ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Franco Cordero intellettuale del dissenso*
Sommario: 1. Prologo – 2. La Procedura penale secondo Franco Cordero – 3. Cordero filosofo del diritto: l’incidente della Cattolica – 4. Segue: Il caso Cordero davanti alla Corte costituzionale e nelle reazioni dei commentatori – 5. Narratore e storico – 6. Polemista negli anni 2000 – 7. Lascito intellettuale.
1. Prologo
Franco Cordero (Cuneo, 6 agosto 1928 – Roma, 8 Maggio 2020) è stato, più che un giurista, un intellettuale di straordinaria erudizione, con interessi in ogni anfratto dello scibile umanistico. L’attitudine alla critica e al dissenso rispetto alle tendenze dominanti del pensiero, politico, teologico, giuridico lo ha esposto a frequenti polemiche, affrontate sempre con atteggiamento laico e razionale. Come giurista, ha avuto un’influenza enorme nello sviluppo della dottrina processualpenalistica. Ha offerto importanti approfondimenti nel campo della filosofia del diritto, della teologia oltre che minuziosi affreschi storia della giustizia penale. Si è prodigato come romanziere, segnalandosi per l’originalità dello stile letterario e vincendo il premio Viareggio (miglior opera prima) con il libro Genus (1969). Nella veste di pubblicista, ha animato vivaci polemiche, prendendo di mira principalmente le ortodossie del pensiero religioso e talune arroganze della politica.
Già gli inizi del Cordero studioso sono stati accidentati. Desideroso di dedicarsi all’arte medica, decide di iscriversi alla facoltà giuridica torinese dopo una singolare esperienza vissuta da diciottenne nell’ultimo anno di liceo (1946). Come lui stesso racconta, viene invitato da Gino Giugni (genovese, che aveva frequentato Cuneo come sfollato durante il secondo conflitto mondiale) a tenere una conferenza su “Socialismo e cristianesimo” in un circolo cittadino. Assiste all’incontro Aldo Viglione (cuneese, partigiano, avvocato e poi politico). «Hanno influsso plagiario i suoi complimenti» ricorderà Cordero. A sentir lui «ho l’avvocatura nei cromosomi, con sicure prospettive fra foro e politica. Tramonta così la vocazione medica» (così in Morbo italico, Roma-Bari, Laterza 2013, 235).
Si laurea nel 1950 in Diritto romano, sotto la guida di Giuseppe Grosso, discutendo una tesi dal titolo Pactum de non petendo nell’obbligazione solidale di diritto romano. Vorrebbe crescere nell’ambiente del prof. Grosso, ma capisce subito che le prospettive di carriera in quel settore sono pressoché inesistenti. Frequenta per qualche anno la cattedra retta da Francesco Antolisei: con rammarico, costretto a deviare «dalla via seria (il diritto romano) alla fiera penalistica» (cfr. Premessa a Gli osservanti, edizione rieditata da Nave di Teseo, Milano, 2024, p. 1). Ma nemmeno quell’ambiente lo accoglie con favore: «arriverai alla cattedra dall’avvocatura», cantava l’affabile maestro (loc. ult. cit.). Nel 1954 si sposta a Milano, nello studio di Enrico Allorio, che lo consiglia di dedicarsi alla Procedura penale, disciplina nuova, da rifondare. Ed è da questo punto che conviene muovere per ripercorrere le principali tappe di una straordinaria figura di giurista e intellettuale.
2. La Procedura penale secondo Franco Cordero
Anche qui conviene lasciar la parola all’autore. In un convegno del 2008, organizzato per celebrare i sessant’anni della Costituzione repubblicana, Cordero rievoca il suo primo approccio con questa disciplina. «Sessant’anni fa non godeva buona fama. Forse posso concedermi un aneddoto autobiografico. Ho 19 anni, iscritto al secondo anno della Facoltà torinese: luogo serio; imparo comme il faut varie cose; questa coda dello scibile penalistico viene al quarto anno; da 10 (vale a dire dal 1938) costituisce materia autonoma nella ratio studiorum, prima era un capitolo trascurabile dei “Criminalia”, enucleati dallo ius civile anno Domini 1509, quando Bologna chiama Ippolito Marsili, vecchio praticone, “ad lecturam quotidianam criminalium”. Il professore, chiaro penalista (Francesco Antolisei), la ignora; non teneva nemmeno lezione. Quart’ultimo dei miei esami, vi spendo quattro o cinque giorni: 30 e lode. La cosa peggiore è che li meriti, avendo racimolato qualche idea nel deserto intellettuale». (cfr. Miserie della procedura penale, in Marco Ruotolo – a cura di – La costituzione ha sessant’anni. La qualità della vita sessant’anni dopo, Ed. scientifica, Napoli, 2008, p. 149).
Negli anni Cinquanta, la Procedura penale era dunque una disciplina abbandonata a sé stessa: un “deserto intellettuale”. All’autonomia accademica, formalmente riconosciuta da un decreto ministeriale del settembre 1938, non era seguita (se non in qualche rarissimo caso) un’assegnazione esclusiva del relativo corso a docenti di ruolo. Quasi ovunque essa era insegnata per affidamento al docente di Diritto penale, il quale finiva spesso col trascurarla. Di conseguenza, anche la manualistica e la dottrina erano di modesta levatura, prive di originalità, sempre comunque debitrici del ben più evoluto Diritto processuale civile.
Il primo studio (Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, Giappichelli, 1956) è un impegnativo esercizio di teoria generale del processo: un’opera di pura teoria, come musica astratta nei ballabili, confesserà decenni dopo (Premessa a Gli osservanti, loc. cit.). In realtà, muove da un’adesione convinta alle teorie di Hans Kelsen, lasciandosi andare a qualche spunto di ammirata polemica per il grande processualista tedesco James Goldschmidt, la cui visione realistica dell’agone processuale apprezzerà e valorizzerà negli anni successivi.
Arriva alla cattedra quasi da autodidatta, vista l’assenza di maestri processualpenalisti. Nel 1958 lo chiama l’Università di Trieste, che lascerà nel 1960, per trasferirsi a Milano, chiamato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel 1963 gli sarà affidato anche l’insegnamento di Filosofia del diritto: ciò che lo porterà a scontrarsi con l’ortodossia cattolica. E qui conviene che il racconto segua distintamente ciascuna delle due esperienze didattiche vissute dal nostro Autore, se non altro, per una questione di ordine espositivo e per evitare sovrapposizioni che rischierebbero di confondere il lettore.
Cominciamo con lo studioso del processo penale. All’inizio degli anni Sessanta, Cordero ha occasione di cimentarsi con le questioni più controverse che animavano la dottrina processualpenalistica impegnata nel progettare una riforma del processo adeguata alla realtà politico-costituzionale dell’epoca. Francesco Carnelutti lo chiama a far parte della commissione ministeriale da lui presieduta e istituita proprio col compito di ripensare ab imis la riforma del processo penale: non più una revisione del c.p.p. 1930, ma la riscrittura di un nuovo codice, con l’abbandono del modello cosiddetto misto, di derivazione napoleonica adottato in Italia sin dal 1865. L’incontro con il vecchio professore (ultraottantenne), avvocato celebratissimo, dev’essere stato galvanizzante per il giovane docente appena approdato alla Cattolica, poco più che trentenne e all’epoca pressoché sconosciuto. Lo si capisce dalla convinzione con la quale egli difenderà il “progetto Carnelutti” in due dibattiti rimasti celebri e tuttora molto citati nella letteratura processualpenalistica: alludo ai convegni svoltisi nel 1964, uno nel Sud Italia (Lecce) e l’altro al Nord (Bellagio). In quelle due occasioni, in perfetta sintonia con la radicalità della proposta carneluttiana, Cordero diede davvero il meglio di sé, sostenendo con ottimi argomenti la necessità di superare il processo di impronta inquisitoria allora vigente in Italia, con un modello adversary fondato sull’inchiesta di parte vagheggiata nel progetto Carnelutti (gli interventi sono pubblicati nel volume Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, Giuffrè, 1965, poi confluiti nel volume Ideologie del processo penale, Milano, Giuffrè, 1966, 151 ss.).
Cordero immagina e analizza minuziosamente tutti i problemi che l’attuazione di quel rivoluzionario progetto avrebbe comportato. Constatiamo oggi, a molti anni dalla riforma processuale del 1988, quanto fossero azzeccate quelle previsioni. Vi troviamo lucidamente espressi, ad esempio, il timore che il pubblico ministero incaricato dell’inchiesta di parte assuma funzioni istruttorie simili a quelle del giudice istruttore; il timore che l’uso di dichiarazioni verbalizzate dalla polizia o dal pubblico ministero possano trasformarsi in prove, se utilizzate a fini di contestazione nell’esame testimoniale; la proposta di introdurre l’incidente probatorio (una “oasi giurisdizionale”) per superare il problema delle prove che rischiano di andar disperse nel corso della fase investigativa; e ancora, la proposta di contrastare le possibili inerzie del pubblico ministero, attribuendo alla persona offesa la facoltà di opporsi alla richiesta di archiviazione (a imitazione di analogo istituto presente nella Strafprozessordnung germanica). Chi ha una conoscenza anche approssimativa delle vicende che nel corso dei decenni hanno accompagnato l’applicazione del codice vigente è in grado di apprezzare la fondatezza di quei timori e la sensatezza di quelle proposte espresse con un quarto di secolo d’anticipo sulla riforma processuale.
Grande impatto sulla dottrina processuale penale italiana hanno avuto le riflessioni di Franco Cordero in tema di diritto probatorio. Alludo in particolare ad alcuni scritti comparsi su varie riviste fra il 1961 e il 1963 e raccolti nel volume dal titolo Tre studi sulle prove penali (Milano, Giuffrè, 1963) oltre che nel già citato Ideologie del processo penale (Milano, Giuffré, 1966). Nel primo dei due volumi, la prova è analizzata come atto complesso (procedimento) scomposto nei tre tempi della ammissione/acquisizione, formazione e valutazione. Ispirandosi al noto saggio di Carnelutti sulla Prova civile (Roma, Athenaeum, 1915, rieditato nel 1947, nonché in Diritto e processo, Napoli, Morano, 1958, p. 125 ss.), Cordero offre in quel corposo saggio una breve trattazione generale della prova penale.
Si avverte anche qui l’influsso di Goldschmidt. Cordero accetta la tesi del processualista tedesco che postula l’autonomia del diritto processuale rispetto al diritto sostanziale. I fenomeni del processo animano un mondo chiuso, con regole proprie (ammissibilità, fondatezza, rilevanza, validità etc.) insensibili alle vicende del diritto sostanziale e ai rispettivi criteri di valutazione (lecito/illecito). Ne segue che il diritto processuale esige un approccio suo proprio da parte dello studioso. Sulla base di simili premesse è impostato il controverso problema della prova illecitamente acquisita. L’illiceità della provenienza non comporta di per sé l’inammissibilità o inutilizzabilità del corpo del reato o della cosa pertinente al reato: solo la legge processuale può abbinare una sanzione di invalidità a quella provenienza illecita. Se la legge processuale tace, la prova può essere utilizzata, benché frutto di un illecito. Come noto, il problema è stato a lungo dibattuto con riferimento al rapporto fra perquisizione e sequestro. L’illegittimità della perquisizione non comporta l’esclusione della cosa sequestrata dal novero delle prove valide, salvo che la legge vieti esplicitamente il sequestro, come accade, ad esempio, con i documenti coperti da segreto (art. 200 c.p.p.); quelli depositati nello studio del difensore (art. 103, comma 6, c.p.p.) o con le attività di “dossieraggio” (art. 240, comma 2, c.p.p.). Al riguardo, risulta decisiva la latitudine che la legge processuale assegna al potere istruttorio del magistrato impegnato nell’indagine, non i più limitati poteri assegnati alla polizia. La perquisizione si qualifica come semplice antecedente storico (non giuridico) del sequestro; la sua illegittimità comporterà la mancata convalida giudiziale dell’operazione effettuata dalla polizia, oltre alla possibile sanzione (penale o disciplinare di chi ha agito illecitamente), ma non la restituzione della cosa sequestrata che il giudice potrà quindi utilizzare. Male captum, bene retentum è la formula che sintetizza un orientamento seguito (ancor oggi) dalla giurisprudenza della Corte di cassazione italiana.
La maturazione del pensiero processualistico di Cordero trova la sua compiuta realizzazione nel manuale di Procedura penale pubblicato per la prima volta nel 1966. Un’opera che – si può dire – apre una nuova stagione nella cultura processuale penale italiana. Cordero stesso definirà quel manuale un’opera “atipica”: «la novità sta nell’esservi disegnata una sintassi» (così in Rutulia, Roma, Quodlibet, p. 237).
Va detto che i manuali in circolazione all’epoca erano redatti con stile piatto e acritico: orientati al metodo tecnico-giuridico, avevano un’impostazione prevalentemente esegetica, con una sistematica incentrata su principi dottrinali elaborati secondo categorie pandettistiche di fine Ottocento. Pensati per un apprendimento nozionistico; non inducevano riflessioni sui nodi politici e sui conflitti ideologici implicati nelle pratiche giudiziarie e nei relativi istituti.
Ben diverso appariva il manuale di Cordero. Lo si capiva già dalla copertina. Anche la quarta edizione (1977 quella sulla quale ho preparato l’esame di Procedura penale nel lontano 1978) raffigurava in sovracopertina il frontespizio della Practica causarum criminalium (Averolda nuncupata) di Ippolito Marsili. In quella stampa cinquecentesca si scorgono, in centro, strumenti e scene di tortura; in basso, scene di vita accademica con il professore in cattedra e gli studenti in diligente ascolto. In alto, sui lati, simboli del potere politico, sfilate di alti prelati, scene di guerre navali e campali.
