Elogio di un fascicolo cartaceo, per cortesia.
di Gì D’Andrea, magistrato
Minuto più, minuto meno, è da un paio di millenni che l’essere umano conosce l’uso della carta.
Possiamo annoverare vari formati di questo sconvolgente materiale: formato grande, tipo i cartoni o, per gli storici e per i giuristi, la Magna Charta; poi c’è il formato piccolo, al cui genere appartengono, in via meramente esemplificativa, i cartoncini, o ancora le “cartine”, ossia: a) quelle carte comunemente impiegate dai cartografi per rappresentare il pianeta in modo bidimensionale, in conformità con le dottrine terrapiattistiche più ortodosse; b) quelle carte comunemente impiegate da coloro – forse anche cartografi – che perseguono scopi psicotropo-ricreativi, non sempre del tutto leciti secondo le leggi di questo o di quel Paese.
Sono innumerevoli, in verità, gli impieghi della carta nel corso della storia: in ordine sparso, dipingere paesaggi ad olio su carta, stampare banconote di carta, soffiarsi il naso con fazzoletti di carta, disegnarci sopra l’uomo vitruviano o Paperino, giocare a carte, fare i castelli di carte, giocare alla morra cinese (prima che inventassero la carta, infatti, nelle locande gli avventori si dilettavano giocando principalmente a “sasso-forbici”, versione decisamente meno adrenalinica della più recente “sasso-forbici-carta”).
E scrivere, già. La carta serve a scriverci sopra.
Canzoni, poesie, romanzi, lettere d’amore, saggi, liste della spesa, cartoline, pizzini da scambiare tra i banchi di scuola, ingiurie da lasciare sul parabrezza altrui, atti e provvedimenti giudiziari. Ciò che è scritto sistematicamente prevale su “dove” è scritto. Tutti si ricordano che esiste la Divina Commedia, ma nessuno spende mai una parola per celebrare il materiale su cui è stata scritta, lo si dà per scontato.
Il ruolo della carta, nel corso della storia, è stato sempre ancillare, defilato, lontano dai riflettori.
Supporto, corpo meccanico, contenente, mai contenuto. Solo forma, niente sostanza?
Chi di noi la vorrebbe, in tutta sincerità, una vita così, trascorsa indossando le vesti del principe consorte, all’ombra ingombrante di qualcun altro, qualcun altro “di contenuto”? Una vita vissuta in silenzio, terminata magari in un tritadocumenti. È forse vita, questa, passata in questo modo, da cavalier servente, con il rischio di finire da un momento all’altro accartocciati in strada, senza una degna sepoltura? Che cosa pensereste, sinceramente, se un ragazzino annoiato facesse di voi un aeroplanino e vi lanciasse distrattamente a canestro in un cesto dei rifiuti, lasciandovi lì, a finire placidamente la vostra esistenza come una qualsiasi sostanza biodegradabile? Meglio a quel punto la fiamma del camino. It’s better to burn than to fade away. E farla dunque finita, senza arrovellarsi troppo il cervello sul rischio di reincarnarsi in un altro foglio di carta. Per giunta riciclata.
Ma arriva un giorno in cui la carta rivendica, non dico il primato sul contenuto, ma quantomeno una pari dignità. Un sussulto di ribellione. Un moto d’orgoglio. Una rivendicazione politica, un gesto simbolico, perpetrato silenziosamente, ma in modo decisamente efficace: scomparire e, con la propria assenza, bloccare addirittura la Giustizia. Lì dove non è arrivato il covid, può arrivare la carta?
La storia che mi accingo a presentare è capitata a un mio amico e collega, giudice civile presso uno dei tanti tribunali d’Italia. E’ la storia di un fascicolo cartaceo che rivendica la sua centralità nel processo civile. E’ stato il fascicolo cartaceo, infatti, a fargli percepire, indirettamente, quanto sia importante la carta, quantomeno nel settore giustizia. Più precisamente, è stata la mancanza del fascicolo di carta a farlo riflettere. Non che al collega quel fascicolo mancasse realmente. Nel senso che lui, personalmente, non ne sentiva alcuna mancanza, credetemi. Non è uno di quelli che percepiscono il valore delle cose soltanto quando ormai è troppo tardi, perché non ce le hanno più a disposizione, o melensaggini simili. Più correttamente, il reale valore del fascicolo cartaceo mancante glielo ha fatto intuire, con modi discutibilmente affabili, ma nondimeno incisivi, un’assistente giudiziaria. Convenzionalmente, per questioni di riservatezza, chiameremo l’assistente con nome di pura fantasia, Erinni Brockovich, così da salvaguardare la serenità del rapporto di collaborazione professionale, nonché l’incolumità psicofisica del collega.
