Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?
Riflessione a più voci sugli effetti dell’emergenza epidemiologica nei rapporti di lavoro del personale più esposto ai contatti con la collettività
Intervista di Marcello Basilico a Fabrizio Amendola, Raffaele De Luca Tamajo e Vincenzo Antonio Poso
[v., per i precedenti in tema su questa Rivista, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina di Lisa Taschini - Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico ad Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli - Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica di Marianna Gensabella Furnari.]
La scelta del tema
Gli episodi di nuovi contagi all’interno di strutture ospedaliere o socioassistenziali in coincidenza col rifiuto del relativo personale di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19 riaccendono il dibattito sull’imposizione di obblighi, almeno per alcune categorie mirate di lavoratori, e sui poteri rimessi al datore di lavoro.
L’urgenza di pervenire a soluzioni giuridiche chiare nasce dalla diffusione delle posizioni di avversione al vaccino col rischio di rendere inefficace la campagna vaccinale, unico rimedio allo stato per conseguire una vittoria su larga scala contro la pandemia. L’annuncio d’un imminente intervento normativo interroga i giuristi sul suo possibile contenuto, in una materia investita da molteplici temi giuridici, espressivi talvolta di valori contrastanti, e lascia spazio anche a valutazioni preventive sugli effetti nell’ordinamento delle disposizioni preconizzate.
Abbiamo interpellato tre studiosi del diritto del lavoro che rappresentano anche tre categorie di giuristi: i professori universitari (Raffaele De Luca Tamajo), gli avvocati (Antonio Poso) e i giudici (Fabrizio Amendola), per avere da loro un’opinione utile per questa riflessione anche in vista dell’iniziativa legislativa. Ecco il loro pensiero, che riportiamo su ciascuna domanda in rigoroso ordine alfabetico.
1. Come per tutti i cittadini, neppure per gli operatori sanitari v’è a oggi un obbligo di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19. I connotati specifici del loro rapporto contrattuale, pubblico o privato, consentono comunque al datore di lavoro di imporre loro tale obbligo?
Fabrizio Amendola Registro che il tema alimenta tra i giuristi un vivace dibattito, che sostanzialmente forma due schieramenti i quali giungono a conclusioni diametralmente opposte. Entrambe le tesi risultano autorevolmente sostenute, con argomentazioni davvero pregevoli. Mi limito ad osservare che chi propende per l’esistenza dell’obbligo vaccinale in delimitati ambiti lavorativi già sulla base delle norme vigenti è costretto a fare ricorso ad una mezza dozzina di disposizioni, reperite in varie fonti legislative che vanno dal codice civile (art. 2087 c.c.) a leggi speciali (il T.U. sulla sicurezza sul lavoro, la legge di bilancio del 2020, l’art. 42, d.l. n. 18/2020) ed anche secondarie (ad ex. il decreto ministeriale sul piano nazionale dei vaccini), in combinata ed orientata lettura con una o più norme e princìpi costituzionali; rilevo poi che, anche chi milita in questo stesso campo, giunge alla medesima conclusione ma con argomenti spesso diversi.
Personalmente leggo nell’art. 32, co. 2, Cost., che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La materia delle vaccinazioni è dunque sicuramente coperta da riserva di legge e lo stesso legislatore incontra dei limiti, come ha spiegato più volte il Giudice delle leggi (Corte cost. n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). Se lo stesso Parlamento è costretto a muoversi in spazi confinati in un ambito che coinvolge più diritti e libertà di rilievo costituzionale – il diritto alla salute nel duplice profilo individuale e pubblico, il diritto al rispetto della persona umana, la libertà di autodeterminazione nella sottoposizione a trattamenti sanitari, la libertà d’impresa – ho difficoltà a convincermi che l’obbligo di vaccinazione possa trovare origine certa nelle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, sebbene integrato da fonti legali e dall’esegesi di princìpi generali.
In ogni caso proverei a mettermi nei panni del cittadino comune, sia esso datore di lavoro, che ha alle dipendenze un infermiere che rifiuta di vaccinarsi, ma anche infermiere renitente, che magari vorrebbe sapere preventivamente quali potranno essere le conseguenze del suo rifiuto. In un momento già così complicato per la vita delle persone, mi sembra irragionevole pretendere dal cittadino di cercar di capire, tra le decine di pagine di contributi specialistici, se bisogna seguire la tesi patrocinata da un accademico esperto o piuttosto quella, opposta, sostenuta da un magistrato, parimenti esperto.
Noi giuristi spesso trascuriamo come i destinatari delle norme siano innanzi tutto persone comuni che, per quanto è possibile, dovrebbero conoscere anticipatamente come conformare i loro comportamenti alle regole del diritto; forse il legislatore, in situazioni così incerte e dibattute, dovrebbe assumersi le conseguenti responsabilità.
Raffaele De Luca Tamajo A rigore non sarebbe necessaria la legge in gestazione per obbligare alla vaccinazione i medici e tutti coloro che operano in strutture sanitarie o socioassistenziali a stretto contatto con malati o anziani. Ferma restando, infatti, la libertà costituzionalmente sancita di rifiutare il vaccino (art. 32), nel momento in cui volontariamente un cittadino entra in un contratto di lavoro avente ad oggetto la cura e l’assistenza di pazienti “fragili” egli assume vincoli e obblighi in qualche misura dismissivi anche di libertà fondamentali. Così come accade, ad esempio, per il giornalista assunto da un giornale con forte orientamento politico o addirittura di partito che accetta una limitazione della libertà di esprimere il proprio pensiero o la propria (in ipotesi diversa) ideologia e da tale volontaria accettazione risulta vincolato, anche a costo di vedere contenuto l’esercizio di una libertà fondamentale.
