico. Diversamente, se la soddisfazione di tale esigenza diventa occasione di ambiguità, allora da caratteristica saliente ne diviene il vulnus.
Se da una parte dunque il linguaggio tecnico sembra un ostacolo alla comprensibilità del testo, in qualche misura foriero di ambiguità e ‘distanziamento sociale’, di contro non è auspicabile nemmeno l’opposto, ossia un linguaggio giuridico avulso da tecnicismi: la lingua italiana è una lingua ricca, le cui parole hanno numerose sfumature di significato. Il tecnicismo risponde all’esigenza di arginare l’ambiguità derivante dall’essere una parola di linguaggio comune gravida di polisemia.
Occorrerebbe comprendere semplicemente che legiferare significa primariamente comunicare, senza scomodare Jakobson e lagnarsi con Amleto delle «cabale della legge».
Appare dunque auspicabile impostare il problema in chiave costituzionale, pensare alla scrittura e alla comprensione del diritto come un valore che permea il nostro ordinamento e che fa da humus ai principi costituzionali e ai diritti fondamentali.
La libertà passa cioè attraverso la realizzazione di un dialogo tra cittadini ed istituzioni fondato su correttezza e franchezza comunicativa.
Pertanto, l’attenzione nei riguardi della buona scrittura delle norme dovrebbe essere un obiettivo condiviso da tutti coloro che si occupano di diritto. A tal fine, sarebbe auspicabile una rinnovata sensibilità nei riguardi del drafting anche nella fase di formazione dei giuristi.
Lo studio delle tecniche di redazione dei diversi tipi di testi giuridici- magari abbinato ad esercizi di scrittura- appare oggi indispensabile, non solo per la professionalizzazione di un buon giurista ma anche per stimolare una maggiore consapevolezza nei riguardi di un tema ancora troppo nell’ombra.
[1] V. Roppo, Note minime in tema di drafting legislativo e revisione del codice in Drafting legislativo (per una revisione del Codice civile) intervento tenuto presso l’Università di Roma Tre, 25 gennaio 2019.
[2] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/senato/file/repository/istituzione/regole_testi_legislativi.pdf
[3] ‘Guida alla redazione dei testi normativi’, Circolare del 2 maggio 2001 della Presidenza del Consiglio del Ministri.
[4] Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, Terza edizione dicembre 2007, adottato dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia con deliberazione n. 11 del 20 maggio 2008 p.21.
[5] Art. 3. (Chiarezza dei testi normativi)
1. Al capo III della legge 23 agosto 1988, n. 400, prima dell'articolo 14 e' inserito il seguente: "Art. 13-bis. - (Chiarezza dei testi normativi). - 1. Il Governo, nell'ambito delle proprie competenze, provvede a che:
a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate;
b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonche' in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo ovvero la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento o il principio,
contenuto nelle norme cui si rinvia, che esse intendono richiamare.
2. Le disposizioni della presente legge in materia di chiarezza dei testi normativi costituiscono principi generali per la produzione normativa e non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito.
[6] Better Regulation Guidelines- Brussels, 7 July 2017 SWD (2017) 350 COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT, p.36
[7] W. Churchill, ‘Brevity’, Memorandum, 9th August, 1940.
[8] Federal Plain Language Guidelines, March 2011, Introduction, p.1 https://www.plainlanguage.gov/media/FederalPLGuidelines.pdf
[9] Cfr. Constantin Stefanou’ Comparative Legislative Drafting -Comparing across Legal Systems in European Journal of Law Reform, 2016
[10] Idem
[11] “The central drafting office considers neither policy nor substance, just form” , Ivi, p. 129
[12] V. Scialoja, Diritto pratico e diritto teorico, in «Rivista del diritto commerciale», IX (1911), I, p. 942;
L’ufficio del massimario tra mito e leggenda
di Donatella Salari
Dice bene Vladimiro Zagrebelsky [1] che “l’idea illuministica del giudice bocca della legge, proclamata dai Montesquieu, dai Robespierre, dai Beccaria è tramontata, almeno da quando il magistrato interprete della legge deve orientarne la lettura in modo da renderla compatibile con la Costituzione e le Carte europee e internazionali dei diritti fondamentali, per renderla capace di concretizzarne principi e valori. L’idea che le varie interpretazioni della legge da applicare alle controversie da decidere comprendano una interpretazione esatta, distinta da interpretazioni sbagliate è ormai priva di fondamento”.
