Spunti per la riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa - 2. La specializzazione dei giudici tributary - 3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela - 4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario - 5. La giustizia predittiva - 6. L’indipendenza dei giudici tributari - 7. Le difese processuali - 8. Il giudizio di legittimità - 9. Conclusioni.
1. Premessa
La relazione finale del 30 giugno 2021 della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria[1] offre molti interessanti spunti di riflessione e discussione.
Prima di esaminare nel dettaglio le proposte avanzate in detta relazione, credo sia doveroso esprimere apprezzamento per l’atteggiamento pragmatico e libero da condizionamenti mostrato dalla Commissione. Essa ha individuato con puntualità le criticità dell’attuale assetto del processo tributario e ne ha delineato una possibile riforma, che appare sostanzialmente idonea ad assicurarne maggiori efficienza e celerità.
Forse, qualche ulteriore accorgimento avrebbe potuto prospettarsi per cercare di assicurare anche una maggiore aderenza di questo giudizio al principio, di rango sovranazionale e costituzionale, del “giusto processo”, ma avrò occasione di segnalarlo nello svolgimento di queste note di commento alla menzionata relazione finale.
2. La specializzazione dei giudici tributari
La relazione individua sette direttrici di azione per la possibile riforma del processo tributario.
Esse consistono:
1) nell’intervenire sui procedimenti tributari, ampliando il contraddittorio e il ricorso all’autotutela;
2) nel migliorare l’offerta complessiva di giustizia, con correttivi agli strumenti deflativi del contenzioso e, in specie, alla conciliazione giudiziale;
3) nel colmare il deficit di informazione sulla giurisprudenza tributaria;
4) nel rafforzare la specializzazione dei giudici tributari;
5) nel consolidare l’indipendenza dei medesimi giudici;
6) nell’apprestare migliori difese processuali degli interessi in gioco;
7) nel migliorare l’offerta di giustizia nel contesto del giudizio di legittimità.
Tutte le illustrate direttrici sono condivisibili e, come anticipato, lo sono pressoché tutte le proposte avanzate dalla Commissione con riferimento a esse.
Peraltro, su una delle direttrici più significative – quella concernente la specializzazione dei giudici tributari – la relazione prospetta due diverse opzioni, rimettendo la scelta su quale perseguire al Governo, prima, e al Parlamento, poi.
Le due soluzioni enunciate, seppur significativamente diverse (l’una consistente nella creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno che abbiano superato un pubblico concorso e l’altra volta alla conservazione della magistratura tributaria onoraria, seppur prevedendo – nella fase di appello e per le controversie più rilevanti – l’introduzione di sezioni composte da magistrati ordinari, amministrativi o contabili che optino per l’esercizio a tempo pieno delle funzioni giurisdizionali tributarie e da avvocati, commercialisti e docenti che si dedichino prevalentemente a tali funzioni), sono entrambe in grado di realizzare il fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari.
Infatti, tale specializzazione è raggiungibile, oltre che con l’istituzione di una magistratura speciale selezionata per concorso, anche grazie all’impegno in via esclusiva o prevalente degli odierni componenti delle Commissioni Tributarie.
Seppure a chi scrive appaia preferibile la prima opzione[2], non può sottacersi che la seconda consente di meglio preservare l’esperienza degli attuali giudici tributari, che non merita di essere dispersa.
Tant’è che, nell’immaginare la creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno vincitori di un pubblico concorso, si sarebbe forse potuto prevederne l’assunzione in misura tale da colmare, con cadenza annuale, le carenze di organico degli odierni giudici tributari da qualsivoglia ragione determinate. Per dirla semplicisticamente, tanti giudici “entrano” quanti ne “escono”. Così si otterrebbe un ordinato turn over nei ranghi dei giudici tributari, prevedendo una lunga fase transitoria con la compresenza dei nuovi giudici con gli attuali, che risulterebbero “in esaurimento”. Compresenza che potrebbe consentire una proficua condivisione di esperienze, nel segno al contempo dell’incremento della specializzazione dei componenti delle Commissioni Tributarie e dell’auspicata condivisibilità delle relative decisioni.
Tuttavia, come anticipato, la scelta fra le due soluzioni è eminentemente politica, ma – quale essa sia – è ragionevole attendersi che potrà conseguirsi l’auspicata migliore preparazione dei giudici tributari. E con essa l’indipendenza e la terzietà di costoro, che inevitabilmente ne discendono.