Una legge, ad hoc, tuttavia, troncherebbe ogni incertezza ed ogni dibattito, anche in merito alle conseguenze del rifiuto e alla delicata posizione di coloro che non possono sottoporsi al vaccino per ragioni di salute. Il dibattito in atto appare infatti appesantito da troppi distinguo e da uno spirito libertario che francamente andrebbero banditi in una fase storica in cui l’interesse generale deve essere anteposto con fermezza rispetto a conati di individualismo poco coerenti con la gravità del momento. Di buon auspicio al riguardo è, però, la circostanza che l’attuale Ministra della Giustizia, cui compete il varo del provvedimento legislativo sul tema, è stata la redattrice di una significativa ordinanza della Corte costituzionale (la n.5 del 2018), nella quale si legge tra le righe un giudizio di ragionevolezza in ordine ad un bilanciamento tra il diritto alla autodeterminazione personale in materia sanitaria e la tutela della salute della collettività decisamente favorevole a quest’ultima, quanto meno in presenza di fasi epidemiologiche particolarmente gravi e fatto salvo ogni previo tentativo di informazione e persuasione dei renitenti.
Nell’ottica della chiarezza c’è da augurarsi, piuttosto, che la legge in fieri lasci uno spazio davvero residuale agli accordi sindacali, dal momento che proprio il rilievo “generale” degli interessi in gioco non può tollerare soluzioni di compromesso tendenzialmente favorite dagli attori rappresentativi di interessi sociali settoriali, quando non anche corporativi.
Vincenzo Antonio Poso La vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente ad altre misure di protezione, collettive e individuali, per la prevenzione della trasmissione delle infezioni nelle strutture sanitarie, risponde a tre esigenze di sanità pubblica: proteggere l’operatore dal rischio professionale di carattere infettivo; proteggere le persone che si rivolgono ai servizi sanitari, la cui condizione di fragilità le rende maggiormente esposte alle infezioni; garantire l’operatività dei servizi assistenziali, salvaguardando continuità, qualità e sicurezza delle prestazioni erogate durante le epidemie.
Fatta questa premessa, è da escludere che il datore di lavoro possa imporre ai suoi dipendenti l’obbligo della vaccinazione, in considerazione della assoluta riserva di legge stabilita dall’art. 32 Cost. E tuttavia si potrebbe pensare (ma il tema è assi delicato) alla necessità della vaccinazione per l’espletamento di specifiche mansioni o quanto meno per l’accesso in particolari ambienti di lavoro.
Di qualche interesse è il percorso legislativo della Regione Puglia, che a ragion veduta cito, anche perché gli operatori sanitari, di fatto, si possono considerare dipendenti regionali, latu sensu, anche se il rapporto di lavoro pubblico privatizzato è con le aziende sanitarie e ospedaliere.
Con legge 19 giugno 2018, n. 27, è stato previsto, in particolare, all’art. 1: “1.La Regione Puglia, al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività, individua con la deliberazione di cui all'articolo 4, i reparti dove consentire l'accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale. - 2. In particolari condizioni epidemiologiche o ambientali, le direzioni sanitarie ospedaliere o territoriali, sentito il medico competente, valutano l'opportunità di prescrivere vaccinazioni normalmente non raccomandate per la generalità degli operatori”.
Come è noto, con la sentenza n. 137 del 6 giugno 2019 la Corte Costituzionale mentre ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 1, c.2, di detta legge per violazione dell’art. 117, c.3 e 32, Cost. che, in combinato disposto, disciplinano in materia la riserva di legge statale”, ha lasciato indenne dalla censura di incostituzionalità il comma 1 (e gli altri articoli della legge regionale) riconducendolo all’organizzazione sanitaria di competenza regionale. La prescrizione della legge regionale non si rivolge, infatti, alla generalità dei cittadini “ma si indirizza specificamente agli operatori sanitari che svolgono la loro attività professionale nell’ambito delle strutture facenti capo al servizio sanitario nazionale, allo scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività”; tenuto conto, peraltro, che anche “le società medico-scientifiche […] segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure”. In questa ottica la regolamentazione regionale dell’accesso ai reparti degli istituti di cura è finalizzata a prevenire le epidemie in ambito nosocomiale e si muove nel solco del PNPV vigente che “indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di «garanzia nei confronti dei pazienti ai quali», date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, «l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali» (PNPV 2017-2019, p. 67)”.
È intervenuta, di recente, la l. 10 marzo 2021, n. 2 che, in applicazione della precedente l. n. 27/2018 e del suo regolamento attuativo 25 giugno 2020, n. 10, e muovendosi nella stessa prospettiva, estende le disposizioni di sicurezza da questi atti normativi previste a carico degli operatori sanitari anche con riferimento al contagio da Covid-19.
Queste disposizioni possono rappresentare un modello normativo virtuoso per rispondere alle tante aspettative in assenza di una legislazione che imponga la somministrazione del vaccino.
Merita anche ricordare la recente ordinanza cautelare del Tribunale del Lavoro di Messina del 12 dicembre 2020 ( pronunciata in una causa promossa da alcuni sanitari ausiliari), che, senza entrare nel merito delle altre problematiche lavoristiche, ha disapplicato il decreto assessorale regionale siciliano e le note aziendali ospedaliere di sua conseguente applicazione, che, proprio per evitare la concomitanza della “ordinaria” influenza con il contagio pandemico, avevano imposto al personale sanitario l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, sul presupposto, incontestabile, che la tutela della salute è materia che la Costituzione, con l’art. 32, riserva alla legge statale.
2. In che misura il codice deontologico di medici e infermieri influisce nella possibile configurazione di tale obbligo?
Fabrizio Amendola Dal mio punto di vista, siccome dubito che un coacervo di disposizioni, comunque di livello primario, possa considerarsi sufficiente a rispettare la riserva di legge contenuta nella Costituzione per un trattamento sanitario qual è la vaccinazione, a maggior ragione le mie perplessità aumentano laddove la fonte dell’obbligo voglia rinvenirsi in previsioni di un codice deontologico, che sono destinate a produrre effetti prevalentemente sul ben diverso piano degli illeciti disciplinari sanzionati dai rispettivi ordini professionali.
Raffaele De Luca Tamajo Probabilmente non c’è bisogno di scomodare il pur rilevante codice deontologico dei medici e degli infermieri per affermare il loro obbligo vaccinale: è sufficiente ricorrere all’oggetto del contratto di lavoro da essi sottoscritto per comprendere che l’adempimento risulta vulnerato o reso impraticabile da una condizione (evitabile) di esposizione potenziale al virus, foriera di pericolo per i pazienti fragili, specie nella fase in cui il contagio del sanitario è presente, ma non ancora conclamato (fase che neanche il frequente ricorso ai tamponi accertativi potrebbe disinnescare del tutto).