In effetti, una volta aperto, quel manuale apriva un mondo che nessuno – fra i processualisti italiani del tempo – aveva mai prima esplorato con tale sapienza e acume. Gli istituti processuali erano analizzati in prospettiva storica; studiati con l’occhio critico del filosofo del linguaggio; rimeditati in chiave politica; criticati per il substrato ideologico che nella pratica li reggeva. Siamo distanti anche dalla visione formalistica che caratterizzava la monografia giovanile sulle Situazioni soggettive.
All’inizio, quell’opera “atipica” desta reazioni poco favorevoli nei paludati ambienti accademici: «l’establishment l’accoglie a denti stretti – confessa Cordero – ma pratici colti l’adoperano». Proprio così. I magistrati e gli avvocati più sensibili agli sfondi culturali della giustizia penale notano ben presto la straordinaria qualità di quelle pagine. Alcuni docenti lo adottano come libro di testo nei loro corsi. Migliaia di studenti sono attratti dalla prosa colta, dai riferimenti storici e filosofici, dall’uso impeccabile dell’arnese interpretativo. In pochi anni, diventerà una lettura obbligata per tutti coloro che intendono occuparsi di procedura penale.
Il vero valore dell’opera sta nel taglio critico che caratterizza ogni sua pagina. L’autore non si limita a descrivere gli istituti e le pratiche della procedura. Ne esamina l’origine, la ragion d’essere, la pratica applicazione alla luce di quelle che lui stesso definisce «leggi naturali del processo» (Procedura penale, Milano, Giuffrè, 1966, p. 21). Niente a che vedere con premesse giusnaturaliste. Ogni strumento – sostiene l’Autore – ha sue proprie leggi. Nel caso del processo giudiziario, occorre individuare quelle adatte a produrre decisioni giuste, senza ledere, oltre il necessario, la dignità delle persone che vi sono coinvolte. I postulati sono pochi e semplici: giudice indipendente e imparziale; struttura triadica dell’agone giudiziario. Da questi, discendono, a mo’ di corollario, le regole adatte a regolare lo svolgimento procedurale. I “principi naturali” appartengono all’essenza logica del processo (giusto) e sono anteposti agli stessi principi costituzionali.
Si avverte anche qui l’eco di James Goldschmidt e della opzione politico-culturale ben evidenziata nella prefazione al suo Prozess als Rechtslage: il diritto processuale può prosperare solo sul terreno del liberalismo democratico, dove l’agone sia regolato garantendo in concreto la possibilità che ciascuna delle parti in contesa esca vincente. Trattandosi di un dispositivo atto a produrre norme (singolari e concrete) sulla scorta delle norme (generali ed astratte) confezionate dal legislatore, il processo va strutturato in modo da assicurare il contraddittorio fra le parti, affinché queste possano accettarne l’esito. I contesti politici (autoritari o dispotici) che negano il contraddittorio non favoriscono un autentico diritto processuale, ma semmai una Kabinettsjustiz, vale a dire una giustizia penale dispoticamente influenzata dal potente di turno: una penalità “amministrativizzata” che non meriterebbe l’appellativo di ‘giurisdizionale’, anche se ad amministrarla vi fosse chi pretende di essere chiamato ‘giudice’. Di qui le battaglie che – specialmente nella prima metà degli anni Sessanta – Cordero si impegna a combattere contro le incrostazioni autoritarie e inquisitorie del processo penale italiano, contro l’ambigua figura del giudice istruttore (giudice-accusatore) e contro l’ancora più compromettente figura dell’accusatore giudice (pubblico ministero-istruttore).
Il manuale è impregnato dalla prima all’ultima pagina di questo spirito militante. Esso avrà una diffusione ampia e prolungata nel tempo. L’edizione del 1966 sarà seguita da altre 8 edizioni nei venti anni successivi. Dopo la riforma processuale del 1988 l’autore riscriverà il suo manuale, del quale usciranno ben 9 edizioni nei venticinque anni successivi. In totale, 18 edizioni sulle quali si sono formate almeno quattro generazioni di studiosi del processo penale. Bastano questi numeri a dare un’idea dell’influsso davvero notevole che Franco Cordero ha avuto sulla dottrina processualpenalistica italiana nella seconda metà del secolo scorso.
Dal punto di vista, per così dire, dogmatico, credo che il culmine del pensiero processualistico di Cordero sia tutto racchiuso nella prima edizione del suo manuale. Le edizioni successive, così come i rari interventi su temi processualistici pubblicati in seguito, tengono conto delle evoluzioni normative e giurisprudenziali, sviluppando tuttavia idee, intuizioni, posizioni, già maturate nel proficuo decennio inaugurato dalla monografia sulle Situazioni soggettive (1956).
3. Cordero filosofo del diritto: l’incidente della Cattolica
Come già detto, nel 1962 Cordero ottiene dalle autorità religiose dell’Università Cattolica il nulla osta per insegnare anche la Filosofia del diritto. Insegnamento importante e delicato per una Università confessionale, a lungo affidato negli anni precedenti a un prelato di sicura ortodossia, mons. Francesco Olgiati (cofondatore, con Agostino Gemelli, della stessa Università). La discontinuità è evidente. Cordero si professa cattolico, ma intende indagare il mondo teologale con il bisturi della ragione, insofferente ai dogmi religiosi calati dall’alto e sottratti alla discussione. Ai padri della Chiesa e alle encicliche papali associa letture di Freud, Nietzsche, Carnap, spesso anzi preferendoli per le provocatorie sollecitazioni che ne scaturiscono. Gli attriti con le gerarchie dell’ateneo milanese sono nell’aria, benché si versi in un periodo di accese discussioni interne al mondo cattolico, incoraggiate dalle aperture dialoganti del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965) e da coevi movimenti di dissenso all’interno della stessa Chiesa cattolica: si pensi all’esperienza delle comunità cristiane di base sorte a Roma (Dom Franzoni) e all’isolotto di Firenze (don Mazzi).
Il casus belli è rappresentato dalla pubblicazione del libro Gli Osservanti. Fenomenologia delle norme (Giuffrè, 1967), un manuale lungo quasi 700 pagine, nel quale l’autore analizza la genesi delle norme amputando le premesse religiose o giusnaturalistiche care all’ortodossia cattolica. Basta leggere le prime tre righe per capirne il taglio: «Questo libro studia i fenomeni normativi ossia l’uomo come tessitore di norme, che impone a sé, agli altri, a Dio: le produce e le consuma, legislatore e animale osservante».
Due anni dopo pubblica un altro libro “eretico”: Il sistema negato. Lutero contro Erasmo (Bari, De Donato, 1969), dove mostra di preferire il “negatore” Lutero all’ “integrato” Erasmo: negatore del “sistema” il primo; integrato (per astuta convenienza) il secondo. Nello stesso anno esce il romanzo autobiografico Genus, nel quale egli ricostruisce con toni cupi l’ambiente accademico nel quale opera, spingendosi a prevedere la sventura che stava per subire.
Questa produzione accademico-letteraria non sfugge all’occhio dell’autorità ecclesiastica.
L’assistente spirituale dell’Università Cattolica (Mons. Carlo Colombo, “teologo del Papa” come Cordero lo definirà), scrive una lettera per indurre “l’eretico sulla retta via”, anticipandogli la possibile revoca dell’incarico. Il destinatario della lettera non piega il capo. L’urto è inevitabile. Il 1° dicembre 1969 (dopo varie tergiversazioni) il consiglio di Facoltà toglie a Cordero l’incarico di Filosofia del diritto, lasciandoli, per il momento, l’insegnamento di Procedura penale.
La reazione non si fa attendere. A inizio gennaio 1970 Cordero pubblica il violento pamphlet Risposta a Monsignore (De Donato, 1970) col quale risponde punto per punto alla lettera di Colombo. Il libriccino avrà ampia divulgazione: quattro edizioni nello stesso anno, con l’aggiunta di una traduzione in lingua inglese. Questo successo finirà col peggiorare la sua situazione interna alla Cattolica e contribuirà a far deflagrare il caso sul piano nazionale. Si muove la curia romana. Il prefetto della Sacra Congregatio pro institutione catholica (card. Gabriele Garrone) scrive a Cordero minacciando la revoca del nulla osta all’insegnamento in Cattolica, se entro il 31 ottobre (1970) non scenderà a Roma per recedere dal suo marcato laicismo. Anche qui la risposta non si fa attendere e sarà la risposta di un intellettuale fermo nell’affermare la propria indipendenza di pensiero, senza compromessi con postulati confessionali (la lettera fu pubblicata integralmente dal settimanale l’Espresso del 1° novembre 1970 col titolo Nostra madre ghigliottina). Andò a finire che il consiglio di Facoltà revocò il nulla osta all’insegnamento della Procedura penale e di qualsiasi altra disciplina nell’Università cattolica. Le parole contenute in una lettera inviatagli dal rettore Lazzati (13 novembre 1970) non lasciavano dubbi: «non potrà più svolgere, nell’Università del Sacro Cuore, nessuna attività inerente allo stato giuridico di professore». Situazione paradossale: uno dei più qualificati studiosi del processo penale era privato della venia legendi in una disciplina che – si può dire – aveva contribuito in misura decisiva a modernizzare. Cordero aveva chiusa la citata lettera al card. Garrone con queste parole: «Reagirò se qualcuno tenterà di togliermi la cattedra: in Italia c’è una legge e ci sono dei giudici; nessuna migliore occasione per vedere se il paese nel quale viviamo è un principato ecclesiastico o una repubblica democratica».
In quello stesso periodo, Emanuele Severino aveva subito analoga sorte. Docente di Filosofia morale nella stessa Università, gli era stato revocato il nulla osta all’insegnamento per l’asserita inconciliabilità di sue teorizzazioni con l’ortodossia cattolica. Pur con rammarico, egli accettò l’esclusione e si trasferì all’Università veneziana Ca’ Foscari, proseguendo lì il suo insegnamento. Poteva essere un precedente da imitare.
Cordero, invece, mantiene la promessa fatta per iscritto al card. Garrone e sceglie la via del conflitto, convinto di avere buone ragioni da far valere davanti ai giudici.
4. Segue: Il caso Cordero davanti alla Corte costituzionale e nelle reazioni dei commentatori
La revoca del nulla osta fu impugnato davanti al Consiglio di Stato (ancora non esistevano i TAR) che rinvia gli atti alla Corte costituzionale, ravvisando un possibile contrasto fra la norma concordataria sulla revoca del nulla osta (art. 38 dei Patti lateranensi) con gli artt. 7 e 33 Cost. (ordinanza del 26 novembre 1971). La Corte costituzionale si pronuncerà più di un anno dopo (sent. del 14 dicembre 1972, n. 195) dando sostanzialmente ragione all’autorità ecclesiastica. Si afferma l’idea che una “Università ideologicamente qualificata” vada lasciata libera di limitare la libertà di insegnamento, senza però violarla, anche perché «libero è il docente di aderire, con il consenso alla chiamata, alle particolari finalità della scuola; libero è egli di recedere, a sua scelta, dal rapporto con essa quando tali finalità più non condivida».
La sentenza lascia l’amaro in bocca ai pensatori laici, e solleva accese discussioni a destra e a sinistra. Molti accademici prendono posizione pro o contro. La rilevanza anche attuale del tema (se si considera l’analogo incidente occorso al filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri in epoca relativamente recente) consiglia di dar brevemente conto almeno di alcuni commenti suscitati dal “caso Cordero”.
Particolare risalto ebbe la polemica che oppose Vezio Crisafulli a Paolo Barile, entrambi direttamente coinvolti nella vicenda: il primo come membro della Corte che emanò la sentenza, il secondo come difensore di Cordero (assieme a Giuseppe Guarino) davanti alla stessa Corte. A pochi giorni dal deposito della motivazione, Crisafulli inviò una lettera al Corriere della sera (18 gennaio 1973), non per difendere la sentenza, ma per spiegarne il senso ed evitare fraintendimenti su una questione di massima importanza per le istituzioni culturali. Egli negava che la Corte avesse fatto prevalere la norma concordataria sulla normativa costituzionale; si è invece tratto dall’art. 33 cost. la libertà della scuola prevale sulla libertà (del singolo docente) nella scuola. E questo accadrebbe – soggiungeva Crisafulli – anche se la libera università fosse ideologicamente orientata in senso marxista o islamico: in altre parole, per far sopravvivere i postulati ideologici sui quali si fonda, l’istituzione universitaria orientata in senso confessionale o ideologico può limitare la libertà del singolo docente. Barile replicava che l’Università non può essere messa sullo stesso piano di una scuola (inferiore o superiore). Il comma 6° dell’art. 33 assegna uno status speciale all’istituzione accademica, riconoscendole ampia autonomia ordinamentale. Tutti le Università, anche quelle libere, in quanto sovvenzionate con danaro pubblico, sono soggette alle leggi dello Stato e non possono revocare l’autorizzazione ad insegnare, sovrapponendo una propria valutazione ideologica al giudizio della commissione statale di concorso che abbia assegnato il titolo di professore in una determinata disciplina.