In ogni caso, e per concludere sul punto, occorrerà che i giudici tributari svolgano una costante e obbligatoria attività di formazione e aggiornamento, che è essenziale nella nostra materia e che ben potrà essere promossa e verificata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria.
3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela
La prima delle direttrici segnalate riguarda l’ampliamento del contraddittorio preprocessuale e dell’autotutela.
L’introduzione nello Statuto dei diritti del contribuente di una norma generale che riconosca il “diritto del contribuente al contraddittorio” è senz’altro positiva.
Per come tale norma è formulata, si prospetta una tutela del contraddittorio preprocessuale particolarmente spiccata.
Da un lato, il comma 1 dell’ipotizzato art. 6-bis dello Statuto, secondo cui “il contribuente ha diritto di partecipare al procedimento amministrativo diretto alla emissione di un atto di accertamento o di riscossione dei tributi”, consente di affermare che il contraddittorio si esplichi non solo prima che l’ente impositore o l’agente della riscossione notifichino l’atto che hanno adottato, ma anche in quella istruttoria. Quindi, in una fase in cui la giurisprudenza europea non riconosce il diritto al contraddittorio[3].
Dall’altro lato, il comma 2 dello stesso art. 6-bis, prevedendo che “l’atto emesso in violazione del comma precedente è nullo”, esclude la cosiddetta “prova di resistenza” richiesta dal vigente comma 5 dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997. Ciò, di nuovo, diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza europea[4].
Il primo dei profili evidenziati merita incondizionata condivisione. Il confronto nel momento in cui si forma il materiale istruttorio adducibile a sostegno dell’atto impositivo può rivelarsi proficuo per entrambe le parti del rapporto tributario. Sono numerose le occasioni nelle quali vengono compiute – pur in assenza di accesso nei locali ove opera il contribuente – attività istruttorie che, per la loro natura, palesano l’opportunità di un confronto fra l’organo procedente e il privato. Si pensi al rilascio di dichiarazioni da parte di soggetti terzi, al controllo dei dati bancari o ad altre attività in ordine alle quali l’anticipazione del confronto nella fase di raccolta degli elementi probatori può essere preziosa sia per l’ente impositore che per il contribuente.
Diversamente, possono avanzarsi dei dubbi sull’opportunità di escludere la menzionata “prova di resistenza”. È innegabile, difatti, come essa dissuada, indirettamente ma efficacemente, il privato da un approccio formalistico e strumentale al contraddittorio.
In subordine, la Commissione – forse conscia della profonda portata innovativa del menzionato art. 6-bis e delle resistenze che la sua approvazione potrebbe incontrare – suggerisce una modifica del comma 2 dell’art. 5-ter, restringendo più che opportunamente la deroga all’operatività del contraddittorio preventivo ai soli avvisi di accertamento parziale “fondati esclusivamente su dati in possesso dell’anagrafe tributaria”[5].
Anche l’approdo nello Statuto di una norma che renda obbligatoria l’autotutela è più che apprezzabile, oltre a risultare un’opzione del tutto legittima come ha riconosciuto pure la Corte Costituzionale con la sentenza n. 181 del 13 luglio 2017.
Opportuna anche la previsione di un termine, per così dire, di “sbarramento” al doveroso esercizio dell’autotutela (in caso di atti definitivi, decorsi due anni dal giorno dell’intervenuta definitività o, se posteriore, da quello in cui si è verificato il presupposto per la proposizione dell’istanza di autotutela da parte del privato). Ciò soddisfa la ben comprensibile esigenza di certezza dei rapporti giuridici nella materia tributaria.
Parimenti, appare perfettamente coerente con i principi che governano il processo tributario la necessità di impugnare il rifiuto espresso o tacito all’esercizio dell’autotutela in caso di atti definitivi. La previsione della tutela giurisdizionale rende effettiva la rilevata doverosità dell’autotutela.
Inappuntabile si rivela altresì l’estensione del termine di impugnazione del rifiuto tacito di rimborso (il ricorso può proporsi decorsi novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza e finché il diritto alla restituzione non è prescritto) al rifiuto parimenti tacito di avvalersi dell’autotutela da parte dell’ente impositore o dell’agente della riscossione.
4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario
La seconda direttrice concerne gli strumenti deflativi del contenzioso tributario.
Preliminarmente, è da condividere la scelta di non modificare l’odierno assetto del reclamo e della mediazione.
La creazione di un organo “terzo” cui rimettere detta mediazione, di cui da più parti si era segnalata l’opportunità, avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe potuti risolvere.
