Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. Per una riforma dell’art. 12 delle preleggi al codice civile [1]
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi - 2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile - 3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale - 4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti.
1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi
1.1. Dentro la stessa cultura giuridica, i giuristi e i giudici svolgono due ruoli differenti: i primi rispondono a domande del tipo “quale significato può essere attribuito all’enunciato X?”; i secondi rispondono a domande del tipo “quale significato deve essere attribuito all’enunciato X ?” [2].
Entrambe le categorie e, in generale, tutti gli interpreti del diritto si trovano a affrontare il problema nodale della scelta dei criteri interpretativi, che magari non conducono ai 144 modi diversi di interpretare una stessa disposizione − tramite l’applicazione combinata dei vari criteri (letterale, sistematico, storico, a contraris, a fortiori, ab exemplo, psicologico, teleologico, analogico, della sedes materiae, et cetera) calcolati da Lombardi Vallauri − ma certamente sono plurimi.
Molti codici civili e qualche codice penale tentano di limitare la discrezionalità degli interpreti nelle scelte esegetiche con disposizioni sulle tecniche che possono e/o debbono essere impiegate nell’applicazione delle leggi.
Si è osservato, al riguardo, che l’interpretazione è «un’attività mentale, in quanto tale non suscettibile di regolamentazione», sicché, malgrado le apparenze, le disposizioni che pretendono di disciplinarla sono, in realtà, non già regole sull’interpretazione, ma piuttosto regole sull’argomentazione dell’interpretazione prescelta, quale che sia il processo mentale (del resto inconoscibile) attraverso cui l’interprete è pervenuto a quella conclusione»[3].
Inoltre, in alcuni ordinamenti i giudici sono autorizzati a usare più tecniche senza seguire una gerarchia, per cui il tentativo di circoscrivere e indirizzare la loro discrezionalità risulta inefficace, tanto più che spesso i metodi dell'interpretazione sono defettibili perché implicitamente ammettono delle eccezioni che non possono essere enumerate in anticipo: a ogni criterio è possibile opporne un altro che condurrebbe a una conclusione interpretativa differente.
1.2. In realtà, ancora prima che fra i diversi criteri interpretativi, l’interprete deve scegliere tra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati.
La metodologia dei metodi presuppone una scelta fra i metodi fondamentalmente sulla base del ruolo istituzionale che l’interprete si riconosce rispetto al diritto legislativo. In altri termini, questa scelta non poggia su argomenti che non strettamente giuridici ma lato sensu politici (la certezza del diritto, la separazione dei poteri, l’efficacia della normazione, et cetera) che inducono gli interpreti a sottacere il criterio metodologico che indirizza le loro argomentazioni. Una importante conseguenza di questa condizione è che i ragionamenti risultano non stringenti perché le maglie delle inferenze basculano, o saltano: la componente deduttiva del ragionamento si riduce e l’argomentazione si fa entimematica[4]. Invece, proprio questi nodi originari dei ragionamenti andrebbero sciolti con un linguaggio chiaro che renda esplicita l’assunzione di responsabilità ermeneutica[5].
La metodologia dei risultati sceglie il metodo sulla base degli obiettivi da realizzare volta per volta nella singola decisione. Poiché i criteri interpretativi risultano tra loro complementari e variamente intrecciabili, la preferenza conferita all’uno invece che un altro si fonda su ciò che nel singolo caso un determinato criterio interpretativo può offrire come risultato.
Certamente la parificazione dei diversi metodi è la condizione più funzionale alla scenografia legalistica caratterizzante l’approccio giuspositivista (che permette di trarre risultati interpretativi fra loro divergenti basandosi sulle stesse regole legislative) e la scelta di una strategia esegetica eclettica, si rivela tanto più efficace nel produrre il risultato mirato quanto più è mantenuta criptica.
1.3. Invece, ciò che legittima l’attività giurisdizionale e, in generale, quella degli interpreti qualificati del diritto è la chiara determinazione del perimetro del ruolo istituzionale secondo il quale si svolge.
Rispetto a questa determinazione vale l’esigenza fondamentale di frenare − ricorrendo alle risorse che la tecnica legislativa può offrire − la surrettizia inserzione di valori personali (travestiti da principi normativi in realtà inesistenti) nel percorso della interpretazione dei dati normativi.