Vero che Cordero poteva essere chiamato da altro ateneo, ma questo comportava una lesione del diritto alla inamovibilità, a sua volta garantito da una legge dello Stato. Oltretutto, scriveva Paolo Barile nella citata lettera a Crisafulli, «non sono molte le Università che oggi chiamerebbero Cordero: quasi ovunque ci sono rigide maggioranze di cattolici». Va detto, a questo proposito, che durante la contesa giudiziaria con la Cattolica, Franco Cordero manteneva lo status giuridico di professore ordinario principalmente sotto il profilo economico), ma senza poter tenere lezione. Il suo trasferimento ad altra sede si imponeva, dopo che la Corte costituzionale aveva praticamente chiuso la vicenda in favore della Cattolica; ma restava problematico, perché era necessario trovare un ateneo disposto a chiamarlo. Di questo problema si fece carico Arturo Carlo Jemolo, che in una nota alla decisione della Corte costituzionale qui considerata (Perplessità su una sentenza, in Foro. it., 1973, I, c. 12) auspicava il varo di una legge ad hoc con la quale si stabilisse che «ove la Santa sede revochi il suo nulla osta, il ministro dell’istruzione trasferisca il professore ad Università statale, anche in soprannumero, tenendo il possibile conto dei suoi desideri». Il principio di inamovibilità sarebbe stato comunque sacrificato, ma la carriera del docente in altra sede sarebbe stata assicurata, anche tenendo conto delle sue preferenze nella scelta della sede.
Non ci fu comunque bisogno di una legge per far approdare il prof. Cordero all’ateneo torinese nel 1974: una chiamata nient’affatto scontata, che ebbe qualche avversario. Due anni dopo (1976) sarebbe stato chiamato dall’Università di Roma-La Sapienza, dove rimase fino al congedo.
5. Narratore e storico
Quattro anni di forzata assenza dalle aule di lezione hanno lasciato un segno nella vita di questo eccellente studioso. Quando gli fu negato l’insegnamento di Procedura penale aveva 42 anni. Ne aveva compiuti già 46 quando riprese la vita di docente a Torino. Se guardiamo alla produzione scientifica e letteraria di quel quadriennio, notiamo la pressoché totale assenza di contributi riguardanti la Procedura penale e un intensificarsi dell’interesse per la narrativa, la filosofia, la storia, il giornalismo.
Pubblica in rapida sequenza quattro romanzi a sfondo marcatamente autobiografico: Le masche, Rizzoli, Milano, 1971; Opus, Einaudi, Torino, 1972; Pavana, Einaudi, Torino, 1973; Viene il re, Bompiani, Milano, 1974; tutti di grande interesse per chi desidera sondare il suo stato d’animo in quel periodo buio.
Nel 1972 ritorna alla sua passione per la riflessione teologico-filosofica, pubblicando il voluminoso saggio L'Epistola ai Romani. Antropologia del cristianesimo paolino, Collana Saggi, Torino, Einaudi, 1972.
Dal 1970 al 1972 è molto attivo sulle pagine del settimanale l’Espresso, dove interviene dissertando di varia umanità, per prendere posizione su controversi casi giudiziari dell’epoca (es. caso Valpreda, caso Vajont), per affrontare temi d’attualità (amnistia, divorzio, tossicodipendenza), senza trascurare i suoi personali conflitti con le gerarchie cattoliche. Fra i vari scritti di codesto periodo merita segnalare quello apparso sull’Espresso del 20 febbraio 1972 dove ripercorre la drammatica degradazione accademica di Ernesto Bonaiuti, nella quale – si capisce – egli trova motivi di inquietante rispecchiamento: sembra davvero che parli di sé stesso, in un momento in cui la vicenda con la Cattolica è ancora in corso, aperta a esiti che Cordero presagisce già come negativi.
Come detto, il suo interesse per la Procedura penale cala. A parte il manuale, periodicamente aggiornato e sempre molto letto da un gruppo crescente di seguaci, si registrano rari saggi su riviste o interventi a convegni accademici, come quello svolto nel 1975 a Trieste (sua prima sede universitaria) in tema Connessione e giudice naturale, nell’ambito del convegno su Connessione e conflitti di competenza Milano, Giuffrè 1975, p. 41 ss.); o la relazione dal titolo Stilus curiae. (analisi della sentenza penale) svolta nel convegno ferrarese su La sentenza in Europa: metodo, tecnica e stile (10-12 ottobre 1985) pubblicata con gli atti del convegno Padova, CEDAM, 1988, nonché in Riv. it. dir. e proc. pen. 1986, p. 19 ss.).
Nell’ottobre del 1985 figura fra i fondatori della neo-costituita Associazione tra gli studiosi del processo penale, ma non vi dedicherà tante energie.
Chiamato a far parte della Commissione Pisapia (istituita dal Ministro della Giustizia con D.M. 18 settembre 1974) per la redazione di un nuovo codice di procedura penale, non vi spende energie; il suo ruolo resta marginale, benché dieci anni prima (nei già citati convegni di Lecce e Bellagio) proprio lui si fosse battuto con passione per una radicale riforma del processo.
Negli anni successivi, la sua attenzione è attratta dalla filosofia del diritto (vedi la voce Diritto, in Enciclopedia Einaudi, 1978, vol. IV, p. 895-1003) oltre che dalla storia del diritto (Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1981; La fabbrica della peste, Laterza, Laterza, Roma-Bari 1983; Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Laterza, Roma-Bari, 1986 e dai quattro volumi dedicati alla biografia del grande eretico Savonarola, Laterza, Roma-Bari,1986-1988).
Né si è sopita la vena narrativa: nel 1975 pubblica L’Opera (Milano, Bompiani), dove affiorano altri scorci autobiografici del giovane liceale in una piccola città, satura di simboli e riti religiosi, sul finir della seconda guerra mondiale. Nel 1976 esce Passi d’arme (Milano, Giuffrè), romanzo di ambientazione militare (paragonato al buzzatiano Deserto dei Tartari), che fornisce occasione per dialoghi e riflessioni interiori imperniati sulla figura di un giovane studente in legge.
Sei romanzi in sei anni, nei quali l’autore riversa sentimenti di inquietudine connessi con la sua ancora recente vicenda accademica, ma anche esplosioni di vitalità e curiosità viste da un uomo maturo che rimedita il passato adolescenziale.
I romanzi di questi anni sono ricchi di tracce per ricostruire la personalità ricca e provocatoria di un intellettuale nemico delle convenzioni sociali, degli stereotipi, dei servilismi interessati e delle arroganze dei potenti.
Successivamente, darà alle stampe altre quattro opere narrative: Cronaca d'una stregoneria moderna (Laterza, Roma-Bari, 1985), dove narra, in prima persona e con ambientazione di fantasia, un caso indiziario, relativo a un problematico suicidio dietro il quale potrebbe celarsi un omicidio o una condotta istigatoria. Segue L'armatura. Un'inconsueta traversata del mondo raccontata con strabiliante maestria (Garzanti, Milano, 2007), di ambientazione settecentesca, con personaggi e località fantasiose, nel quale esibisce la sua vastissima erudizione (non solo umanistica). Poi il Toson d’oro (Leima, Palermo, 2014), dove si raccontano avventure argonautiche e dove compare un personaggio di nome Iulius (che in Genus era l’alter ego dello stesso Cordero). E ancora, Bellum civile (Quodlibet, Macerata, 2017), una riscrittura di Passi d’arme, pubblicato circa quarant’anni prima. Infine, La tredicesima cattedra (La nave di Teseo, Milano, 2020), pubblicato postumo, subito dopo la sua scomparsa, anch’esso con evidenti richiami autobiografici, in parte già narrati nel suo primo romanzo.
6. Polemista negli anni 2000
Dopo il congedo dall’insegnamento (1998), Cordero torna sorprendentemente in campo come polemista con un articolo pubblicato sul giornale La Repubblica (19 dicembre 2001) dal titolo Lezione impolitica sulla nostra giustizia.
L’occasione è data da quel colpo di mano legislativo che introdusse nel codice di rito un discutibile divieto probatorio nella disciplina delle rogatorie internazionali (Legge 5 ottobre 2001, n. 367). Su quel divieto gravava il sospetto di essere stato voluto per favorire – in extremis – un amico dell’allora presidente del Consiglio imputato di corruzione giudiziaria. Cordero vi intravvede un segno di arroganza del potere e non esita a schierarsi al fianco dei magistrati milanesi, inflessibili nell’acquisire comunque le prove che la novella legislativa intendeva vietare.
Sarà questo il primo di una numerosa serie di scritti giornalistici e interventi in pubblico disseminati in un quindicennio e raccolti in diversi volumi (Le strane regole del signor B., Milano, Garzanti, 2003; Nere lune d’Italia: segnali da un anno difficile, Milano, Garzanti, 2004; Fiabe d’entropia: l’uomo, Dio, il diavolo, Milano, Garzanti, 2005; Aspettando la cometa: notizie e ipotesi sul climaterio d’Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008; Il brodo delle undici: l’Italia nel nodo scorsoio, Torino, Bollati Boringhieri, 2010; L’opera italiana da due soldi: regnava Berlusconi, Torino, Bollati Boringhieri, 2012).
Con questo genere letterario Cordero si era già cimentato – come detto in precedenza – all’inizio degli anni Settanta, all’epoca della collaborazione con l’Espresso, quando infuriava la polemica con l’autorità accademico-ecclesiastica. Ora se la prende con la classe politica, ammorbata dal vizio di ostacolare con iniziative pseudo-garantiste il lavoro della magistratura penale, particolarmente attiva sul fronte della corruzione politica. I suoi interventi sono animati da un forte sentimento di intransigenza morale. Con linguaggio schietto e con arditi paralleli storici denuncia l’uso disinvolto e arrogante dell’uomo di potere, incline all’uso aggressivo e pretestuoso di argomenti “liberali” per assicurarsi l’impunità.
A prima vista si ha l’impressione che il Cordero pamphlettista, difensore delle inchieste giudiziarie, implacabile censore dei vizi pubblici e delle intemperanze di una classe politica corrotta, sia in contraddizione con lo studioso che, negli anni Sessanta del secolo scorso, denunciava, sibilando parole altrettanto schiette, le tare inquisitorie della giustizia penale italiana. In realtà, c’è una grande coerenza nella sua lunga avventura intellettuale. Al centro delle sue battaglie c’è sempre stata una manifesta insofferenza per l’uso impunito e dispotico del potere: non importa che si tratti di potere giudiziario, fondato su pratiche inquisitorie; di potere religioso, fondato sulla difesa ad oltranza di indiscutibili ortodossie; di potere politico, fondato su un malinteso senso dell’investitura popolare; di potere economico, che accentua le diseguaglianze sociali, assoggettando ai propri interessi anche l’amministrazione della cosa pubblica.
Ogni potere, non solo quello giudiziario, rischia derive personalistiche e tiranniche, nella misura in cui chi lo esercita si lascia sopraffare da impulsi primordiali. Insegna Sigmund Freud – più volte evocato a questo riguardo da Cordero (ad esempio, in Morbo italico, cit., 67 e 169) – che nel territorio dell’ES, «bestia extra tempora indifferente al trascorrere del tempo», regno di pulsioni individuali dominate dal principio del piacere, sono all’opera istinti primitivi insensibili a principi razionali o a freni morali. Uomini fra gli uomini, anche i potenti di ogni risma (non solo i magistrati) mal sopportano il “disagio della civiltà”. Franco Cordero “umanista eterodosso”, “giurista militante” si è assunto il faticoso compito di censurare ogni uso smodato del potere, accettando di pagare alti prezzi personali per difendere la sua libertà di coscienza e di critica. E possiamo già immaginare cosa direbbe oggi, con le sconcertanti manifestazioni di arroganza muscolare che vediamo attive anche sul piano della politica internazionale.
7. Lascito intellettuale
Le molteplicità delle opere (giuridiche, filosofiche, teologiche, letterarie) nelle quali si è concretizzata la sua attività intellettuale rende difficoltoso un bilancio. Nessuno, nemmeno i suoi detrattori all’epoca del conflitto con l’Università del Sacro Cuore, mettevano in dubbio la sua straordinaria cultura e l’eccellente abilità espositiva. “Non discuto il metodo da Lei scelto e soprattutto ammiro la Sua cultura, veramente immensa” scriveva mons. Colombo, nella lettera alla quale Cordero replicò con il suo noto pamphlet (frammento riportato in Risposta a Monsignore, cit., p. 43). E qualche giorno dopo la sua scomparsa, il filosofo cattolico Francesco D’Agostino, nel ricordarne la figura scriveva: «sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa», ma poi concludeva che la sua non era intelligenza «né giuridica, né filosofica, ma polemica e, in quanto tale, sterile» (Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici, L’Avvenire, 10 maggio 2020.
Non essendo un filosofo, né uno storico, né un critico letterario, mi astengo dal formulare un giudizio complessivo su un autore eccezionalmente poliedrico. In quanto processualpenalista, condivido con D’Agostino l’affermazione che Cordero ha impresso al diritto processuale penale italiano uno sviluppo “oltre ogni aspettativa”. Proprio così. Egli lascia agli studiosi del processo penale un’eredità importante, che non va dissipata. Certo, bisogna riconoscere che il suo saggio giovanile sulle Situazioni soggettive (risalente ormai settant’anni fa, lui appena ventottenne, ripubblicato da Giappichelli nel 2022, con una bella prefazione di Paolo Ferrua) appare oggi difficilmente accessibile perché scritto in un linguaggio ricco di astrazioni, frasi lunghe e complicate che sfidano le capacità di comprensione specie delle generazioni di studiosi ora in attività. Si tratta tuttavia di un’opera seminale, che contiene in embrione il nucleo vivo della dottrina processuale coltivata negli anni successivi: l’analisi delle figure soggettive (l’onere, il dovere, il potere, la discrezionalità) sono analizzate sia nella loro realtà statica, sia nel dinamismo dell’agone processuale (anche qui, Goldschmidt docet). Occorre essere consapevoli che – per la dottrina processualpenalistica – quel testo ha reso possibile l’emancipazione dalla tradizionale (e inadeguata) teorica del “rapporto giuridico processuale”. Impostazione di ascendenza processualcivilistica (chiovendiana), cara agli esponenti del tecnicismo giuridico, che impediva di analizzare il fenomeno processuale come campo di forze dove si scontrano interessi terribilmente concreti.