Mi pare, perciò, che ciascuno di noi non possa che sottoscrivere queste parole, perché esse presidiano, innanzitutto, l’indipendenza della giurisdizione, ossia quel valore fondante che, più di tutti, è oggi insidiato da forme di populismo che impediscono qualsiasi ragionamento di una minima complessità e che favoriscono autoreferenzialità e ripiegamenti verso un arcadico “diritto oggettivo” che il giudice si limiterebbe a celebrare scevro da ogni interpretazione che lo coinvolga in un confronto con la realtà circostante e con i cambiamenti perenni che la plasmano
Tutti sappiamo, rispetto a questo scenario, quale sia la funzione fondante della Corte di Cassazione.
Essa, infatti, assicura l'esatta osservanza delle leggi nelle decisioni dei giudici per mezzo del sindacato di legittimità esercitato nel tempo. Infatti, attraverso il “precedente” delle decisioni osservato, registrato e catalogato la Corte crea la nomofilachia, ossia presidia la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto oggettivo nazionale verificando se un determinato assetto interpretativo che riveli una tendenziale stabilizzazione, possa costituire “diritto vivente”, nel senso che ogni esegesi stabilizzata ed aggiornata possa intendersi come recupero di certezza del diritto davanti ad una produzione legislativa alluvionale, restituendo sistematicità e chiarezza all’ordinamento normativo al momento della sua applicazione.
Ora, questo meccanismo non ha solo un valore di pura tenuta del sistema, ma riveste anche un ruolo giuridico fondante perché, come tutti sanno, se il precedente si è stabilizzato, né la Corte a sezioni semplici, né il giudice di merito possono sconfessarlo in assenza di una motivazione stringente.
La nomofilachia ha, del resto, anche un ruolo decisivo nella deflazione del contenzioso giudiziario nel momento in cui essa restituisce all’ordinamento la prevedibilità della decisione, ossia quella qualità essenziale che rappresenta uno strumento forte di controllo di una domanda di giustizia che stenta a ritrovarsi in una visione compiuta, organica ed unitaria di un apparato normativo che non eccelle in chiarezza e uniformità di visioni.
Che cosa fa dunque il Massimario?
Non è questa una domanda defatigatoria perché l’impressione è che all’esterno non vi sia una percezione chiara dei compiti di questo Ufficio. Invece, il suo ruolo “E’ semplicissimo” ! Come esordiva Luciano Berio in una nota trasmissione dedicata alla musica classica quando cercava di spiegare entusiasticamente che cosa è la musica, tonale e non alla televisione.
Basterà, allora, dire che il Massimario, quale organo della Corte di Cassazione, in posizione di indipendenza rispetto ai collegi, estrae e forma i precedenti giurisprudenziali del giudice di legittimità fornendo il contributo essenziale alla sedimentazione della nomofilachia (art. 68 del R.D. n. 12 del 1941).
Come lo fa?
Anche qui è semplicissimo: esamina sentenze e ordinanze e, in tale ambito, enuclea il principio di diritto depurato da affermazioni ed argomenti incidentali ed occasionali.[2]
In questo modo con le massime di giurisprudenza si forma il tessuto connettivo dei precedenti i quali costituiscono, a loro volta, la struttura portante della nomofilachia sulla quale riposa la ragion d’essere della Corte di cassazione secondo l’art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 ossia quella di assicurare , come già detto: "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni".
La creazione della nuova figura degli assistenti di studio [3] non ha mutato la natura dell’Ufficio del Massimario.
Come forse non tutti sanno, infatti, gli assistenti di studio oltre a formare i ruoli di udienza, classificare i ricorsi, redigono progetti di decisione, svolgono opera di orientamento su questioni di carattere generale (come i massimatori puri) che interessano la sezione cui sono assegnati etc…
Nonostante queste brevi premesse una certa misteriosa vulgata, forse di tradizione orale, un po’ come l’Iliade, vorrebbe porre i magistrati componenti dell’ufficio del Massimario lontani dalla giurisdizione attiva.
Difficile essere d’accordo e non mi riferisco solo agli assistenti di studio i cui compiti ho appena elencato perché la giurisdizione attiva è anche quella che consente a ciascun magistrato, attraverso lo studio e la ricerca dei precedenti elaborati dall’Ufficio del Massimario, di affrontare i compiti del lavoro quotidiano forte di quell’elaborazione culturale e di quel presidio scientifico.
