Crisi ambientale e ruolo della giurisdizione. Un primo quadro d’insieme in occasione del “Global Health Summit” e della “Laudato si’ week”.
di Pasquale Fimiani
Si tiene oggi il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute) che ricade in una settimana significativa per la questione ambientale, sia per l’organizzazione della “Laudato si’ week” (dal 16 al 25 maggio), sia perché il 19 maggio la commissione affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione ed è entrata in vigore l’azione di classe, azionabile per i “diritti individuali omogenei” inclusi quindi anche quelli di matrice ambientale. Tali coincidenze e la concomitanza nella stessa settimana di due eventi di rilevanza mondiale su sicurezza sanitaria e tutela dell’ambiente danno il segno della rilevanza, anche globale, di questi temi e della consapevolezza che, per affrontarli, è necessario un impegno comune, al quale non è estranea la giurisdizione, considerata il ruolo fondamentale avuto nel progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo.
Sommario: 1. Giurisdizione ed ecologia integrale - 2. Capitale naturale in cerca di statuto - 3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore - 4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
1. Giurisdizione ed ecologia integrale
Si tiene oggi - in modalità virtuale - il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute), evento co-organizzato dall'Italia, durante l'anno della Presidenza di turno del G20, e dalla Commissione europea.
Come si evince dalla presentazione dell’incontro sul sito del Governo, il suo scopo è quello di condividere le esperienze maturate nel corso della pandemia ed elaborare e approvare una "dichiarazione di Roma”. I contenuti della dichiarazione potranno costituire un punto di riferimento per rafforzare i sistemi sanitari e potenziare la cooperazione multilaterale e le azioni congiunte per prevenire future crisi sanitarie mondiali in uno spirito di solidarietà (per un commento all’iniziativa si rinvia a Laurent ed altri, How to achieve a health renaissance, in socialeurope, 19 maggio 2021).
Il Summit ricade nella Settimana Laudato Si’ 2021 (dal 16 al 25 maggio), che rappresenta “il coronamento dell’Anno Speciale Laudato Si’ e la celebrazione del grande progresso che l’intera Chiesa ha compiuto sulla via della conversione ecologica” (presentazione dell’iniziativa in laudatosiweek.org, cui si rinvia per le varie attività, del pari svolte in modalità virtuale).
Anche a prescindere dalla questione dei rapporti tra inquinamento e pandemie, sulla quale la scienza non ha ancora fornito risposte definitive, sussiste una evidente connessione tra i temi trattati nei due eventi, in quanto il concetto di sicurezza sanitaria è compreso in quello più ampio ambito di benessere ambientale, il quale è inclusivo di tutte le condizioni che concorrono ad assicurare alla persona la salubrità dei luoghi in cui vive nell’equilibrato rapporto con il contesto naturale.
Equilibrio che, nel concetto di “ecologia integrale” alla base della Laudato Si’, riguarda ogni aspetto della vita, anche quelli sociali ed economici, che vanno organizzati in una prospettiva di interazione ed integrazione con le risorse naturali.
Prospettiva, del resto, ormai largamente condivisa, considerata la crescente gravità della crisi ambientale, che chiama ad una sfida globale e complessa istituzioni, pubbliche e private, nazionali e sovranazionali, cittadini, singoli ed associati (sulla necessità di un approccio globale si rinvia alle recenti acute considerazioni di Ferrajoli, Perché una costituzione della terra? Giappichelli, 2021 e di Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Il Mulino, 2021).
Proprio la necessità di realizzare un sistema in cui lo sviluppo sia effettivamente sostenibile pone la questione sul se e come la giurisdizione possa contribuirne a definirne regole e principi.Una domanda, questa, che si giustifica per il fondamentale contributo fornito nel tempo al progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo (su tale evoluzione sia consentito rinviare al Nostro, “L’ambiente tra diritto, economia e giurisdizione”, in Borsari, a cura di, Itinerari di diritto penale dell’economia, Cedam, 2018, ed ivi rif.).