Quanto le riflessioni teoriche contenute in quel primo sforzo monografico siano risultate proficue per la scienza processualistica lo si comprende dagli studi successivi del nostro Autore.
Gli scritti sulle prove risalenti ai primi anni Sessanta sono quanto di meglio si possa ancor oggi trovare su un tema centralissimo per l’accertamento giudiziario. La distinzione fra prova storica e prova critica (ereditata da Carnelutti) è stata approfondita e ben adattata da Cordero alla realtà del processo penale in studi che tuttora forniscono una base teorica per analizzare il fenomeno probatorio, anche con riferimento all’affermarsi di quelle specie di prova critica rappresentate dalla “prova digitale” e dalla cosiddetta “prova scientifica”.
Gli interventi sulla riforma processuale penale svolti nei convegni di Lecce e Bellagio (1964) ai quali si è in precedenza accennato, offrono anche al giovane studioso odierno una quantità di spunti e osservazioni di straordinario acume per la sorprendente lungimiranza che li caratterizza.
La “lettura” delle invalidità processuali e, in particolare, delle invalidità probatorie resta attuale a più di sessant’anni dalla sua formulazione.
Il manuale (a partire dalla edizione del 1966) costituisce un modello tuttora insuperato di esposizione critica delle norme processuali penali, con un sapiente uso della comparazione storica messa al servizio della comprensione degli istituti volta a volta esaminati. Un’opera ormai appartenente al novero dei “classici”: destinata a durare nel tempo e a fornire illuminanti indicazioni (anche di metodo), benché le norme delle quali si parla non siano più in vigore.
L’impostazione rigorosamente sistematica per cui nell’interpretare le norme conta principalmente la coerenza complessiva con l’insieme dell’ordinamento, mentre vale poco o niente la volontà del legislatore (le norme non vanno lette come testamenti, amava ripetere), ha segnato un netto avanzamento rispetto all’atteggiamento piattamente esegetico (e quasi sempre ideologicamente orientato) dei seguaci del tecnicismo giuridico.
Dotato di fertile immaginazione, ha saputo vedere in anticipo le conseguenze a lungo termine di certe scelte legislative (come, ad esempio, quelle riguardanti la lettura a fini di contestazione nell’esame testimoniale), cogliendo connessioni problematiche inaccessibili a chi, per fretta o superficialità, non è abituato a rimuovere le croste verbali delle singole norme. Ha sempre guardato al fenomeno normativo come espressione della cultura e della ideologia di un data epoca, trasmettendo a molti giovani la passione per la storia delle idee e per la scoperta delle radici di istituti antichi utili a coglierne il senso nel tempo presente.
Un cenno merita lo stile espositivo. Chi legge i suoi saggi (ma il rilievo vale anche per i romanzi) noterà la singolare efficacia che si sprigiona da frasi secche ed essenziali. Sono frasi ad alto potenziale contenutistico. Non è stile barocco, come qualcuno può pensare. Al contrario. Cordero elimina il superfluo, assegnando a ogni parola un preciso “compito” concettuale nell’economia del discorso. Abile nell’uso dell’ellisse e del linguaggio allusivo, lascia spesso sottinteso quanto il lettore attento deve saper completare mentalmente per proprio conto. Discorsi saturi di pensiero, prosciugati da aggettivazioni sovrabbondanti. esigono un ruolo attivo, talvolta faticoso, ma sempre redditizio e istruttivo per chi legge. Copiare il suo stile è impossibile e comunque sconsigliato, tanto esso è compenetrato con la personalità e il patrimonio di conoscenze posseduto di chi lo ha messo a punto: chi si illudesse di imitarlo farebbe inevitabilmente figura meschina. Se ne possono però trarre utilissimi insegnamenti, considerata l’indiscutibile efficacia che lo contrassegna: prima di licenziare uno scritto, verificare l’esatta corrispondenza fra pensieri e parole, a condizione che vi sia un pensiero da trasmetter; astenersi da frasi fatte, assunti stereotipati o espressioni trombonesche; arrendersi di fronte all’indicibile senza tentare spericolati irrazionalismi e senza lasciarsi andare a petizioni di principio; sciogliere concetti complessi nei loro elementi essenziali; puntare alla ricchezza concettuale del periodo con massima economia di parole; eliminare ogni sovrabbondanza che affaticherebbe inutilmente la mente del povero lettore.
Infine, un cenno al coraggio intellettuale. La vicenda sofferta nella prima metà degli anni Settanta dimostra quanto gli fosse cara la libertà di pensiero e di coscienza. Qualcuno può aver pensato che quella sua tenace lotta per riavere la cattedra negata fosse motivata da ragioni egoistiche. In realtà Cordero sapeva che avrebbe pagato a caro prezzo talune scelte “eretiche”. Ha cercato di combattere con l’arma della ragione i veti dell’ambiente accademico nel quale era inserito e ha denunciato i soprusi che vedeva affiorare nella realtà politico-sociale, come i veri intellettuali del dissenso, critici con i potenti di ogni risma, intolleranti delle ingiustizie, refrattari al compromesso anche a costo di essere degradati o marginalizzati. Figure – bisogna ammetterlo – divenute rare nel tempo presente.
* Con una iniziativa davvero encomiabile, la biblioteca civica di Cuneo ha catalogato e messo a disposizione del pubblico la bibliografia pressoché completa di Franco Cordero. Ha inoltre digitalizzato gli articoli non giuridici da lui scritti, e gli articoli scritti su di lui, comparsi sulle maggiori testate nel corso degli anni, ora liberamente consultabili al seguente link https://www.comune.cuneo.it/cultura/biblioteca/cataloghi/fondo-franco-cordero.html. Questa ricca fonte informativa si è rivelata particolarmente utile per ricostruire la tormentata “lite” fra Cordero e l’Università del Sacro Cuore (par. 3 e 4).
“Non ci vuole passione ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.”
Dostoevskij, L’idiota
S. è entrato in carcere a San Vittore un pomeriggio del luglio 2024 per il tentato furto di un motorino.
Non parlava e ha affrontato il colloquio per i nuovi giunti con lo psicologo disegnando. Aveva solo una scarpa, i capelli lunghi ed era vestito con indumenti evidentemente recuperati in strada.
Cercava di uscire da San Vittore in tutti i modi, convinto che si fossero sbagliati a portarlo lì. Al collo si era messo un cartello che mostrava a chiunque gli si avvicinasse con scritto: “Ho bisogno di aiuto urgente; devo uscire da San Vittore. Mi hanno portato qui per sbaglio. Colpa di due carabinieri.”
Gli operatori decisero di metterlo in un reparto ad alta osservazione, con videocamere e agenti preparati a lavorare con persone fragili. La prima notte S. aveva così paura da infilarsi nella branda del concellino; girava con lo sguardo spaventato e perso.
S. ha 21 anni è nato in Brasile ed è stato adottato a 4 anni da una coppia della provincia di Milano che aveva già un figlio naturale, entrambi musicisti. Anche S. ha la passione per la musica e un notevole talento: suona il pianoforte, compone e, insieme al padre, insegnava ai bambini.
Sembrava essere il figlio modello e a 17 anni i genitori avevano deciso per dargli più spazio di prendergli una casa in affitto. Ha vissuto da solo per tutto il periodo del Covid, prima vicino ai genitori e poi in una casa in Milano; per un po’ sembrava cavarsela, ma poi sono incominciati gli atteggiamenti bizzarri: vita senza orari, frequentazione di gente che vive in strada e distruzione di oggetti in casa. Il padrone di casa lo ha sfrattato e lui ha incominciato a vivere in strada: la mamma lo ha visto poche volte tentando di farlo ricoverare nella convinzione che avesse un problema con le sostanze. In effetti era vero, e risulterà dopo, che S. aveva cominciato ad usare THC e alcol.
Una sera ha cercato di rubare un motorino (lui sosterrà che voleva solo i guanti) ed è stato arrestato e portato a San Vittore.
Dopo qualche giorno S. decise di raccontarsi, di fidarsi della operatrice che si occupa dei fragili e degli ultimi e di fornire agli operatori attenti del carcere il numero della madre per informarla che era stato arrestato e per chiederle di mandargli dei soldi per le sigarette e altro.
Anche i medici riuscirono a mettersi in relazione con S. che incominciò una terapia antipsicotica e cercarono di riannodare i fili della relazione con i genitori.
La mamma è una donna molto fragile; appena ha saputo la notizia si è allarmata e ha spiegato agli operatori di non riuscire più ad aiutare il figlio e che sarebbe partita di lì a poco per un ritiro spirituale. Ha raccontato della sua separazione dal marito e ha riferito agli operatori di domandare a lui i soldi necessari per il ragazzo in carcere.
Dentro San Vittore emergeva tutta la fragilità di S.: la sua paura del contesto, degli altri detenuti e una particolare e spiccata sofferenza per la chiusura delle celle per 22 ore al giorno. Lui che era abituato a girare per la citta. Ma emergeva anche una grande sensibilità e un gran bisogno di affidarsi a chi lo ascolta: riusciva ad instaurare presto un buon rapporto sia con l’educatrice che con la psichiatra e il medico di reparto.
S. in Tribunale in quel giorno di luglio per la convalida dell’arresto si presentò scompensato non capendo esattamente dove si trovava e per quale motivo fosse in quel luogo. Arrivò senza una scarpa e direttamente dalla strada. Il giudice convalidava l’arresto e rinviava per disporre una perizia, apparentemente comprendendo il suo disagio mentale e la sofferenza. Passarono 3 mesi prima che il tribunale nominasse il perito.
La madre ricominciava a venire a trovarlo e a ricevere le telefonate, mentre il padre esplicitava di non essere disponibile ad avere alcun contatto con lui e neanche con i curanti.
Frattanto nei mesi a seguire, S. incominciava a prendere con regolarità la terapia ed era più lucido e coerente nei discorsi. Aveva sempre paura, ma lo verbalizzava e cercava di trovare delle strategie.
L’equipe della psichiatria lavorava in stretto contatto con l’avvocato che lui vedeva settimanalmente e che cercava di preparare il territorio e, soprattutto, il centro di salute mentale di riferimento al rientro di S., proponendo di inserirlo in una struttura comunitaria.
La perizia verrà depositata alcuni mesi dopo riconoscendo S. totalmente incapace di intendere e volere al momento del fatto e suggerendo proprio una comunità a doppia diagnosi (tossicodipendente e paziente psichiatrico). Frattanto però il servizio delle dipendenze del carcere non aveva trovato tracce di sostanze nelle urine e nel capello, ritenendo perciò impossibile rilasciare la certificazione, che costituisce il presupposto imprescindibile per l’inserimento in una comunità a doppia diagnosi.
Incominciava di lì a poco un palleggio di competenze tra il centro di salute mentale e quello per le dipendenze; a leggere la corrispondenza oggi, sembra inverosimile che si parlasse della cura di una persona. Anche l’avvocato è stato fortemente osteggiato dal servizio; la comunità che viene individuata è bocciata perché fuori regione e il servizio di salute mentale non è disposto a pagarla.
Pur a fronte di quell’esito di perizia che diceva a chiare lettere che non avrebbe dovuto rimanere in carcere, S. ha continuato a restare a San Vittore; la mamma non era disponibile ad accoglierlo; il padre non voleva essere contattato, il centro di salute mentale non trovava una comunità e il serd non lo riteneva un paziente da prendere in carico.
S. non era in grado di andare in un dormitorio e i servizi del terzo settore erano pieni. Era stata trovata una disponibilità presso un progetto di accoglienza per persone con fragilità psichica ma aveva un posto libero solo dopo un mese.
Insieme, gli operatori del carcere e l’avvocato, finalmente trovavano dopo qualche giorno un'associazione con un posto letto libero, pur senza assistenza educativa e a quel punto furono coinvolti volontari e cappellani per garantire una visita al giorno a S.
Il giudice applicava a S. quindi la misura di sicurezza della libertà vigilata in sostituzione della custodia cautelare invitando il centro di salute mentale ad una presa in carico efficace e seria del paziente, di fatto, molto solo.
S. usciva finalmente dal carcere dopo 8 mesi lucido, con due scarpe e rivestito. Pronto per ricominciare.
L’educatrice passava tutte le mattine a vedere come stava e a controllare che prendesse regolarmente la terapia; lo accompagnava ai servizi e gli presentava anche un assistente sociale della Casa della Carità che si occuperà di tenere le fila dei vari attori e di supervisionare l’andamento di S.
Quella collocazione non durerà molto perché in un momento di crisi dovuta anche a solitudine S. metterà in atto un tentativo di suicidio. S. è stato immediatamente dimesso dal luogo ove era ospitato che faceva parte di progetto regionale per l’accoglienza delle persone fragili, perché considerato troppo grave.
S. risulterà invece troppo poco grave per l’ospedale ove era trasportato nella medesima giornata; dopo la visita e la suturazione è stato dimesso per assenza di bisogni, come se una persona con queste caratteristiche e questa solitudine e fragilità possa ritenersi dimissibile così in fretta. E così S. quella notte dormirà su una panchina fuori dall’ospedale; non ha più un letto e il centro di salute mentale che avrebbe dovuto trovare un luogo ancora lo sta cercando.
Ripartiva la rete facente capo alla Casa della Carità, unico ente che non si è mai voltato dall’altra parte. S. ha di nuovo un luogo dove dormire, ha ripreso a suonare, fa un corso di teatro e arte terapia; ha incominciato ad andare anche in un altro centro due volte alla settimana e, accompagnato dalla mamma, fa colloqui al centro di salute mentale.
Ha trovato un pianoforte, dei volontari che gli fanno compagnia e, soprattutto, una psichiatra che settimanalmente lo incontra.