La massima, infatti, con le sue indicazioni di “difformità” conformità” e con i suoi “vedi” enuncia il principio di diritto e ne restituisce il contenuto, indicando, l’iter logico che lo ha generato orientando anche il Foro.
Siamo quindi vicini o no alla giurisdizione attiva? Io direi che siamo vicinissimi a meno di non pensare che del diritto vivente non vi sia bisogno perché il giudice è solo il medium che evoca le parole della legge come un oracolo, mentre, come abbiamo appena detto, così non è perché il diritto dei precedenti è una cosa viva necessaria allo ius dicere e strumento di deflazione.
Di tutto le cose fin qui dette il previdente legislatore è ben consapevole nel momento in cui fissa il principio di cui all’art. 12 (Requisiti e criteri per il conferimento delle funzioni), comma 13, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 modificato dal comma 13 dell’art. 1 della legge 30 luglio 2007 n.111 «Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6 [funzioni giudicanti e requirenti di legittimità], oltre al requisito di cui al comma 5 [quarta valutazione di professionalità] del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito è [4]oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura.
Vi è una specificità in questa previsione – stabilita solo per l’attribuzione delle funzioni di magistrato della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte di cassazione - perché essa va collegata alla funzione tipica della Corte di Cassazione, vale a dire alla nomofilachia, cioè all’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale» di cui al già citato art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
A mio parere questa scelta, in un sistema che costituzionalmente vuole il giudice soggetto alla sola legge (art. 101, secondo comma, Cost.) in ragione della primazia di essa nello Stato di diritto, impone che la selezione, ai fini del reclutamento dei magistrati destinati alle funzioni di legittimità, avvenga secondo criteri rigorosamente tecnici e specifici. Ne consegue che il parere espresso dall’apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura acquisti nel concorso un ruolo centrale. Ne consegue che la motivazione di un eventuale discostamento da quel parere ad opera della Commissione consiliare competente, e dunque del Plenum del CSM debba essere particolarmente rigorosa ed argomentata in base a valutazioni di ordine anch’esse prettamente tecniche.
Pertanto, l’art. 12, comma 16, d.lgs. n. 160 del 2006, nell’affermare che «La commissione del Consiglio superiore della magistratura competente per il conferimento delle funzioni di legittimità, se intende discostarsi dal parere espresso dalla commissione di cui al comma 13, è tenuta a motivare la sua decisione» impone un onere di motivazione particolarmente stringente ed analitico che la legge pretende per prevenire qualsivoglia prevaricazione, sia pure surrettizia rispetto alle espresse valutazioni tecniche della nominata Commissione, di considerazioni spurie o, comunque, di diversa natura.
Secondo la giurisprudenza amministrativa un tale stringente obbligo motivazionale diventa irrinunciabile rispetto alla salvaguardia[5] dell’essenziale funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte e, dunque, del ruolo uniformatore e chiarificatore della giurisdizione di legittimità nello Stato di diritto. E’ semplicissimo!
Dunque che cosa rimane? Forse solo un pregiudizio da sfatare secondo il quale gli addetti all’Ufficio del Massimario e del ruolo sarebbero dei privilegiati che brillano sulla cuspide di un ordine gerarchico che pone la Corte su di un’ideale e forse antistorica piramide che va scalata per gradi fino al perentorio motto “Micat in vertice”.
[1] Vladimiro Zagrebelesky in Giustizia insieme, La resa dei conti e la reazione della magistratura.
[2] Vedi anche l’art. 26 del d.m. 30 settembre 1989, n. 334.
[3] (d.l . n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, art. 64)
[4] 13. Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6, oltre al requisito di cui al comma 5 del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito e' oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura. La commissione e' composta da cinque membri, di cui tre scelti tra magistrati che hanno conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità e che esercitano o hanno esercitato funzioni di legittimità per almeno due anni, un professore universitario ordinario designato dal Consiglio universitario nazionale ed un avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle magistrature superiori designato dal Consiglio nazionale forense. I componenti della commissione durano in carica due anni e non possono essere immediatamente confermati nell'incarico.
[5] Consiglio di Stato 4166 del 2018
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.