Ruolo propulsivo svolto attraverso una funzione multiforme:
- ricognitiva della valenza anche ambientale di diritti (si pensi alla nota sentenza delle Sezioni Unite civili n. 5172/1979, che riconobbe il diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione come inclusivo del diritto alla salubrità dell'ambiente in cui la persona abita o lavora);
- compensativa del deficit di tutele specifiche ed anticipatoria di interventi legislativi (si pensi al ricorso al reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. – sia per accadimenti disastrosi a carattere violento e dirompente, cioè a “macroeventi” di immediata manifestazione esteriore che si verificano in un arco di tempo ristretto, sia per eventi, non visivamente ed immediatamente percepibili, che si realizzano in un periodo molto prolungato, sempre che, comunque, produttivi una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità – prodromico all’introduzione con la legge n. 68/2015 del delitto di disastro ambientale previsto dall’art. 452-quater c.p., ritenuto da Cass. pen., n. 13843/2020, in continuità normativa con la precedente fattispecie utilizzata in via di supplenza);
- regolatoria dei rapporti tra diritti fondamentali in tensione tra loro, quali quello della salute e dell’iniziativa economica (diritti ritenuti bilanciabili dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 85/2015 nella vicenda Ilva, ed in concreto bilanciati dalla giurisprudenza, specie amministrativa, combinando tra loro i principi di proporzione e precauzione; cfr. ex plurimis, Cons. Stato, n. 4545/2020).
Esula dalla verifica dell’ulteriore espansione di tale ruolo nella costruzione delle regole dell’ecologia integrale l’analisi dei profili meramente sanzionatori, in quanto riguardanti la fase patologica del sistema e non quella regolatoria e gestionale.
Così precisato il campo di questa sia pur breve riflessione (riservando a chi scrive e ad altri interessati successivi approfondimenti dei singoli temi che saranno di seguito brevemente illustrati), sembra utile incentrare questo primo sguardo d’insieme sui tre poli del sistema: i beni oggetto di tutela; l’impresa, quale fattore di danno o di pericolo per gli stessi; la persona quale fruitore dei primi e consumatore dei beni o servizi prodotti dalla seconda.
2. Capitale naturale in cerca di statuto
Per quanto riguarda il primo versante, è ampio il dibattito sul valore del c.d. “capitale naturale”, che identifica i beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) non soltanto come oggetto di tutela, ma anche in una diversa prospettiva, in quanto ne individua i c.d. servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo e suscettibili di monetizzazione.
Una prospettiva, questa, che passa per una rinnovata riflessione sul tema dei “beni comuni”, diffusamente affrontato verso la fine del passato decennio (per le questioni relative alle tematiche ambientali si rinvia a Nespor, Tragedie e commedie nel nuovo mondo dei beni comuni, in Riv. giur. amb., 2013, VI, 665) in cui, all’interno delle varie proposte sistematiche, le risorse naturali erano costantemente prese a riferimento quale contesto emblematico della necessità di superamento del tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, per valorizzare, invece della appartenenza, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario.
La stretta connessione tra il valore del c.d. “capitale naturale” ed il tema dei “beni comuni” fu colta dalle Sezioni Unite civili della Cassazione (n. 3665/2011), quando fu affermata la proprietà pubblica delle valli da pesca della laguna di Venezia, in quanto beni che per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultavano, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - dovevano ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività.
La bocciatura di tale soluzione da parte della Corte Edu nel 2014 per violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Cedu, in quanto la società ricorrente era stata privata senza alcun indennizzo della valle da pesca che utilizzava e nel contempo riconosciuta debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo, se conferma le difficoltà di soluzioni giurisprudenziali nell’attuale regime normativo dei beni (tanto che il diritto all’indennizzo è stato successivamente riconosciuto da Cass. n. 10337/2016 ed altre di ugual tenore), non esclude ed anzi è compatibile con la soluzione di valorizzare e monetizzare i “servizi ecosistemici” offerti dal capitale naturale, a prescindere dal regime proprietario.