Prescindendo dalle difficoltà applicative e dagli oneri che tale scelta avrebbe determinato, si sarebbe spezzato l’essenziale nesso sussistente fra questo istituto e l’autotutela.
Il reclamo non potrebbe essere accolto da un organo diverso dall’ente impositore poiché ciò ne lederebbe le prerogative, volte ad assicurare il rispetto dei principi di legalità nella materia tributaria e di capacità contributiva. Prerogative che devono, però, essere esercitate con massime equanimità e trasparenza, al fine di evitare inaccettabili disparità di trattamento fra i privati e perché si possa realizzare un efficace filtro all’accesso alla giustizia tributaria.
Ben si comprende, quindi, perché il comma 4 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546/1992 affidi la gestione del reclamo e della mediazione a strutture “diverse ed autonome” da quelle che hanno consentito l’adozione degli atti reclamabili.
Obiettivo, questo, agevolmente raggiungibile per le Agenzie fiscali, in virtù delle relative dimensioni organizzative, ma non per molti enti locali – si pensi ai tanti piccoli Comuni presenti in Italia – chiamati ad accertare i tributi di propria spettanza.
Sarebbe pertanto auspicabile, per questi ultimi enti, la creazione di consorzi o l’affidamento delle funzioni di accertamento, liquidazione e riscossione ai soggetti contemplati dall’art. 53 del D.L.vo n. 446/1997[6], se dotati di adeguate autonome ripartizioni di competenze al loro interno.
Ciò potrebbe valorizzare la mediazione, che ha comunque consentito un significativo abbattimento delle liti tributarie e, soprattutto, ha stimolato un più diffuso ricorso all’autotutela.
La Commissione, invece, propone di intervenire sulla disciplina della conciliazione.
Scelta opportuna poiché è esperienza diffusa che le soluzioni stragiudiziali intervengono più diffusamente grazie alla mediazione che non alla conciliazione. Quindi, è da salutare con favore il tentativo di rafforzare questo istituto.
Le proposte formulate sono convincenti: l’aggravio della condanna alla refusione delle spese di lite in caso di ingiustificato rifiuto dell’ipotesi conciliativa e la possibilità, per le cause soggette alla disciplina del reclamo e della mediazione, che il giudice formuli alle parti una proposta conciliativa favoriranno un maggior ricorso alla conciliazione.
Si sarebbero, però, potute prendere in considerazione anche altre iniziative, parimenti tese a rendere più efficienti gli istituti deflativi del nostro contenzioso. In particolare:
a) si potrebbe prevedere la possibilità di conciliare le cause tributarie anche nella fase di legittimità: ne risulterebbe favorito l’abbattimento dell’enorme mole delle controversie fiscali pendenti di fronte alla Corte Suprema;
b) si potrebbero estendere alla conciliazione e all’accertamento con adesione i criteri di stampo squisitamente transattivo previsti per la mediazione (allorché l’ente impositore o l’agente della riscossione si risolva a formulare un’ipotesi di mediazione può far riferimento, stando al comma 5 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546, “all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”). Si eliminerebbe così una palese incoerenza del vigente sistema di soluzione stragiudiziale dei rapporti tributari perché con riferimento alla stessa obbligazione, interessata ad esempio da un atto di accertamento, il contribuente ha tre opzioni per evitare la lite o per porvi fine: in ordine di successione temporale, l’accertamento con adesione, la mediazione e la conciliazione. Di tali istituti solo la mediazione, l’unico obbligatorio a differenza dell’accertamento con adesione e della conciliazione, offre la possibilità di impiegare criteri transattivi, pur nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e correttezza che sempre devono caratterizzare l’operato, ai sensi dell’art. 97 Cost., dell’ente impositore e dell’agente della riscossione;
c) si potrebbe eliminare la sovrapposizione fra accertamento con adesione e mediazione, riservando quest’ultima ai soli atti impositivi e della riscossione non interessati dal procedimento di accertamento con adesione o per i quali detto procedimento non si è in concreto svolto. Non ha senso rinnovare il tentativo di soluzione stragiudiziale allorché quello intrapreso con l’accertamento con adesione è appena naufragato. Una volta radicato il processo, potrà eventualmente farsi ricorso alla conciliazione. Ovviamente, se si perseguisse questa iniziativa, occorrerebbe rivedere la misura dell’abbattimento delle sanzioni, prevedendo che spetti la riduzione contemplata per l’accertamento con adesione qualora si pervenga alla soluzione stragiudiziale in sede di mediazione.