Ne deriva la seguente questione: è possibile creare le condizioni per una metodologia dei metodi che non si risolva in una metodologia dei risultati?
Non si può affermare con sicurezza (anche se qualcuno lo fa[6]) se nelle prassi la seconda metodologia sia quella più comunemente adottata per giungere alle decisioni, ma è comunque facilmente riscontrabile che i criteri interpretativi adottati nelle motivazioni delle sentenze sono ordinariamente utilizzati senza gerarchie che diano loro un ordine. Si va dal criterio letterale, a quello storico, dalle valutazioni di sistema a quelle teleologiche ristrette alla singola norma, dall’interpretazione conforme (alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE) a opzioni di natura pragmatica, seguendo argomentazioni spurie.
Può presumersi che anche molte delle difficoltà della Corte di cassazione a esprimere orientamenti uniformi non dipendono soltanto dall’eccessivo numero dei ricorsi e dai limiti della sua organizzazione interna ma dalle stesse ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito.
Questa condizione è aggravata dalla crisi della democrazia rappresentativa, che nel ridimensionare il ruolo del potere legislativo influisce anche sulla legittimazione del potere giudiziario a esercitare la sua funzione che nel nostro ordinamento si fonda sull’essere interpreti della volontà del legislatore, che deve essere a sua volta espressione della volontà dei cittadini[7].
2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile
Nel nostro ordinamento, il legislatore ha disciplinato disciplina l’attività ermeneutica con gli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ.
L’articolo 12 delle preleggi – che nella rubrica è denominato interpretazione della legge, mentre nel suo testo si riferisce all’applicazione della legge – fra i criteri ermeneutici considera solo quello letterale, quello dell’intenzione del legislatore e quello analogico (in entrambe le sue forme: analogia legis e analogia iuris).
Tuttavia, come ogni altra disposizione, anche l’art. 12 disp. prel. cod. civ. deve essere interpretato.
Soprattutto va inteso secondo il contesto storico in cui fu posto.
In un suo insostituibile saggio del 1969, Gino Gorla spiegò, sulla base di una ricca analisi storica di precedenti disposizioni analoghe, che l’art. 12 delle preleggi al codice civile non tratta dell’interpretazione della legge in generale[8].
In realtà, con questa disposizione si intese circoscrivere i modi di applicare le norme espresse per i vari casi alla risoluzione delle controversie demandate ai giudici.
In effetti, l’art. 12 delle preleggi riguarda fondamentalmente l’applicazione del codice civile alle controversie.
L’opinione tralaticia che gli artt. 12 e 14 delle preleggi pongano e risolvano il problema delle regole di interpretazione della legge costituisce una estrapolazione che risulta indebita nel suo prolungarsi oltre il campo normativo delineato da codice civile, ossia da un testo legislativo, dotato di una solida architettura concettuale, nel quale le questioni inerenti alla individuazione delle rationes e alla interpretazione sistematica sono state oggetto di precise e ponderate scelte legislative che le hanno in gran parte impostate e già risolte.
Se questo è vero, l’art. 12 delle preleggi al codice civile del 1942 non pone e (quindi) non risolve tutte le principali questioni che sorgono circa l’interpretazione dei dati legislativi in generale (che sia così, del resto, lo mostrano, con evidenza, le differenti prassi ermeneutiche nei vari settori del diritto). Esso è costruito fondamentalmente in relazione al problema della lacune delle norme ma non fornisce indicazioni circa i percorsi da compiere per comporre fra loro le norme secondo corretti criteri logico-giuridici. Né aveva la necessità di farlo all’interno di una architettura normativa ben composta qual è quella del codice civile italiano del 1942.
Certamente gli articoli 12 e 14 delle preleggi restano dei prismi che rifrangono importanti questioni relative alla interpretazione della legge e al rapporto fra il legislatore e i giudici. Tuttavia, non risultano adeguati rispetto alle attuali questioni interpretative che non riguardano tanto l’interpretazione di singole disposizioni all’interno di un testo legislativo ordinato concettualmente ma la loro interpretazione sistematica (plurisussunzione) in un contesto normativo in larga parte decodificato e caratterizzato da una pluralità di fonti eterogenee poste a diversi livelli e non sempre secondo una gerarchia ben definita.