Il dibattito – giurisprudenziale e dottrinario – sul tema si è però sostanzialmente arrestato e l’unico passaggio di rilievo nella definizione del concetto di capitale naturale sembra potersi rinvenire nell’affermazione del principio secondo cui è meritevole di tutela anche il bene naturalistico creato dall’opera dell’uomo e non originario, come affermato riguardo alla nozione di bosco, per quanto concerne la tutela paesaggistica, accordata a prescindere dall'origine naturale o artificiale delle superfici alberate, con il solo limite di applicabilità per gli impianti arborei destinati in via esclusiva alla produzione del legno (Cass. pen., n. 30303/2014), nonché, in materia di reati venatori, riguardo alla fauna selvatica, qualità che non viene persa per il solo fatto che l'esemplare sia nato e cresciuto in allevamento, qualora venga accertato che la specie animale, seppur temporaneamente, viva nella zona allo stato selvatico (Cass. pen., n. 23085/2013).
3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore
Sul versante dell’attività d’impresa, gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’affermazione del concetto di “economia circolare” che indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”, caratterizzato per essere un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati. Lo stesso principio ispira il forte incentivo alle energie rinnovabili (entrambi i temi sono alla base della istituzione del Ministero della transizione ecologica, con. d.l. n. 22/2021, conv. con modificazioni con legge n. 55/202 e della centralità dei temi green nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza - PNRR).
La realizzazione di tale risultati richiede “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” (comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”).
Per tal via emerge, in modo sempre più evidente, la consapevolezza che il “mercato” non è solo la causa della crisi ecologica, in quanto tale da “gestire” o contenere” attraverso l’introduzione di limiti e strumenti di gestione (di command and control ovvero volontari – sui quali si rinvia a Clarich, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Diritto pubblico, 2007, I, 219; Salanitro, Tutela dell’ambiente e strumenti di diritto privato, in Rass. dir. civ., 2009, II, 471 e, per spunti di diritto comparato, a Pozzo, Green economy e leve normative, Giuffrè, 2013), ma può essere un fattore di rimedio per tale crisi nella misura in cui la tutela ambientale da limite per il profitto divenga anche una occasione per conseguirlo.
Mentre il profilo amministrativo tecnico-gestionale è stato esaminato in modo diffuso ed approfondito dalla giurisprudenza, specie penale, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda le posizioni soggettive ed i rapporti giuridici alla base del sistema, nonostante molteplici siano al riguardo le ricadute dell’affermazione dell’economia circolare. Si pensi:
a) alla valorizzazione del ruolo del produttore dei beni e della sua responsabilità “estesa” (artt. 178-bis e 178-ter T.U.A.) riguardante sia la fase di produzione ed immissione in commercio, sia quella accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti e la successiva gestione dei rifiuti in relazione alla quale vanno instituiti sistemi di raccolta con oneri a loro carico (in tema cfr. in tema cfr. Amendola, La responsabilità estesa del produttore quale asse portante dell’economia circolare nella normativa comunitaria e nel d.lgs. n. 116/2020, in lexambiente, 12 febbraio 2021);
b) all’evoluzione del ruolo del consumatore, da acquirente di beni a fruitore di servizi, in una prospettiva, già avviatasi, di evidente integrazione tra la circular economy e la sharing economy”;
c) alla crescente importanza degli strumenti volontari, rispetto a quelli di “command and control”, con il passaggio da mero strumento alternativo di tutela dell’ambiente, nel contesto della economia tradizionale c.d. “lineare”, ad uno dei fondamenti essenziali dell’economia circolare;
d) alla conseguente generale impostazione della produzione dei beni e dei servizi e dei relativi rapporti secondo procedimenti e schemi di qualità certificata.
Il primo punto (responsabilità estesa del produttore) è centrale nell’attuazione del sistema dell’economia circolare, avviata a seguito del recepimento del pacchetto di direttive in materia con i decreti legislativi n.n. 116, 18, 119 e 121 del 2021 (in tema si rinvia a Muratori, Quattro decreti legislativi per l’attuazione delle direttive del “pacchetto Economia Circolare”, in Ambiente & Sviluppo, 2020, X, 743).
Mentre per quanto riguarda la responsabilità relativa alla fase di produzione e di commercializzazione la relativa disciplina non è ancora pienamente applicabile, l’obbligo di istituire sistemi di raccolta già esisteva prima della recente modifica (sia pure in relazione ad alcune categorie di rifiuti, mentre, a regime, l’obbligo riguarderà tutte le filiere).
È interessante analizzare le conclusioni alle quali la giurisprudenza è pervenuta in tema di giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare ai consorzi obbligatori per la raccolta dei rifiuti.