Questa, più o meno, la trascrizione del dialogo telefonico avvenuto con la sua cancelleria, secondo quanto mi ha riferito.
Driiin.
Collega civilista: Pronto?
E.B.: Senta, dottore, dopo che è finita l’udienza non mi ha mandato un fascicolo. L’erreggì è il XXXXX/2021. Se non me lo manda, ci impedisce a tutti di lavorare, ci blocca ogni ccosa, santa pazienza!
Collega civilista : p prego…? Buongiorno a Lei, dottoressa Erinni Brockovich. Di che cosa si tratta?
E.B.: E che ne so, non me l’ha mandato il fascicolo, so solo che non posso scaricare il provvedimento se prima non mi porta il fascicolo. E se non posso lavorare per come dico io, l’avverto, mi vedo costretta a parlare con chi di dovere!
Collega civilista: Ma… ma… mi faccia controllare… ma… io quel fascicolo non l’ho messo in uscita perché, a dire il vero, non mi è mai arrivato nemmeno in entrata… ad ogni modo, è tutto telematico, non c’era niente dentro, si trattava al massimo soltanto di una copertina di carta di un fascicolo, la causa è tutta digitale…
E.B.: Allora non mi ha capito bene! Sempre così fa Lei, che perde ogniccosa e poi intralcia il lavoro della cancelleria! Io glielo dico, che se non mi arriva il fascicolo, non posso scaricare il provvedimento e mi vedo costretta a prender provvedimenti!
Evidentemente, non i provvedimenti telematici
La vicenda, di per sé, è di poco conto. I toni concitati di Erinni Brockowich, attutiti nella trascrizione, poco aggiungono alla drammatizzazione degli esiti epistemologici del dialogo. Ciò che rileva, fuor d’ironia, è la prospettiva dischiusa dalle parole dell’assistente giudiziaria, che tradiscono una Weltanschauung interessante, un’impostazione metodologica diffusa, frutto di consolidate abitudini mentali, perpetrate trasponendo, anche in via di semplice prassi operativa, le logiche proprie del processo “tradizionale” alle logiche che dovrebbero presiedere al funzionamento del medesimo processo “tradizionale”, semplicemente declinato secondo modalità telematiche.
Provo a spiegarmi, facendo una breve premessa, di carattere sommario, per coloro che magari hanno meno dimestichezza con la giustizia e col settore civile. Non è vero che il processo civile è telematico. Il processo civile è, potremmo dire, “tendenzialmente” telematico. In via di prima approssimazione, infatti, si può affermare che è obbligatorio il deposito in formato digitale - e in un determinato specifico formato, pdf nativo - per tutti gli atti. Tutti gli atti processuali e i documenti depositati dai difensori delle parti precedentemente costituite. Ciò significa, quindi, che resta facoltativo il deposito in formato cartaceo degli atti introduttivi. Salvo che durante la pandemia, visto che le norme emergenziali hanno imposto l’obbligatorietà del deposito telematico anche per gli atti introduttivi. Chissà fino a quando. (Quindi, tecnicamente è possibile depositare tutti gli atti telematicamente?!). Al di fuori della normativa emergenziale, invece, gli atti introduttivi si possono depositare in cartaceo. Ma questo non vale per il ricorso per decreto ingiuntivo, ad esempio, che devi depositare in formato digitale. Salvo che dal giudice di pace, dove si deposita in cartaceo. Anche nel periodo emergenziale. A fronte di un quadro normativo non immediatamente intellegibile nel suo complesso e non sempre del tutto lineare, la sanzione dell’inammissibilità del deposito degli atti in formato cartaceo per le ipotesi in cui è obbligatorio il deposito in formato digitale non sempre è così nitida, come ha dimostrato la giurisprudenza in materia (che quindi si è dovuta occupare non tanto dei fatti di causa, quanto di come gli atti sono stati presentati). Quasi dimenticavo: l’obbligo di depositare in formato telematico non vale, non si sa per quale motivo, per i provvedimenti del giudice, pandemia o non pandemia. Ragion per cui nel 2021, appena usciti in fondo dall’era mesozoica, alcuni verbali vengono ancora redatti a mano, chissà da chi. Voci di corridoio vogliono che gli amanuensi di turno siano in realtà medici specializzandi di passaggio in tribunale, privi di pollice opponibile, inavvertitamente scambiati dal giudicante per praticanti avvocati e costretti a vergare in udienza sotto dettatura di qualcuno, qualcuno che poi apporrà in calce una sottoscrizione parimenti illeggibile.