5. La giustizia predittiva
La terza direttrice attiene alla necessità di colmare il deficit informativo, anche nell’ottica della cosiddetta “giustizia predittiva”.
Di nuovo, possono sposarsi senza remore le considerazioni e la raccomandazione svolte dalla Commissione interministeriale, che collimano pure con quanto si legge in ordine alla riforma della giustizia tributaria nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (in seguito, PNRR).
Si può solo osservare che anche i giudici tributari possono essere all’oscuro delle prese di posizione degli altri collegi all’interno della medesima Commissione Tributaria, oltre che delle altre Commissioni.
Ben vengano, dunque, le iniziative che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e le Agenzie fiscali adotteranno per rendere conoscibili a tutti gli operatori del nostro processo le pronunce di merito.
6. L’indipendenza dei giudici tributari
Della quarta direttrice, relativa alla specializzazione dei giudici tributari, si è già detto.
La quinta prospettiva di riforma ha per oggetto il consolidamento dell’indipendenza dei giudici tributari.
La Commissione non reputa necessario suggerire la collocazione dei giudici tributari presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o il Ministero della Giustizia.
Risulta, così, confermata la dipendenza, ovviamente dal punto di vista organizzativo, delle Commissioni Tributarie dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che retribuisce anche i magistrati tributari.
Tuttavia, ciò non concorre a consolidare l’indipendenza dei giudici tributari, in considerazione del fatto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla e indirizza l’attività delle Agenzie fiscali, che sono parti del nostro giudizio.
È indubbio che detto Ministero non eserciti alcuna forma di condizionamento dei giudici, ma il solo fatto che da esso ne dipenda la retribuzione getta un’ombra sugli organi del contenzioso tributario. Ombra che si potrebbe agevolmente dissipare prevedendo appunto che l’organizzazione delle Commissioni Tributarie e la retribuzione dei relativi membri competa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o al Ministero della Giustizia.
Viceversa, sono assolutamente da apprezzare i rilievi e le raccomandazioni, esposti dalla Commissione, sulle concrete modalità di determinazione dei compensi dei giudici tributari, sulla creazione di un apposito ruolo di dirigenti e impiegati al servizio del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e sul reclutamento e sulla formazione professionale del personale amministrativo addetto alle Commissioni Tributarie.
7. Le difese processuali
La sesta direttrice attiene all’introduzione di migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Probabilmente, è l’argomento su cui – a giudizio di chi scrive – la Commissione avrebbe potuto avanzare maggiori proposte.
Ma procediamo con ordine, esaminando anzitutto i suggerimenti recepiti nella relazione finale.
Il primo si sostanzia nel prospettato inserimento del comma 4-bis nell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992, in base al quale “Le Commissioni tributarie non possono porre a fondamento della propria decisione elementi di prova acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale”.
Sostanzialmente, la Commissione recepisce l’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui le sole prove acquisite in spregio di fondamentali principi costituzionali sono inutilizzabili[7].
Si tratta di una soluzione comprensibile, frutto del bilanciamento fra interessi contrapposti, quello volto ad assicurare la legittimità del procedimento istruttorio e la tutela dei diritti del privato, da una parte, e quello teso ad accertare la verità dei fatti controversi, dall’altra, in un processo – qual è quello tributario – avente a oggetto rapporti di decisiva rilevanza economica e sociale e in cui, conseguentemente, è spiccato l’anelito ad appurare detta verità.
Non può, peraltro, nascondersi come questa opzione presenti un inconveniente. Essa finisce per assecondare le condotte illegittime nel corso dell’istruttoria fiscale, beninteso diverse da quelle che si traducono nella lesione dei rammentati “diritti fondamentali di rango costituzionale”. Non vi sarà più alcun dubbio, per esempio, sul lecito impiego degli esiti delle indagini finanziarie svolte indebitamente.
V’è solo da esprimere l’auspicio che il giudice, pur ammettendo le prove acquisite illecitamente, evidenzi e stigmatizzi il contegno contra legem. Così risulterebbe almeno stimolata l’applicazione di misure disciplinari a carico dei verificatori che hanno violato le regole che sovrintendono la raccolta dei dati istruttori.
Inoltre, sarebbe opportuno che le Commissioni Tributarie, qualora dovessero respingere le tesi del privato valendosi di tali prove, evitassero di addossargli le spese processuali.
La seconda proposta della Commissione riguarda la non impugnabilità degli estratti di ruolo.
Essa è frutto della contingente e recente esperienza della sospensione delle notifiche delle cartelle di pagamento a causa dell’emergenza sanitaria, che ha determinato un eccezionale proliferare dei ricorsi avverso detti estratti.