Alcune settimane dopo la scarcerazione si chiudeva anche il processo: il giudice a dispetto delle conclusioni della perizia condanna S. a 8 mesi per il tentato furto; pena precisamente corrispondente a quella carcerazione sofferta. È pacifico che un giudice si possa discostare dalle conclusioni del perito, ma meritano di essere trascritte le parole utilizzate per negare addirittura le attenuanti generiche: “Preliminarmente, tenuto conto della personalità dell’imputato (gravato da precedenti penali della stessa indole e a matrice violenta), delle modalità dell’azione e del riprovevole comportamento processuale manifestato durante l’udienza di convalida (tale da rendere difficoltosa la celebrazione dell’interrogatorio), non vi sono ragioni per riconoscere le circostanze attenuanti generiche".
Il giudice, che pure aveva visto la triste condizione di scompenso di S. arrivato in udienza senza una scarpa e confuso, tanto da ritenere indispensabile un accertamento sulle sue condizioni mentali, ha ritenuto “riprovevole” quella condotta e ha applicato una pena che appare incomprensibile a chiunque abbia avuto a che fare con S.: alla educatrice, alla psichiatra e al medico del carcere di San Vittore, ai periti e all’avvocato. E soprattutto resterà incomprensibile a S. che era stato definito dai perito in stato di totale scompenso per una patologia psichiatrica.
S. è stato arrestato ed è restato in carcere 8 mesi a dispetto della sua totale incapacità di intendere e volere; è rimasto mesi in attesa di un percorso di cura intanto che i servizi decidevano chi doveva fare cosa e chi doveva pagare; è stato ‘dimesso’ da famiglia, luoghi di accoglienza e ospedale, per alcuni perché troppo complesso, per altri perché non troppo grave. Gli sono state negate le attenuanti generiche perché irriguardoso nei confronti dell’autorità giudiziaria.
È una storia finita bene grazie a chi ci ha messo impegno e forza per non abbandonare S.
Forse è utile che S. sia stato arrestato perché la sua vita ha ripreso un po' di organizzazione e perché ha incontrato alcune persone umane che lo hanno guardato e poi supportato.
Il resto non merita commenti. È una storia che vale la pena di essere raccontata[1] perché accanto a persone che non guardano la sofferenza, ce ne sono tante altre che non voltano la faccia.
[1] Anna Viola è educatrice professionale in carcere. Antonella Calcaterra è avvocata in Milano.
Immagine: particolare da Amedeo Modigliani, Madame Kisling, 1917, olio su tela, National Gallery of Art. Immagine di dominio pubblico.
La Corte costituzionale definisce i limiti dell’annullamento d’ufficio (nota a prima lettura a Corte costituzionale 26 giugno 2025 n. 88)
di Giordana Strazza
Sommario: 1. Premessa; 2. L’insussistenza del contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost.; 3. L’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica e i limiti delle eccezioni alla tutela del legittimo affidamento; 4. L’insussistenza del contrasto con l’art. 97 Cost.; 5. Conclusioni
1. Premessa
Con la sentenza n. 88 del 26 giugno scorso la Corte costituzionale è intervenuta sulla delicata questione dei limiti temporali massimi (“fissi”) stabiliti dall’art. 21-novies della legge 7 agosto 1990, n. 241 s.m.i. per l’esercizio del potere amministrativo di autoannullamento[1] dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
La questione sottoposta al vaglio della Corte[2] investiva la compatibilità costituzionale del limite massimo di dodici mesi[3] per l’esercizio del suddetto potere di autotutela (anche) in relazione a provvedimenti incidenti su interessi c.d. sensibili e di rango costituzionale: nella specie, la controversia traeva origine dall’annullamento (dopo sei anni) di un attestato di libera circolazione di un dipinto che, solo quattro anni dopo il rilascio, si era rivelato opera del Vasari.
2. L’insussistenza del contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost.
Dopo aver dichiarato l’inammissibilità dell’eccezione di l.c. sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (per dedotto contrasto con gli obblighi internazionali in relazione agli artt. 1, lettere b) e d), e 5, lettere a) e c), della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale[4]), la Consulta ha ritenuto l’insussistenza del denunciato contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 9, primo e secondo comma, Cost., giustificando la ragionevolezza e la non reprensibilità dei limiti temporali “fissi” posti dall’art. 21-novies nel suo complesso, e, dunque, anche con riguardo agli atti incidenti su interessi di “valore primario” (nella specie, quello culturale), in ragione della diversa consistenza che tali interessi – pur di rilievo costituzionale e oggetto di specifica attenzione nel procedimento di primo grado (tanto da escludere o rendere più gravosa l’applicazione dell’istituto del silenzio assenso) – assumono nel procedimento di riesame. La sentenza sottolinea, infatti, che, in sede di secondo grado, essi “si confrontano con interessi ulteriori, non solo di natura privata, ma anche pubblica”, perché, nel valutare l’an dell’annullamento, l’organo competente, oltre a prendere in considerazione l’interesse pubblico primario tutelato dal provvedimento invalido, “deve soppesare anche quelli, sempre di natura pubblica, al ripristino della legalità (che spesso trova coincidenza con l’interesse del controinteressato pregiudicato dal provvedimento emesso in favore di altri) e alla certezza delle relazioni giuridiche, nonché la posizione, di natura privata, di affidamento del destinatario della determinazione favorevole” (si richiama, a tale proposito, la sentenza n. 181 del 2017 in tema di autotutela tributaria).
Nel ricordare che, comunque, l’interesse sensibile incide sul profilo motivazionale e che il legislatore ha previsto apposite cautele nel caso in cui le più lunghe tempistiche dell’accertamento dell’illegittimità siano state determinate dall’interessato attraverso le falsificazioni di cui al comma 2-bis, la Corte rimarca, quindi, che, in quest’ottica, il legislatore, nel legittimo esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto che, “alla decorrenza del periodo annuale (salvo il ricorrere della suddetta eccezione), l’amministrazione esaurisca i margini per una ulteriore tutela dell’interesse pubblico primario e di conseguenza diventi irretrattabile il provvedimento di primo grado, ferme restando «le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21-nonies, comma 1, ultimo periodo)”. La Consulta evidenzia, inoltre, che tale modello “risponde ragionevolmente alla scelta che, al fluire di un congruo tempo predeterminato, abbiano automatica prevalenza altri interessi di rilievo costituzionale. In particolare, dunque, sia la posizione di “matrice individuale” dell’affidamento del destinatario del provvedimento favorevole, sia simultaneamente l’interesse di “matrice collettiva” alla certezza e alla stabilità dei rapporti giuridici pubblici”. Si ricorda, infatti, che la previsione di una scadenza rigidamente prestabilita risponde all’esigenza di tenere “in considerazione la fiducia sui “titoli pubblici” dei destinatari e dei terzi, non ultimi degli investitori stranieri e degli operatori del libero mercato europeo, negativamente incisi «dall’incertezza giuridica delle procedure amministrative» (considerando n. 43 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, cosiddetta direttiva «Bolkestein»)” e che “la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la tutela dell’affidamento è «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 36 del 2025, n. 70 del 2024 e n. 210 del 2021)” .
3. L’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica e i limiti delle eccezioni alla tutela del legittimo affidamento
Il Giudice delle leggi coglie, invero, opportunamente, l’occasione per porre in risalto l’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica[5] e per sottolineare che l’esigenza di irretrattabilità del provvedimento amministrativo ampliativo oltre un tempo definito trascende il rapporto tra amministrazione e amministrato, in quanto il “titolo pubblico” condiziona fortemente le relazioni giuridiche intrattenute successivamente con i terzi, anche per la circolazione del bene, mentre l’inoperatività del limite temporale indicato dal legislatore potrebbe determinare una situazione di incertezza nella vita dei cittadini e delle imprese idonea a incidere negativamente, in un’ottica più complessiva, sull’affidabilità del “sistema Paese”.
Si richiamano, a questo riguardo, le considerazioni svolte dalla Commissione consultiva speciale istituita presso il Consiglio di Stato per i decreti di attuazione della legge 7 agosto 2015 n. 124 nel parere n. 839 del 2016 (sullo schema del d.lgs. 30 giugno 2016, n. 126: “SCIA 1”), inspiegabilmente obliterato (salve rare eccezioni[6]) fino a epoca recentissima dagli stessi giudici amministrativi, laddove metteva in luce che la novella legislativa era espressione di un “nuovo paradigma”[7] nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione “nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza”, in nome dei quali il legislatore aveva fissato “termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, valorizzando il principio di affidamento”, costruendo una nuova “regola generale”, “speculare – nella ratio e negli effetti – a quella dell’inoppugnabilità, ma creata, a differenza di quest’ultima, in considerazione delle esigenze del cittadino (…)”[8]. Il parere aveva peraltro espressamente sottolineato che tale “regola generale” doveva applicarsi anche ai provvedimenti che non sono formalmente definiti di annullamento, stigmatizzando il fatto che “alcune disposizioni utilizzano infatti, impropriamente, i termini “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” (dai benefici) o simili per indicare, oltre all’abusivo utilizzo del titolo, la reazione dell’ordinamento all’illegittimo conseguimento [dello stesso], utilizzando forme che sono state definite di “annullamento travestito” (cfr. § 1.3.2 del parere n. 1784 del 2016 sullo schema del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222: “SCIA 2”).
Tra i passaggi importanti della sentenza n. 88 meritano specifica attenzione quello che esclude la “decorrenza mobile” del termine (che il legislatore, come già chiarito dal menzionato parere del Consiglio di Stato, lega inequivocabilmente all’adozione del provvedimento), e che, come ribadito dalla Corte “si spiega con la ragione che non può la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi nel suo vantaggio di differire continuamente il dies a quo per l’esercizio della potestà di annullamento (tra le altre, Consiglio di Stato, sentenze n. 7134 e n. 1926 del 2024)”, e quello relativo alla portata delle eccezioni all’applicazione del suddetto limite, in ragione dell’inconfigurabilità di un legittimo affidamento, nei casi previsti dal comma 2-bisdell’art. 21-novies e fino a pochi mesi fa strumentalmente utilizzati da larga parte della giurisprudenza per escludere l’operatività del limite anche in presenza di meri errori di diritto[9]. Dopo aver ricordato che la riferita eccezione è interpretata dal giudice amministrativo − sulla base del dato testuale costituito dalla disgiunzione “o” e di un argomento teleologico − nel senso che il termine finale non opera tutte le volte in cui si riscontri che il contrasto tra la fattispecie rappresentata e la fattispecie reale sia rimproverabile all’interessato, tanto se determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, dovrà scontare l’accertamento definitivo in sede penale, quanto se determinato da una falsa rappresentazione della realtà di fatto, accertata inequivocabilmente dall’amministrazione con i propri mezzi (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 7 maggio 2025, n. 3876 e 14 agosto 2024, n. 7134; sezione sesta, sentenza 27 febbraio 2024, n. 1926)”, la Corte ha precisato che “anche in tale caso, infatti, l’erroneità dei presupposti per il rilascio del provvedimento amministrativo non è imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’amministrazione, ma esclusivamente alla parte che ha fornito una falsa descrizione della realtà fattuale, oggettivamente verificabile e non opinabile”[10]. È auspicabile, quindi, che quest’ultima precisazione ponga fine all’ingiusta equiparazione dell’erronea applicazione/interpretazione del quadro normativo (sulla cui oggettiva complessità e incertezza la stessa Consulta ha fondato la giustificazione di limiti alla responsabilità amministrativo-contabile: sentenza n. 132 del 2024) alla “falsa rappresentazione della realtà”, che, come già chiarito dalla menzionata Commissione speciale del Consiglio di Stato (anche nel successivo parere sul d.lgs. “SCIA 2”), deve essere invece coerentemente valutata sulla base dell’oggettivo rapporto vero/falso[11], siccome, del resto, puntualizzato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con riferimento alle dichiarazioni rese nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici[12].
4. L’insussistenza del contrasto con l’art. 97 Cost.
Le ultime considerazioni della sentenza investono il dedotto contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall’art. 97, comma 2, Cost., che la Corte esclude, rilevando come, all’opposto, il limite temporale del potere di autotutela (già individuato come strumento volto, sia pure indirettamente, ad accrescere l’efficienza dell’azione amministrativa: sentenze n. 258 del 2022 e n. 191 del 2005) possa migliorare la qualità del processo decisionale di primo grado, inducendo gli organi competenti a svolgere, in quella sede, una più attenta valutazione e ponderazione degli interessi.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in esame, pur respingendo le dedotte eccezioni di incostituzionalità, merita massima attenzione, perché fissa importanti punti fermi su un istituto centrale per il sistema amministrativo e per la fiducia nelle istituzioni pubbliche, aiutando a dare risposta agli interrogativi posti dal Consiglio di Stato nei già richiamati pareri “SCIA 1” e “SCIA 2” e lasciati irrisolti dal Governo.
In particolare, nel secondo parere (al §1.3.1), la Commissione aveva espressamente segnalato che nel nuovo schema di decreto legislativo restavano aperte alcune questioni di raccordo già evidenziate al punto 8.3 del precedente parere n. 839, tra cui quelle
“– se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi anche all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1 (unica norma residua dopo l’abrogazione del comma 2), ovvero se l’art. 21 debba considerarsi come un’ulteriore deroga a tale limite, aggiuntiva rispetto a quella prevista al comma 2-bis dello stesso art. 21-nonies. In tale seconda ipotesi dovrebbero, però, essere specificati quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, comma 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies, posto che entrambe le norme sembrano riferirsi, nel caso di SCIA, all’accertamento della mancanza o della ‘falsità’ dei requisiti, su cui fondare i più volte richiamati poteri inibitori, repressivi o conformativi;
– quale sia la esatta delimitazione della (unica) fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art. 21-nonies, comma 2-bis (ad esempio, se tra le “false rappresentazioni dei fatti” in deroga ai 18 mesi rientri anche la difettosa indicazione del sistema normativo di riferimento; ovvero se si possa aggiungere la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta; ovvero ancora quale sia l’esatta portata del riferimento alle “sanzioni penali, nonché” alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 445 del 2000”, che più d’uno tra i primi commentatori ha considerato come il frutto di un errore di drafting)”.
