ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale 21 marzo 2025, n. 33: una storia collettiva da scrivere e raccontare - 2. Cosa vuol dire adottare? - 3. È tempo di una vera cultura delle adozioni - 4. Dedicato alle bambine e ai bambini più grandi: parliamo di vacanze preadottive - 5. Cosa accade dopo C. cost. n. 33 del 2025 - 6. Non scoraggiarsi mai, pensando a chi aspetta.
Il 21 marzo 2025 è stato un inizio di primavera destinato a essere ricordato a lungo: la Corte costituzionale, con una storica sentenza (n. 33 del 2025), ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non consente alle persone singole residenti in Italia di presentare dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto di residenza di essere dichiarate idonee all’adozione internazionale. Grazie a tale sentenza, il 12 maggio 2025 è stato emesso il primo decreto di idoneità all’adozione internazionale nei confronti di una persona non coniugata.
The 21st of March, 2025 was the beginning of spring that will be remembered for a long time: the Italian Constitutional Court, with a historic ruling (no. 33 of 2025), declared the art. 29 bis of law no. 184 of 1983 unconstitutional in the part in which it does not allow single persons resident in Italy to present a declaration of willingness to adopt a foreign minor resident abroad and to ask the juvenile court of the district of residence to be declared suitable for international adoption. Thanks to this ruling, on May 12, 2025, the first decree of suitability for international adoption was issued for an unmarried person.
1. La sentenza della Corte costituzionale 21 marzo 2025, n. 33: una storia collettiva da scrivere e raccontare
La Corte costituzionale, con la sentenza 21 marzo 2025, n. 33, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione[1].
Tale pronuncia – emessa a seguito dell’ordinanza di rimessione del Tribunale per i minorenni di Firenze del 20 maggio 2024[2] - consente alle persone singole la possibilità di presentare domanda davanti al tribunale per i minorenni territorialmente competente per essere dichiarate idonee all’adozione internazionale[3].
La sentenza (la cui motivazione ripercorre l’evoluzione storica dell’istituto, facendo comprendere come si è arrivati all’assetto normativo esistente al momento della pronuncia)[4] si fonda, da un punto di vista tecnico-giuridico, su una complessa triangolazione sistematica tra la norma tacciata di incostituzionalità (l’art. 29 bis, cit., che, richiamando l’art. 6 legge n. 184 del 1983, ha reso possibile - fino al 26 marzo 2025 - solo alle coppie unite in matrimonio da tre anni la presentazione della domanda di idoneità all’adozione internazionale), le norme costituzionali (gli artt. 2 e 117 Cost.) e il parametro interposto (l’art. 8 CEDU), imponendo all’interprete di cimentarsi su più fonti, anche sovranazionali, con un’importante opera di ricucitura sistematica[5].
La sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025 richiederebbe, in verità, una riflessione non limitata ai soli aspetti di tipo tecnico-giuridico, ma estesa anche ai profili di tipo storico e sociologico. Sarebbe, infatti, opportuno chiedersi perché si sia arrivati alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma - a suo tempo, approvata con una votazione plebiscitaria di entrambi i rami del Parlamento – solo dopo un quarto di secolo dal momento in cui (con la riformulazione dell’art. 117 Cost. ad opera della legge cost. 18/10/2001, n. 3) se ne sono palesati i profili di incostituzionalità, in relazione al parametro interposto dell’art. 8 CEDU, cioè della disposizione che, nel sancire il diritto alla vita privata e familiare, scolpisce, al par. 2, i limiti di ingerenza della pubblica autorità (che devono corrispondere a misure necessarie in una società democratica).
La stessa Corte costituzionale nel cd. caso Di Lazzaro[6] (in un diverso contesto normativo, anteriore alla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1993, avvenuta con la legge 31/12/1998, n. 476 e alla modifica dell’art. 117 Cost. ad opera della legge cost. n. 3 del 2001) aveva, del resto, gettato un seme, germogliato appieno solo dopo oltre trent’anni, con la pronuncia dello scorso 21 marzo 2025[7].
Tanto più che l’impianto della legge sulle adozioni aveva finito per connotarsi per la presenza di una regola generale (che consentiva l’accesso all’istituto solamente alle persone unite in matrimonio da tre anni) accompagnata da così tante eccezioni da svuotarne in larga parte il contenuto. A tal fine basti citare gli artt. 25, commi 4 (adozione da parte di uno solo coniuge in caso di morte o incapacità dell’altro coniuge durante il periodo di affidamento preadottivo) e 5 (adozione del coniuge, in caso di separazione intervenuta nel corso dell’affidamento preadottivo), 44 (adozioni in casi particolari, tra i quali quella del minore diversamente abile), 40 (adozione internazionale del minorenne cittadino italiano da parte di un cittadino straniero, cui non è richiesto il requisito del coniugio) della legge n. 184 del 1983.
Lo scossone definitivo a un impianto normativo che si trascinava più per inerzia che per la propria coerenza sistematica è stato, infine, dato non solo dalla riforma del 2012[8] (che aveva unificato lo stato di figlio), ma anche dalla sentenza della Corte costituzionale 28/03/2022, n. 79[9], che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 55 legge n. 184 del 1983 nella parte in cui (rinviando all’art. 300, comma 2, c.c.) prevedeva che le adozioni in casi particolari non inducessero alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.
Erano, quindi, maturi i tempi perché la Corte costituzionale (che sul tema delle adozioni internazionali da parte delle persone singole non aveva mai evocato la discrezionalità del Parlamento[10]) giungesse ad affermare che (anche) la famiglia monoparentale trova riconoscimento nella Costituzione[11].
Per ragioni facilmente intuibili, non entrerò nell’esame dei contenuti di C. cost. n. 33 del 2025, rinviando alla lettura dei primi commenti, peraltro, assai positivi sulla decisione[12], preferendo dedicare alcune brevi riflessioni all’adozione, al suo significato e ai suoi protagonisti e a quello che accadrà in esito alla storica sentenza della Corte costituzionale di inizio primavera.
2. Cosa vuol dire adottare?
Di adozione internazionale (così come più in generale di adozione) si è parlato assai poco in questi anni. Il tema dell’adozione è balzato agli onori delle cronache solamente quando si è parlato di singoli casi che coinvolgevano persone più o meno famose o nei rari casi in cui si è disquisito sui limiti di accesso all’adozione per coloro che non possedevano i requisiti previsti nell’art. 6 legge n. 184 del 1983[13].
Lo scarso interesse per l’istituto nel dibattito pubblico[14] si è accompagnato a una decrescita impietosa dei numeri delle adozioni internazionali. La stessa Corte costituzionale (C. cost. n. 33 del 2025) ha ritenuto opportuno richiamare tali dati che evidenziavano che sia il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, sezione statistica, sia la Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione per le adozioni internazionali, Autorità centrale per la Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, documentano il passaggio, nel caso dell’adozione internazionale, da quasi settemila domande nel 2007 a una stima di circa cinquecento domande per il 2024.
Non credo che l’imponente riduzione dei numeri delle adozioni internazionali sia riconducibile solamente alla lunghezza delle procedure, alle verifiche approfondite sull’idoneità degli aspiranti genitori adottivi e ai costi[15], ma che ci siano anche ragioni di carattere culturale: l’adozione resta, tuttora, un terreno sconosciuto ai più, troppo spesso occupato da pregiudizi e false credenze.
È invece necessario fare un po’ di ordine su un tema fondamentale, come quello dell’adozione.
La scelta[16] di diventare genitori manifestando la disponibilità ad adottare un minore straniero in stato di abbandono – cui fa riferimento anche C. cost. n. 33 del 2025 – introduce le prime due parole chiave che vengono in rilievo nell’adozione: disponibilità (quella degli aspiranti genitori adottivi) e diritto ad avere una famiglia (da parte del minore in stato di abbandono). Sotto quest’ultimo profilo è particolarmente centrata la definizione di un indimenticato giurista, secondo il quale: «il minore ha diritto di essere adottato perché ha diritto di essere amato»[17]. Tale prospettiva è recepita anche nel Preambolo della Convenzione dell’Aja del 1993, dove si afferma che il minore deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, d'amore e di comprensione.
Adottare significa intraprendere un viaggio destinato a durare tutta la vita.
Un viaggio che parte dentro se stessi e chiede a ciascun genitore di ripercorrere a ritroso la propria vita per arrivare al momento esatto in cui si varca la soglia di un tribunale per i minorenni per presentare la domanda ex art. 29 bis (o anche ex art. 6 nel caso delle coppie unite in matrimonio da tre anni) legge n. 184 del 1983, per capire le motivazioni che lo hanno portato a manifestare la disponibilità ad adottare un minore.
È un viaggio in cui – prima dell’incontro più importante, cioè quello con i propri figli – i genitori trovano, sulla loro strada, più figure professionali: assistenti sociali, psicologi e giudici minorili.
Sono incontri anche faticosi, perché finalizzati a valutare l’idoneità degli aspiranti genitori adottivi. Non è facile per nessuno sottoporsi al giudizio altrui, quando è in gioco un aspetto così intimo ed essenziale della propria vita personale. Eppure, gli aspetti di tipo valutativo (propri di un procedimento che deve, infine, concludersi con una dichiarazione di idoneità o inidoneità) si innestano su un percorso di rielaborazione e di confronto, che ci porta a capire cosa sia veramente l’adozione.
La valutazione delle persone che manifestano la propria disponibilità all’adozione internazionale non è, infatti, statica, ma dinamica e prospettica, incentrandosi non solo sul loro vissuto e sul suo percorso esistenziale, ma anche sulla loro adattabilità ad affrontare (e fronteggiare) le molteplici situazioni che possono presentarsi in futuro, una volta perfezionato il percorso adottivo.
Come spesso viene ripetuto nei corsi di preparazione per l’adozione organizzati presso i servizi sociali di ciascun comune - da cui prende necessariamente avvio il viaggio degli aspiranti genitori - l’amore non basta: è necessario essere consapevoli che ciò che è accaduto nella vita del minore prima dell’incontro con il genitore o i genitori adottivi potrebbe presentarsi in modo inaspettato (soprattutto nella fase adolescenziale), anche quando il percorso di adattamento e di inserimento in un paese diverso da quello di origine sembra compiuto.