In quei coacervi di testi legislativi che compongono gli ordinamenti giuridici contemporanei, il significato di una disposizione-norma non deriva soltanto dal singolo enunciato ma dal discorso generale entro cui si inserisce (norma-ordinamento). Anzi, in un tale contesto, la scelta interpretativa fondamentale spesso sta nell’individuare l’articolarsi delle fonti del diritto pertinenti al caso da trattare.
3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale
3.1. La Costituzione e, per via diversa, il diritto comunitario hanno rimodellato l’ordinamento giuridico e la coerenza dell’interpretazione giuridica va ora cercata anzitutto rispetto ai principi costituzionali − che costituiscono i principali fattori dell’unità dell’ordinamento − sicché acquistano nuova forza gli argomenti fondati sulle rationes.
La Corte costituzionale afferma il dovere del giudice di adottare, tra più possibili interpretazioni di una disposizione, quella idonea a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale (dovendo sollevare la questione di legittimità costituzionale solo quando la lettera della norma sia tale da precludere ogni possibilità ermeneutica idonea a offrirne una lettura conforme a Costituzione).
Per questa via introduce un canone ermeneutico che si incentra sulle rationes delle norme.
L'interpretazione alla luce della ratio, che non sia in contrasto inconciliabile con il significato letterale della disposizione (Corte cost. n. 692 del 1988, Sez. Un. civ. n. 6518 del 1987), si fonda sull’argomento della razionalità, secondo il quale, tra più significati possibili, deve preferirsi quello che corrisponde alla ratio sia della specifica norma sia del sistema che la contiene e una regola conforme alla sua ratio supera un primo vaglio di costituzionalità nel senso che è conforme al principio (costituzionale) di razionalità normativa.
In questa prospettiva è evidente che l’interpretazione fondata sulla ratio e l’interpretazione sistematica si interpenetrano[9].
Su queste basi può affermarsi che il sopravvenire (rispetto all’art. 12 delle preleggi al codice civile) dei principi costituzionali e della giurisprudenza della Corte costituzionale, conduce a reinterpretare, a sua volta, lo stesso l'art. 12 delle preleggi nel senso di privilegiare la «connessione» delle parole legislative rispetto al dato letterale)[10].
L’esito può anche essere una interpretazione antiletterale che assume che l’interpretazione letterale è necessaria ma non sufficiente per individuare il significato di un testo linguistico perché la considerazione del contesto nel quale si inserisce una disposizione normativa può condurre a una sua interpretazione (almeno apparentemente) antiletterale (Cass. civ., Sez. 5, n. 14376 del/06/2007, Publiemme, Rv. 599325). L’idea – espressa nella sentenza – e che il valutazione di chiarezza circa un testo e la necessità di una sua interpretazione non sono antitetiche: non basta che un testo sia chiaro perché esso non richieda di essere interpretato quando non vi è accordo sul suo significato nel contesto in cui si colloca. Nella stessa sentenza si osserva: «il contesto nel quale s'inserisce una disposizione normativa è un fenomeno più vasto e più complesso di quello fissato dalla connessione delle parole in una proposizione. Il contesto normativo è l'insieme delle disposizioni normative di un ordinamento giuridico e delle formule non poste, cioè della formule prodotte dalle fonti non scritte. Nell'interpretazione normativa si deve tener conto anche di questo secondo contesto e non si può escludere che, utilizzando le molteplici e complesse tecniche elaborate dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza, non si possa e non si debba giungere sia ad estrarre più significati dalla stessa formula letteraria, a seconda del contesto nel quale si opera, sia a giungere addirittura ad un'interpretazione antiletterale o solo apparentemente antiletterale»[11].