In modo significativo, alla luce dei dubbi sollevati dai primi interpreti sulla portata della richiamata disgiuntiva “o” del comma 2-bis, la Commissione individuava, quindi, correttamente come unica potenziale ipotesi di “falsa rappresentazione della realtà” quella oggettivamente riscontrabile da dati certi (come i pubblici registri), invitando – purtroppo invano – “nuovamente il Governo a considerare, prima della scadenza della delega, una soluzione sul punto, per prevenire sicure incertezze e contenzioso in sede applicativa della riforma”.
La sentenza in esame ha ormai sicuramente risolto quest’ultima questione. Si auspica, peraltro, che la linea da essa tracciata induca il legislatore a una soluzione coerente anche della prima[13].
[1] Fra i tanti, si rinvia a F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, 537 ss.; E. Cannada Bartoli, voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, 484 ss.
[2] Dal Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2024, n. 8296, con nota di F. Campolo, Attestato di libera circolazione di un bene culturale e potere di autotutela. Dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, c. 1, l. 241/1990, in questa Rivista, 25 febbraio 2025.
[3] Il termine è stato ridotto da diciotto a dodici mesi dall’art. 63, comma 1, d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (“Governance del piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108.
[4] Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, firmata a Faro il 27 ottobre 2005 e ratificata dall’Italia con l. 1° ottobre 2020, n. 133.
[5] Su cui cfr. gli Atti delle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa di Modanella su Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, raccolti nel volume F. Francario e M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018.
[6] Si v., ad es., T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[7] Si v. anche L. Carbone, La riforma dell’autotutela come nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e amministrazione pubblica, relazione al convegno “La legge generale sul procedimento amministrativo: attualità e prospettive nei rapporti tra cittadino e p.a.” – Roma, Palazzo Spada, 20 marzo 2017, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Si v. anche M. Macchia, La riforma della pubblica amministrazione - Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, 5, 634. Per un approfondimento, si v. anche M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018.
[9] Sul tema si v., da ultimo, anche per ulteriori richiami, M.A. Sandulli, Principio di legalità e magistratura amministrativa, in Riv. giur. ed., 2025, 2, 37 ss.
[10] Sul tema, si v. anche M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019, 261.
[11] Si v. infra.
[12] Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16, specie §10, con nota di G.A. Giuffrè e G. Strazza, L’Adunanza plenaria e il tentativo di distinguo (oltre che di specificazione dei rapporti) tra falsità, omissioni, reticenze e “mezze verità” nelle dichiarazioni di gara, in Riv. giur. ed., 2020, 5, 1343 ss. e di C. Napolitano, La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza Plenaria, in questa Rivista, 8 ottobre 2020.
[13] Sulle tematiche sopra esposte e sull’esigenza di certezza sulla stabilità dei titoli, si v., per tutti, anche per ulteriori richiami, i contributi di C. Deodato, L'annullamento d'ufficio (sub art. 21-nonies), in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, II ed., 2017, 1173 ss.; E. Boscolo, Il potere di vigilanza sulle attività soggette a s.c.i.a. (già d.i.a.) e silenzio assenso (sub art. 21), ivi, 987 ss.; W. Giulietti e N. Paolantonio, La segnalazione certificata di inizio attività (sub art. 19), ivi, 902 ss. e di G. Mari, M.A. Sandulli, M. Sinisi, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, IV ed., 2023.
Recensione di In un piccolo cielo di Paul Yoon (2020 Bollati Boringhieri Editore, Torino)
Paul Yoon è nato a New York, ha 45 anni, è di origine laotiana e vive a Cambridge in Massachussets.
La prima parte del romanzo si svolge in Laos, definito “il paese più bombardato della storia” pur se mai entrato ufficialmente nella guerra del Vietnam: fino al 1973, l’aviazione statunitense vi effettuò più di 500.000 missioni, scaricandovi più di 2 milioni di tonnellate di materiale esplosivo nel corso di una guerra segreta che serviva a colpire il sentiero di Ho Chi Minh utilizzato dalle truppe nord vietnamite. Il tutto in un contesto reso caotico anche dalla guerra civile tra la monarchia e i marxisti del Pathet Lao.
È quella la ragione che, unitamente al terrore di essere segregati in campi di rieducazione, spinge nel 1969 i protagonisti del romanzo - Alisak, Prany e la più piccola Noi, sorella di Prany - a voler abbandonare il Laos e il villaggio in cui vivono, costituito da “una miriade di capanne di legno, case d’argilla e baracche con i tetti di metallo radunate insieme”. Sono tre giovani orfani, sopravvissuti con espedienti, “senza altro posto dove andare”, che sanno usare le armi e sono uniti come fossero tutti fratelli. Senza una meta precisa fuggono verso il nord e si rifugiano in territorio degli Hmong (una popolazione che durante la guerra si schierò con gli Stati Uniti), sull’Altopiano delle Giare, in un ospedale improvvisato, un tempo di proprietà di un latifondista francese, ove iniziano a lavorare con il medico Vang che cura i civili feriti, viene da Vientiane e suona Bach al pianoforte. L’ospedale diventa così una casa e un luogo di solidarietà condivisa, dove rifugiarsi dalla guerra e sognare ad occhi aperti, contemplando il cielo attraverso un tetto parzialmente sfondato: “Se il cielo era sufficientemente piccolo c’erano meno possibilità che un aereo lo attraversasse. E allora, era soltanto il cielo” (NdR: significativo sottotitolo di questo romanzo che ben rimanda al suo contenuto).
I tre ragazzi si impegnano facendo di tutto: gli infermieri di fortuna che imparano a ricucire arti dilaniati, i corrieri che vanno a procurare medicine e cibo, a volte recuperando feriti dai campi minati, con motociclette BSA di fortuna che guidano lungo sentieri pieni di granate inesplose, il tutto mentre dal cielo gli americani continuano a sganciare dai B-52 le bombe di una guerra che non esiste e non è dichiarata. Alisak, Prany e Noi si preoccupano anche di piantare segnali che consentano a chiunque di conoscere le parti sicure delle strade di campagna ed evitare quelle minate. Ma quella vita diventa sempre più pericolosa, come per tutti i laotiani, sicché il medico Vang si preoccupa di organizzare la loro fuga sugli ultimi elicotteri che lasciano il paese: finisce così la stagione delle corse in moto. I tre ragazzi innocenti sperano in quel modo di potersi ricostruire una vita serena e felice in terre straniere, ma non tutti riescono a fuggire e la realtà sarà diversa come i loro destini.
La seconda parte del libro è costituita da capitoli che fanno riflettere e che hanno il nome dei vari personaggi che ne sono protagonisti, a partire dai tre citati, ormai cresciuti, ma a cui altri se ne aggiungono (Aunti e Khit): la guerra è finita, ma le conseguenze della guerra sono forse anche peggiori. Yoon descrive ciò che è successo a molti giovani laotiani e ne racconta le vite. Alisak, Prany e Noi, tutti accomunati dal desiderio di fuga, si ritrovano nella realtà divisi: ci sarà chi attraversa il Mekong per fuggire in Thailandia, chi trova rifugio in Europa e chi negli Stati Uniti, ricominciando una nuova vita, e chi invece rimarrà a lungo prigioniero in un campo di rieducazione. Ma il fil rouge della loro amicizia non verrà mai interrotto e il ricordo di ognuno rimarrà nella mente dell’altro a distanza di anni.
Il romanzo produce emozioni forti facendo riflettendo su ciò che la guerra determina soprattutto per una popolazione che si trova dalla parte dei perdenti, pur se – come è stato detto - la guerra sconfigge tutti. Il romanzo è anche uno straordinario documento storico ma soprattutto analizza la forza della speranza e della perseveranza di chi aspira a guardare il vasto cielo di tutto il mondo.
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Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Cecilia Assanti e il diritto del lavoro triestino
Sommario: 1. Introduzione - 2. Infanzia, giovinezza e studi universitari - 3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro – 4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato - 5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico – 6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80 – 7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi - 8. La produzione scientifica degli anni ’90 - 9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti.
1. Introduzione
Cecilia Assanti si era spenta il 4 giugno del 2000, dopo una brevissima malattia, e Giuseppe Pera, da tempo suo grande amico, mi aveva chiesto di mandargli uno scritto, destinato alla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, che testimoniasse la sua complessa attività scientifica (L. Menghini, Cecilia Assanti e il diritto del lavoro italiano, RIDL, 2000, I, 341 ss.).
Ora riprendo volentieri il ricordo della mia Maestra, considerando anche il profilo della sua collocazione nell’ambito del diritto del lavoro triestino e quello dei rapporti che ho avuto con lei nei decenni in cui sono stato suo allievo. Cecilia Assanti è stata la seconda donna a diventare ordinario di Diritto del lavoro, dopo Luisa Riva Sanseverino, di cui aveva una grande ammirazione. Anche se ha dedicato molte delle sue capacità scientifiche alla condizione femminile, non ha mai voluto limitarsi ad essa, spendendosi, invece, sui temi più generali della materia. Il suo ruolo nel diritto del lavoro italiano della seconda metà del ‘900 è stato importante, anche se, per vari motivi, non compiutamente attuato secondo le sue aspirazioni.
2. Infanzia, giovinezza e studi universitari
Era nata a Grottaminarda, in provincia di Avellino, l’8 gennaio del 1928 ma, quando era ancora in tenera età, la famiglia era salita al Nord, prima in un paesino dell’attuale Slovenia e poi a Trieste. Il papà era medico pediatra della sanità pubblica e questi spostamenti dipendevano dal fatto che aveva vinto dei concorsi relativi alla sua attività. In famiglia c’erano altri medici e dei magistrati.
Cecilia era una bambina e poi una ragazza precoce: ha iniziato la scuola a cinque anni e poi ha saltato la seconda classe del liceo classico, conseguendo il diploma nell’estate del 1945, a 17 anni. Di questo periodo mi ha raccontato solo che era una grande lettrice e che per non farsi vedere dai genitori (che forse non le avrebbero permesso certe letture) leggeva sotto le coperte con una pila.
Mi ha anche confidato che la sua particolare velocità nella lettura era dovuta al fatto che i suoi occhi non si fermavano sulle parole di ogni riga, ma coglievano le parole di tre righe in tre righe.
Gli anni del liceo devono essere stati difficili e anche traumatici, perché erano gli anni dell’occupazione tedesca della città, dal settembre ‘43 all’aprile del 1945, e poi di quella dell’esercito jugoslavo, più breve, ma ugualmente tragica. Nella sua mente era rimasta impressa la visione dei cadaveri dei prigionieri impiccati appesi alla scalinata interna del Conservatorio di musica Tartini, ben visibili dalle finestre dell’edificio; le era capitato di passare in autobus proprio davanti. Si trattava di una rappresaglia tedesca contro italiani e sloveni in seguito ad un attentato partigiano del 23 aprile 1944 (v. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, rist. 2023, p. 256).
All’Università avrebbe voluto studiare Medicina, ma ad una famiglia di medio-alta borghesia non pareva una scelta adatta ad una donna. Ripiegò, quindi, su Lettere, che frequentò solo nell’a.a. 1945-46, per passare, poi, a Giurisprudenza nell’a.a. 1946-47 e concludere gli studi in soli tre anni, laureandosi in Diritto commerciale nel novembre del 1949, quando aveva solo 21 anni.
3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro
Non so se l’A. abbia seguito il corso di Diritto del lavoro nell’a.a. 1947-48, quando era affidato a Virgilio Andrioli, oppure nel 1948-49, quando fu ripreso da Renato Balzarini, che aveva tenuto il corso di diritto corporativo sin dall’istituzione della Facoltà di Giurisprudenza, negli anni dal 1938 al 1941, per essere poi trasferito all’Università di Roma, dove si era laureato nel 1927, con una tesi in diritto pubblico, conseguendo la libera docenza in Istituzioni di diritto pubblico nel 1933-34 e vincendo poi il concorso a cattedra, nel 1938, con due monografie sul diritto corporativo e conseguendo, infine, l’ordinariato, nel 1941, con un volume su Gli enti sindacali (per queste notizie v. C. Assanti, Renato Balzarini, RIDL, 1988, I, p. 389).
Renato Balzarini, malgrado la sua partecipazione attiva al regime fascista come membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, superò i problemi delle epurazioni e insegnò per moltissimi anni Diritto del lavoro nella facoltà triestina di Giurisprudenza, ricoprendo il ruolo di direttore dell’Istituto di Diritto del lavoro, delle Scuole che fondò e di preside della Facoltà. A metà degli anni ’60 fu protagonista della nascita della Libera Università Abruzzese degli Studi, con sede a Teramo, di cui fu rettore sino al 1978.
Nel ricordarne, con affetto, la prestigiosa figura, l’A. lo considera uno dei Maestri “della generazione dei giuristi del lavoro che iniziarono la loro opera dando corpo e sistemazione al diritto corporativo con occhio attento anche alle dimensioni trascendenti i suoi caratteri specifici”, potendo testimoniare, per i molti anni in cui aveva studiato con lui, che il Maestro “conservò sempre vivace, pronto, attento, il suo interesse multiforme per gli studi, la sua disponibilità più ampia verso gli altri, a cominciare dai giovani” (op.cit., p. 389).
Ciò che mi preme più rilevare, peraltro, è che Renato Balzarini, nella sua seconda parte di vita accademica, partecipò, in modo del tutto particolare, alla rifondazione del diritto del lavoro del dopo guerra, aprendo l’Università, proprio nella Trieste non ancora italiana e quindi lacerata da profonde divisioni, agli studi del diritto internazionale e comparato del lavoro, con innumerevoli iniziative, con la creazione di varie istituzioni e con la collaborazione con realtà nazionali e internazionali.