Capire tutto questo serve a riconciliare l’idea di adozione che si ha prima di varcare la soglia del centro per le adozioni in occasione del primo incontro informativo e quello che sapremo sulle adozioni una volta che figure professionali (come assistenti sociali, psicologi o giudici minorili) ci faranno capire cosa è davvero l’adozione e ci porranno davanti al primo bivio: andare avanti o no?
3. È tempo di una vera cultura delle adozioni
Sarebbe tempo che si creasse una vera cultura dell’adozione, in grado di sfatare tanti falsi miti, a partire da quello secondo cui i genitori (o aspiranti genitori) adottivi sono dei benefattori dell’umanità e che adottare significa fare un’opera buona o fare una cosa bella.
Nell’immaginario comune l’adozione è assai spesso considerata come una genitorialità di serie B … quindi, sì, bisogna essere per forza più buoni o più altruisti degli altri per prendere e diventare madre o padre di un figlio o una figlia che non hai messo al mondo.
L’adozione non è, tuttavia, un atto di beneficenza.
Nessuno si sognerebbe di pensarlo per il caso della genitorialità biologica e lo stesso vale anche per l’adozione, perché il legame affettivo che si instaura è lo stesso e non dipende dal fatto che il colore della pelle di tua figlia o di tuo figlio sia come il tuo, che abbia i tuoi occhi, la tua voce, i tuoi talenti o i tuoi difetti. Proprio per questo motivo i genitori adottivi non sono persone più buone dei genitori biologici, ma solo genitori come tutti gli altri, i quali seguono un diverso percorso di maternità o paternità, che implica la disponibilità a dare una famiglia a un minore che ne è privo.
E proprio qui sta il punto centrale: adottare significa diventare genitori di un bambino o una bambina che già esiste e che ha un passato prima di noi, una storia senza di noi, che accogliamo insieme a quel figlio o quella figlia che viene da lontano.
Significa essere consapevoli che nella testa dei nostri figli convivranno per sempre – a livello più o meno inconscio - le figure dei genitori biologici e quelle dei genitori adottivi.
Significa essere consapevoli – e accettare come una cosa naturale - che i nostri figli, prima o poi (magari senza dircelo), si porranno la domanda su come sarebbe stata la loro vita se, invece dei genitori che li hanno adottati, avessero avuto accanto quei genitori che non hanno potuto o non hanno voluto crescerli.
Significa essere consapevoli che i nostri figli un giorno potrebbero avere il desiderio di fare - forse senza di noi - il viaggio alla ricerca delle loro origini, per riconciliare il prima di noi con il dopo con noi.
Significa comprendere che amare davvero qualcuno vuol dire accoglierlo con il suo passato e accettare che quel passato diventi parte di noi.
Significa essere pronti ad aiutare i propri figli a rielaborare quel passato, che può lasciare delle cicatrici che possono riaprirsi in qualsiasi momento, ma che si può provare, almeno, a far smettere di sanguinare.
Significa essere consapevoli che quel vissuto doloroso potrebbe determinare una quotidianità più faticosa di quella che ci possiamo immaginare nel processo di crescita dei nostri figli.
Significa avere consapevolezza che tutto questo potrebbe accadere e accettare di andare avanti, perché rispetto a qualsiasi difficoltà che ci viene prospettata o che ci possiamo immaginare in modo realistico prevale la consapevolezza che siamo risorse per qualcuno che non ha una famiglia e che nel momento in cui accettiamo di proseguire non è più la bambina o il bambino da adottare, ma sono ormai diventati nostra figlia o nostro figlio, anche se non li abbiamo mai visti e dovremo aspettare ancora un po’ prima di incontrarli.
Significa sapere che i nostri figli, da qualche parte, ci stanno aspettando e che noi dobbiamo andare da loro.
Significa intraprendere un viaggio, con una sola possibile destinazione, che si chiama futuro.
4. Dedicato alle bambine e ai bambini più grandi: parliamo di vacanze preadottive
Le statistiche riscontrabili sul sito della Commissione per le adozioni internazionali[18] consegnano un quadro connotato da un progressivo innalzamento dell’età dei bambini adottati, che hanno, quindi, vissuto più tempo in una situazione di abbandono o istituzionalizzata. È tuttavia fallace la vulgata che l’adozione di bambini più grandi comporti necessariamente maggiori difficoltà rispetto ai bambini in più tenera età. In realtà, è la capacità di resilienza di questi piccoli rispetto a un vissuto doloroso e abbandonico a segnare la differenza, esattamente come accade nella vita di ciascuno di noi. È una cosa che si scopre solo durante la crescita dei nostri figli. Proprio per questo sono importanti i saperi e le esperienze delle figure professionali che si incontrano nella fase anteriore e successiva al completamento del percorso adottivo e i contatti con i gruppi delle famiglie adottive, in un reciproco e mutuo scambio di esperienze.
Tuttavia, soprattutto in presenza di minori in fase pre-adolescenziale non può essere tutto sempre e solo rimesso alla buona volontà degli aspiranti genitori adottivi (singoli o in coppia), lasciati troppo spesso a cavarsela da soli.
Per favorire i percorsi adottivi di ragazzi e ragazzi in fase preadolescenziale o adolescenziale sono fondamentali le vacanze preadottive, caratterizzate da viaggi in Italia di minori (individuati dall’autorità centrale del paese di provenienza), presso possibili famiglie adottive (solitamente munite del decreto di idoneità all’adozione internazionale), durante i mesi estivi.
Si tratta di esperienze che consentono non solo la reciproca conoscenza tra i minori e i possibili genitori adottivi, ma soprattutto di vincere le reciproche paure. Tra queste ultime viene in rilievo, in via preliminare, proprio quella di andare a vivere in un paese diverso da quello in cui si è nati da parte di minori che non sono più in tenera età. Le vacanze preadottive sono, quindi, esperienze fondamentali che consentono di costruire ponti di umanità tra ragazze e ragazzi più grandi (che vedono però approssimarsi il momento in cui, con il conseguimento della maggiore età, la fuoriuscita dal circuito protettivo pubblicistico) e i possibili genitori adottivi.
Le vacanze preadottive sono, tuttavia, attualmente ferme, sebbene si tratti, forse, dell’unico strumento in grado di favorire effettivamente l’adozione dei minori più grandi. Eppure, il mondo delle adozioni internazionali ci consegna un quadro confortante in termini di professionalità e di serietà di gran parte degli enti autorizzati ex art. 39 ter legge n. 184 del 1983, così come di alcune figure di spicco (e di consolidate esperienze in ambito minorile) che operano in ambito istituzionale. Sarebbero, tuttavia, necessari protocolli operativi che coinvolgano tutte le istituzioni interessate (con la collaborazione degli enti autorizzati) e progetti concreti che dovrebbero auspicabilmente essere messi in cantiere nei prossimi anni, a decorrere dal 2026. La posta in gioco (il destino di tante ragazze e ragazzi senza una famiglia) è troppo alta, perché gli ostacoli burocratici possano bloccare progetti così importanti.
Certamente, le politiche di promozione dell’adozione internazionale non si nutrono solamente di progetti di vacanze preadottive, ma anche di incentivi che rendano effettivamente paritaria l’accessibilità all’adozione internazionale per tutti coloro (coppie o singoli) che siano dichiarati idonei ad adottare un minore straniero in stato di abbandono, a partire dalle condizioni economiche degli aspiranti genitori adottivi. Mi limito a farne un cenno in questa sede, ripromettendomi di affrontare il tema in modo più ampio in altra occasione.
Ci sono poi semplificazioni di tipo procedurale che potrebbero interessare anche le formalità successive all’emissione del decreto di idoneità all’adozione internazionale, rendendo più agile ai (futuri) genitori adottivi la preparazione della documentazione da inviare all’estero. Sul punto si registrano prassi diversificate nei diversi uffici. Basterebbero, tuttavia, anche poche modifiche regolamentari, come quella di considerare urgenti – a fronte della presentazione del decreto di idoneità all’adozione internazionale – tutti gli atti da compiere presso i Comuni (es. certificati di nascita, stato, residenza e cittadinanza, autentiche), così come l’apposizione della cd. apostille (sia nelle Prefetture che nelle Procure della Repubblica territorialmente competenti).
5. Cosa accade dopo C. cost. n. 33 del 2025
Successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 2025 si è posto il problema sul come dare attuazione a questa sentenza, che segna un punto di non ritorno in materia di adozioni internazionali.
La pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025 nella Gazzetta Ufficiale, consente alle persone singole di presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale, senza alcuna dilazione. Alcuni tribunali per i minorenni (es. Milano, Venezia e Genova) hanno già provveduto ad aggiornare anche le informazioni nel loro siti web, in modo conforme alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025.
Peraltro, le numerose ipotesi in cui la legislazione interna consentiva anche alle persone non coniugate l’adozione portano a ritenere che non ci si muova su un terreno totalmente sconosciuto agli operatori, che in precedenza si trovavano non di rado ad affrontare casi in cui una persona singola aveva instaurato un rapporto con il minore da adottare. L’aspetto innovativo – e le questioni che si pongono sul piano pratico e operativo – riguarda il fatto che l’intervento additivo della Corte costituzionale sull’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 imporrà di valutare l’idoneità a svolgere compiti di natura genitoriale prima che sia instaurato un rapporto con il minore. Si tratterà, quindi, di costruire prassi operative che conducano alla valutazione delle persone singole e della idoneità della famiglia monoparentale (anche in ragione del contesto relazionale in cui è inserito l’aspirante genitore adottivo) ad assicurare un ambiente stabile e armonioso con il minore.
Alcuni articoli pubblicati sulla stampa o su internet, così come gli stessi resoconti degli enti autorizzati che hanno organizzato i primi corsi sulle adozioni (anche) da parte di persone singole, riportano, tuttavia, un quadro connotato da prassi ancora diversificate, da ricondurre, in parte, anche al carico gravoso della domanda di giustizia che caratterizza i tribunali per i minorenni, che devono essere dotati delle risorse necessarie a far fronte all’aumento di istanze ex art. 29 bis legge n. 184 del 1983, nell’ambito di una realtà operativa fisiologicamente caratterizzata da numerose istanze e procedimenti di carattere urgente. È pertanto necessario che i tribunali per i minorenni siano corredati delle risorse necessarie (anche in termini di personale) per far fronte (anche) alle domande di idoneità all’adozione internazionale da parte di una platea di persone sin qui esclusa.
Recentemente la Commissione per le adozioni internazionali e l’Istituto degli Innocenti di Firenze hanno dato impulso a un tavolo interdisciplinare per delineare le traiettorie del percorso di preparazione per l’adozione internazionale[19].