Di fronte alle incerte grafie con cui sono scritti certi verbali - che più che altro assomigliano a tracciati di un elettroencefalogramma - alzi la mano (sporca di inchiostro) chi, tra voi giudicanti, non abbia sentito il bisogno di disporre c.t.u. grafologica per decrittarne il contenuto, rifuggendo dalla tentazione - dai plausibili risvolti di rilievo penale - di appallottolare e cestinare tutto di nascosto.
Tornando al caso del mio amico e collega, la sua causa aveva ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo. Per la seconda udienza consecutiva nessuno era comparso, quindi il giudice aveva disposto a verbale la cancellazione della causa dal ruolo e aveva dichiarato l’estinzione del processo. Trattandosi di atto endoprocedimentale, la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo era, obbligatoriamente, in formato digitale. Altrettanto digitale era il formato della comparsa di costituzione e risposta. Altrettanto digitale, infine, era il formato dei verbali depositati all’esito delle due udienze.
In definitiva, si può candidamente concludere che in quella causa non era mai successo niente di che nel mondo fisico, al di fuori di consolle. Esistevano solo file, bit, algoritmi, segnali elettrici, invisibili all’occhio umano, redimibili nel loro significato ostensibile soltanto attraverso la mediazione di software e di hardware. Consolle, un monitor, qualche cavo, poco di più.
Senza il fascicolo di carta, tuttavia, la giustizia ha subito un insuperabile arresto.
Il provvedimento telematico, secondo la prassi di cancelleria, non sarebbe mai stato scaricato su consolle fintanto che non fosse stato reperito il fascicolo cartaceo (che il mio collega, peraltro, sosteneva di non aver mai ricevuto).
Per intendersi, il “fascicolo” che invocava la cancelleria per poter procedere al deposito telematico del verbale telematico era, tecnicamente parlando, la copertina di un fascicolo cartaceo vuoto. Una classica copertina, una carpetta di cartoncino, formato A-qualcosa, divisa longitudinalmente e ripiegata in due. Una cartellina, non saprei come nominarla tecnicamente in una cartoleria, ma mi avrete già capito. Su questa cartellina, di cui pur ammetteremo l’esistenza per professione di fede, nonostante i dubbi del mio collega, forse c’era pure appiccicato sopra il nome del tribunale, il numero di R.G., il nome delle parti. Nient’altro. Dentro, il vuoto pneumatico.
Eppure, in forza di una qualche prassi inveterata, dal fondamento normativo inesistente, quella causa reale quanto dematerializzata non esisteva per la cancelleria e continuava ad esistere sul ruolo, ancorché fosse stata dichiarata estinta e fosse stata ordinata la cancellazione.
Concettualizzando, sulla scorta della sovrapposizione indebita tra logica tradizionale cartacea e logica telematica, si potrebbe enucleare il seguente principio: la causa integralmente telematica esiste e quindi non esiste più e al contempo non esiste e continua ad esistere, in funzione della possibilità di rinvenire o non rinvenire il fascicolo di carta, contenente niente.
Un paradosso degno di Schrödinger, sissignori.
Il mio amico e collega mi ha confidato di aver liquidato il problema troppo frettolosamente, suggerendo alla sua cancelleria di stampare, se proprio necessario, un (nuovo) fascicolo, parimenti vuoto.
Apprezzabile l’approccio di problem solving, ma questo significa soltanto metterci una pezza sopra, e non andare alla radice del problema. A fronte dell’obiezione - incontrastabile quanto paradossale per lui - secondo la quale “se ogni volta dovessimo fare così, la giustizia rimarrebbe bloccata, dottò”, il mio collega e amico ha persino pensato di creare i presupposti per la ricostituzione d’ufficio del fascicolo cartaceo: sarebbe bastato depositare una lettera minatoria in cui una sedicente associazione malavitosa avrebbe assunto la paternità del rapimento del fascicolo e forse chiesto persino un riscatto, pari al valore del contributo unificato. A frenare questa sua perversa fantasia non è stata tanto la consapevolezza di perpetrare un’improbabile simulazione di reato, un procurato allarme, robe del genere, che ne so io che faccio civile. Lo ha indotto definitivamente a desistere, piuttosto, la consapevolezza che, pur collazionando materialmente una lettera minatoria da inserire nel fascicolo, la sua cancelleria non avrebbe mai acconsentito all’inserimento di un qualcosa in assenza dell’involucro cartaceo deputato a contenerlo. Del pari, una lettera minatoria su word, di più difficile realizzazione, non sarebbe stata comunque scaricata in telematico, sempre per il fatto che non si trovava ancora il fascicolo cartaceo, nonostante fosse stato già allertato il soccorso alpino, con i cani molecolari (nel mentre, il fascicolo continuava verosimilmente a rimanere sempre vuoto).