Ad ogni modo, la norma suggerita è formulata in termini più che ragionevoli, poiché ammette il ricorso contro tali estratti quando obiettivamente si rende necessario tutelare le ragioni del contribuente, ossia per evitare l’esclusione da una procedura di appalto o per non incorrere nel blocco dei pagamenti da parte di soggetti pubblici.
Pure il terzo suggerimento che si legge nella relazione finale merita di essere condiviso. L’estensione della possibilità di difesa tecnica ai Centri di Assistenza Fiscale (CAF) per le liti di valore fino a 3.000 euro, anche se non riguardanti adempimenti dei propri assistiti, va nell’apprezzato senso di consentire un’assistenza adeguata e non particolarmente onerosa per le controversie di minor rilievo economico. E, sempre con riferimento al tema dell’assistenza tecnica, merita di essere sviluppata l’idea esposta dal Prof. Franco Gallo, audito dalla Commissione, di imporre a chiunque sia abilitato al patrocinio innanzi alle Commissioni Tributarie di rispettare una sorta di “codice etico”, ossia regole deontologiche idonee a indirizzare un contegno probo e leale dei difensori nei rapporti con i propri assistiti, con le controparti e con il giudice.
Grazie al quarto consiglio si prospetta finalmente l’abrogazione dell’inaccettabile vigente divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario.
Non rinnovo qui l’indicazione delle ragioni che militano contro tale divieto[8]. Ed esprimo, perciò, sincero apprezzamento per il fatto che la Commissione abbia assunto l’iniziativa volta a elidere questa anomalia del nostro processo.
Al contempo, però, segnalo che si sarebbe potuto osare di più.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova per testi emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze. Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe essere importante chiamare a teste il dipendente della parte acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Gli esempi potrebbero proseguire, ma non credo sia arduo rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato preferibile non porre una limitazione del genere di quella che si legge nell’ipotizzato nuovo comma 4 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992[9].
Appaiono, invece, ragionevoli le scelte di utilizzare la testimonianza in forma scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., in quanto sicuramente più adatta all’assetto del giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, e di riservare la prova per testi al contribuente, dal momento che l’ente impositore – se vuole – può, nel corso dell’istruttoria che precede l’adozione degli atti impositivi, assumere informazioni e dichiarazioni da parte del contribuente medesimo e dei terzi.
Comunque, se la norma suggerita nella relazione finale vedesse effettivamente la luce, vi sarebbe ragione di esserne lieti. Il divieto di prova testimoniale ha mostrato una tale resistenza, che sarebbe in ogni caso un risultato importante l’averne ottenuto l’eliminazione, seppur con la rilevata nota critica sulla compressa estensione di siffatto mezzo istruttorio.
Infine, la Commissione formula una condivisibile raccomandazione sul miglioramento del processo tributario telematico[10]. Non solo ne è apprezzabile il contenuto, ma è meritevole di segnalazione la più che opportuna attenzione mostrata su uno dei profili più importanti – e, a mio avviso, più positivi – dell’odierno regime del nostro processo. Semplificare e ottimizzare il funzionamento del giudizio telematico ha un rilievo decisivo per rendere più accessibile, celere ed efficiente la tutela giurisdizionale nella materia tributaria.
A questa nota positiva deve, peraltro, accompagnarsene una di diverso tenore.