Un ruolo importante può – e deve - essere giocato anche dal Consiglio Superiore della Magistratura (nella ricostruzione delle prassi e nel favorire il confronto tra i ventisei tribunali per i minorenni interessati) e dalla Scuola Superiore della Magistratura nell’ambito della formazione dei magistrati.
6. Non scoraggiarsi mai, pensando a chi aspetta
Vorrei, infine, dire a tutti coloro che si accingono a presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale di non lasciarsi scoraggiare dal riassestamento imposto ai tribunali per i minorenni dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 2025 e dalle difficoltà che si incontrano nel percorso adottivo.
Non credo che ci sia un procedimento per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale di una persona singola che potrà essere travagliato come quello che ha portato alla pronuncia di C. cost. n. 33 del 2025 (iniziato nel 2019 e concluso nel 2025), caratterizzato da ben due incidenti di incostituzionalità. Certo è che se, a seguito della prima pronuncia della Corte costituzionale che dichiarò inammissibile la prima questione di illegittimità costituzionale dell’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 sollevata dal Tribunale per i minorenni di Firenze (C. cost. 23/12/2021, n. 252), la parte e il suo legale[20] avessero deciso di lasciar perdere e non avessero riassunto il procedimento, quando tutte le stelle sembravano avverse, la storia non sarebbe cambiata e oggi non staremmo a disquisire di prassi e di come le persone singole debbano presentare la domanda di idoneità all’adozione internazionale.
Il punto centrale, però, non è la determinazione di chi ha chiesto di essere dichiarata idonea all’adozione internazionale, ma la persona il cui destino – e, prima di tutto, il diritto a essere figlia - si è giocato all’interno di questo procedimento, pur non essendone formalmente parte. Lei ha meritato tutto questo, ha meritato ogni giorno di questi sei anni e merita tutto ciò che di bello la Vita potrà offrirle.
E allora, a tutti coloro che, grazie alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025, si accingono ad affrontare il procedimento per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale (e anche a coloro che potevano già presentarla da prima) mi resta da dire un’ultima cosa: non dimenticate mai i vostri figli, perché loro, da qualche parte, vi stanno aspettando.
Solo quando arriverete da loro e li accoglierete come figli per loro sarà, davvero, primavera.
[1] Sul sito della Corte costituzionale (www.cortecostituzionale.it) è possibile vedere - nella sezione Giurisprudenza e lavori – video e verbali di udienze - la riproduzione audiovisiva dell’udienza del 29 gennaio 2025, dove è stata discussa la causa che ha condotto alla sentenza n. 33 del 2025. Si tratta della causa n. 2, ord. n. 139/2024, rel. Emanuela Navarretta. La parte ricorrente è stata assistita e rappresentata dall’avv. prof. Romano Vaccarella.
[2] Pubblicata in G.U. – Serie Speciale – Corte costituzionale, n. 28 del 10/07/2024.
[3] La Corte costituzionale non si è occupata delle adozioni nazionali. Occorre evidenziare come il procedimento in cui è stata posta la questione di illegittimità costituzionale degli artt.29 bis e 30 legge n. 184 del 1983 aveva per oggetto la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale e non si occupava, affatto, di adozione nazionale.
[4] Sul tema v. V. Giorgianni, L’adozione internazionale, Trattato di diritto di famiglia (diretto da G. Bonilini), Vol. III, Milano, 2022, 673 ss.
[5] Questa triangolazione tra norma sospetta di incostituzionalità, norma costituzionale (art. 117 Cost.) e parametro interposto (norma della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo), ormai consolidata nella giurisprudenza costituzionale, trova il proprio archetipo in due importanti pronunce della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007, in tema di indennità di esproprio (in Giur. it., 2008, 565 ss., con note di B. Conforti, La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali dello Stato in tema di espropriazione. e R. Calvano, La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio?
[6] C. cost. 16/05/1994, n. 183.
[7] Non a caso C. cost. n. 33 del 2025 richiama proprio C. cost. n. 183 del 1994, v. considerato 9.4., dove si legge che: «Se, dunque, deve ritenersi che la persona singola è idonea a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso, d’altro canto, l’esigenza, sottesa alla scelta del legislatore, di assicurare all’adottato «la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori» (sentenza n. 198 del 1986) non viene perseguita con un mezzo idoneo e proporzionato. Come si è già in passato rilevato (sentenza n. 183 del 1994), si tratta di una istanza che può giustificare «una indicazione di preferenza per l’adozione da parte di una coppia di coniugi», ma che non supporta la scelta di convertire tale modello di famiglia in una aprioristica esclusione delle persone singole dalla platea degli adottanti.» La Corte costituzionale non declina, quindi, il criterio di preferenza della coppia rispetto alla persona singola come valore fondato, in positivo, sui principi costituzionali, ma lo riconduce piuttosto ai limiti posti, in negativo, alla discrezionalità del legislatore nella selezione dei possibili genitori adottivi, secondo i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Tale aspetto è rilevante in relazione alla disciplina sulle adozioni nazionali, rimasta fuori dal perimetro di C. cost. n. 33 del 2025. Difatti, l’eventuale intervento del Giudice delle Leggi sull’art. 6 legge n. 184 del 1983 (in assenza di un intervento, medio tempore, del legislatore) sarebbe a rime obbligate – in termini di esclusione o inclusione delle persone singole dall’adozione nazionale.
[8] Sul tema, v. G.F. Basini, Lo stato di figlio, in Trattato di diritto di famiglia (diretto da G. Bonilini), Vol. III, Milano, 2022, p. 3 ss.; M. Bianca, L’unicità dello stato di figlio, in La riforma della filiazione (a cura di C.M. Bianca), Milano, 2015, p. 3 ss.; R. Amagliani, L’unicità dello stato di figlio giuridico, in Riv. dir. civ., 2015, 554.
[9] In Famiglia e diritto, 2022, 897, con nota di M. Sessa, Stato giuridico di filiazione dell’adottato nei casi particolari e moltiplicazione dei vincoli parentali.
[10] C. cost. 85 del 2003; C. cost. n. 347 del 2005; C. cost. 252 del 2021. Sul punto v. anche supra, la nota 7.
[11] Secondo il rapporto annuale 2025 ISTAT – pubblicato il 21/05/2025 - nel 2023-2024 si contano poco meno di 16,4 milioni di nuclei familiari (formati da persone legate da una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio celibe/nubile): poco meno della metà sono coppie con figli (47,9 per cento), mentre le coppie senza figli costituiscono il 33,7 per cento e i nuclei costituiti da genitori soli il 18,4 per cento. Le famiglie monogenitoriali sono poco più di tre milioni, costituite per l’80,2% da madri single.
[12] M. Bianca, La Corte costituzionale e l’apertura dell’adozione alle persone singole. Un modello unico di famiglia monoparentale fondato sulla triade valoriale: autodeterminazione, solidarietà e interesse del minore, in questa Rivista, 06/05/2025; M. Acierno, L'autodeterminazione non egoista secondo la Corte costituzionale, in Questione Giustizia; C. Trapuzzano, Adozione internazionale: legittima l’adozione dei single, in Quotidiano Giuridico, 26/03/2025; A. Figone, Anche i single posso accedere all’adozione internazionale di minori d’età: lo dice la Corte costituzionale, in IUS Famiglie, 25/03/2025.
[13] Anche le iniziative parlamentari per la modifica dell’art. 6 legge n. 184 del 1983 non sono riuscite – nonostante lo sforzo delle proponenti, quasi sempre donne – a creare un vero e proprio dibattito. Per una rassegna sulle iniziative legislative che si sono succedute v. E. Pesce, La lunga marcia verso l’adozione piena da parte del single: una decisione originale, in Famiglia e diritto, 2018, 157 ss.
[14] Tra le poche persone che recentemente (prima della storica pronuncia della Corte costituzionale) hanno affrontato il tema della decrescita delle adozioni - anche con puntuali riferimenti a dati statistici – si possono citare Ferruccio de Bortoli (Il crollo delle adozioni, le voci (angosciate) delle famiglie, in www.corriere.it, 16/01/2025), Marta Camilla Foglia (Adozioni in Italia: tutti gli ostacoli che le scoraggiano, in www.corriere.it), Milena Gabanelli (Dataroom sulle adozioni, in www.corriere.it), Stefania Vadrucci (Crollo delle adozioni internazionali, deve cambiare il sistema, in Alley Oop, Sole24ore, 09/05/2024).
[15] Sotto tale profilo può essere fatta una comparazione limitatamente alle coppie sposate da almeno tre anni - le uniche che possono accedere sia all’adozione, nazionale e internazionale che a tecniche di procreazione medicalmente assistita (quest’ultima aperta anche alle coppie di fatto che non possono, invece, presentare domanda di adozione, v. art. 6 legge n. 184 del 1983 e art. 5 legge n. 40 del 2004) - per evidenziare come i costi di accesso alle tecniche di PMA – con un ticket di poche centinaia di euro – non siano affatto comparabili con i costi di un’adozione internazionale. Ciò rende evidente come, in realtà, il fattore economico possa condizionare (non poco) la scelta di chi, attualmente, ha la possibilità di accedere a tecniche di PMA e di presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale o la propria disponibilità per l’adozione nazionale.
I dati dell’Istituto superiore di sanità evidenziano, nel 2022, 109.755 cicli di PMA (https://www.epicentro.iss.it/pma/aggiornamenti#:~:text=In%20Italia%2C%20nel%202021%2C%20sono,tramite%20iniezione%20di%20spermatozoo%20in). Non è questa la sede per un confronto incrociato sui dati delle adozioni internazionali e quelli delle PMA, nel periodo 2004-2022 (prendendo come anno di partenza quello dell’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004). Tanto più che i requisiti di accesso alle tecniche di PMA – attualmente limitata solamente alle coppie – non coincidono con quelli previsti nell’art. 6 legge n. 184 del 1983. A decorrere da C. cost. n. 33 del 2025 per quanto riguarda le adozioni internazionali dovranno essere considerate anche le persone singole (che non possono, invece, accedere alla PMA, v. C. cost. 22/05/2025, n. 69). In assenza di dati statistici che possono far comprendere i diversi percorsi di genitorialità, l’unica considerazione che è possibile fare è che la scelta di ricorrere all’adozione piuttosto che alle tecniche di PMA non dovrebbe essere condizionata da fattori economici.