Come potete intuire, il collega ha sviluppato una forma di ansia generalizzata verso il cartaceo.
Sa che l’universo tende all’entropia e non vede il motivo per cui lui e il mondo giudiziario in generale dovrebbero discostarsene. Il disordine è destinato a prevalere. Spostare fascicoli di carta, di tante tantissime carte, da una parte all’altra comporta l’accettazione di un certo margine di rischio di smarrimento, bisogna ammetterlo. Identica considerazione vale anche le copie cartacee di cortesia degli atti depositati in formato digitale, copie diffusamente “offerte” in sacrificio dai difensori delle parti nel tentativo di attutire l’ingordigia di cellulosa che affligge il settore giustizia. Copie che, riconosciamolo con una certa onestà intellettuale, qualche magistrato semplicemente esige. A quel punto non è più cortesia, è una corvée, nella migliore delle ipotesi. E anche qualora il magistrato non abbia richiesto alcuna copia di cortesia, l’avvocato, disorientato dalle prassi ondivaghe dei vari uffici sulla duplicazione dei depositi in cartaceo e in telematico, si sente comunque in dovere morale di offrire carta, un po’ per cortesia, un po’ per scaramanzia e per il disturbo ossessivo compulsivo ingenerato dall’ansia generalizzata che il giudice non riesca a leggere integralmente sul monitor del computer le 147 pagine di ricorso per decreto ingiuntivo. Come se il Ministero non avesse dotato i magistrati e le cancellerie di stampanti (quasi sempre) funzionanti. Ma “a caval donato non si guarda in bocca”. Pertanto, grazie signor avvocato per la copia di cortesia, non si disturbi per la prossima volta, in realtà non saprei proprio dove mettere la copia, mi hanno appena scaricato sulla scrivania 65 kg di carta che neanche a Fabriano, e quindi non riesco a scorgere, così, di primo acchito, nella stratificazione delle mura megalitiche di cartapesta, il fascicolo di riferimento, forse manca proprio quel fascicolo lì, mi dispiace, forse non me l’hanno mai portato, o forse sì, chissà dov’è, non si disperi, in qualche modo lo cercheremo, andremo in archivio con le unità cinofile, specializzate, con la Sciarelli se necessario, lo troveremo, a costo di dover recuperare in un weekend del 2081 d.C. il tempo irreversibilmente perduto, smarrito come il fascicolo.
La cortesia, a livello sistematico, in certe situazioni diventa una iattura per la società, quantomeno secondo certe visioni utilitaristiche.
Il collega non ne fa nemmeno un discorso di tipo ecologistico. Pazienza per gli alberi sacrificati in nome della cortesia. Non è nemmeno allergico alla polvere e alle spore di tetano che si annidano in certi fascicoli risalenti, non gli fanno nemmeno schifo i pesciolini d’argento che sbucano dai faldoni del processo Dreyfus. La sua è un’impostazione potremmo dire ideologica, più che di fondamento positivo, indotta e corroborata dall’insano terrore di essere redarguito ancora da Erinni Brockowich, nell’ipotesi in cui non salti fuori il fascicolo cartaceo che l’assistente giudiziaria reclama.
Il telematico, epurato dal regime ibrido e soprattutto dalle applicazioni distorte, sembrerebbe poter ovviare a molti problemi di ordine logistico, garantendo una certa efficienza a livello organizzativo, oltre che una chance di maggiore serenità mentale per il mio amico e collega. A livello operativo, se i fascicoli potessero essere integralmente telematici, i fascicoli cartacei non avrebbero più ragione di esistere. Quindi nessuno dovrebbe prendersi la briga di crearli, nutrirli, farli crescere, farli riposare sotto un tetto (le stanze, tendenzialmente, non abbondano nell’edilizia giudiziaria), spostarli, recapitarli, trasferirli fisicamente in Corte d’Appello, in Cassazione, recuperarli in caso di furto o smarrimento, ricostituirli.