L’A. evidenzia, in particolare, come il Maestro motivasse la sua predilezione per gli studi comparatistici con la convinzione che, per molta parte, agli sviluppi del diritto del lavoro e alla sua armonizzazione nelle legislazioni nazionali fosse affidata l’attuazione della pace dei popoli e tra i popoli (Id., op.cit., p. 391).
Io, naturalmente, già da studente era venuto a conoscenza di questa complessa attività, ma piuttosto superficialmente. Anche in seguito l’A. me ne ha parlato molto poco.
Dobbiamo, invece, all’entusiasmo, alla curiosità e alla tenacia di una giurista napoletana trapiantata a Trieste, Maria Dolores Ferrara, la riscoperta e la diffusione dei “tesori” del diritto del lavoro triestino degli anni ’50 e ’60 (v. Il diritto del lavoro a Trieste nel secondo dopoguerra, RIDL, 2016, I, p. 115 ss. Lo studio è ripreso nel par. 3 dello scritto mio, di Roberta Nunin e della stessa Ferrara L’insegnamento del Diritto del lavoro e la Facoltà di Giurisprudenza, in Giuristi a Trieste. Per una storia della facoltà di Giurisprudenza. 1938-2012), a cura di P. Ferretti, P. Giangaspero e D. Rossi, Giappichelli, Torino, 2022, p. 74 ss.).
Balzarini già nel 1951 organizzò a Trieste il primo Congresso internazionale di diritto del lavoro, con la partecipazione di illustri studiosi italiani e stranieri. Dal congresso triestino nacque la Rivista di diritto internazionale e comparato del lavoro, diretta da Balzarini, che a Trieste poi fondò, nel 1961, l’Istituto europeo per la unificazione del diritto del lavoro e, nel 1963, la Scuola internazionale di diritto comparato del lavoro, quale sorta di filiale della Facoltà internazionale per l’insegnamento del diritto comparato di Strasburgo; a Trieste si svolsero dieci sessioni estive dell’Ecole, con la partecipazione di giuristi di tutto il mondo. Innumerevoli, infine, sono state le iniziative di studio condotte in collaborazione con l’Università di Lubiana. (v. M.D. Ferrara, Il diritto del lavoro a Trieste cit., p. 120 ss.).
Creature di Balzarini furono anche, dal 1953, la Scuola di perfezionamento e specializzazione in diritto del lavoro e della sicurezza sociale e, dal 1954, il suo Bollettino, rivista in cui hanno scritto giovani, ma anche illustri giuristi e che ha dato luogo ad importanti contatti scientifici. Alla fine degli anni ’60 Balzarini, su richiesta di CGIL, CISL e UIL, diede vita anche ad un Corso biennale di preparazione e di aggiornamento per dirigenti sindacali, i cui docenti erano i più noti giuslavoristi: Cecilia mi ha ricordato il fascino delle lezioni di Federico Mancini.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 Balzarini proseguì anche la sua attività di studioso, pubblicando numerosi contributi, specie di diritto sindacale; quello più menzionato attiene ai limiti alla facoltà di recesso ad nutum (su questa produzione v. L. Menghini, L’Insegnamento del diritto del lavoro cit., in Giuristi a Trieste, cit., p. 73 ss.).
È in questo contesto di larghe aperture e di ampie possibilità di contatti e relazioni che Cecilia Assanti fu introdotta negli anni ’50 allo studio del diritto del lavoro. Poté conoscere illustri giuristi coetanei di Balzarini (ad es. Giuliano Mazzoni, Luisa Riva Sanseverino, Francesco Santoro Passarelli), rapportarsi con gli studiosi stranieri e stringere amicizie con i giovani professori che venivano a Trieste ad iniziare la loro carriera, come Vezio Crisafulli, Alfredo Fedele, Luigi Mengoni, Rodolfo Sacco, Francesco Galgano, Elio Casetta e Vittorio Bachelet.
Si è rimarcato come in quegli anni nella facoltà di Giurisprudenza si provvedesse a coprire le cattedre con i migliori docenti italiani, il quali non consideravano il soggiorno a Trieste come un esilio, ma come una tappa del cursus honorum accademico (M. Barberis, Come si diventa quel che si è. La filosofia del diritto a Trieste, in Giuristi a Trieste, cit., p. 259). In una pausa di un convegno veneziano, nell’Isola di S. Giorgio, Luigi Mengoni ha ricordato a noi triestini i bei anni che aveva passato nella nostra Università (dal 1951 al 1954) in compagnia degli altri colleghi provenienti da lontano: un gruppo che studiava e discuteva molto, ma che non disdegnava cene e svaghi innocenti, al punto che un giorno furono convocati dal preside di facoltà, che li rimproverò di essere andati a vedere il film Susanna tutta panna.
L’A. in quegli anni ha studiato molto. Mi diceva che passava giorni interi all’Università, portandosi pranzo e cena e un fiasco di vino in compagnia di un suo grande amico, Giampaolo De Ferra, quasi coetaneo, che in quegli stessi anni pubblicava le prime opere in diritto commerciale, anch’egli conseguendo la libera docenza nel 1959 e la cattedra nel 1963; fu poi rettore dal 1971 al 1982 e sempre amico di Cecilia. (v. M. Bianca, L’insegnamento del diritto commerciale, in Giuristi a Trieste, cit., p. 45). In quel periodo, poi, si deve essere avvalsa delle “creature” di Balzarini prima per studiare e poi per esprimere tutte le sue capacità di ricerca e docenza.
4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato
Cecilia Assanti ha pubblicato i suoi primi lavori scientifici nel Bollettino della Scuola ed è divenuta assistente di ruolo; del 1957 e 1958 sono le sue prime due monografie, che le hanno fatto conseguire nel 1959 la libera docenza (insieme, se ricordo bene, a Giuseppe Pera e Carlo Smuraglia). Altre due monografie risalgono al 1961 e al 1963, anno in cui ha vinto il concorso a cattedra, risultando “ternata” insieme con Gino Giugni e Giampaolo Novara.
Si è sostenuto che l’esito di questo concorso era dovuto al sopravvento, nell’ambito della componente dominante dell’accademia italiana, di un atteggiamento marcatamente liberale e pluralista, che avrebbe consentito la promozione alla cattedra sia di Cecilia Assanti, e cioè dell’allieva triestina dell’”istituzionalista” Renato Balzarini, sia del fautore della teoria, del tutto minoritaria, del contratto aziendale come stipulato dalla comunità d’impresa, Giampaolo Novara; la commissione era formata, oltre che da Balzarini, da Luigi Mengoni, Gustavo Minervini, Giuliano Mazzoni e Cesare Grassetti; i “grandi esclusi” erano stati Aldo Cessari e Giorgio Ghezzi, destinati a vincere il concorso successivo insieme con Giuseppe Pera (così. P. Ichino, I primi due decenni del Diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in AA.VV., Il Diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 38 e 53).
Le quattro monografie che la portarono alla cattedra (Il contratto di lavoro a prova, del 1957; Il termine finale nel contratto di lavoro, del 1958; Autonomia negoziale e prestazioni di lavoro, del 1961; Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, del 1963), tutte pubblicate da Giuffrè, piuttosto brevi e concentrate nel tempo, dimostrano un robusto impianto civilistico e una rara capacità di cimentarsi in modo rigoroso con la dogmatica giuridica, nulla concedono alle teorie comunitarie (v. amplius L. Menghini, Cecilia Assanti, cit., p. 343 ss.). In varie occasioni colleghi più anziani di me mi hanno riferito che la monografia sulle sanzioni disciplinari era stata accolta con molto favore.
Il 1°febbraio del 1964 l’Assanti è stata chiamata all’insegnamento di Diritto del lavoro nella Facoltà triestina di Economia, dove è rimasta sino al 1973-74, passando alla facoltà di Giurisprudenza nell’a.a. 1974-75.
In vista dell’ordinariato ha scritto una quinta monografia, dal titolo Rilevanza e tipicità del contratto collettivo nella vigente legislazione italiana, Giuffrè, 1967.
Il saggio è del tutto particolare nell’ambito degli studi di diritto sindacale degli anni ’60, laddove mira all’esaltazione dei principi costituzionali attraverso l’assimilazione dei contratti collettivi corporativi, o comunque ad efficacia soggettiva generale, a quelli postcorporativi, con il recupero di tutte le norme sulla contrattazione collettiva, antecedenti e successive alla caduta del regime fascista, che fossero compatibili con i principi costituzionali.
Riteneva, infatti, che i due contratti collettivi considerati costituissero due tipi di una fattispecie unitaria, potendo di conseguenza essere regolati da un’unica disciplina per tutto ciò che non concerneva la diversa sfera degli effetti, comprese le norme previste per i contratti corporativi diverse da quelle relative all’efficacia soggettiva ed alla struttura organizzativa delle associazioni sindacali.
Questa concezione del contratto collettivo, mantenuta anche nei decenni successivi e forse favorita dagli studi di Renato Balzarini, segna l’ultima tappa di una intensa attività di ricerca svincolata dall’impegno civile e politico. Si era infatti alla vigilia del “tuono a sinistra” del 1968-69 e gli scritti dell’A. erano ancora piuttosto asettici.
5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico
Ho conosciuto Cecilia Assanti tra il 1972 e il 1973, quando ha cominciato a seguire la mia tesi di laurea sulle strutture sindacali in azienda, che porta ancora il nome di Balzarini quale relatore, ma che ho ultimato e discusso con lei. Nel 1970-71 avevo seguito le lezioni di Diritto del lavoro tenute da Michele Zanetti, assistente di Balzarini, democristiano progressista, noto a Trieste per aver chiamato e difeso, da Presidente della Provincia, Franco Basaglia e la sua nuova psichiatria.
Zanetti mi ha avviato alla tesi, facendomi innanzitutto leggere la relazione di Federico Mancini al Convegno di Perugia del 1970 e poi il famoso libro di Giovanni Tarello. Mi sono laureato il 30 ottobre 1973 ed ho subito cominciato a frequentare, sotto la guida dell’A., l’Istituto di Diritto del lavoro, come giovane “fatturista”, “assegnista” e dalla fine del 1979 assistente di ruolo.
Sin dall’inizio Michele Zanetti, Luigi Rovelli, Tullio Renzi e gli altri assistenti e “giovani” dell’Istituto mi chiamavano, per scherzo, “Mengoni” e non Menghini, aiutandomi, però, molto nei primi anni di studio. Appena conosciuta, l’A. mi è apparsa come una intellettuale di sinistra ortodossa, dotata di una vastissima cultura e poco incline a valorizzare lo spontaneismo del ‘68, come invece facevo io. Lo vedevo dalle osservazioni che con estrema cura e precisione mi scriveva sulle pagine della tesi.
E di fatti, dagli anni ’70, non so in base a quali processi, l’A. ha cominciato a coniugare l’attività accademica con l’impegno civile e politico, iscrivendosi al Partito comunista, divenendo consigliere comunale nel comune di Trieste all’epoca in cui lo erano anche Giorgio Almirante e Marco Pannella e nel 1981 venendo eletta dal Parlamento come membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dove è rimasta sino al marzo 1986. Si è trattato di un grande impegno che le ha chiesto molta forza e lucidità nei terribili anni delle Brigate Rosse, costringendola a girare con la scorta armata e a partecipare con il Presidente Pertini a varie onoranze funebri di magistrati.
Questo, peraltro è stato il periodo che, a mio avviso, le ha dato le maggiori soddisfazioni quanto ai rapporti il mondo politico nazionale, accademico e della magistratura. Mi confidava di trovarsi benissimo con i colleghi magistrati, che stimava molto.
Va anche detto che nel corso degli anni ’70 l’A. ha lasciato morire le “creature” di Balzarini, Ecole e riviste comprese, di cui, come ho già detto, mi ha sempre parlato molto poco. Avevano, probabilmente, fatto il loro tempo, concentrandosi ora l’attenzione dei giuslavoristi (in primis dell’Assanti) sul diritto comunitario.
Balzarini veniva poco a Trieste ed io non l’ho mai conosciuto di persona. L’A. mi diceva che era meglio che scrivessimo e collaborassimo con le riviste di rango nazionale e organizzava frequenti seminari per dirigenti sindacali e membri dei consigli di fabbrica. Tutti ricordiamo le “letture collettive” delle monografie dei giovani, ma già affermati, giuslavoristi e le cene a casa sua. Ci faceva andare con lei a numerosi convegni nazionali, in cui abbiamo imparato molto e fatto importanti conoscenze.
La Scuola di Specializzazione è proseguita stancamente per vari anni, ma era una realtà morente, con l’unica eccezione di Roberta Nunin che, laureatasi a Padova in Diritto internazionale, ha preso tanto sul serio la Scuola da laurearsi con la sua direttrice e continuando sotto la sua guida negli studi giuslavoristici sino a divenire ricercatrice, associata e poi ordinaria nella nostra Facoltà.
In questi anni al gruppo dei giuristi triestini si è aggiunto Michele Miscione, che ha insegnato per vari decenni Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, prima come incaricato e poi come associato e ordinario, facendo anche crescere la sua allieva Marina Brollo, poi passata come associata e ordinaria all’Università di Udine, fondatrice dell’attuale vivace gruppo di lavoristi di quella Università. Quando l’A. stava al CSM, era Michele Miscione ad aggiornarmi sulle vicende del diritto del lavoro nazionale: gli sono sempre grato per le discussioni e gli insegnamenti nel corso della nostra vita comune di “fuori sede”.