[16] È interessante l’etimologia del termine adozione che deriva dal latino adoptare, formato dal prefisso ad e dal verbo optare, che significa scegliere.
[17] C.M. Bianca, Audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati in data 23 maggio 2016. Si legge nel resoconto: «Ripeto ciò che è stato peraltro già rilevato altre volte anche in questa sede: il discorso sulla revisione dell’adozione non deve essere impostato, come da qualche parte si afferma, sull’ipotetico diritto alla filiazione o specificamente sul diritto ad adottare. La prospettiva deve essere rovesciata, perché ciò che va tutelato in via primaria è il diritto del minore a essere adottato. Questo non vuol dire che non ci sia e non sia giuridicamente rilevante l’interesse ad adottare. Certamente questo è un interesse giuridicamente rilevante e tanto più importante se, come è stato detto– scusatemi, ma devo citare Mirzia Bianca– la matrice dell’adozione è una matrice solidaristica.»
[18] La Commissione per le adozioni internazionali, dopo C. cost. n. 33 del 2025, ha svolto un imponente lavoro di aggiornamento del sito www.commissioneadozioni.it, per aggiornarlo con le informazioni relative ai paesi in cui sono consentite le adozioni da parte di persone singole.
[19] Sul punto v. https://www.commissioneadozioni.it/notizie/al-via-un-nuovo-percorso-formativo-per-gli-aspiranti-genitori-adottivi-per-le-adozioni-internazionali/. L’obiettivo è quello di «costruire modalità condivise, coerenti e aggiornate per la formazione degli aspiranti genitori adottivi, attraverso una metodologia partecipativa e interdisciplinare, che prevede il confronto multidisciplinare tra operatori socio-sanitari, magistrati, enti autorizzati ed esperti del settore, tenendo conto anche delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali, tra cui la sentenza n. 33/2025 della Corte costituzionale.»
[20] Si tratta dell’Avv. Prof. Romano Vaccarella.
Immagine: Karl Wilhelm Friedrich Bauerle, Padre e figlio, 1880, olio su tela, cm 54×65, Southwark Heritage Centre, Londra.
Appena venuta alla luce, la pronunzia della Consulta concernente la sorte delle persone trattenute nei CPR ha subito animato un fitto dibattito tanto tra gli studiosi quanto in seno agli operatori (in ispecie ai giudici) che – è facile previsione – si espanderà rapidamente a macchia d’olio coinvolgendo una cerchia sempre più larga di commentatori.
La pronunzia appartiene di sicuro al genus delle decisioni d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata; presenta, però, un tratto caratterizzante che la distingue da altre a questa pure, per taluni aspetti, simili in passato adottate. Più volte infatti – come si è ampiamente rilevato in dottrina[1] – si è fatto ricorso al “tipo” di decisione in parola all’esito di un’operazione di “bilanciamento” tra costi e benefici discendenti dall’eventuale caducazione della norma portata alla cognizione del giudice delle leggi; e, assumendo quest’ultimo, che i primi superino, talora di gran lunga, i secondi, si preferisce far luogo ad un verdetto che non aggravi ulteriormente il vulnus recato alla Carta costituzionale, quale invece si avrebbe per effetto della caducazione stessa[2]. Non si trascuri, perciò, che talora il vuoto di disciplina può essere ancora più incostituzionale del mantenimento della stessa o può portare alla “reviviscenza” di discipline risalenti esse pure, per ragioni varie, di problematica compatibilità con il dettato costituzionale o, come che sia, inidonee a dare appagamento a bisogni elementari della persona umana, a partire da quello – indisponibile – della salvaguardia della propria dignità.
Insomma, per dura che possa essere da digerire, la “logica” è quella del male minore.
È chiaro che la Corte perviene a quest’esito nell’assunto, da cui la stessa muove, che non le sia consentito mettere in atto una manipolazione del testo di legge, avendosene altrimenti una invasione del campo materiale riservato al legislatore e, dunque, una incisione dell’apprezzamento discrezionale di quest’ultimo, cui la Corte reputa di non poter appunto nella circostanza sovrapporre il proprio.
Ora, sul limite della discrezionalità del legislatore si è – come si sa – molto discusso e si potrebbe discutere ancora a lungo. Non è un caso, d’altronde, che in relazione a talune vicende in cui erano in gioco diritti fondamentali della persona, rimasti inappagati a causa del grave e perdurante letargo del legislatore, la Corte, magari dopo un iniziale rigetto della medesima questione accompagnato da un monito severo indirizzato al legislatore stesso, abbia rotto ogni indugio e fatto quindi luogo ad una sostanziale riscrittura di un testo normativo mal fatto, la cui incompatibilità rispetto alla legge fondamentale della Repubblica era già stata appunto acclarata ma non dichiarata.
Il caso odierno appare, tuttavia, essere parzialmente diverso. La disciplina legislativa c’era già da tempo. Solo che, muovendo dall’assunto che nella vicenda de qua si sia in presenza di una limitazione della libertà personale, i “casi” al ricorrere dei quali la limitazione stessa può aversi risultano sufficientemente normati, mentre fa difetto la determinazione dei “modi” con i quali la libertà in parola può essere compressa. La disciplina positiva, insomma, si articola in due parti, l’una giudicata congrua, l’altra priva di riscontro alcuno in fonti normative di rango primario.
Non si è, dunque, in presenza di alcun “bilanciamento”, nel senso sopra precisato, che investa l’intera disciplina sub iudice. C’è l’accertamento di una invalida omissione legislativa, parziale e però – a dire della Corte – non rimediabile a mezzo degli strumenti processuali che la Corte stessa si è forgiata e che ha con il tempo progressivamente arricchito ed affinato.
La disciplina, in realtà, si ha ma – come si dirà a momenti – non risponde alle indicazioni dell’art. 13 Cost.; e, in quanto proveniente da una fonte priva di valore di legge, non avrebbe potuto (e, così com’è, non potrebbe) essere caducata in sede di giudizio sulle leggi ed atti a queste equiparati.
Si ha qui un meccanismo, dal legislatore molte volte allestito nei campi più varî di esperienza ed in relazione alle parimenti più varie esigenze di regolazione, che somiglia alle classiche scatole cinesi, ovverosia – ove si preferisca ricorrere ad altra immagine – si ha una “catena” di atti, normativi prima e di amministrazione poi, strutturalmente e funzionalmente connessi e conducenti alla produzione di un unico, finale effetto. Per dir meglio, è chiaro che ogni atto ha un proprio effetto, non concependosi alcun atto che ne sia privo così come, circolarmente, nessun effetto che non consenta di risalire alla fonte che lo produca. Ciò che, però, maggiormente conta è l’effetto globale, unitario appunto, della “catena”.
Occorre, dunque, vedere come gli atti evocati in campo dal caso qui specificamente interessante si compongano in unità significante.
Giusta la premessa secondo cui il “trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza comporta una situazione di ‘assoggettamento fisico all’altrui potere’” (Corte cost. n. 96 del 2025, p. 9 del cons. in dir., ed ivi richiami di giurisprudenza anteriore), risulta di conseguenza avvalorato il carattere restrittivo[3] della libertà personale e, con esso, la natura assoluta della riserva di legge cui l’art. 13 rinvia in ordine alla disciplina dei “casi” e dei “modi” di limitazione della libertà stessa.
Qui, per vero, la pronunzia della Corte parrebbe non essere esente di qualche oscillazione, dal momento che, per un verso, parrebbe accontentarsi di una regolamentazione con legge dei “modi” stessi “nel loro nucleo essenziale” (p. 10.1 del cons. in dir.), mentre per un altro verso sollecita la legge a dare una “disciplina compiuta” (si direbbe, perciò, ben oltre il “nucleo”…), comunque idonea ad assicurare “un’adeguata base legale” ad alcune istanze dalla stessa Corte in via esemplificativa indicate, in relazione “alle caratteristiche degli edifici e dei locali di soggiorno e pernottamento, alla cura dell’igiene personale, all’alimentazione, alla permanenza all’aperto, all’erogazione del servizio sanitario, alle possibilità di colloquio con difensore e parenti, alle attività di socializzazione” (p. 11 del cons. in dir.).
Ebbene, tutto ciò non si ha in forza di quanto disposto dall’art. 14, II c., d.lgs. n. 286 del 1998, che rimanda all’art. 21, VIII c., d.P.R. n. 394 del 1999, il quale a sua volta rimanda per la determinazione dei servizi da assicurare alle persone trattenute nei CPR a misure adottate dal prefetto, sentito il questore, e in esecuzione di direttive impartite dal Ministro dell’interno.
La “catena”, dunque, si compone di un atto avente forza di legge solo per il suo “anello” iniziale, di una fonte di secondo grado per l’“anello” centrale e, quindi, di “anelli” risultanti da provvedimenti amministrativi: è, insomma, una “catena” mista, risultante da atti di normazione, aventi grado diverso, e da atti di amministrazione.
Stando così le cose, lo scostamento dal disegno costituzionale appare evidente ed avrebbe pertanto meritato una conclusione ben diversa da quella cui è pervenuta la Corte.
Se la riserva di legge posta nell’art. 13 è di tipo assoluto (e non si ha motivo di dubitare che sia così), nessuna manipolazione del dettato legislativo è qui possibile, dal momento che sarebbe comunque fuori bersaglio. Il marcio è, infatti, nella disciplina sublegislativa, specificamente nella parte in cui individua nel prefetto, e non già nel giudice, l’organo competente a porre in essere le misure che riguardano le persone trattenute nei CPR. Solo che, risultando la disciplina stessa da fonte di secondo grado, nessuna pronunzia manipolativa (nella specie, sostitutiva) può riguardarla, risultando pertanto immune dall’opera sanatoria della Corte.
L’opposta soluzione potrebbe essere accolta unicamente a ragionare nel senso che la fonte di primo grado abbia fatto luogo ad un rinvio ricettizio della fonte secondaria. Viene, però, assai arduo immaginare che, specie in una materia quale questa in cui si fa questione di limitazioni alla libertà personale, la legge o atto equipollente ci abbia consegnato una pagina bianca da riempire a piacimento da parte di un futuro atto di secondo grado. Cosa diversa sarebbe stata se il rinvio ricettizio fosse stato fatto nei riguardi di una disciplina già conosciuta dal legislatore e da questi giudicata appunto idonea ad assicurare il rispetto delle condizioni poste dalla Carta costituzionale.