Infatti, la Commissione avrebbe potuto considerare altri aspetti funzionali ad assicurare migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Anche alla luce della rilevanza assunta dal principio europeo e costituzionale del “giusto processo”, avrebbero potuto trovare spazio fra le ipotesi di riforma i profili di seguito succintamente illustrati:
a) l’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992 contempla solo la sospensione dell’atto impugnato, di modo che per gli atti a contenuto negativo tale inibitoria è inutile. Si pensi al rifiuto, espresso o tacito, del rimborso dei tributi o al diniego di un’agevolazione (ma non la sua revoca, che ben può essere sospesa) o, ancora, al rigetto della domanda di definizione agevolata di rapporti tributari o all’istanza di dilazione di pagamento dei tributi. Per essi la tutela cautelare postula l’adozione di una misura sostitutiva del provvedimento negativo, ossia, nei casi fatti, l’atto che riconosce il diritto al rimborso e ne dispone l’erogazione e l’atto che concede l’agevolazione o accoglie la domanda di “condono” o quella di rateazione. Siccome detta misura sostitutiva fuoriesce dall’ambito di operatività dell’art. 47 cit., ne sarebbe apparsa opportuna la revisione. Ciò al fine di assicurare la tutela cautelare, che è componente essenziale del diritto di tutela giurisdizionale, anche nelle cause vertenti sui menzionati provvedimenti negativi;
b) la preclusione, sancita dall’art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, all’impiego in sede contenziosa dei documenti non forniti dal privato nel corso dell’istruttoria fiscale, in assenza di cause di forza maggiore, non assicura la pienezza del diritto di difesa. Questa preclusione, pur potendosi spiegare invocando il principio di collaborazione e lealtà ex art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, contrasta con il principio del “giusto processo” e con l’affermazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per cui è espressione di detto principio anche il “diritto al silenzio” del soggetto interessato dalla verifica tributaria[11]. Il divieto sancito dalle norme sopra indicate lede altresì il principio di proporzionalità, sempre di matrice europea, poiché sanziona in termini eccessivi detta mancata collaborazione. In tal senso, oltretutto, depone la recente sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla CONSOB risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale. Pertanto, la Commissione sarebbe potuta intervenire per eliminare questa preclusione;
c) l’art. 23, comma 3, del D.L.vo n. 546/1992 prevede che la parte resistente, nelle proprie controdeduzioni, proponga le eccezioni non rilevabili d’ufficio e ivi faccia istanza per la chiamata di terzi in causa. Secondo la giurisprudenza[12], queste attività devono essere eseguite presentando tempestive controdeduzioni, ossia nel termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso. Qualora il resistente non intenda svolgere eccezioni non rilevabili d’ufficio e chiamare terzi in causa, sempre la giurisprudenza[13] ritiene che la costituzione in giudizio possa avvenire – senza incorrere in alcuna preclusione – anche oltre il termine di sessanta giorni. Siccome le eccezioni riservate all’iniziativa della parte nel nostro processo sono solo quelle di prescrizione e di compensazione, si comprende come il resistente possa, nella gran parte dei casi, determinarsi a costituirsi tardivamente. Se si aggiunge che la decadenza dal diritto di rimborso azionato dal contribuente è rilevabile d’ufficio, ex art. 2969 cod. civ., poiché integra una causa di improponibilità dell’azione giudiziaria in materia sottratta alla disponibilità della parte pubblica, qual è quella tributaria[14], e che la chiamata di terzi non ricorre frequentemente, si ha conferma che il resistente può fare affidamento sulla costituzione tardiva. Sennonché, ciò non è apprezzabile per due ragioni: perché contraddice i principi di speditezza e concentrazione cui si ispira il giudizio tributario e poiché introduce una disparità di regime fra le parti, stante la perentorietà del termine di costituzione in giudizio per il solo ricorrente, non giustificata alla luce del principio di parità delle armi, ritraibile dal canone del “giusto processo”[15]. Le stesse considerazioni valgono per la costituzione nel giudizio di appello, ove la parte appellata è tenuta a rispettare il termine di sessanta giorni decorrente dalla notifica dell’atto di impugnazione solo qualora intenda proporre appello incidentale. Sarebbe stato, quindi, apprezzabile se la Commissione si fosse fatta latrice della proposta di rendere perentorio il termine per la costituzione in giudizio della parte resistente in primo grado e della parte appellata in secondo grado;
d) La Commissione avrebbe potuto farsi promotrice della riforma della L. n. 89/2001 affinché anche il processo tributario figuri fra quelli che danno titolo a ottenere un’equa riparazione in caso di relativa eccessiva durata. Infatti, la ragionevolezza del tempo di svolgimento di ogni processo è sancita dall’art. 111, comma 2, Cost. e si ritrae, di nuovo, dal principio del “giusto processo”.
8. Il giudizio di legittimità
La settima e ultima direttrice attiene al giudizio di legittimità, sul quale fra l’altro si concentra il principale obiettivo indicato nel PNRR con riferimento alla riforma della giustizia tributaria[16].
La Commissione avanza delle proposte “tecniche” assolutamente condivisibili. Il rinvio pregiudiziale, espressamente contemplato nel PNRR, e il ricorso nell’interesse della legge del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione[17] potrebbero consentire di anticipare la formazione di autorevoli indirizzi interpretativi, idonei a orientare le scelte dei contribuenti nell’intraprendere o meno il contenzioso e a confortare le decisioni dei giudici di merito. Ciò con indubbie positive ricadute in termini di riduzione delle liti pendenti e di uniformità delle pronunce delle Commissioni Tributarie.