Diversamente, nella ingiustificata duplicazione dei fascicoli, telematico e cartaceo, e comunque nel sistema ibrido vigente, anche qualora tutto vada liscio, senza intoppi, accade di dover assistere, per esempio, a questi passaggi: 1) un assistente giudiziario prende una cartellina di carta; 2) stampa un foglio recante i dati della causa; 3) appiccica il foglio sopra la cartellina, la quale, bidibibodibibù, diventa così un bellissimo fascicolo giudiziario cartaceo (vuoto); 4) l’assistente giudiziario consegna il fascicolo a un commesso; 5) il commesso (vettore) carica il fascicolo su un carrello, insieme ad altri millemila fascicoli; 6) il commesso trasporta il carrello dalla cancelleria fino alla stanza del giudice; 7) il commesso scarica fisicamente i millemila fascicoli su un tavolo denominato “in entrata”; 8) il giudice, se riesce a riemergere dalla colata di carta in cui è stato inavvertitamente appena sepolto, cerca e preleva il fascicolo di causa, se presente tra i miellemiila consegnati, lo apre, è vuoto, lo richiude, fa udienza, verbale telematico; 9) il giudice appoggia il fascicolo cartaceo vuoto su un tavolo, denominato “in uscita”; 10) il commesso, con quel diffuso trasporto emotivo di poco inferiore a quello del monatto che passa ogni giorno a fare il suo giro, va nella stanza del giudice e preleva il fascicolo; 11) il commesso carica fisicamente il fascicolo nel carrello, insieme ad altri millemila fascicoli, come al punto 5); 12) il commesso trasporta il fascicolo dalla stanza del giudice fino alla cancelleria (tragitto inverso rispetto a quello di cui al punto 6); 13) il commesso consegna il fascicolo, sempre vuoto, all’assistente giudiziario; 14) l’assistente giudiziario, rinvenendo il fascicolo cartaceo, scarica su consolle il verbale (telematico); 15) l’assistente consegna il fascicolo cartaceo al commesso; 16) il commesso deposita il fascicolo cartaceo (vuoto) in una stanza di cancelleria, piena di altri millemila fascicoli (alcuni millemila dei quali altrettanto vuoti); 17) il fascicolo rimane lì fino alla successiva data di udienza, quando l’assistente giudiziario impartisce al commesso l’istruzione di prelevare il fascicolo (vuoto); 18) arretrate di 13 caselle e ripartite dalla casella n. 5, fino alla fine dei tempi (moderni).
Può accadere, per congiunture astrali insondabili, che in questi inutili plurimi passaggi, in barba al rasoio di Occam, l’entropia possa avere il sopravvento e che quindi il fascicolo, sempre vuoto, possa essere smarrito. Può accadere, ammettiamolo.
L’atteggiamento zelante dell’incolpevole assistente giudiziaria di fronte alla scomparsa del fascicolo cartaceo non è un mero accidente, è un’occasione preziosa per riflettere. Personalmente, non ho risposte adeguate. Mi restano solo quesiti, ovviamente disordinati. Ha un senso la prassi della duplicazione dei depositi? Sono insuperabili gli ostacoli che impediscono il deposito di tutti gli atti, documenti, provvedimenti in via esclusivamente telematica? Che senso ha la pluralità dei passaggi sopra isolati, per il commesso, per il giudice, per l’assistente giudiziario? La ripetizione senza fine di azioni prive di qualsivoglia utilità giova all’umore degli operatori del diritto e al contempo favorisce l’incremento della produttività? Le prassi operative fondate sulla duplicazione dei canali, telematico e cartaceo (dal magistrato che esige la copia, all’avvocato che la offre, al cancelliere che se non la trova non sa come fare) sottendono esigenze occupazionali di stampo keynesiano? La domanda aggregata è davvero così flebile da giustificare, nella teoria generale, l’esigenza di scavare ancora buche per poi riempirle?
Stremato dalla futile riflessione, anche a nome del mio amico e collega ringrazio di cuore il lettore telematico per la pazienza, e vado dal dottore, quello vero, il mio medico di base. A riposarmi. Facendogli scrivere una mia sentenza, sotto dettatura. A mano.
Carta canta, giudicante dorme.