Il difetto di una normazione concernente profili della disciplina legislativa dalla Carta stessa considerati essenziali, allo stesso tempo in cui rende viepiù evidente l’obbligo del legislatore di attivarsi con la massima sollecitudine per colmare la lacuna legislativa acclarata dalla Corte, non consente, per l’intanto, soluzione alcuna diversa da quella della impossibilità di mettere in atto qualsivoglia misura limitativa della libertà personale.
Di cristallina chiarezza ai miei occhi appare, dunque, la conclusione del giudice della sezione specializzata della Corte d’appello di Cagliari, Sez. distaccata di Sassari (N.R.G. 290/2025 del 4 luglio 2025): “in assenza di quella determinazione dei ‘modi’ della detenzione, non ‘ancora’ disciplinati dal legislatore con fonte primaria, non può che riespandersi il diritto alla libertà personale, il cui vulnus è chiaramente espresso dalla Consulta, perché qualunque ‘modo’ non disciplinato da norma primaria non riveste il crisma della legalità costituzionale ed è legalmente inidoneo a comprimerla”.
[1] Riferimenti possono, volendo, aversi da A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2022, spec. 227.
[2] Insomma, è come nei casi di accertamento implicito di colpevolezza contenuto nell’involucro di una pronuncia formalmente proscioglitiva, cosa che può avvenire per varie ragioni (estinzione del reato, mancanza di una condizione obiettiva di punibilità, ecc.).
[3] … e, persino, privativo, stando ai criteri elaborati dalla Corte EDU sin dal caso Asinara.
Sommario: 1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte? - 2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento” – 3. Conclusioni.
1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte?
Il Fato, termine di origine latina, derivante dal verbo fari, che significa "dire", "parlare", al participio passato neutro si declina in fatum, che vuol dire "ciò che è stato detto" o "la parola detta”, intendendosi dalla divinità, insomma un susseguirsi degli eventi a cui ci si deve adeguare ed è inutile tentare di sottrarsi.
E infatti, in età più matura, lo stesso termine fu usato per designare il Destino, in quanto necessità suprema e ineluttabile o potere misterioso e incontrastato[1], figlio del Caos e della Notte, al quale nessuno, nemmeno gli dei, potevano sottrarsi e di cui persino Giove non ne è che un esecutore.
Facendo un passo indietro, nei poemi omerici il destino è indicato da Moira, che letteralmente indica "parte" di vita, di felicità o di sfortuna, che è assegnata all'uomo.
Dietro il termine "destino" si nascondeva il timore che l'uomo provava dinanzi all'ignoto. Il fato è irrevocabile, mentre il destino può essere cambiato. L'uomo si è sempre interrogato sulla sua condizione di essere mortale; un esempio attuale è quello del Covid19 (coronavirus), che ci ha dimostrato che non si può nulla contro un evento imprevisto e preparato dal caso, come un'epidemia.
Anche nell’epoca latina ancora influenzata dal pensiero greco, tuttavia, non mancarono scettici razionalisti come Appio Claudio Cieco, secondo cui homo faber fortunae suae, espressione propria di un periodo di forte espansione del potere di Roma.
Ora, com’è ormai noto e diffuso nella letteratura scientifica, l’Ufficio per il Processo, nato invero da norme risalenti nel tempo[2], e il cui destino, nonostante iniziative pregevoli portate avanti a macchia di leopardo su e giù per l’Italia[3], era quello di un complessivo affievolimento, ha conosciuto, invece, a seguito del periodo pandemico, un rilancio attraverso il PNRR e nello specifico tramite la legge 26 novembre 2021, n. 206 e la legge 27 settembre 2021, n. 134, ciò oltre alle norme per il reclutamento straordinario di risorse utili all’attuazione dello stesso piano nazionale previste nel decreto - legge 9 giugno 2021, n. 80 - Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia - convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2021, n. 113 e in ultimo grazie al D. Lgs. 151/2022.
Il Piano si è proposto l’ambizioso obiettivo di concorrere al “rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti”[4].
Appare allora il caso di soffermarsi solo sulle novità introdotte dall’ultimo intervento normativo che, anche correggendo il tiro delle precedenti indicazioni, hanno in qualche maniera cristallizzato e strutturato l’Ufficio per il Processo.
L’art. 1, comma 18 della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 sulla riforma della giustizia civile ha previsto l’istituzione in via stabile, presso tutti gli uffici giudiziari, sia civili che penali, dell’Ufficio per il processo. La scelta è indicativa della volontà di assegnare all’organizzazione una funzione centrale e trasversale nella giustizia ordinaria e amministrativa[5].
L’istituto raggiunge “finalmente” una stabilità sistematica, collocandosi fermamente fra le risorse che concorrono allo svolgimento della funzione giudiziaria, in particolare con gli artt. 16, 17, 18 e 19 delle disposizioni finali e transitorie del d. lgs n. 151/2022.
Nell’ottica di sistematicità il più importante appare l’art. 18 che introduce nel codice di procedura civile (capo II del titolo I del libro I) l’art. 58 - bis che riconosce all’ufficio per il processo la dignità di struttura stabile e indispensabile per l’esercizio della giurisdizione, allontanando le preoccupazioni di un eventuale abbandono o indebolimento dell’istituto (con dispersione delle ingenti risorse per esso investite), dopo il raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e abbattimento dell’arretrato imposti per la dead line del 2026 [6].
Le disposizioni generali, contenute nel capo I, meritano un’attenta analisi perché puntualizzano alcuni aspetti dai quali traspare l’importanza assegnata alla struttura organizzativa, per un salto non solo quantitativo ma anche qualitativo della giurisdizione.
Infatti, nelle disposizioni generali (art. 2), tra le finalità dell’UPP si prevede la realizzazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo[7] (art. 111 Cost.) attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con ciò prospettando come risorsa indispensabile la digitalizzazione[8].
La direzione e il coordinamento degli uffici per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione sono affidati ai capi degli uffici, ai quali viene attribuito il compito di predisporre il progetto organizzativo, definire le priorità di intervento, gli obiettivi da perseguire e le azioni per realizzarli, nonché di individuare, di concerto con il dirigente amministrativo, il personale da assegnare agli UPP (art. 3).
Il successivo art. 4 elenca le figure professionali che andranno a costituire gli uffici per il processo e gli uffici spoglio, analisi e documentazione, e precisa che ciascun componente svolge i compiti attribuiti secondo quanto previsto dalla normativa, anche regolamentare, e dalla contrattazione collettiva relativa alla figura professionale di appartenenza.
Il capo II del decreto in esame tratteggia i compiti dei componenti dell’ufficio per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione, distinguendo a seconda della tipologia di ufficio giudiziario. Nella descrizione, il legislatore delegato (art. 5, comma 1) ha utilizzato la formulazione «sono attribuiti uno o più fra i seguenti compiti»: tale espressione induce a ritenere che l’elencazione delle attività sia tassativa e non meramente esemplificativa.
Al riguardo, si osserva che la previsione del successivo art. 11 – che prevede che gli UPP e gli uffici spoglio debbano svolgere «anche le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria e di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi degli uffici giudiziari, previste dai relativi documenti organizzativi» – impone un coordinamento fra le due norme, in quanto i progetti organizzativi costituiscono un riferimento centrale per la valorizzazione delle attività degli UPP che potranno, però, svolgersi solo all’interno della elencazione prevista dall’art. 5.
Insomma, viste le norme che precedono, potremmo iniziare a pensare che in questo caso, dopo anni di ritardi, accumulo di processi di vecchia data a scapito anche della qualità dei provvedimenti giurisdizionali, l’Italia abbia battuto un colpo e abbia deciso di non abbandonarsi al fato ma di incidere sul proprio destino.
Questa spinta si è concretizzata innanzitutto in un ingente afflusso di risorse umane, circa dodicimila assunzioni[9] ma anche in una riorganizzazione dell’attività giurisdizionale.
Il singolo magistrato non è più un’isola ma è la punta di diamante di un team che si organizza e gestisce in funzione della migliore risposta da dare alla richiesta di giustizia.
Ma in questa nuova organizzazione una nuovissima figura si è affacciata, l’addetto all’Ufficio per il Processo, cui è stato anche dato il maggior peso numerico nelle fasi assunzionali, oltre novemila nuove unità: basterà il solo apporto numerico a migliorare le performances degli uffici giudiziari?
2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento”
Già nel settembre 2022, a pochi mesi dall’entrata in funzione del “nuovo” Ufficio per il Processo, prima che giungesse un aggiornamento normativo, l’articolo a firma del Presidente di Cassazione Raffaele Frasca[10], con straordinaria e lucida lungimiranza, poneva il problema, e ne forniva una dirimente interpretazione, della figura e della gestione c.d. “ibrida”[11] dell’Addetto all’Ufficio per il Processo.
Invero, prima che le norme rassegnate nel paragrafo precedente vedessero la luce, l’autore si era trovato ad affrontare l’esigenza che l’Addetto fosse, anche per dar seguito al raggiungimento degli obiettivi PNRR, impiegato appieno nell’attività di supporto alla funzione giurisdizionale attraverso i seguenti sintetici compiti: “l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via”.
Si sosteneva, inoltre, mi perdonerà l’autore la sintesi del testo, che, da una parte la funzione di “raccordo con le cancellerie” attribuita prima facie mediante circolari ministeriali[12] e, dall’altra, il gruppo di mansioni prettamente di assistenza all’azione giudiziaria, collidessero tra loro e che dovesse darsi prevalenza alla seconda funzione, giacché più chiara espressione delle intenzioni del legislatore e dell’intento di sostegno al piano emergenziale. Si sosteneva, infine, che vi fosse un angolo riservato al controllo del lavoro degli AUPP appannaggio del dirigente amministrativo ma limitato agli aspetti prettamente organizzativi del personale quali, ad esempio, gestione delle presenze, articolazione dell’orario di lavoro, concessione di benefici previsti dalle norme di contrattazione collettiva, permessi e ferie, attribuzione dei buoni pasto ecc.
Il D. Lgs. 151/2022, all’art. 11, pone questa norma di chiusura che, per quanto dal carattere ampio e residuale, “…le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria…”, è precisa nell’escludere che il funzionario AUPP possa in qualche misura essere precipuamente adibito a funzioni proprie di cancelleria ma, si precisa, che lo stesso possa svolgere solo una funzione di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi.