Vincenzo Antonio Poso Sono sempre stato convinto che la vaccinazione debba essere considerata un obbligo deontologico per i medici e gli operatori sanitari, in una nozione ampia, che comprende tutti quelli che vengono a contatto con le persone che accedono ai servizi e alle strutture sanitarie, ma anche negli ambulatori e nelle visite domiciliari, indipendentemente dal lavoro e dall’attività (anche specificamente non sanitaria) svolta.
Tutti i giuristi che hanno posto il problema della regolamentazione della vaccinazione con la legge, hanno evidenziato, comunque, l’obbligo morale di vaccinarsi.
Ne ho tratto conferma leggendo, seppur fugacemente, in occasione di questa intervista, i Codici deontologici, che andrebbero esaminati con maggiore attenzione e capacità di analisi.
Per i medici (Codice di deontologia approvato il 18 maggio 2014 e successive modificazioni) è già significativa la formula del giuramento professionale, tutta incentrata sui principi di competenza, responsabilità, cura dei pazienti e salute pubblica. Nello specifico, trovo significative queste disposizioni: l’art. 3, c.1, che declina i doveri del medico e tra questi la tutela della vita, della salute psico-fisica; l’art. 4, che richiama espressamente il principio della responsabilità; l’art. 14, secondo il quale il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti… contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico, anche con le buone patiche cliniche.
Ritengo rilevante, anche, l’art. 30 che impone al medico di segnalare le situazioni di contrasto e conflitto di interessi, che io vedo anche nel rapporto, di necessaria trasparenza, tra medico non vaccinato e paziente.
Poi ci sono tutte le norme, art. 33 e ss., sugli obblighi informativi, sulla comunicazione del consenso e del dissenso.
Per le professioni infermieristiche (Codice approvato il 12 e 13 aprile 2019) ho appuntato la mia attenzione sui principi generali definiti dall’art. 1: responsabilità, cura, sicurezza e dall’art. 2: bene della persona, della famiglia e della collettività. Poi c’è l’intero Capo II dedicato alla responsabilità assistenziale. L’infermiere ha un ruolo rilevante di responsabilità nell’organizzazione (art. 30) e in base all’art. 32 partecipa al governo clinico, promuove le migliori condizioni di sicurezza della persona assistita, fa propri i percorsi di prevenzione e gestione del rischio, anche infettivo, e aderisce fattivamente alle procedure operative, alle metodologie di analisi degli eventi accaduti e alle modalità di informazione alle persone coinvolte. Gli infermieri hanno un ruolo nevralgico nell’organizzazione sanitaria e per questo si capisce, anche, come siano di maggiore evidenza i contenziosi che sull’obbligo vaccinale si sviluppano in misura maggiore rispetto ai medici.
Anche qui c’è una norma, l’art. 43, sul conflitto di interessi, per la quale richiamo la lettura che ho dato alla norma parallela del Codice deontologico per i medici.
Posso, quindi, in estrema sintesi, enucleare quattro profili di etica nella materia che ci occupa: etica clinica, etica di salute pubblica, etica professionale, etica delle istituzioni.
Ciò precisato, mi sento di dire, rispondendo a questa specifica domanda, che il problema etico, di deontologia sanitaria (se così si può riassumere), è più teorico, che pratico, ai fini della imposizione dell’obbligo vaccinale. Intendo dire che certamente ci potranno essere ricadute sul piano del rapporto di lavoro, per le valutazioni disciplinari che l’ordine professionale (e lo stesso datore di lavoro) potrà trarne con evidenti, anche gravi, conseguenze; sicuramente la violazione delle norme deontologiche potrà essere utilizzata in funzione dissuasiva e gli ordini professionali potranno agire più facilmente nell’opera di convincimento per gli iscritti. Non credo, però, che solo per questo possa essere costruito, in termini strettamente giuridici, un obbligo di vaccinazione.
3. Pur in assenza d’un obbligo, quali effetti può avere il rifiuto a vaccinarsi da parte dell’operatore sanitario per il suo rapporto di lavoro o, quanto meno, per la sua posizione nel contesto lavorativo in cui è inserito?
Fabrizio Amendola Escluso che il lavoratore nolente possa essere licenziato con una procedura disciplinare, tuttavia la non obbligatorietà del vaccino non significa che il lavoratore che liberamente si determina in tal senso non possa andare incontro a conseguenze incidenti sul rapporto di lavoro.
Allo stato attuale della legislazione mi pare che la strada più prudente da percorrere sia quella ricavabile dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008, nel capo dedicato alla “sorveglianza sanitaria”. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive “particolari” per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci (che non significa, però, obbligo di sottoporsi al vaccino) e l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’art. 42 (art. 279, comma 2, d.lgs. n. 81/2008). Il medico competente, dunque, valutati i compiti svolti dal dipendente ed il contesto aziendale di riferimento, può esprimere un giudizio di inidoneità rivolto al lavoratore nelle ipotesi in cui questi abbia rifiutato di vaccinarsi, con allontanamento temporaneo dello stesso e adibizione ad altre mansioni, anche inferiori, ove possibile.
I vantaggi di una tale soluzione stanno nell’adattamento alle circostanze del caso concreto, filtrate da un giudizio tecnico del medico, che potrà selezionare caso da caso, tenuto conto della situazione del singolo e delle sue funzioni, in rapporto al contesto in cui opera e ad eventuali misure di sicurezza alternative; nella sindacabilità in sede di impugnazione da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell’art. 42, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008; nell’adeguamento delle misure all’evoluzione dell’andamento epidemiologico e delle conoscenze scientifiche, oltre che dei ripensamenti personali. Non possiamo, però, nasconderci che laddove il rifiuto si moltiplichi, ad ex. in strutture sanitarie, la strada descritta, anche per i tempi necessari a percorrerla, può generare problemi organizzativi inconciliabili con l’emergenza pandemica.