Essi, infatti, sono imprese private e, pertanto, naturalmente orientate al profitto, ma si organizzano per assolvere una funzione di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato.
La giurisprudenza ha confermato la natura ibrida di tali soggetti.
Pur affermando che la domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare al consorzio appartiene alla giurisdizione ordinaria – in quanto l'obbligo di aderirvi deriva direttamente dalla legge, la quale disciplina in modo completo i presupposti dell'appartenenza al consorzio ed i relativi obblighi (in particolare, quello di pagamento dei contributi), senza riservare all'autorità amministrativa alcun potere discrezionale nella scelta dei soggetti obbligati, sicché la controversia non ha ad oggetto direttamente il sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo – si è però riconosciuto che tali consorzi svolgono un'attività connotata dai caratteri tipici di un pubblico servizio, sia per il loro inserimento nell'organizzazione amministrativa, sia per l'esercizio di una serie di funzioni d'innegabile valenza autoritativa, o comunque di natura non meramente materiale o tecnica, nel quadro della difesa dell'ambiente (Cass. civ., sez. un. n. 3275/2006 e n. 16032/2010).
È stata quindi avallata una tecnica regolatrice che, attraverso la creazione di uno strumento economico, tutela indirettamente l’ambiente.
Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore.
Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, in quest’ultima, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto.
Tali principi andranno verificati all’esito della piena attuazione del recepimento del pacchetto di direttive sull’economia circolare da parte del legislatore italiano che consentirà, sulla base delle soluzioni adottate circa i sistemi di accettazione dei prodotti restituiti e di raccolta e gestione dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti, la definizione della natura dei soggetti coinvolti e dei relativi rapporti giuridici.
4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
Certamente più fermento si registra sul versante della prospettiva “ecologica” della tutela dei diritti fondamentali.
Lo scenario di fondo è quello della evidente sperequazione nel consumo delle risorse e nell’impatto delle attività umane sull’ambiente che caratterizza sia il rapporto tra paesi più o meno industrializzati, sia quello intergenerazionale.
Sperequazione che può sinteticamente ricondursi al concetto di “debito ambientale”, inclusivo – nella descritta duplice prospettiva – sia del consumo di risorse naturali in eccesso rispetto a quelle che si producono, sia della loro compromissione “qualitativa” in conseguenza delle attività di matrice antropica, fenomeni evidenziati con l’individuazione del c.d. “earth overshoot day” (si rinvia al documentato sito overshootday.org) che segna annualmente la data in cui l'umanità ha esaurito il suo “budget” ecologico, ovvero della c.d. “impronta ecologica” che rappresenta l’unità di misura della domanda di risorse naturali, cioè quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti.
In questo contesto, la stipula di accordi tra gli Stati recanti disposizioni “compensative” o di “riequilibrio” ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri (ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, noto come Cop 21, prevede il versamento di 100 miliardi di dollari l'anno per i Paesi in via di sviluppo) o mere affermazioni di principio (si pensi alle molteplici dichiarazioni nelle Risoluzioni ONU, od all’enfasi dell’art. 3-quater del T.U.A., secondo cui “ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”, replicata dall’art. 144 in tema di tutela e uso delle risorse idriche) sono all’evidenza non appaganti rispetto alla dimensione del problema ed all’urgenza della sua soluzione.
Al deficit di equità nella fruizione dei c.d. servizi ecosistemici sono state date risposte differenziate dalla giurisprudenza.
Quanto alla Corte Edu, va subito precisato che nella Carta non è espressamente riconosciuto un diritto all’ambiente.
Tale mancanza, come rilevato nella opinione dissidente dei giudici Costa, Ress, Turmen, Zupancic e Sterner nella sentenza della Grande Camera dell’8 luglio 2003 nel caso Hatton ed altri contro Regno Unito, si spiega con il fatto che l’approvazione della Convenzione risale agli anni 50, quando non era ancora emersa nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo. Una consapevolezza maturata nel tempo e che ha trovato poi riscontro nell’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali (CDFUE), secondo cui “un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Il riconoscimento del valore ambientale è però avvenuto mediante la sua progressiva emersione, da parte della giurisprudenza della Corte Edu, all’interno del sistema dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, in una duplice prospettiva: quale limite alla espansione del diritto di proprietà, ovvero come elemento caratterizzante i singoli diritti, quali, in particolare, quello al domicilio ed alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 e quello alla vita di cui all’art. 2 (per un quadro d’insieme sia consentito rinviare al Nostro, Inquinamento ambientale e diritti umani, in Questione Giustizia, numero speciale su “La Corte di Strasburgo”, aprile 2019).