Inoltre, come evidenziato nel precedente paragrafo, il testo di legge ha riaffermato la funzione di raccordo ma ha posto delle norme che appaiono in contrasto tra loro lasciando non chiaro l’orizzonte di impiego di tali risorse, soprattutto in termini di ponderazione del lavoro tra le due sponde dell’organizzazione giudiziaria (amministrativa/giudiziaria).
La pratica ci ha insegnato che quanto poc’anzi teorizzato spesso non è avvenuto: sono molteplici le esperienze, nelle varie sedi giudiziarie, che hanno visto impiegato il personale AUPP per svolgere funzioni prettamente di cancelleria. In tal senso è emblematico che addirittura esista in dottrina l’enucleazione di un modello organizzativo dell’Ufficio per il Processo denominato “Supporto alla Cancelleria”[13] applicato in quelle sedi giurisdizionali dove l’AUPP svolge per lo più compiti di supporto alla cancelleria (laddove vi sia carenza di personale di cancelleria) distogliendolo dal supporto all’attività giurisdizionale dei magistrati[14].
Con una sintesi che potrà apparire poco romantica possiamo affermare: di essere di fronte a un lavoratore inquadrato in area terza - contratto personale amministrativo del Comparto Funzioni Centrali, la cui figura professionale è definita per legge ma non ancora contrattualmente recepita e declinata; questo lavoratore, in teoria dipende per tutti gli aspetti amministrativi dalla dirigenza amministrativa ma la gestione, intesa come collocazione della risorsa all'interno dell'unità organizzativa finalizzata a un risultato, intesa come assegnazione specifica dei compiti e delle mansioni quotidiane, dell’attività lavorativa e delle specifiche sue declinazione, è prevalentemente assegnata a magistrati, come si deduce, senza mezzi termini dall'art. 3, comma 2 del D. Lgs. 151/2022: “Il capo dell’ufficio…dirige e coordina l’attività degli uffici per il processo…”[15].
La soluzione a una tale dicotomia è quella opportunamente suggerita dalla Dirigente della Corte di Appello di Brescia, Antonella Cioffi[16], la quale richiede di porre la questione sotto l’ottica della “dirigenza integrata” in quanto è demandato al capo dell’ufficio il governo della giurisdizione, la sua organizzazione e la definizione dei suoi obiettivi, restando in capo alla dirigenza amministrativa governare e organizzare le risorse necessarie all’esercizio della giurisdizione.
Dunque, chiarito che l’Addetto all’Ufficio per il Processo debba rivolgere il grosso della propria attività lavorativa al servizio dell’azione giurisdizionale, resta da indagare come possa fornire il proprio apporto e allora quale possa essere la natura di questo apporto.
Da parte di alcuni[17]occorre procedere rivolgendo specifiche politiche pubbliche, in questo caso appunto quella sviluppata in capo all’Ufficio per il processo, con un focus ancor più attento sul risanamento organizzativo e innovativo degli uffici giudiziari. Tale riforma ha previsto, e ne va sfruttata l’opportunità, un supporto diretto all’attività giurisdizionale ponendosi in quella zona “grigia” tra azione amministrativa e azione giudiziaria, coprendo un vuoto che era avvertito e cercando quindi di operare un raccordo funzionale tra le rispettive attività. È pur vero, a riguardo, come già accennato sopra, che spesso si è insistito sul rafforzamento della capacità amministrativa, mentre è evidente che l’azione deve essere diretta, nella sua potenza innovativa, alla trasversalità organizzativa, integrando la collaborazione tra le diverse posizioni, tutte dirette a migliorare efficacia, efficienza ed economicità nell’erogazione dei servizi di giustizia[18].
Potremmo, forse, allora affermare che l’efficienza della giustizia debba passare per il “nuovo” Ufficio per il processo solo se questo sarà in grado di coniugare organizzazione, attività e professionalità diventando così il baricentro dell’azione giudiziaria globalmente intesa (parte giurisdizionale e amministrativa insieme), divenendo così una sorta di “responsabile del procedimento giudiziario”, mutuando il notorio istituto giuridico del responsabile del procedimento amministrativo che negli anni novanta stravolse positivamente il mondo della pubblica amministrazione italiana.
È apparso allora a molti autori e addetti ai lavori[19] che la soluzione non si trovi nella regola del processo[20] ma piuttosto che sia stata opportuna la scelta del legislatore di intervenire sui distinti livelli della revisione della struttura giudiziaria e amministrativa attraverso la valorizzazione del ruolo delle persone, delle infrastrutture digitali, con evidente impatto sull’agire informato e la velocizzazione della trasmissione delle informazioni, e perfino dell’edilizia giudiziaria.
In questo rinnovato quadro l’Ufficio per il Processo è il modulo organizzativo e il fenomeno pratico in grado di avverare il cambiamento e il funzionario addetto all’ufficio è l’anello di congiunzione delle diverse funzioni e competenze che permette concretamente di realizzarlo. Nello svolgimento delle sue funzioni, infatti, l’addetto all’ufficio dovrebbe preparare il materiale utile al giudice per una più celere organizzazione delle sue attività; coadiuvarlo nella programmazione dell’agenda anche in considerazione delle diverse tipologie di udienza; verificare il prospetto dinamico delle cause pendenti nel ruolo del giudice, attraverso adeguate tecnologie; tenere un monitoraggio delle cause pendenti a seconda della natura della controversia, dell’oggetto della domanda e della fase processuale; creare una tassonomia dei provvedimenti giudiziari al fine di utilizzare celermente i relativi modelli; elaborare un cronoprogramma delle attività sempre aggiornato per rendere rapida, funzionale, ordinata la raccolta dei materiali, lo studio del caso, la predisposizione dei modelli e la redazione delle bozze di provvedimento.
Ferma restando la consapevolezza della, costituzionale, completa autonomia e indipendenza della magistratura e, dunque, della funzione giudicante, non si può escludere che l’attività di case management, ovvero di preparazione del processo, per tradizione svolta più o meno consapevolmente solo dal giudice, possa essere condivisa e oggetto di collaborazione[21].
In quest’ottica, ci suggerisce la Prof.ssa Paola Lucarelli, nel suo saggio Giustizia Sostenibile[22], risulta indispensabile la formazione di una nuova professionalità, quella del funzionario addetto all’ufficio per il processo che fin dagli studi universitari[23] possa acquisire le conoscenze relative agli uffici giudiziari, apprendere le basi della statistica, dell’informatica, dell’organizzazione aziendale, anche nel percorso di studio del diritto, appropriarsi, dunque, della cultura della giustizia sostenibile, efficiente e di qualità[24].
In quest’ottica di apertura e di innovazione vi è anche chi ha suggerito una delega ai funzionari di compiti “paragiurisdizionali”[25] per l'attuazione e lo sviluppo del Processo Civile Telematico, nella triplice direzione della comunicazione tra i soggetti del processo, della conduzione dell'udienza "informatizzata" e della dotazione a giudici e cancellerie di strumenti di analisi dei ruoli per la più consapevole ed efficace gestione del contenzioso. La valorizzazione delle risorse telematiche, liberando energie oggi malamente o impropriamente utilizzate costituisce anche la premessa di un generale processo di riqualificazione professionale che, come si diceva poc’anzi, potrebbe anche portare alla delega, ai funzionari UPP, di eventuali e limitati compiti di natura paragiurisdizionale, alla stregua di quanto già accade in ambito europeo,[26] verosimilmente laddove si tratti di produrre provvedimenti prettamente schematici, caratterizzati da ripetitività e automatismo (si pensi ad esempio ai decreti di liquidazione degli onorari e a tutti quei provvedimenti che si sviluppano su presupposti prettamente aritmetici).
3. Conclusioni
Questi primi tre anni passati dall’avvio del rilancio dell’Ufficio per il Processo ci permettono un’analisi più ampia e sistematica, passando dal crudo dato normativo previsionale, formale e freddo, al dato vivo dell’esperienza sul campo.
I dati del monitoraggio pubblicati nel 2025 ci rivelano che l’obiettivo intermedio è stato invero raggiunto, per lo smaltimento delle pendenze civili più risalenti, previsto per la fine del 2024. Nelle Corti d’appello l’arretrato del 2019 è praticamente eliminato. Tuttavia, il trend positivo che aveva caratterizzato i primi due anni ha subito un leggero rallentamento, quantomeno nell’ambito civile. Il massiccio apporto di risorse operato in questi anni da solo non basta.
Bene le competenze e la preparazione tecnica dei nuovi assunti ma occorre andare oltre e con l’ausilio di validi insegnanti è necessario formare lavoratori e professionisti che svolgono ruoli aperti e si identificano in professioni a larga banda: ciò è necessario, ma non sufficiente. La formazione deve essere continua e deve formare persone vere, capaci di vivere bene e non solo di lavorare bene, persone integrali, che forniscano alla propria missione un valore aggiunto, che si sentano parte di un gruppo e che avvertano il proprio lavoro come parte di un progetto finalizzato a un obiettivo grande e ambizioso.
La direzione è quella che va verso la creazione di persone che non siano un’incarnazione dell’animal laborans, ma espressione dell’homo faber[27], di cui all’incipit iniziale, ossia persone che non siano esaurite nell’oggetto prodotto o nel servizio fornito ma l’insieme di un progetto che sappia creare valore aggiungendo a un’attività basica la capacità di migliorare l’ambito in cui si sta operando[28].
E migliorare il proprio ambito, nell’ambiente giustizia, significa andare oltre le difficoltà e i limiti di un sistema che deve innovarsi per migliorare e soprattutto non ricadere più negli errori del passato, affinché il Piano Nazionale non sia solo una soluzione temporanea ai problemi della giustizia ma incida strutturalmente nel cambiamento dell’organizzazione della giustizia e ne istituisca il definitivo superamento delle più grosse criticità. Il Piano nazionale deve essere l’occasione per creare un nuovo modello di gestione della giustizia. La strada è stata intrapresa, il legislatore ne ha posto le fondamenta arricchendo i codici procedurali di questa nuova modalità di organizzazione dell’ufficio giudiziario e da qui, non si può più tornare indietro.
Il futuro dell’Ufficio per il Processo è oltre il PNRR, occorre spostare l’attenzione dalla sterile analisi dei – pur fondamentali – flussi dei dati, a quella della organizzazione e della qualità della giurisdizione[29].