In queste condizioni si innestano operazioni come la re-interpretazione (Re-interpretation, Umdeutung) − un processo di interazione tra testo e interprete dove questi ha il problema di trovare un senso coerente e compiuto nel quale integrare l'interpretazione dell'elemento di disturbo, del segmento incompatibile con gli altri, tramite una retroazione ermeneutica con la quale si abbandona una precedente interpretazione in actu di un anteriore segmento di un testo − o come la selezione retroattiva di senso, che attualizza una delle interpretazioni compossibili di un dato normativo, interpretazioni in potentia nessuna delle quali ancora attuata[12].
Nel campo del diritto penale sostanziale questo tipo di operazioni a volte incontra delle inibizioni in posizioni come quella espressa nella massima (non recente) secondo la quale «il criterio della individuazione del bene giuridico protetto non può valere ad inficiare principi essenziali, come quelli di legalità e tassatività, che costituiscono la chiave di volta del sistema penale. Non è pertanto consentito all'interprete ridurre sia pure in bonam partem, il contenuto della previsione normativa, introducendo in essa un elemento estraneo, mutuato dalla identificazione, spesso problematica, del bene giuridico, del quale la medesima costituirebbe proiezione e protezione. È questa un'operazione interpretativa, che non è legata ad un metodo di logica assiomatica e rientra quindi nella semplice logica argomentativa» (Sez. 3, 7576 del 25/03/1983, Torti, Rv. 160264).
3.2. In definitiva, la razionalizzazione dei testi legislativi ordinariamente non si impernia soltanto sulla ratio legis ma attinge alla complessiva ratio iuris: la volontà legislativa non può riferirsi soltanto a quella del legislatore storico concreto ma va riconsiderata alla luce del sistema in cui la disposizione inserisce. Per questa via, sebbene non possa giungersi a stravolgere il significato letterale dei testi legislativi, si accampa nello spazio della interpretazione il principio di ragionevolezza in termini anzitutto di razionalità sistematica (coerenza), ma anche di efficienza strumentale (congruenza, pertinenza, proporzionalità) e di giustizia-equità [13].
In questo contesto, non rilevano soltanto la contraddittorietà o la contrarietà semantica fra gli enunciati legislativi ma anche la incongruenza fra fini, principi e rationes normative: una disposizione può non essere coerente con la qualificazione che dà della fattispecie, oppure con la sua ratio o con le rationes del settore normativo in cui si iscrive (contraddittorietà teleologica), o con i suoi concreti ambiti di applicabilità.
Su queste basi, è ammissibile una interpretazione correttiva della disposizione legislativa per ricavarne un significato anche meno prossimo di altri al significato letterale, ma comunque compreso nel suo orizzonte di senso, per pervenire a una interpretazione conforme alla sua ratio e, se sorgono dubbi di costituzionalità, dovrà privilegiarsi l’interpretazione che fuga tali dubbi.
Allora, il punto di partenza della interpretazione non è offerto più soltanto dal testo legislativo quanto dal problema ermeneutico da risolvere, sebbene la conclusione del procedimento interpretativo debba, comunque, sempre riferirsi al testo legislativo come reinterpretato nella sua collocazione nel sistema[14] .
In definitiva, l’argomento logico-sistematico consente di razionalizzare i testi (in particolare quando le formule linguistiche che li compongono non sono recenti) per la risoluzione del problema concreto.
Emerge il canone della «coerenza con l’intero sistema normativo» (che ha una implicita conferma nel secondo comma dell’art. 12, dove l’analogia legis e l’analogia iuris sono indicate come strumenti per colmare le lacune della legge) che richiede un metodo che assicuri la certezza del diritto, intesa non come prevedibilità dell’applicazione delle norme ma (minimalmente) come certezza della considerazione del principi posti dal legislatore, secondo il limite costitutivo della interpretazione giuridica che sta nella auto inibizione a porre (principi, rationes) diversi da quelli mirati dal legislatore. Per ridurre il rischio che questo avvenga, è opportuno sviluppare tecniche legislative che indichino, in modi manifesti (così da chiarirli anche ai loro autori), i principi che si vogliono implementare nel sistema delle norme[15].
4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti
4.1. Nella interpretazione dei dati normativi l’opzione (o le oscillazioni) fra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati è connessa alla assenza di una reale gerarchia fra i metodi.