La valenza ambientale dei diritti umani è stata affermata anche al di fuori della tutela della CEDU.
Sono infatti ormai numerose nel mondo le decisioni di Corti, nazionali ed internazionali, che riconoscono ai singoli il diritto di far valere verso gli Stati la pretesa ad un ambiente salubre ed all’adozione di misure volte a garantirlo (per un quadro generale si rinvia a Scalia, La giustizia climatica, in Federalismi, 7 aprile 2021).
In questo contesto, è significativo che la base giuridica su cui tale pretesa viene fondata è spesso rappresentata dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, quale atto ricognitivo da parte degli Stati, a prescindere dall’intervenuta ratifica, della pericolosità per l’ambiente e la salute di un aumento della temperatura terreste al di sopra dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e, quindi, della necessità di misure concrete di contenimento, la cui mancata attuazione viene ritenuta un vulnus per i consociati.
Rilevante – e prodromo di ulteriori sviluppi – è poi l’evoluzione giurisprudenziale sulla titolarità delle obbligazioni relative al cambiamento climatico.
In primo luogo, va registrato il crescente riferimento alle generazioni future quali meritevoli di tutela e titolari di posizioni giustiziabili (emblematica è la recente decisione del Tribunale costituzionale federale tedesco del 24 marzo 2021, che ha bocciato la legge sulla protezione del clima del 12 dicembre 2019, recante l’indicazione degli obiettivi nazionali di protezione del clima e i volumi annuali di emissione di gas serra ammessi fino al 2030, ritenendola “blanda” ed eccessivamente onerosa per le generazioni future; per un’analisi e riferimenti si rinvia a Bin, La Corte tedesca e il diritto al clima. Una rivoluzione? in lacostituzione.info, 30 aprile 2021, nonché a Bresciani, Giudici senza frontiere: prospettive del modello di tutela extraterritoriale dei diritti climatici, ed a Pignataro, Il dovere di protezione del clima e i diritti delle generazioni future in una storica decisione tedesca, entrambi in eublog.it, 17 maggio 2021).
Un’apertura potenzialmente “rivoluzionaria” per le implicazioni di carattere anche politico che il riconoscimento normativo del principio di equità generazionale potrebbe comportare (sulla difficile attuazione nel nostro ordinamento di tale principio si rinvia a Palombino, La tutela delle generazioni future nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale, in Federalismi, 5 agosto 2020). Un riconoscimento che sembra avvicinarsi, considerato che il 19 maggio la commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento nell’art. 9 della Costituzione del seguente periodo “La Repubblica tutela l'ambiente e l'ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni".
Parimenti rilevante è il riconoscimento della legittimazione ad agire anche di soggetti che non si trovano in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui la condotta (commissiva od omissiva) viene posta in essere (collegamento che integra il tradizionale criterio della “vicinitas” quale condizione integrante l’interesse ad agire avverso provvedimenti, o condotte, lesivi di posizioni soggettive; cfr. Cass. civ., sez. un., n. 21740/2019 e Cons. Stato, 3247/2021).
La citata sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, pur rigettandolo nel merito, ha ammesso il ricorso di dieci persone residenti in Asia, la cui doglianza era che la mancata adozione di misure sufficienti per contrastare il cambiamento climatico da parte della Germania violasse i loro diritti costituzionali alla vita, all’integrità fisica ed alla proprietà. La Corte, ha respinto l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Bundestag e dal Governo Federale “affermando, da un lato, che non si può escludere a priori che i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione implichino in capo allo Stato un’obbligazione positiva di contribuire a proteggere tutte le persone – anche straniere e residenti in paesi esteri – dagli effetti negativi del cambiamento climatico (§101, §§175 ss.) e, dall’altro, che ai fini dell’ammissibilità di un Verfassungsbeschwerde non è necessario che il ricorrente chiarisca in quali termini la sua situazione soggettiva si differenzia da quella della generalità delle persone purché questi lamenti la violazione di un proprio diritto fondamentale“ (sintesi ad opera di Bresciani, Giudici senza frontiere …, cit., cui si rinvia per una più diffusa ricostruzione della sentenza sul punto).