Se, come detto, i nuovi funzionari UPP possono e devono radicare la propria presenza per un apporto baricentrico all’interno dell’insieme delle procedure amministrativo/giudiziarie che interessano il processo (lato sensu inteso) dall’altro lato tale apporto si compie solo con la fattiva collaborazione e il cambio di paradigma che interessa il lavoro del giudice. E su questa via a dire il vero la magistratura si è mostrata non solo propulsiva ma anche entusiasta, esprimendosi positivamente oltre che sul campo anche in tutte le occasioni pubbliche in cui ha apprezzato che, dopo tanti anni, una nuova, forte riforma potesse essere attuata e non dovesse passare solamente dal cambiamento delle regole del gioco (ergo le norme procedurali).
È allora certamente questo il momento, questa la sliding doors, a un anno dalla fine dell’apporto del PNRR, per non abbandonarsi al fato ma incidere e costruire il proprio destino, operando definitivamente il cambiamento in atto e avendo il coraggio di innovare andando anche oltre le attuali previsioni normative.
L’attuale percorso risulta tortuoso, l’ibridazione di cui si è detto lascia dubbi e incertezze interpretative, l’apporto del funzionario UPP appare incompleto se, per ogni adempimento che questi si appresta a portare avanti, sia sempre necessaria la supervisione e la definitività del lavoro del magistrato. Così facendo, pur avendo “liberato” in buona parte la risorsa giudicante/requirente per dedicarla al cuore della propria attività, risulta comunque ancora onerata da incombenze burocratiche.
Certo, immaginare competenze “paragiurisdizionali” in capo a un personale prettamente amministrativo pone non pochi interrogativi di tenuta costituzionale del nostro ordinamento, ma è pur vero che già esiste la figura del giudice onorario e che sperimentazioni in vari campi e ambiti si sono tenuti nel passato.
La discussione, in subiecta materia, sembra aperta e il dialogo interdisciplinare (tra magistratura, forze politiche, amministrazione, dottrina) siamo sicuri darà ancora risposte positive e costruttive al bisogno di una giustizia definitivamente giusta[30].
[1] V. voce FATO, in DEVOTO-OLI Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2024, p. 586.
[2] Articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, così come modificato dall’articolo 50 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; decreto del Ministro della giustizia 1 ottobre 2015; decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116; articoli 10 e 10-bis della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2017-2019; risoluzione su “[l]’ufficio per il processo oggi: esito del monitoraggio del CSM sulla istituzione e sul funzionamento dell’Ufficio per il processo negli uffici giudiziari: ruolo della magistratura onoraria e diritto transitorio”, approvata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 18 giugno 2018; linee guida del Consiglio superiore della magistratura in data 15 giugno 2019.
[3] Il Progetto unitario, sulla diffusione dell’Ufficio del Processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli Uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato, è stato sviluppato a cura della Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia in collaborazione con 56 Atenei e 26 Distretti di Corte d'Appello.
La finalità del progetto era quella di potenziare le attività di modernizzazione del Sistema giustizia così come previsto dall’obiettivo 1.4 del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020 “migliorare e consolidare l’efficienza e la qualità del sistema giudiziario”.
[4] Si veda PNRR, pp. 58-59, https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf. Inoltre, si veda, prima del PNRR: ORLANDO, Ufficio per il processo: resta il nodo risorse, in Guida al diritto, 2014, 29 e 85.
[5] Sul tema si rinvia al contributo di Antonella Di Florio, già consigliera di Cassazione, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/dlgs-upp-2022.
[6] Così Antonella Di Florio, ibidem, Questione Giustizia.
[7] Per un approfondimento cfr., PAOLO BONINI E DONATO GRECO, Principi generali, in FERRUCCIO AULETTA E SILVIA RUSCIANO (a cura di), Ufficio per il processo, Commentario del Codice di Procedura Civile, Bologna, 2023, p. 14 riguardo al principio di ragionevole durata del processo che “impone alla Stato e ai suoi organi giudiziari di rispondere alle istanze di giustizia, in sede civile, penale e amministrativa, entro un arco temporale corrispondente a criteri di efficienza, lungi da una concezione puramente quantitativa, non si limita a richiedere che l'attività giurisdizionale sia esercitata in tempi rapidi, laddove un aspetto qualificante si insinua nell'elemento della ragionevolezza. Infatti, il principio rientra nel più ampio concetto di giusto processo e in esso trova anche un contrappunto, dovendo bilanciarsi con le esigenze di garanzia che informano il diritto processuale”.
[8] I primi obblighi di deposito telematico in ambito civile si sono avuti nel 2014 con la L. 24 dicembre 2012, n. 228; ancora oggi, invece, il processo penale telematico fatica a decollare.
[9] 9.560 addetti all’Ufficio per il processo laureati in scienze giuridiche ed economiche. Il dato è stato incrementato a seguito della revisione del PNRR rispetto agli originali 8.250 addetti previsti. 2.100 unità di personale amministrativo e tecnico laureati con profili IT senior, tecnico di contabilità senior, tecnico di edilizia senior, tecnico di amministrazione, tecnico statistico, analista di organizzazione. 145 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati specializzati con profili IT junior, tecnico di contabilità junior, tecnico di edilizia junior. 2.500 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati non specializzati con profilo di operatore di data entry. Al 30 giugno 2024 erano in servizio 11.999 unità di personale, di cui 8.980 Addetti all'Ufficio per il processo e 3.019 unità di personale amministrativo e tecnico. Fonte sito internet Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/pnrr_capitale_umano.
[10] RAFFAELE FRASCA, Presidente Titolare della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, in GIUSTIZIA INSIEME, Pisa, 8 settembre 2022: https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/28-organizzazione-giustizia/2437-dirigenza-giurisdizionale-e-dirigenza-amministrativa-riguardo-agli-addetti-all-u-p-p-presso-la-corte-di-cassazione.
[11] Sul punto si v. ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in CLAUDIO CASTELLI (a cura di), L’Ufficio per il processo, Pisa, 2024, pp. 79 e ss.
[12] La prima, 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
[13] Sul punto si v. GIANCARLO VECCHI, L’ufficio per il processo: i modelli organizzativi, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 58.
[14] Si v. il Documento del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi 2024.
[15] ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 83.
[16] ANTONELLA CIOFFI, ibidem, pag. 91.
[17] Ad esempio, si veda VALENTINA CAPUOZZO, Capacità amministrativa ed efficienza dell’azione giurisdizionale: il nuovo ufficio per il processo, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, Fascicolo n. 3/2024, pp. 1-14.
[18] Sul punto si v. ex multis E. BORGONOVI, G. FATTORE, F. LONGO, Management delle istituzioni pubbliche, MILANO, 2015, pp. 199 e ss.; M. CUCCINIELLO, G. FATTORE, F. LONGO, E. RICCIUTI, A. TURRINI, Management pubblico, MILANO, 2018, PAG. 305 e ss.
[19] Tra gli altri, CLAUDIO CASTELLI, La crisi della governance del sistema giustizia, in Questione Giustizia, 2023
[20] Per un’analisi delle ragioni per le quali pure nei decenni precedenti l’inizio del secolo, nonostante i numerosi ma sempre frammentari interventi di riforma del processo civile, i numeri del contenzioso non diminuivano, anzi crescevano di anno in anno, si ricorda che è stata individuata «un’incidenza sugli obiettivi di effettività e celerità della tutela giudiziaria della ripartizione tra il giudice e le parti dei poteri nel governo del processo», ma non sembra che gli interventi sulla distribuzione di tali poteri siano stati influenti e sufficienti ai fini del raggiungimento degli obiettivi: vedi GIORGIANTONIO CRISTINA, in Questione Giustizia n. 1, 2010, p. 109, https://www.researchgate.net/publication/235930281_Le_riforme_del_processo_civile_italiano_tra_adversarial_system_e_case_management.
[21] Ficcarelli, Beatrice. 2011. Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale. Napoli-Roma: Esi.
[22] PAOLA LUCARELLI, Giustizia sostenibile, cit., p. 29.
[23] VINCENZO ANSANELLI, Uno sguardo comparato, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 179 e ss., dove si evidenzia che in molti ordinamenti stranieri sono già presenti sviluppi di una figura professionale del tutto simile al nostro AUPP: Law Clercks (in Corte Suprema sono i Pool Clercks) in America con funzione che vanno dal pre-udienza, all’assunzione di prove ora e fino alla reazione del provvedimento finale; nel Regno Unito accanto agli storici Clercks si sono sviluppati anche i Judicial Assistant con compiti molto simili ai nostri AUPP; nella Oficina Judicial troviamo il c.d. Secretario Juidicial; l’ordinamento tedesco conosce il Rechtspfleger, che in talune materie e procedure assume addirittura tutte le funzioni proprie dell’organo giudicante; è invece preclusa qualsiasi attività giudiziaria diretta ai francesi Juriste Assistants che comunque similmente ai nostri AUPP contribuiscono nella gestione dei casi.
[24] È stato opportunamente suggerito dal CUN con Parere Generale n. 22 del 7 maggio 2018, l’aggiornamento in tal senso degli obiettivi culturali delle classi all’evoluzione dei saperi, della società e delle professioni e gli sbocchi professionali delle classi all’evoluzione del mondo del lavoro.
[25] MARIA GIULIANA CIVININI, La storia: dai tirocini formativi all’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 7-8.
[26] Si rimanda a nota 23.
[27] R. Sennet, The Craftsman, New Haven-London, Yale University Press, 2008 (trad. it. L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008).
[28] Sul punto F. BUTERA, Disegnare l’Italia, Milano, 2023, p. 130.
[29] BARBARA FABBRINI, PNRR e Ufficio per il Processo: le ragioni di una scelta, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 43 e ss.
[30] Sul punto si veda ROBERTO MARTINO, Un chiarimento preliminare: il possibile conflitto tra le istanze di efficienza del sistema giudiziario e il diritto dei singoli ad una tutela giurisdizionale effettiva, in L’ufficio per il processo ai tempi del PNRR: una panacèa per la giustizia civile? Pisa, 2025, https://www.rivistailprocesso.it/2025/06/13/lufficio-per-il-processo-ai-tempi-del-pnrr-una-panacea-per-la-giustizia-civile/.
“Art. 0. (…) Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1. Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
(…)
Art. 3 Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come <<evasione buona>>. Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita.