Raffaele De Luca Tamajo La conseguenza del rifiuto del vaccino, a mio avviso, non potrebbe mai consistere nel licenziamento, ma al massimo in una anche prolungata sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, cui approdare, peraltro, dopo un estremo tentativo di informazione e persuasione e dopo la fruizione delle ferie, dei congedi retribuiti ed eventualmente dopo la verifica in merito alla possibilità di adibizione a diversa postazione lavorativa (che escluda il contatto con pazienti o anziani), purché esistente allo stato della organizzazione aziendale e purché non “premiante”.
La sospensione dovrebbe durare da quando il vaccino è soggettivamente fruibile a quando si realizza nel luogo di lavoro una sostanziale immunità di gregge, così da rendere irrilevante la presenza di qualche unità di dipendenti non vaccinati. La legge, comunque, potrebbe utilmente chiarire se si è in presenza di una impossibilità/inidoneità ad adempiere o di una misura disciplinare (con tutte le conseguenze procedurali).
Vincenzo Antonio Poso Prima di dare una risposta a questa domanda, ci dobbiamo chiedere se e in quali limiti il datore di lavoro possa imporre al proprio dipendente l’obbligo della vaccinazione: sembra del tutto evidente che non possa farlo se non violando il principio stabilito dall’art. 32, c. 2, Cost., che vieta l’assoggettamento del lavoratore a un determinato trattamento sanitario che diventerebbe, in tal modo, obbligatorio per volontà di una parte contrattuale e non della legge statale alla quale questa scelta è riservata in maniera esclusiva.
Questo, però, non risolve il problema della responsabilità del datore di lavoro e degli obblighi del dipendente nei suoi confronti.
Qualcuno ha coniugato il principio della prevenzione con quello della solidarietà, ma è indubbio che la solidarietà, se non è imposta dalla legge, resta un mero postulato, un problema di coscienza individuale (e collettiva), ma sul piano degli obblighi della prevenzione, però, la situazione è diversa. L’art. 2087 c.c., che, come norma residuale, ha un ambito di applicazione esteso, non arriva ad imporre al datore di lavoro di adottare misure di prevenzione, a tutela di tutti i dipendenti, non previste dalla legge e in contrasto con la Costituzione che tutela i diritti della persona; e tuttavia il datore di lavoro deve adottare misure adeguate ed efficaci, per prevenire e limitare il rischio del contagio, imposte dalla scienza medica e dalla tecnica.
Mi sentirei di riassumere il mio pensiero in questo breve decalogo: a) il datore di lavoro può, anzi deve pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non vaccinati, per accettare la loro prestazione, in attuazione del rapporto obbligatorio in cui si realizza l’esecuzione del contratto di lavoro (su questo punto la posizione espressa da ultimo dal Garante deve essere presa in considerazione, per valutarne gli effetti, ma non mi sembra condivisibile); b) l’attività di prevenzione e controllo è prevista espressamente dall’art. 279, d.lgs. n. 81/2008, che affida la sorveglianza sanitaria al medico competente (ex art. 41), e al datore di lavoro, anche con la messa a disposizione di vaccini efficaci e con le informazioni necessarie sui vantaggi e gli inconvenienti delle vaccinazioni; c) il comportamento del lavoratore non collaborativo, ostativo, assume indubbiamente un connotato disciplinare, con tutto ciò che ne consegue, sul piano fisiologico o patologico del rapporto di lavoro.
Altra cosa, nella situazione data, è la valutazione datoriale del comportamento di chi non ha effettuato il vaccino e rifiuta la sua somministrazione. Non è di natura disciplinare, ma non è immune da conseguenze. È un comportamento che non può integrare gli estremi dell’infrazione disciplinare perché è esplicazione di un diritto coperto dalla massima tutela, quella costituzionale. In proposito faccio mie tutte le argomentazioni spese da chi ha parlato di sospensione del rapporto di lavoro, impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione, inadempimento, che consentono al datore di lavoro di non corrispondere la retribuzione (e non versare la relativa contribuzione previdenziale ed assistenziale), escludendo la misura estrema del licenziamento, per motivi disciplinari, che, frettolosamente, qualcuno ha pure avanzato all’inizio del dibattito su questo tema. In breve sintesi: il datore di lavoro può eccepire l’inadempimento del lavoratore all’obbligo di sicurezza del lavoratore e pertanto rifiutarsi di ricevere la sua prestazione e non retribuire il lavoratore fino a quando questi non provveda a vaccinarsi.
È indubbio che, nella grave contingenza nella quale ci troviamo, il datore di lavoro ha interesse non solo a che il proprio dipendente si sottoponga alla vaccinazione, così da fare tutto il possibile per realizzare la prevenzione del rischio di contagio nei luoghi di lavoro, ma deve porsi anche il problema interno alla sua organizzazione di lavoro, per evitare e limitare, nei limiti del possibile, le probabilità di assenze causate dal Covid-19, e, all’esterno, per fornire a clienti e utenti prestazioni e servizi resi da personale vaccinato, tendenzialmente immunizzato, per evitare i rischi del contagio. Il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti (ad esempio con un lavoratore a termine o somministrato), per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi. Certamente il problema dovrà essere valutato nell’ambito concreto del luogo di lavoro, dell’impresa e della specifica unità di lavoro, ma il datore di lavoro potrebbe arrivare alla determinazione del recesso per motivi oggettivi e ad anche per inidoneità all’esercizio delle mansioni assegnate o assegnabili, non essendo sempre possibile il trasferimento di sede e l’assegnazione di mansioni diverse, anche inferiori. La norma guida rimane l’art. 42, d.lgs. n. 81/2008.
Ritengo assai discutibile, invece, la soluzione, pure prospettata con argomenti di indubbio interesse, di consentire, in regime di sospensione del rapporto di lavoro, la CIG-Covid-19, perché la situazione di temporanea impossibilità della prestazione, per quanto possa essere definita oggettiva, deriva, pur sempre, da una scelta del lavoratore, legittima, magari apprezzabile, anche sul piano delle personali convinzioni di ognuno (ma su questo aspetto non è da escludere da parte di qualche lavoratore una censura di discriminatorietà), che, se non risulta giustificata sulla base di presupposti oggettivi che impongano l’esenzione dal vaccino, non può certamente essere messa in conto alla collettività.