Anche i suggerimenti volti a favorire una maggiore permanenza dei magistrati nella sezione tributaria della Corte di Cassazione e l’assegnazione a quest’ultima dei giudici addetti all’ufficio del Massimario della medesima Corte sono del tutto apprezzabili.
In specie, la limitazione del turn over dei giudici della sezione tributaria, oltre a consentirne l’affinamento della preparazione e dell’esperienza, contribuirebbe a stabilizzare la giurisprudenza della sezione stessa, accrescendone così l’autorevolezza.
Per contro, penso che potrebbe avere una minor incidenza nell’abbattere il considerevolissimo stock dei giudizi pendenti nella fase di legittimità l’introduzione – sulla falsariga di quanto avviene nei processi amministrativo e contabile – della necessità, decorso un dato termine dalla proposizione dei ricorsi, di ribadire l’interesse alla relativa decisione. Già gli istituti dell’autotutela e della rinuncia al ricorso per cassazione possono adeguatamente sovvenire in proposito.
Infine, nella relazione si ipotizza anche il ricorso a un “condono” per le controversie rimesse all’esame della Corte Suprema.
Trattasi di una scelta squisitamente “politica”, le cui controindicazioni – dal punto di vista etico, della parità di trattamento fra i contribuenti, del rispetto del principio di capacità contributiva, dell’effettività della tutela giurisdizionale offerta dal nostro ordinamento, della frustrazione degli sforzi compiuti dagli enti impositori per assicurare il rispetto della disciplina fiscale e via discorrendo – sono talmente note che non v’è bisogno di attardarsi al riguardo.
Tuttavia, come si suol dire, “a mali estremi, estremi rimedi”. Credo che questa massima di buon senso, unitamente alla constatazione dell’impossibilità o comunque dell’estrema difficoltà di assorbire in tempi ragionevoli l’enorme arretrato pendente dinanzi alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, abbia indotto la Commissione a formulare l’ipotesi della “definizione agevolata delle liti” ivi in attesa di decisione.
In ogni caso, quale che sia la scelta che il Governo e il Parlamento effettueranno, i termini di detta “definizione agevolata delle liti” suggeriti nella relazione finale appaiono, sotto il profilo “tecnico”, equilibrati e più che ragionevoli.
9. Conclusioni
Concludo queste brevi note permettendomi di avanzare qualche ulteriore ipotesi di intervento sulla disciplina del processo tributario.
In sintesi:
a) si potrebbe pensare di istituire un giudice monocratico in primo grado per controversie di valore contenuto e, di regola, “seriali”: si pensi a quelle in materia di tributi regionali, provinciali e comunali e di contributi spettanti ai consorzi di bonifica. Il giudice monocratico andrebbe individuato fra i giudici tributari appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa o contabile o fra quelli nominati a seguito di concorso, qualora si perseguisse questa opzione riformatrice. Introducendo una soglia di valore più elevata (ad esempio, di euro 25.000) rispetto a quella (di euro 3.000) proposta da una parte della Commissione per l’eventuale istituzione di un “giudice onorario monocratico”, si potrebbe ridurre il carico di lavoro dei collegi giudicanti in primo grado e velocizzarne i tempi di decisione delle liti. E ciò, stante la natura “specialistica” e “seriale” delle cause che verrebbero rimesse al giudice monocratico, senza ragionevolmente pregiudicare la qualità delle sentenze che sarebbero rese;
b) si potrebbe armonizzare il regime del procedimento cautelare pro Fisco previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 472/1997 con quello regolato dall’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992, disciplinandolo nel contesto del medesimo D.L.vo n. 546 e, soprattutto, eliminando la previsione secondo cui esso si conclude con l’adozione di una sentenza (anziché di un’ordinanza, com’è previsto per il procedimento cautelare in favore del contribuente);
c) si potrebbe pensare di regolare il regime della cosiddetta “impugnazione facoltativa”, frutto di un’ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale, prevedendo le conseguenze che ne discendono laddove all’atto impugnabile “facoltativamente” faccia seguito quello impugnabile “necessariamente”, secondo quanto stabilito dall’art. 19 del D.L.vo n. 546/1992. Ciò andrebbe a beneficio della certezza del diritto di azione giurisdizionale in materia tributaria e ne determinerebbe un indubbio rafforzamento. Non solo, in detto contesto, si potrebbe pure immaginare di rendere “facoltativamente” impugnabile la risposta alla domanda di interpello ex art. 11, comma 1, lett. a), dello Statuto dei diritti del contribuente, quando l’ente impositore risolva un dubbio interpretativo su una norma tributaria o qualifichi una fattispecie e, in relazione al concreto caso prospettato, non occorra svolgere alcuna attività istruttoria. La possibilità di agire contro questa risposta eviterebbe l’adozione dell’atto “necessariamente” impugnabile, di cui all’art. 19 del D.L.vo n. 546, ove il contribuente disattenda la tesi dell’ente impositore o la domanda di rimborso qualora il privato si adegui al responso ricevuto ma intenda comunque rimettere al giudice la soluzione della controversa questione interpretativa o della dibattuta qualificazione di fattispecie. In tal modo, entrambe le parti del rapporto tributario conseguirebbero anticipatamente la sentenza idonea ad assicurarne l’auspicata certezza.