Art. 4. Il trattamento è cammino”! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
(…)”
dal Manifesto per un carcere futurista della Compagnia SineNOmine

“Senza Titolo” è andato in scena il 2 ed il 3 luglio nella Casa Reclusione di Spoleto, parte ormai tradizionale del programma del Festival dei Due Mondi. Centinaia gli spettatori che, anche quest’anno, hanno varcato le porte del carcere per assistere allo spettacolo realizzato dalla Compagnia Sine Nomine di attori detenuti e liberi. Un impegno grande per l’istituzione, ma insieme un orizzonte di senso che coinvolge tutta la comunità penitenziaria in una attività di preparazione che riempie l’intero anno. Non intrattenimento, ma vero impegno risocializzante.
Quest’anno il testo è un omaggio dichiarato al futurismo, che ad ogni frammento sostituisce i contenuti storici del movimento, con quelli di una ricerca attiva di speranza e di prospettiva, qui e ora, proprio nel carcere del sovraffollamento e della conseguente spersonalizzazione. Senza titolo è allora titolo, e insieme provocazione che, nel lessico penitenziario, richiama una detenzione priva della stessa ragione legale che la giustifichi.
Nella rivista “Lacerba” si leggeva che “nella carne dell’uomo dormono le ali” e questo scrivono gli attori detenuti, su grandi muri bianchi, mentre il pubblico si accomoda nello spazio dell’intercinta, accolto da una scenografia che già parla della genialità di Giorgio Flamini, come sempre deus ex machina della serata.
A sinistra il bianco quasi splendente di tre celle, con insensate aperture geometriche, e insensate chiusure. A destra cinque sedie, nere ed enormi, ognuna un patibolo, ognuna una cattedra, per altrettanti attori. In mezzo un orologio enorme, che ovviamente gira al contrario.
Urlano onomatopee, gli attori, tra il pubblico, ma tra i suoni della velocità, tipici del futurismo, tra le sillabe insensate e bambine, anche tante parole. Insensate, ma non per il luogo in cui siamo: Cellante, Aria, 9999, Appuntà…
Dove siamo? È un carcere, e quindi le regole di senso: “aperti, poi chiusi, poi cancellati…” hanno logiche tutte loro. Se ci facciamo accompagnare capiamo tutto. Cosa ci offrono gli attori detenuti? “Piatti di libertà immaginata”, intelletti “affamati di futuro”, “ottimismo a luci spente”.
Si incontrano i dialoghi, dolorosi e umanissimi, di uomini che sognano l’esterno e non si abbandonano ad essere uomini in scatola, anche se qui le loro membra sono letteralmente inscatolate in scena, e gli scambi arguti, e artisticamente difficilissimi, dei cinque attori sul ring o in cattedra, che restituiscono in una dimensione di sogno tutto il non sense in cui è immersa la nostra realtà.
A fine spettacolo sapremo che è un autore detenuto, Rinnegato, che molti applausi giustamente raccoglie, ad aver immaginato la parte dei testi per il Ring, come sempre poi rielaborati in un lavoro di gruppo della Compagnia SIne NOmine. Nel resto si alternano frammenti che riprendono Giardina e Marinetti, e poi ricordano Sergio Lenci, l’architetto che fu vittima del terrorismo, per aver immaginato un carcere, proprio a Spoleto, che dialogasse con il mondo. Un carcere che ancora oggi, con le parole di “Senza Titolo”, deve “disimparare a chiudere”.
I regali però non sono terminati. A inizio spettacolo ci è consegnata la tessera di un domino. È stata dipinta a mano, e non ce n’è una uguale all’altra, ma il gioco si potrebbe fare solo mettendole tutte insieme. Non c’è bisogno di dire di più su individualizzazione dei percorsi e benefici per la collettività.
Lo slancio futurista tocca il culmine con un vero e proprio manifesto, manco a dirlo lanciato sul pubblico, e poi distribuito. Vi si parla di un carcere mirabile, che fa della persona e della dignità il suo centro. Utopia? Le parole scritte dalla Compagnia sono splendide, cariche di una poesia visionaria, ma i contenuti sono in definitiva solo Costituzione.
“Voglio vivere così, col sole in fronte…” cantano tutti, sulla registrazione storica di Carlo Buti, e anche il meraviglioso coro diretto dal Maestro Francesco Corrias, che ha accompagnato il cammino del pubblico, si unisce festosamente. “Voglio vivere così, col sole in fronte…” Può esserci paradosso più grande che cantare così in un carcere?
Nel tempo dello schianto del cuore e del pensiero, di fronte ai suicidi, alle carenze di risorse, che affliggono ogni luogo, è questo il gesto rivoluzionario che ci è offerto, non per coprire il dramma, ma per metterlo a nudo.
Si tratta di continuare a immaginare un futuro e a immaginarci nel futuro.
È corale un ringraziamento agli attori detenuti, a Giorgio Flamini, a Pina Segoni e Sara Ragni, impegnate con lui nella ideazione, nella regia e nell’adattamento dei testi, al Festival dei Due Mondi che di nuovo entra in carcere e mette nel suo programma lo spettacolo, a fianco di quelli della migliore produzione internazionale, alla Casa Reclusione che non spegne i riflettori sull’arte. Andando via, nell’intercinta, mentre le luci delle camere detentive sono tutte spente, e il caldo della notte (figurarsi il giorno!) è soffocante, è ancora illuminata una grande installazione in cui la parola “ARTE” campeggia.
L’auspicio è che resti sempre accesa. perché “la legge deve tendere alla bellezza” (art. 17 del manifesto) e il teatro in carcere è detonatore (art. 18) di energie di cambiamento, gesto politico e umano fondamentale.
Recensione di Il dolore della guerra di Bảo Ninh (2025 Neri Pozza Editore, Vicenza)
L’autore di questo romanzo ha quasi 73 anni, è nato ad Hanoi e, come si legge nella terza di copertina, a diciassette anni si è unito all’Esercito popolare del Vietnam del Nord ed ha combattuto fino all’ultima battaglia all’aeroporto di Saigon, il 30 aprile del 1975.
Quella guerra fu un conflitto ingiusto e brutale, che costò al Vietnam – secondo le cifre rilasciate dal Governo – oltre 5 milioni di vittime, in grandissima parte civili, mentre gli Stati Uniti persero circa 60mila uomini appartenenti alle forze armate.
Ma la storia, in questo romanzo scritto nel 1991, è raccontata da altra visuale, quella dei vincitori che però non vi sono affatto descritti come eroi, al punto da smontare i trionfalismi della propaganda vietnamita e da determinare la reazione negativa del governo dell’epoca che ne vietò la pubblicazione: il libro circolò a lungo solo in forma clandestina prima di diventare un best seller internazionale e di essere insignito dell’Indipendent Foreign Fiction Prize nel 1994, importante premio letterario inglese. Solo nel 2006, quindici anni dopo la sua pubblicazione, il divieto del libro fu revocato e l'edizione inglese apparve nelle librerie e nelle edicole in Vietnam.
Il romanzo si apre con una rappresentazione di soldati in missione nel dopoguerra, nel 1976, per raccogliere le ossa dei compagni caduti da seppellire. Così inizia la narrazione di Kien, il soldato nordvietnamita durante la guerra del Vietnam, che inizia a riflettere sul suo passato e racconta la sua perdita di innocenza, il suo amore e la sua angoscia per i ricordi della guerra.
La ricerca dei resti dei soldati caduti si svolge nelle zone impervie degli altipiani ed in quella che Kien immagina come la "giungla delle anime urlanti", ove 500 soldati del suo 27° Battaglione sono stati annientati dal napalm, ad eccezione di una decina di sopravvissuti tra cui lui stesso. I suoi flashback legano insieme il romanzo e spesso sono incentrati sull'amore tra Kien e la sua fidanzata d'infanzia, Phuong con cui ha nuotato in un grande lago fino a sera mentre altri studenti scavavano trincee nei cortili e dalla quale si è separato durante un drammatico viaggio a sud verso la linea del fronte, poco prima di iniziare a combattere.
Kien decide di scrivere un romanzo sulla vita vissuta, ma poi cambia idea e cerca di bruciarlo. Una ragazza muta che Kien conosce quando è ubriaco ed alla quale esprime i suoi pensieri, ottiene il testo dopo la sua partenza per destinazione incerta. Kien, nel libro, riflette sulle sue esperienze, sui molti sacrifici non riconosciuti, come quello della donna-guida militare Hoa che, vicino al Lago dei Coccodrilli, rinuncia alla sua vita per salvarlo dai soldati americani insieme ai suoi compagni feriti («Qualcuno muore perché qualcun altro sopravviva. Niente di più naturale, niente di più banale»), ma ricorda anche la sua prima uccisione personale, che avviene dopo aver assistito allo stupro di Phuong. Il romanzo si conclude con il racconto di un nuovo narratore, che spiega di aver ricevuto il romanzo di Kien dalla ragazza muta.
Il Dolore della Guerra – ha osservato un giornalista inglese - si eleva al di sopra delle rappresentazioni culturali della guerra del Vietnam, sia americane che vietnamite, piene di romanticismo e stereotipizzazione: «Si muove avanti e indietro nel tempo, e dentro e fuori dalla disperazione, trascinandoti giù mentre l'eroe-solitario ti guida attraverso il suo inferno privato nelle Highlands del Vietnam centrale, o sollevandoti quando il suo spirito si innalza. È un ottimo romanzo di guerra e un libro meraviglioso.» Il romanzo è stato spesso paragonato a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed è stato anche definito “un romanzo di guerra e soprattutto di dopoguerra”, il cui protagonista, Kien, è certamente l’alter ego dell’autore: entrambi vogliono raccontare il dolore a chi vorrà ascoltarlo.
Kien – si legge nel romanzo - «scrive della guerra in modo personale, come se fosse stata una guerra sua e soltanto sua» e rammenta le parole che un vecchio gli rivolge quando sta per partire volontario: «Dunque parti per la guerra? Non che voglia dissuaderti, io sono vecchio, sappi solo che il dovere di un essere umano su questa terra è vivere, non immolarsi».
Dopo molti anni dalla fine della guerra, Kien torna ad Hanoi, «la città che cambiava volto di ora in ora, che tornava sé stessa di notte sotto la pioggia» ed inizia a frequentare un bar sul lago Hoan Kiem, ove si incontravano gli ex militari del “Club dei reduci”. Perché? Perché, spiega Kien come anche Bao Nihn avrebbe detto, «Mi aspetta una nuova vita..devo andare avanti. Ma la mia anima è ancora in tumulto. Il passato mi perseguita e mi imprigiona».
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.