Invece, nella ricostruzione dei fatti essa si traduce in una variegata gamma di errori epistemologici che spazia dalla semplice difficoltà a astenersi da giudizi per le conclusione dei quali manchino sufficienti premesse a una esasperata ricerca.
4.2. Il giudizio di cassazione relativo alle prospettazioni di vizi della motivazione nelle porzioni dei provvedimenti dei giudici di merito relativi alla ricostruzione dei fatti (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.; art. 360. comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) sicuramente offre molteplici occasioni per fissare, come la giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mancato di fare, alcuni principi al riguardo.
Tuttavia, rimane fondamentalmente un giudizio destruens perché è incentrato sulla rilevazione di illogicità − anzi di manifeste illogicità – nei ragionamenti, sicché soltanto in modo occasionale e in forme indirette può contenere delle indicazioni circa i corretti metodi da seguire per la ricostruzione dei fatti rilevanti per l’applicazione dei dati normativi.
Anzi, esorbiterebbe dal proprio ruolo la Corte di cassazione se, dopo avere rilevato una manifesta illogicità nel ragionamento, non si limitasse a annullare (con o senza rinvio secondo le specificità del caso) il provvedimento viziato ma si spingesse a esprimere valutazioni sugli elementi probatori o a indicare i dati da valorizzare o a tracciare un percorso da seguire nello sviluppo delle inferenze idonee a collegarli.
Il legislatore ha assegnato alla Corte di cassazione un compito minimale ma essenziale: annullare i provvedimenti dai contenuti manifestamente illogici: cioè privi delle condizioni necessarie per risultare logicamente accettabili.
Rinunciare (con modifiche legislative o per altre vie) a questo compito impoverirebbe le garanzie che il nostro sistema offre e che sono particolarmente opportune nella fase cautelare del procedimenti, quando le libertà personali e/o economiche delle persone possono essere compresse sulla base di dati non ancora dotati di una compiuta valenza probatoria.
Al riguardo occorre, però, la fissazione di canoni precisi[16]. Questo è possibile perché la logica formale lo consente secondo le sue norme, cioè in termini generali e astratti sotto i quali sussumere le fallacie riscontrabili nei ragionamenti censurati, certamente considerando i contenuti dei dati acquisti ma sulla base di criteri che non siano generati dal caso concreto.
Invece, indicazioni ulteriori, quelle idonee a delineare il percorso da seguire nel caso concreto per una ricostruzione dei fatti logica e persuasiva appartengono, appunto, alla sfera della mera logicità (rectius: della plausibilità o della persuasività) cioè a quella che si definisce la componente discrezionale o anche (con espressione criptica che è auspicabile divenga desueta) il merito del provvedimento. Quando accade che si impegni nel fornire indicazioni siffatte la Corte si indirizza verso un ruolo di giudice di terzo grado che non le compete e che non serve (anzi, in definitiva, nuoce) alla organizzazione giudiziaria.
Con il rischio, peraltro, di delineare una metodologia del metodo che, poiché elaborata in stretta relazione al caso concreto, potrebbe assumere i connotati di una (indesiderabile) metodologia del risultato.
[1] Relazione svolta presso Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Messina il 18/05/2021, nel seminario sul tema: L'art. 12 delle preleggi. Tra illusioni e prospettive di riforma.
[2] Interessanti spunti in: F. FOSCHINI, Interpretazione della legge e legistica: spunti di riflessione sull’interconnessione di questi due momenti dell’esperienza giuridica, in: Tigor: rivista di scienze della comunicazione, pp. 110-120.
[3] Così, ripetendo la posizione di Kelsen: R. GUASTINI, Interpretare, costruire, argomentare, in: Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, p. 24.
[4] R. GUASTINI, Teoria e ideologia dell’interpretazione costituzionale, in: Giurisprudenza costituzionale, 1, 2006, pp. 743 ss.
[5] Sulla necessità di un “rinnovamento culturale” delle forme di espressione dei provvedimenti giurisdizionali, sia nella loro struttura che nei contenuti, puntuali osservazioni in: M. BRANCACCIO, Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze, in questa Rivista, 14 luglio 2021.