4. Il giudice del lavoro del Tribunale di Belluno ha nei giorni scorsi respinto il ricorso di dieci operatori socio-sanitari che avevano chiesto il ripristino in via d’urgenza delle proprie prestazioni lavorative dopo che, avendo rifiutato il vaccino Pfizer, erano stati collocati in ferie e dichiarati inidonei alla mansione dal medico competente. Il giudice ha ritenuto che, stante la notorietà dell’efficacia del vaccino, “la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c.”. Condivide questa impostazione?
Fabrizio Amendola Nel corso di decenni l’art. 2087 c.c. ha svolto mirabilmente la sua funzione di norma di chiusura del sistema antinfortunistico, consentendo, con la sua struttura aperta, l’adattamento delle misure di sicurezza alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico. Assegnargli anche il gravoso compito di soddisfare la riserva di legge di cui al comma 2 dell’art. 32 Cost. mi sembra un tentativo apprezzabile, ma rischioso in termini di tenuta dell’orientamento giurisprudenziale che si fondi sulla norma codicistica.
Ho difficoltà a rinvenire in una norma “in bianco” così ampia e generica, dettata esclusivamente per i rapporti di lavoro, quella specifica “disposizione di legge” richiesta dall’art. 32 Cost. per imporre a qualsiasi cittadino un trattamento sanitario obbligatorio; una legge che, secondo la stessa previsione costituzionale “rafforzata”, dovrebbe stabilire anche i contenuti per non “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Credo occorra, invece, una disposizione ad hoc, che obblighi alla vaccinazione specificamente individuata, onde evitare di trasferire sul terreno privatistico-contrattuale le conseguenze di una traslazione della responsabilità della scelta dal legislatore al singolo datore di lavoro, cui risulterebbe probabilmente anche addossata una responsabilità per gli eventi avversi della vaccinazione. Concordo invece, come già detto, sull’utilizzo degli strumenti forniti dalla sorveglianza sanitaria.
Peraltro, nell’ordinanza del giudice bellunese viene dato per “notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione”; il che prospetta l’ulteriore complicazione data dal fatto che la scienza ufficiale non ha ancora sancito con certezza che, oltre a proteggere sé stessi, il vaccino impedisca anche la trasmissione del virus ad altri, tanto che l’Istituto Superiore di Sanità ancora raccomanda, anche dopo la somministrazione di entrambe le dosi del vaccino, di continuare a seguire scrupolosamente le abituali indicazioni utilizzate da ciascuno di noi per prevenire la diffusione del Covid-19.
Raffaele De Luca Tamajo Quanto alla sentenza del Tribunale di Belluno, essa, pur nella sua sinteticità assoluta, va letta nel senso che la permanenza dei renitenti nel luogo di lavoro precluderebbe al datore l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure precauzionali e di sicurezza ex art. 2087c.c. e violerebbe, quindi, l’ obbligo di cooperazione a carico dei dipendenti previsto dall’art. 20 D. Lgs. n. 81/2008. In tal senso la sentenza è condivisibile.
Vincenzo Antonio Poso Mi attengo al contenuto dell’ordinanza cautelare che abbiamo potuto leggere perché ampiamente divulgata. Dalle notizie di stampa non è dato sapere, con esattezza, l’oggetto e il perimetro della domanda cautelare proposta. Se è stata richiesta l’adozione di provvedimenti generici e indefiniti, come par di capire, diretti a dichiarare o realizzare il loro diritto alla libera scelta di vaccinarsi o meno, dubito sull’ammissibilità, ab origine, del ricorso. Se sono stati impugnati specifici provvedimenti datoriali (risultano, comunque, smentite le prime notizie di stampa sulla sospensione senza retribuzione alcuna) di collocamento forzato in ferie, per unilaterale determinazione del datore di lavoro, la decisione è, a mio avviso, corretta, proprio per il bilanciamento degli interessi in gioco – diritto alle ferie, con un minimo di autodeterminazione nella scelta del periodo di fruizione da parte del lavoratore, e sicurezza delle condizioni e dell’ambiente di lavoro – evidenziato, seppur sinteticamente, nella stessa.
E tuttavia questa soluzione risolve il problema solo per il periodo, limitato, di fruizione delle ferie, esaurito il quale, perdurando la loro condizione di non vaccinati, i lavoratori si ritroveranno nella stessa situazione precedente. Dovranno, quindi, essere sottoposti alla visita del medico competente ex art. 279, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008 e, in caso di ritenuta inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro dovrà disporre l’allontanamento temporaneo, secondo le procedure dell’art. 42.
Uso, consapevolmente, il verbo dovere perché se il datore di lavoro sanitario ha considerato la situazione del lavoratore non vaccinato pericolosa per l’esercizio delle sue mansioni a contatto diretto con assistiti, ma anche colleghi di lavoro, la sua valutazione, in termini (anche generali) di sicurezza, di prevenzione e di misure tecniche e organizzative da adottare, non potrà certo cambiare dopo il breve periodo delle ferie godute, a meno che non muti il quadro generale della pandemia e della diffusione del contagio oppure non risulti con certezza o grande approssimazione l’inefficacia della vaccinazione.
Il rigetto del ricorso poteva essere deciso sulla (sola) base della manifesta insussistenza del periculum in mora, in quanto è stato, correttamente, rilevato dal giudicante il difetto assoluto di allegazione di fatti e comportamenti che facessero solo pensare all’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione ed al licenziamento.
Sul fumus boni iuris il giudice richiama, correttamente, il dovere di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, previsto dall’art. 2087 c.c., non solo, ma anche la necessità d protezione dei colleghi di lavoro, dei pazienti e dei terzi con i quali i lavoratori non vaccinati possano venire in contatto.
Aggiungo io, e non è cosa di poco conto, il rischio, concreto, di azioni risarcitorie che la struttura sanitaria potrebbe subire in caso di contagio diffuso, di pazienti, dipendenti e terzi, non solo in caso di esiti infausti) per responsabilità imputabile al datore di lavoro per non aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative adeguate al fine di evitare il danno.
Se proprio devo fare una critica all’ordinanza citata, devo evidenziare che viene usato per cinque volte, sebbene per ipotesi differenti, il termine notorio/notoria, anche per fatti e circostanze che avrebbero meritato una più chiara esposizione, compatibilmente con la natura sommaria del procedimento.