Una decisione per qualche verso affine è quella del Consiglio di Stato italiano (n. 4775/2014) che ha riconosciuto la legittimazione di un Comune e di una ONG austriaci ad impugnare la valutazione d’impatto ambientale e l’approvazione del progetto per la realizzazione di un parco eolico sulla parte montana del Comune di Brennero, confinante con il predetto Comune austriaco.
Si sostiene che tali pronunce mettono in crisi il tradizionale criterio della vicinitas, tanto che alcuni ricorrono all’ossimoro di «vicinitas globale» (Scalia, La giustizia climatica, cit.).
In realtà, il criterio della vicinitas attiene alla legittimazione ad agire, costituendo un requisito sufficiente a radicare l'interesse a ricorrere avverso il fatto lesivo, ma non l’unico, ben potendo agire anche chi deduca di aver subito una lesione di diritti od interessi legittimi pur non trovandosi in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui l’azione viene posta in essere. La questione, piuttosto è quella della configurabilità (e prova) di tale lesione (esempio: abbattimento dell’Amazzonia e danni lamentati da residenti in Stati europei) e la giurisdizione su siffatta domanda (da verificarsi sulla base delle Convenzioni internazionali e, in Europa, del Reg. CE 12 dicembre 2012, n. 1215/2012).
La valenza ecologia dei diritti umani trova infine un felice riscontro nella giurisprudenza che riconosce e tutela i c.d. migranti ambientali.
Tra le varie decisioni di alcune Corti nazionali sul tema (si rinvia a Scissa, Migrazioni ambientali tra immobilismo normativo e dinamismo giurisprudenziale: Un’analisi di tre recenti pronunce, in Questione giustizia, 17 maggio 2021) va segnalata una recente decisione della Cassazione civile (n. 5022/2021) secondo cui «ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", costituisce il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa. Detto limite va apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi - qualora se ne ravvisi in concreto l'esistenza in una determinata area geografica - i casi del disastro ambientale, definito dall'art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell'insostenibile sfruttamento delle risorse naturali».
Il riconoscimento che la compromissione del livello essenziale di vita dignitosa dell'individuo può dipendere anche da “condizioni di degrado sociale, ambientale o climatico, ovvero da contesti di insostenibile sfruttamento delle risorse naturali, che comportino un grave rischio per la sopravvivenza del singolo individuo” porta il tema dell’ambiente all’interno del nucleo rigido della dignità della persona, andando oltre l’aspetto di salubrità e sicurezza sanitaria che ne ha per lungo tempo connotato la comune accezione.
È quindi sul versante dei diritti fondamentali che si registra l’evoluzione forse più avanzata del percorso giurisprudenziale, con la progressiva costruzione di un “antropocentrismo a matrice ecologica” multiforme e caleidoscopico.
Una posizione soggettiva alla cui ulteriore definizione potrà contribuire l’esercizio, nella materia ambientale, dell’azione di classe prevista dalla legge n. 31/2019 ed anch’essa entrata in vigore questa settimana (il 19 maggio), considerato che il suo ambito di applicazione riguarda i “diritti individuali omogenei”, senza distinzione. Di qui «la possibilità di utilizzare un'azione collettiva per invocare la tutela del diritto ad un ambiente sano come diritto fondamentale dell'uomo, nei confronti degli "inquinatori" e delle istituzioni pubbliche che dovrebbero proteggere e garantire tale diritto» (Carrara, I nuovi fronti della class action, ne Il Sole 24Ore, 22 maggio 2019 che, a conferma dei rilievi svolti, prosegue: “L'altro filone di controversie, più simile alla tipologia classica di responsabilità del produttore, è quello legato alle emissioni non consentite di CO2, che potrebbe riguardare non solo le aziende automobilistiche, ma tutte le imprese che emettono emissioni sopra le soglie. Del resto, la climate change litigation ha preso piede in molte giurisdizioni”).