[6] L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 2012; V. SPEZIALE, Le regole interpretative nella giurisprudenza, in: Lavoro e diritto, 2014, 2-3, pp. 273 ss.; P.Chiassoni, L'interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del "metodo tradizionale", in: Giornale di diritto del lavoro, 2008, 4, pp. 553. Sul tema anche: S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Milano, 1981.
[7] Sulla questione il recente: A. CORBINO, L’eredità ideologica della “politica” antica, Eurylink University Presse, Roma, 2021. Con postfazione di B. MONTANARI, L’eclisse del politico e la retorica democratica. pp. 163 ss.
[8] G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di dritto costituzionale?), in: Il Foro italiano, 1969, 5, pp.112-132; E.Spagnesi, Reminiscenze storiche di una formula legislativa, in: Foro italiano, 1971, 9, pp.99-118; A.Ciervo, Soltanto alla legge? Il problema dell'ermeneutica giuridica dall' articolo 12 delle preleggi all'interpretazione adeguatrice, in: Rivista critica di diritto privato, 4, 2010, pp.631-664; V. VELUZZI, Commentario al codice civile diretto da E.Gabrielli, 2012, pp. 210-301; G.Cian, Articolo 12 delle preleggi, in: G.Cian (a cura di) Commentario al codice civile, *, 2020, pp. 10-12
[9] L’argomentazione sistematica nelle sue varie forme (il combinato disposto, la coerenza, la congruenza, l’eccezione) e l’argomentazione per principi sono entrambe ricondotte alla categoria della giustificazione esterna ossia quella che consiste nell’addurre ragioni per considerare una norma come valida e applicabile al caso: D. CANALE-G.Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino, Giappichelli, 2020, 61 ss., 119 ss., 133 ss.
[10] M. Ruotolo, Per una gerarchia degli argomenti dell'interpretazione, in: Giurisprudenza costituzionale, 5, 2006, pp. 3418 ss.
[11] Per un commento: G. PELAGATTI Efficacia sociale del linguaggio ed interpretazione antiletterale, in: Corriere giuridico, n. 6, pp. 825 ss. La pronuncia citata nel testo ha un precedente in altra sentenza (Cass. civ. Sez. 5, n. 15133 del 30/06/2006, Sfredda, Rv. 591293) che ha ritenuto che una disposizione concernente l’espressione «i diritti e gli obblighi delle società estinte» dovesse essere interpretata come se il termine «estinte» non vi fosse affatto, in modo da considerare le società fuse ancora esistenti dopo la fusione.
[12] Sul tema: A. COSTANZO, Condizioni di incoerenza. Un’analisi dei discorsi giuridici, Milano, Giuffrè, p.16 ss.
[13] G. SCACCIA, Gli «strumenti» della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, Giuffrè, 2000, specie 1 ss. e 182 ss.192 ss.
[14]Pare questo l’esito proprio dei percorsi ermeneutici sorti dalla esigenza di valutare la compatibilità o la conformità di norme (ordinarie) con altre norme (costituzionali) di livello gerarchico superiore anche se resta banalmente vero (come sottolinea: R. GUASTINI, Ancora sull’interpretazione costituzionale, in: Diritto pubblico, 2005, pp. 457 ss.) che vale anche per l'interpretazione costituzionale tutto lo strumentario concettuale elaborato in sede di teoria generale dell'interpretazione giuridica. Fra tutti: F. MODUGNO, Metodi ermeneutici e diritto costituzionale, in: Idem, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, 42, 68 e 79.
[15] Questioni complesse sorgono quando i principi fondamentali si presentano come fra loro incompatibili: in queste situazioni il loro bilanciamento non può compiersi in astratto ma calibrandolo in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto. I disaccordi interpretativi radicali possono riguardare, in modo diretto, il contenuto delle disposizioni oggetto di interpretazione oppure, in modo indiretto, il modo di accostarsi alla loro interpretazione. Quelli più difficoltosi da risolvere riguardano l’interpretazione dei principi che riconoscono diritti fondamentali o i conflitti fa principi normativi, oppure l’applicazione delle clausole generali. V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Torino, Giappichelli, 2017, 5,43, 99.
[16] Mi permetto di rinviare sul tema a: A. COSTANZO, Anomia della illogicità manifesta, in: Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326.