5. C’è davvero bisogno di una norma risolutiva della questione? Il legislatore come potrebbe bilanciare le scelte in materia autodeterminazione individuale del sanitario e di diritto collettivo alla salute improntandole a razionalità e proporzionalità, canoni su cui la Corte costituzionale ha insistito ancora di recente?
Fabrizio Amendola Ho avuto occasione di occuparmi della responsabilità del datore di lavoro, sia civile che penale, in caso di malattia da coronavirus contratta dal lavoratore («Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia», Bari, 2021). Ho riflettuto, tra l’altro, sul fatto che il Covid-19 ha rappresentato una sopravvenienza nei rapporti di lavoro che ha inciso sull’originario assetto di interessi e, innanzi ai mutamenti, il giurista deve chiedersi se i fenomeni nuovi vadano governati con gli strumenti concettuali e dogmatici esistenti, ovvero se occorra cercare ricostruzioni inedite o addirittura propendere per nuovi interventi della legge. In ogni caso ha il doveroso compito di trovare soluzioni che siano coerenti con il sistema ordinamentale su cui la sopravvenienza impatta.
Riterrei che, nella materia dell’obbligo vaccinale, solo un intervento specifico e consapevole del legislatore potrebbe dare luogo ad una soluzione che possa dirsi compatibile con il sistema, per di più sgombrando il campo da soluzioni opinabili che lascerebbero gli operatori, soprattutto quelli in prima linea in ambiente sanitario, esposti all’incertezza delle diverse opzioni interpretative.
Mi appare dirimente il rilievo che, secondo la giurisprudenza costituzionale in materia di vaccinazioni, “l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto di ciascun individuo e con la salute della collettività” (per tutte: Corte cost. n. 258 del 1994, che richiama Corte cost. n. 307 del 1990 e n. 218 del 1994, e che è stata seguita, più di recente, da Corte cost. n. 268 del 2017 e n. 5 del 2018). Questo delicato “contemperamento” tra plurimi valori costituzionali non può che spettare esclusivamente al legislatore, il quale deve esercitarlo in modo mirato, articolando il contenuto dell’obbligo nella misura in cui assicuri la prevenzione necessaria, con il corredo di norme strumentali e sanzionatorie, le quali, a loro volta, concorrono in maniera sostanziale a conformare l’obbligo stesso, alla stregua delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche e dell’evoluzione della ricerca medica. Solo un plesso normativo così specificamente predisposto è in grado di calibrare il bilanciamento tra diversi interessi e la discrezionalità del legislatore in tal modo esercitata risulta poi eventualmente soggetta ad un sindacato di ragionevolezza ad opera del Giudice delle leggi. Mi domando come possa essere realizzato tutto ciò, affidandosi all’architettura di un insieme di norme diffuse raccolte dall’interprete in vari ambiti e dettate ad altri scopi e per altre ragioni.
Raffaele De Luca Tamajo La legge risulterebbe chiarificatrice in ordine alle conseguenze del rifiuto, potendo, tra l’altro, mettere a tacere l’obiezione che i vaccinati, al pari dei non vaccinati, sarebbero pur sempre in condizione di contagiare i terzi, sicché – a parità di rischio – non vi sarebbe la necessità di coartare i renitenti. Andrebbe, viceversa, chiarito che – stando alle più recenti evidenze statistiche internazionali – le probabilità che il vaccinato sia fonte di contagio per i terzi sono basse e, comunque, inferiori a quelle di un più possibile contagio da parte di un non vaccinato.
Vincenzo Antonio Poso La mia risposta è sì: in primo luogo, perché le politiche di vaccinazione volontaria, per quanto estese e condivise dalla collettività, non consentono (quasi) mai il raggiungimento di coperture vaccinali efficaci (e l’immunità c.d. di gregge); in secondo luogo, perché è necessario assicurare un unico regime a livello nazionale (su questo punto ritornerò dopo), per evitare fughe in avanti o arretramenti delle Regioni, che, anche (e soprattutto) in questa situazione, hanno dimostrato, in più occasioni, scarsa disponibilità al dialogo con lo Stato ( e le autorità sanitarie nazionali) e arroccamento su posizioni di autonomia autoreferenziale.
Ma andiamo con ordine, partendo da lontano. Il Comitato Nazionale per la Bioetica già in un parere del 22 settembre 1995 (“Le vaccinazioni”) pose il problema delle vaccinazioni in tutta la sua complessità (“problemi di facoltatività, di obbligatorietà e di coattività, problemi di rapporto costi-benefici, problemi di consenso, problemi di alternatività”) nei termini di una “prospettiva di ampio respiro, nella quale il bene di cui si va alla ricerca è insieme il bene del singolo e il bene di tutti”, senza escludere modalità più incisive tra le quali anche la coercizione esplicita, proponendosi lo scopo di una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti, sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio. In una mozione del 24 aprile 2015 (“L’importanza delle vaccinazioni”) di fronte all’allarme suscitato dalla recrudescenza del morbillo, anche in conseguenza della diminuzione della copertura vaccinale, ritorna su questo tema, richiamando, in maniera più incisiva, la responsabilità personale e sociale per assicurare una copertura adeguata per le vaccinazioni obbligatorie e per quelle solo raccomandate, senza escludere l’obbligatorietà della vaccinazione in caso di emergenza.
Questa posizione è richiamata nel recente parere del 27 novembre 2020 “I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione”, espresso sempre dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che, pur ribadendo il rispetto dell’autonomia individuale e della spontanea adesione, non esclude un’imposizione autoritativa del vaccino, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della di diffusione della pandemia lo consentano, ritenendo legittimi i trattamenti sanitari obbligatori in caso di necessità e pericolo per la salute delle singole persone e della collettività ( sul punto si possono richiamare le sentenze di Corte Cost. 307/1990 e 258/1994). Questo il punto centrale, che qui interessa: “Pertanto, nel caso in cui questa pandemia, che mette a rischio la vita e la salute individuale e pubblica, tanto più qualora non si disponga di nessuna cura, il Comitato ritiene eticamente doveroso che vengano fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso l’adesione consapevole. Nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, il Comitato ritiene inoltre che – a fronte di un vaccino validato e approvato dalle autorità competenti - non vada esclusa l’obbligatorietà, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus. Tale obbligo dovrebbe essere discusso all’interno delle stesse associazioni professionali e dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo per la collettività”.