Insomma, il lavoro svolto dalla Commissione è di stimolo per ipotizzare anche altri interventi di riforma dell’odierno assetto del giudizio tributario.
A questo punto, v’è solo da auspicare che il Governo e il Parlamento, consapevoli di quanto sia importante assicurare l’efficienza e la celerità del processo tributario in ogni fase unitamente al suo pieno adeguamento al principio del “giusto processo”, intervengano sollecitamente per realizzare questi obiettivi.
[1] La relazione è consultabile sul sito www.fiscooggi.it. Sull’argomento, v. A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in questa Rivista, 12 luglio 2021.
[2] Come, anche di recente, ho avuto occasione di precisare in “Il processo tributario”, Torino, 2021, pp. 8-9.
[3] V., in particolare, Corte Giust. Eur., 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou.
[4] V., in specie, Corte Giust. Eur. 3 luglio 2014, causa C-129/13, Kamino.
[5] Sul punto sia consentito rinviare ai più approfonditi rilievi che ho svolto in “Il contraddittorio generalizzato”, in Giur. imp., 2019, n. 2, pp. 147 ss.
[6] Ossia i soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate di Comuni e Province e iscritti in apposito albo istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[7] V., per esempio, Cass., sez. V, 22 febbraio 2013, n. 4498, concernente l’inviolabilità del domicilio.
[8] Mi permetto di rinviare ancora a “Il processo tributario”, cit., pp. 127-128.
[9] Secondo la proposta della Commissione, il nuovo comma 4 dell’art. 7 cit. risulta così formulato: “Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori”.
[10] Il contenuto di tale raccomandazione è il seguente: “La Commissione auspica un intervento legislativo diretto alla estensione e al miglioramento del processo tributario telematico, con la finalità di semplificare per tutti i soggetti del processo tributario l’esercizio delle rispettive attività, eliminando adempimenti superflui e prevedendo per quelli indispensabili, meccanismi automatici o semplificati di esecuzione. Il tutto nell’ambito di una omogeneizzazione e semplificazione dei diversi processi telematici esistenti, finalizzate ad un dialogo tra i vari sistemi con collegamenti tra le relative banche dati”.
[11] V. la sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] V. Cass., sez. V, 2 aprile 2015, n. 6734.
[13] V., nuovamente, Cass. n. 6734/2015, nonché Cass., sez. VI, 6 febbraio 2020, n. 2876.
[14] In tal senso, cfr. Cass., sez. VI, 26 settembre 2017, n. 22399.
[15] Di diverso avviso, però, è la Corte Costituzionale, che con l’ordinanza n. 273 del 13 dicembre 2019 ha escluso tale disparità di trattamento, senza tuttavia soffermarsi sull’art. 111 Cost. In passato, si era comunque ipotizzato che l’omessa sanzione per la costituzione tardiva del resistente comportasse una violazione degli artt. 3 e 111 Cost., ma la Consulta lo aveva negato con l’ordinanza n. 144 del 7 aprile 2006.
[16] Si legge, infatti, nel PNRR che gli interventi riformatori “… sono rivolti a ridurre il numero dei ricorsi alla Cassazione, a farli decidere più speditamente, oltre che in modo adeguato”. Il PNRR individua quali “modalità di attuazione” del menzionato obiettivo: a) “… un migliore accesso alle fonti giurisprudenziali”; b) “… il rinvio pregiudiziale per risolvere dubbi interpretativi, per prevenire la formazione di decisioni difformi dagli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione”; c) allo scopo di smaltire l’arretrato presso la Corte Suprema, “… il rafforzamento delle dotazioni di personale”, anche tramite adeguati incentivi economici.
[17] Su questi argomenti, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in questa Rivista, 19 luglio 2021.