Di frequente invitavamo a pranzo nelle trattorie vicine all’Università anche la nostra preziosissima bibliotecaria (Gabriella Ziboni, di grande aiuto nelle nostre ricerche), che accettava solo a patto che non parlassimo di diritto del lavoro: noi promettevamo, ma dopo pochi minuti violavamo la promessa.
La stessa gratitudine voglio esprimerla anche per l’amicizia, la solidarietà e i consigli di Carlo Cester, lavorista della scuola padovana diretta da Giuseppe Suppiej, che si è aggiunto al gruppo di noi triestini una decina d’anni dopo, da quando, nel 1986, è stato chiamato come straordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, ove ha insegnato per molti anni quale ordinario, per passare poi a Giurisprudenza nel 1997-98 e 1998-1999, per tornare infine alla sua Università di origine. Con lui e Miscione si discuteva continuamente e solo una volta all’anno ci concedevamo due passi al mare di Barcola. Insieme, e con Cecilia, ci siamo dati molto da fare per il diritto del lavoro triestino.
6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80
All’inizio degli anni ‘70 risale la produzione scientifica a mio avviso più importante dell’Assanti. Va innanzitutto menzionato il Commento allo Statuto dei Diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, scritto insieme a Giuseppe Pera, che avrebbe dovuto essere un’opera comune, ma che alla fine è stata ben suddivisa tra i due autori per la distanza delle loro opinioni.
Il nuovo impegno politico, tuttavia, non ha mutato il tipico modo di argomentare dell’A. né ha attenuato il suo rigore nell’interpretare le norme secondo i consueti canoni ermeneutici.
Sintetizzando gli spunti più caratteristici od originali, l’A. riteneva, quanto agli artt. 4 e 6, che la contrattazione collettiva da essi menzionata non ponesse una questione di efficacia generale in senso proprio, dato che la materia regolata è per sua natura indivisibile; quanto all’13, che fosse vietata l’assegnazione continuativa di un lavoratore alla sostituzione di compagni assenti; quanto all’art. 14, che fosse esteso all’attività sindacale svolta all’interno dei luoghi di lavoro il limite costituito dal “normale svolgimento dell’attività aziendale” previsto dall’art. 26 per le azioni di proselitismo, con la conseguenza che l’attività sindacale può essere svolta nelle pause e comunque al di fuori dell’orario di lavoro, avendo così i lavoratori un interesse tutelato ad essere presenti nell’unità lavorativa oltre i tempi dell’adempimento dell’obbligo di eseguire la prestazione di lavoro; quanto all’art. 17, che per costituire sostegno vietato gli interventi datoriali diversi dalla costituzione del sindacato e dal suo finanziamento devono evidenziare in concreto una zona di influenza, non essendo configurabile una parità di trattamento tra sindacati.
Quanto al testo originario dell’art. l’art. 19, difendeva la legittimità costituzionale della disposizione di cui alla lett. a), richiedendo comunque la rappresentatività a livello aziendale e difendendo, come sempre ha fatto, l’uso del criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle confederazioni, i cui criteri avrebbero dovuto essere costituiti, da un lato, dalla previsione statutaria e dall’effettivo esercizio di poteri di mediazione tra le categorie e di decisione delle compatibilità per l’intero movimento dei lavoratori e, dall’altro, dall’effettiva diffusione su un ampio arco di categorie e nel territorio, mentre per i sindacati di cui alla lett. b) richiedeva il requisito di essere contraenti in senso proprio (in proposito v. anche La maggiore rappresentatività del sindacato tra difficoltà vecchie e nuove, RGL, 1988, I, pag. 319 ss.).
Molto pro labor era la sua interpretazione dell’art. 20: le assemblee potevano aver corso anche se il datore di lavoro non poteva utilizzare la prestazione di chi non vi partecipava e pur se la riunione provocava l’arresto dell’attività; le assemblee potevano essere convocate anche dai sindacati, trattandosi di un’attività fungibile, senza obbligo di comunicare l’ordine del giorno al datore di lavoro, il quale non aveva diritto a parteciparvi.
Cauta, invece, era l’interpretazione dell’art. 22, che la portava a negare la possibilità di estensione analogica o estensiva della norma a tutti i membri del consiglio di fabbrica. Il Commento di Assanti e Pera ha avuto un importante rilievo nazionale, affiancandosi al coevo Commentario dei giuslavoristi bolognesi.
Al 1977 risale il primo studio dell’A. sul tema su cui ha profuso il suo maggior impegno scientifico ed ha dato il contributo più rilevante al diritto del lavoro italiano: il lavoro femminile e la condizione giuridica della donna.
Si tratta della relazione svolta al Convegno dell’Aidlass dell’aprile di quell’anno (La disciplina del lavoro femminile, RGL, 1977, I, p. 13 ss.), che precedeva di qualche mese l’approvazione della legge di parità.
A mio avviso, il punto più interessante della relazione era quello in cui si studiavano i riflessi dei principi di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost. sulla parità tra lavoratore e lavoratrice, che considerava non meccanica e generalizzata, ammettendo regole differenziate in base al sesso se rivolte ad eliminare gli ostacoli di cui al 2° comma dell’art. 3.
L’A. era poi diffidente sull’ipotesi di attribuire alle associazioni femminili, per reagire a pratiche discriminatorie, compiti simili a quelli attribuiti ai sindacati dall’art. 28 dello Statuto. I nessi tra l’art. 37 ed i primi articoli della Costituzione sono stati ripresi e approfonditi in molte successive occasioni (ad es. Il lavoro e la Costituzione nella condizione complessiva della donna, RGL, 1989, I, p.167 ss.). I punti più interessanti sono quello in cui motiva la prevalenza della funzione dei sindacati, volti a tutelare lavoratori e lavoratrici, rispetto a quella delle associazioni femminili; quello in cui nega fondamento alle ipotesi di modifiche costituzionali per assicurare presenze paritarie a uomini e donne nelle assemblee elettive; quello in cui contesta la pretesa di parificare il lavoro nella famiglia a quello svolto nel mercato; quello, infine, in cui interpreta il limite al principio di parità tra lavoratore e lavoratrice, di cui all’art. 37, 1°comma, Cost., costituito dall’esigenza che le condizioni di lavoro consentano alla donna di adempiere la sua essenziale funzione familiare, nel senso che si debba salvaguardare soltanto la sua funzione infungibile, e cioè legata alla gravidanza e alla maternità.
Il suo impegno politico nell’ambito della sinistra tradizionale è evidente, da un lato, nella difesa della legislazione lavoristica della seconda parte degli anni ’70, frutto del compromesso storico: usava sempre l’espressione “diritto del lavoro nell’emergenza” e non “dell’emergenza”, perché riteneva che questo complesso di norme non fosse esclusivamente legato a quel periodo storico e destinato a cadere alla sua fine, ma avesse elementi positivi destinati a permanere nel tempo (v. la relazione tenuta a Cadenabbia nell’ottobre del 1979, pubblicata col titolo L’economia sommersa: i problemi giuridici del secondo mercato del lavoro, RGL, 1980, I, p. 179 ss.); dall’altro, nelle censure di illegittimità costituzionale formulate nei confronti del decreto craxiano che nel febbraio 1984 tagliava la scala mobile (v. Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, DD, 1984, 1-2, p. 19 ss.).
7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi
Cecilia Assanti era una persona molto forte e combattiva, ma anche chiusa e riservata. Passavamo diverso tempo insieme, ma se lei non mi raccontava le sue vicende, io capivo che non gliele dovevo chiedere, pensando che secondo lei i giovani allievi dovevano solo studiare e scrivere, mentre ai maestri competevano le scelte strategiche, le relazioni e le prese di posizione.
So poco, quindi, della vicenda relativa al suo ritorno a Trieste, alla fine della Consigliatura, da lei vissuta molto male. Penso che aspirasse a rimanere a Roma, alla Sapienza, come era già capitato a molti suoi colleghi, ma non è riuscita in questo intento. Mentre si era organizzata anche la vita familiare a Roma, ha dovuto rientrare a Trieste al suo insegnamento a Giurisprudenza, pur continuando a sentirsi parte della sinistra, partecipando alle iniziative del Centro per la Riforma dello Stato, dell’Associazione Enrico Berlinguer, della CGIL, dei gruppi femminili, delle espressioni del territorio e della Rivista giuridica del lavoro.
Ma anche una successiva delusione l’ha segnata a fondo: la sua mancata elezione nella commissione giudicatrice del concorso a cattedra del 1989. Da quel momento non ha voluto far parte di alcun gruppo di giuslavoristi accademici, non è più andata ai convegni dell’Aidlass, pur continuando ad organizzare e a partecipare a molte iniziative scientifiche. Forse avrebbe voluto dar vita ad una scuola ampia di triestini per incidere in modo più forte nel diritto del lavoro italiano e per guidare in senso democratico anche la nostra Facoltà. Non c’è riuscita nella misura voluta o avrebbe dovuto attendere troppo.
8. La produzione scientifica degli anni ’90
Malgrado questi insuccessi, l’A. ha proseguito la sua produzione scientifica nel corso di tutti gli anni ’90. Rinviando a ciò che ho scritto nel lontano 2000 per un quadro più articolato, qui voglio solo osservare che in questo ultimo periodo i temi prescelti hanno spesso carattere molto alto e impegnativo, come, ad es., i rapporti tra le fonti interne, specie costituzionali, e quelle comunitarie ed i nessi tra i principi dell’uguaglianza formale e sostanziale e quello di parità tra lavoratore e lavoratrice (v. la relazione pubblicata in GI, 1992, IV, c. 140 ss.; Azioni positive: confini giuridici e problemi attuali dell’uguaglianza di opportunità, RIDL, 1996, I, p. 375 ss.; Pari opportunità: privato e pubblico a confronto. I principi di eguaglianza nel diritto comunitario, RGL, 1997, I, pag. 451 ss.).
Spiccato, in questo periodo, è il suo interesse per lo sviluppo del diritto del lavoro nella sua dimensione europea, interesse non ancora tanto diffuso nella dottrina italiana dell’epoca e legato al vecchio filone degli studi giuridici triestini particolarmente sensibile al diritto sovranazionale e comparato (così R.Nunin, nel par. 4 di L’insegnamento del Diritto del lavoro, in Giuristi a Trieste, cit., p. 81).
L’A. si è inserita anche nel dibattito sulla crisi della nozione di subordinazione e sull’esigenza di una nuova articolazione delle tutele, ridimensionando gli aspetti economici e sociali della nuova era postindustriale e criticando le tesi che ritenevano superata la distinzione tra subordinazione e autonomia ed estendevano norme protettive del lavoro dipendente a quello autonomo e parasubordinato (v. La subordinazione. Riflessioni da tre libri e da una relazione recenti, RIDL, 1990, I, p. 158 ss. e Autonomia e assetto dei poteri (impresa e lavori), RGL, 1991, I, p. 152 ss.). Quest’ultimo scritto costituisce una sorta di testamento scientifico anticipato sui caratteri fondamentali del diritto del lavoro passato, presente e futuro.
Qui riprendo solo la valutazione positiva sulle innovazioni degli anni ’70 e quella negativa degli anni ’80, quest’ultima motivata con il fatto che la promozione del sindacato non aveva fatto avanzare alcuna ipotesi di governo dell’economia, che la flessibilità affidata alla contrattazione aveva dato risultati modesti, come del resto il sostegno alle nuove istituzioni del mercato del lavoro; criticava, infine, la scarsità di strumenti per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e proponeva varie misure, specie sul versante delle retribuzioni e del tempo di lavoro.
9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti
Cecilia Assanti ha cessato l’attività accademica nell’ottobre del 1997, prima della scadenza naturale. Si era probabilmente stancata della sua Facoltà e voleva passare qualche anno in pace. In effetti ha vissuto l’ultimo periodo della vita molto serenamente, lontana dai problemi dell’Università, dell’accademia e dei concorsi e dedita allo studio e alla ricerca secondo i suoi ritmi e le sue preferenze.
Dal 1990-1991 al 2001-2002 nella Facoltà di Giurisprudenza diritto del lavoro era insegnato anche da Antonio Vallebona, con il quale ho subito instaurato un bel rapporto di amicizia, di cui gli sono ancora molto grato, come sono grato a Franco Carinci per la fiducia e gli spazi che mi ha dato nelle sue riviste, trattati e commentari. Anche Carlo Pisani ha insegnato Diritto del lavoro a Trieste (dal 2002-2003 al 2008-2009). Dopo la scomparsa dell’A., Miscione, Vallebona ed io nell’ottobre del 2001 abbiamo organizzato un convegno a Trieste in sua memoria e poi abbiamo curato una raccolta di suoi scritti (C. Assanti, Scritti di Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2003).
Tra la fine del vecchio millennio e l’inizio di quello nuovo siamo diventati professori di prima fascia anche Miscione ed io e così il Diritto del lavoro triestino ha continuato il suo corso. Seguendo le tracce di Cecilia, mi sembra di aver fatto bene due cose: ho creato un Master in Diritto del lavoro che ha valorizzato la Facoltà di Trieste e la città, riuscendo a farvi partecipare come docenti molti colleghi ed amici, vicini e lontani, che mi hanno regalato bellissimi rapporti personali e professionali; ho sostenuto i lavoristi più giovani di me, tanto che Roberta Nunin ha da anni preso servizio come professore di prima fascia e tra pochi mesi dovrebbe farlo anche Maria Dolores Ferrara; ora possono serenamente occuparsi di una nuova leva di lavoristi e ulteriormente sviluppare la materia nella nostra città.
Tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza l’intelligenza, la passione e la disponibilità nei miei confronti di Cecilia, a cui devo, insieme con la mia prima moglie Annamaria, un dono immenso: avermi fatto fare per decenni l’unico mestiere che sapevo fare e che mi piaceva tantissimo.
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