Il perimetro costituzionale, come è noto, è segnato dall’art. art. 32, comma 2, Cost., ma merita richiamare anche la legge 219/2017, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (sul diritto alla libertà di cura v., tra le ultime, le sentenze di Corte Cost. 242/2019 e 207/2018).
Questo è il problema etico; resta il problema giuridico. Si impone, quindi, una scelta del legislatore che, giustamente, alcuni hanno considerato coerente con i principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze 218/94 e 258/94, proprio nella prospettiva di evitare rischi per la salute dei terzi e per realizzare un virtuoso bilanciamento tra la salute del singolo individuo e la salute collettiva, realizzata anche, e soprattutto, dalle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.
Nessun obbligo può essere imposto senza l’intervento del legislatore, come pure qualcuno ha ritenuto possibile richiamando le norme fondamentali sulla sicurezza del lavoro, prime fra tutte l’art. 2087 c.c. e del d.lgs. 81/2008, nel perimetro degli obblighi non solo del datore di lavoro (art.18), ma anche dei lavoratori (art. 20). E, come ho anticipato sopra, l’intervento del legislatore, necessitato anche dalla previsione costituzionale dell’art. 32, c. 2, Cost., porterebbe nell’alveo nazionale una scelta che, anche su questo specifico punto, non può essere di rango regionale ( in proposito mi limito a richiamare la recente sentenza della Corte Costituzionale 37/2021 che ha dichiarato l’illegittimità di diverse norme della l. 11/2020, della Regione autonoma della Valle d’Aosta confermando che la materia della profilassi internazionale, sancita dall’art. 117, c. 2, lett. q, Cost., non spetta alle Regioni, nemmeno a statuto autonomo, ma rientra nella competenza esclusiva dello Stato).
Aggiungo che la riserva di legge è assoluta e non sono consentiti atti normativi secondari derivanti dalla legge.
Un’ultima osservazione. Come da alcuni è stato osservato, le soluzioni date sono due: obbligo o libertà di scelta, tertium non datur. Dal precetto obbligatorio ne conseguiranno le sanzioni; ma se la scelta resta libera (come ora) anche io credo che non sia possibile condizionare alla avvenuta vaccinazione l’esercizio di diritti fondamentali della persona, che non possono subire alcuna diminuzione.
Non possiamo, però, sottovalutare le problematiche connesse alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale anti Covid -19, che si potrebbero porre in futuro, ma che il legislatore attento (e intanto il Governo, visto che si parla di una misura da introdurre con decreto-legge) dovrebbe valutare sin da ora, anche perché il tema dei vaccini obbligatori nei confronti degli adulti in modo generalizzato non è stato mai affrontato dalla Corte Costituzionale (a differenza, ad esempio, delle materie riguardanti i vaccini obbligatori per i minori e le ipotesi di indennizzo per i danni derivanti dalle vaccinazioni non obbligatorie).
Dirimenti saranno le acquisizioni della scienza medica sugli effetti del vaccino per chi lo riceve e nei confronti degli altri, se, come in passato è accaduto (cito, per tutte, le sentenze n. 307/1990 e 258/1994), la Corte Costituzionale , al fine di affermare la liceità dell’obbligo vaccinale, nel rispetto dell’art. 32, Cost., valuterà “…se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”.
C’è da chiedersi, anche, se una legge che imponga agli adulti trattamenti sanitari obbligatori, contrasti, e in che misura, con il diritto alla libertà di cura e al consenso informato, che pure sono considerati valori a protezione costituzionale.
Una cosa è certa, se il legislatore farà una legge per imporre il vaccino anti Covid-19 dovrà stabilire anche le sanzioni derivanti dalla sua inosservanza, sol che si consideri quanto blande siano quelle conseguenti alla violazione dell’obbligo vaccinale per i minori (sanzioni amministrative e condizione di accesso solo alle suole dell’infanzia e agli asili).
6. Ritiene che una simile disposizione andrebbe estesa ad altri lavoratori addetti a servizi pubblici essenziali?
Fabrizio Amendola Compito del legislatore è anche quello di individuare esattamente i destinatari dell’obbligo vaccinale, valutando la corrispondenza tra il mezzo utilizzato ed il fine perseguito con criteri di proporzionalità e di coerenza logica. Il Parlamento è il luogo della sintesi elettiva che pondera i diversi interessi ed individua il perimetro dell’intervento, stabilendo il confine dove la prerogativa della persona di autodeterminarsi al trattamento sanitario cede il passo alla salvaguardia della salute collettiva ed individuale, con assunzione della responsabilità politica che ne deriva innanzi al Paese.
Non immagino un intervento generalizzato, bensì un criterio selettivo volto a scomporre e differenziare le situazioni, distinguendole non solo in base alla tipologia delle mansioni e al settore operativo, ma anche in rapporto alla maggiore o minore esposizione verso l’esterno dell’attività prestata. Magari in correlazione con quella scala di presunzioni disegnata dalla circolare n. 13 del 2020 dell’INAIL, per cui è ragionevole ritenere che laddove lo Stato assuma l’onere di indennizzare l’infortunio occasionato dal contagio in modo pressoché automatico, si può esigere la sottoposizione ad un trattamento sanitario obbligatorio in nome della salute pubblica. Possiamo comunque confidare nella fortunata evenienza che l’attuale Ministro della Giustizia è anche la redattrice dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 5 del 2018 che rappresenta, a mio avviso, il migliore prontuario operativo per il legislatore che voglia consapevolmente cimentarsi con il tema delle vaccinazioni obbligatorie.
Raffaele De Luca Tamajo Ai fini della necessità della vaccinazione non rileva la essenzialità del servizio reso, ma semmai il contatto frequente o prolungato tra gli addetti e i clienti o tra gli addetti tra loro. Il problema allora è di carattere generale e investe quasi tutti i luoghi di lavoro, anche se diversamente dai sanitari non attiene all’oggetto del contratto di lavoro.
Il tema pertanto è molto delicato, ma sarei incline a ritenere che anche qui, in ragione della peculiare e grave situazione epidemiologica, il bilanciamento tra la libertà dell’individuo di amministrare la propria salute e la tutela della salute collettiva debba pendere tutto a favore di quest’ultima. Naturalmente questa è solo una prevalutazione ideologica, occorrendo corroborarla con un sostegno tecnico-giuridico o, meglio ancora, con un chiaro intervento normativo.
Sul primo versante si potrebbe pensare ancora una volta all’obbligo del lavoratore di cooperare con il datore di lavoro per la messa in campo di ogni misura prevenzionistica, così da far rientrare l’obbligo vaccinale in questa dimensione di precauzione e da estenderlo a tutti coloro che operano a contatto con il pubblico o gomito a gomito con altri lavoratori. Anche in tal caso, tuttavia, occorrerebbe riconoscere un ruolo rilevante al “medico competente”, superare ogni ostacolo (derivante da eccessive preoccupazioni di privacy) alla conoscenza datoriale della condizione di lavoratore non vaccinato e potrebbe darsi luogo alla sospensione solo dopo che siano state verificate le possibilità di lavoro da remoto, di spostamento a diverse mansioni che non contemplano contatti, di ricorso alle ferie o ai congedi retribuiti.
Vincenzo Antonio Poso In coerenza con le mie risposte precedenti, la risposta a questa domanda è semplice: certamente sì. Se partiamo dal presupposto che la vaccinazione anti Covid-19 serve a proteggere non solo se stessi, ma l’intera collettività, non ha senso riservarla solamente agli operatori del settore sanitario.
È indiscutibile che nel settore sanitario l’incidenza del rischio sia maggiore rispetto ad altri settori, ma quanto meno tutti gli addetti ai servizi essenziali dovrebbero essere coinvolti. E non sono pochi. Ho trovato stucchevole la polemica sulla vaccinazione prioritaria che alcune regioni, come quella Toscana, hanno riservato al personale, tutto, addetto al comparto della giustizia, perché la ragione della preferenza è del tutto evidente.
Ma poi mi sono chiesto se non fosse stato meglio individuare, sin dall’inizio e con criterio fissato a livello nazionale, le categorie più fragili e maggiormente esposte al rischio del contagio, da proteggere con priorità, attingendo da quelle che operano in tutti i servizi essenziali e procedere, poi, in ragione dell’anzianità».
Le conclusioni
Marcello Basilico L’interferenza del tema vaccinale con gli obblighi insiti nel contratto di lavoro subordinato introduce – con caratteristiche del tutto proprie – un altro elemento d’incertezza nell’applicazione delle categorie giuslavoristiche, mai sotto tensione come in questa fase storica per l’invadenza della tecnologia in ogni forma di attività umana, per l’evoluzione dei fenomeni socio-economici e, ora, per gli effetti sociali della pandemia. Alla base di quest’ultima emergenza c’è la matassa del difficile bilanciamento tra libertà individuali e tutela della collettività, che i giuristi sono chiamati a dipanare in più settori dell’ordinamento, nella consapevolezza dell’inevitabile approssimazione di ogni intervento normativo in una vicenda così travolgente e nuova.
La pluralità delle idee e delle soluzioni emerse dal dibattito tra i tre illustri intervistati dimostra la controvertibilità delle questioni sul tappeto. Ma c’è dell’altro. Se da un lato l’intervento legislativo è giudicato utile anche da parte di chi ravvisa nel quadro normativo la possibilità di ricavare un obbligo vaccinale per gli operatori sanitari e socioassistenziali, d’altro canto non vi sono illusioni sulla capacità definitivamente chiarificatrice della norma in gestazione presso i Ministeri competenti.
Pare non secondario, peraltro, il concorde richiamo degli autori – e sotto più profili – alla sentenza della Corte costituzionale 5/2018, la quale si era pronunciata sulle questioni sollevate verso più disposizioni del d.l. 73/2017 (conv. nella legge 119/2017), allorché una Regione voleva censurare la scelta centralizzata d’introdurre l’obbligo di sottoporre a dieci vaccini i minori sino a sedici anni d’età, accompagnata, in caso di violazione, da sanzioni amministrative pecuniarie e dal divieto di accesso ai servizi educativi per l’infanzia.
La Consulta aveva ricondotto l’intervento legislativo ai principi fondamentali conferiti allo Stato dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di “tutela della salute”, e ritenuto legittime le disposizioni in questione escludendo l’irragionevolezza del sacrificio della libera autodeterminazione individuale. E’ interessante ricordare come per la Corte la tendenza al calo delle coperture vaccinali, desunta da più fonti pubbliche, sia, in presenza d’una situazione “preoccupante” sul territorio italiano con riferimento alle malattie prevenibili mediante vaccino, criterio di valutazione dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost. e, al contempo, parametro di razionalità nel bilanciamento tra le opposte esigenze in gioco.
V’è un’ulteriore aspetto non sempre evidenziato. Riguarda la minore “distanza tra raccomandazione e obbligo”, che i giudici di legittimità hanno colto nella pratica sanitaria rispetto ai rapporti giuridici: il tasso di analoga doverosità percepita tra questi due concetti in ambito medico, infatti, stempera la portata innovativa d’un intervento che renda obbligatoria in quel contesto la vaccinazione.
Com’è stato evidenziato, era relatrice di quella sentenza l’attuale Ministra della giustizia. E’ possibile dunque che parte del ragionamento articolato allora dalla Corte sia alla base della nuova disciplina vaccinale destinata agli operatori di sanità e servizi socio-assistenziali.
Per intanto Giustizia Insieme si porta avanti col lavoro, iniziando già a interrogarsi se e in che misura l’intervento legislativo imminente potrà influire, pur non regolandolo, sul rapporto lavorativo di altre categorie di addetti a servizi pubblici essenziali. C’è da augurarsi che il mondo del diritto, in particolare quello degli interpreti, sia all’altezza dei problemi che l’emergenza genera costantemente. Per parte nostra, inseguiamo senza tregua l’attualità anche per provare a fornire un supporto in tale direzione.