ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Indipendenza ed imparzialità del giudice. Piccole cose che so di loro.
di Giancarlo Montedoro
Ringraziamenti a guisa di premessa: giudice partigiano e giudice asceta
Vorrei ringraziare il Centro internazionale magistrati Luigi Severini per avermi invitato a all’International Forum “High Culture of jurisdiction. Impartiality and quality of the judge”.
Si tratta di un’importante occasione di incontro fra magistrati di diverse nazionalità non solo europee.
Son grato a Paolo Micheli Presidente del centro e Giuseppe Severini e per aver organizzato questo libero confronto e sono lieto di aver potuto aiutare la professoressa Piana nella preparazione del meeting.
Mi piace ricordare che il Centro è dedicato a Luigi Severini che fu giudice e partigiano, figura poliedrica, poi aderente al Partito d’azione e amico di Aldo Capitini un intellettuale quest’ultimo che solo l’odierno deficit di memoria storica non celebra come dovrebbe fra le massime personalità politiche del secolo scorso, credente, non violento, resistente alla maniera crociana, pacifista, libertario, animalista, vegetariano: un Ghandi italiano.
Giudice e partigiano non sono qualità in contrasto se non apparente.
Del giudice si predica l’imparzialità da più parti.
Certo così deve essere il suo lavoro ordinario.
Ma vi sono circostanze storiche nelle quali è il diritto ad essere sotto attacco.
Sono le circostanze storiche tragiche vissute nell’epoca dei totalitarismi, un’epoca nella quale le libertà sono state violate e nella quale la legge è divenuta instrumentum regni.
Allora anche il giudice che ama la libertà può essere chiamato a deporre la toga e fare la sua parte nel conflitto.
Normalmente e fortunamente non è così: la lotta jeringhiana per il diritto si svolge nelle sedi istituzionali.
Perché il diritto è sempre una lotta: ad esempio contro le leggi incostituzionali o i provvedimenti amministrativi illegittimi o – nel mercato – avverso le violazioni della fair competition.
Una perenne lotta – quella alla quale il giudice assiste – dei cittadini e delle imprese per trovare il loro spazio vitale.
Dello Stato per garantirci l’ordine e curare i pubblici interessi domando privati egoismi nella legalità sostanziale.
La giurisdizione è un luogo di calma ritualizzata – uno spazio protetto – che ha – normalmente – il conflitto per oggetto per mediarlo o risolverlo, assegnando ragioni e/o torti.
Quindi il giudice può divenire partigiano proprio e solo per difendere il suo essere giudice e deve sapere che ha il dovere di non esserlo (partigiano) quando la storia – per felici circostanze legate al contesto politico sociale ed istituzionale – gli consente di continuare ad essere giudice indipendente.
L’incontro poi si svolge all’Università per stranieri di Perugia luogo di confronto da sempre fra diverse culture.
Mi piace ricordare che il pluralismo è l’essenza della Costituzione e siamo qui in un luogo che lo celebra, favorendo dalla sua istituzione lo studio, l’educazione e l’apprendimento fra giovani di tutto il mondo.
La premessa del dialogo intessuto dal Centro è la significatività di ogni esperienza giudiziaria e l’intento è, nel mettere a confronto tali esperienze, suscitare una sorta di polifonia, di musica a più voci, che non teme il contrappunto ma se ne avvantaggia per superare l’ignoranza e limitare la fallibilità umana.
Piccole cose come introduzione
Alcune piccole cose che ho appreso – come lezione – negli anni – non pochi ormai – in cui mi è accaduto di fare il giudice.
Prima piccola cosa: la giustizia è fatta di differenti punti di vista.
Il film Rashomon di Akira Kurosawa la simbolizza a sufficienza.
Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
In un Giappone ancora dilaniato dai lasciti del dopoguerra, Kurosawa ritorna a un'altra epoca di morte e sofferenza, quel periodo Heian in cui di fronte alla porta del tempio di Rashô non scorrevano che sangue, violenza e frode.
Prendendo spunto dai racconti di Ryûnosuke Akutagawa, Kurosawa riflette sulla natura dell'uomo e sulla sua inclinazione alla menzogna, guidata da un esasperato spirito di autoconservazione. A contare non è mai il senso di verità o di giustizia, ma la salvaguardia del proprio tornaconto e di un miserrimo particulare, tale da portare – è il caso del personaggio del samurai – a mentire anche post mortem pur di difendere il proprio onore.
Ma se questo è già l'apologo originario di Akutagawa, risultato della messa in scena di tre versioni – tutte discordanti e tutte false – della stessa storia, Kurosawa vi aggiunge una nuova valenza, in cui la riflessione si estende a un'ulteriore menzogna, quella dell'immagine e del cinema come suo strumento principe. E le conclusioni di Kurosawa sull’illusorietà del cinema risultano anticipatrici della condizione della verità nell’epoca della civiltà dell’immagine e dei mass media. E anche della verità fornita dal processo dovremmo non scordarci mai che si tratta di verità umana (verità processuale convenzionalmente accettata).
Le versioni dell'assassinio non si limitano ad essere raccontate dai personaggi, infatti, ma sono offerte alla visione del pubblico come se si trattasse di realtà oggettiva e indiscutibile; ciò che si vede dovrebbe tradursi in ciò che è, anziché rivelarsi mutevole nei contenuti e nello stile, ma tutto alla fine risulta illusorio come nel sogno taoista della farfalla.
Il giudice dovrebbe avere consapevolezza della fallibilità della ragione umana e dovrebbe avere confidenza con la logica scientifica popperiana della falsificazione (evitando ogni forma di sacralizzazione della scienza).
Seconda piccola cosa: ogni discorso è situato.
Ciò significa che esistono delle premesse implicite, un complesso di pregiudizi e preferenze, un processo di precomprensioni, una pressione dell’inconscio e delle dinamiche culturali in ogni giudizio.
Enrico Scoditti ha – per questo motivo – kantianamente detto che il giudice dovrebbe essere indipendente innanzi tutto da se stesso.
Questa uscita da sé è un buon metodo, ma alla fine difficilmente attuabile se non impossibile, proponendo un modello di giudice asceta.
Non è facile uscire dalla propria passionalità e nemmeno dal linguaggio che ci forgia, rispetto al quale siamo come mosche in un bicchiere.
Un rimedio – modesto ma efficace – può essere l’onesta consapevolezza di questa realtà pre-razionale pre-logica al fine di domarla per quanto possibile.
Terza piccola cosa: la giustizia è lo sguardo del Terzo.
L’oggetto della giustizia è la lite, il conflitto: esso per essere risolto reclama lo sguardo del Terzo.
La terzietà è l’essenza della giustizia.
Astensione, ricusazione, incompatibilità, conflitti di interessi sono solo meri strumenti per assicurare lo sguardo del Terzo.
Esso – dal punto di vista teologico politico – tiene luogo dello sguardo di un dio o così potrebbe essere figurato da chi ha sempre – perennemente – nostalgia dell’Assoluto.
Judex Deus: un paradosso non desiderabile, per nulla accettabile, connotato da una dismisura (evitata dall’ingiunzione biblica “nolite iuridicare”) da scongiurare lasciando la terzietà giocare con gli eventi, intendendola come forma di attraversamento del dolore e della vita da parte di un uomo (fallibile) fra gli uomini (altrettanto fallibili).
La terzietà produce paradossi, vediamone quindi alcuni.
Il primo paradosso: è miglior giudice chi non vuole giudicare; il giudice riluttante.
Camus ha detto: “non può negarsi, per il momento, che i giudici siano necessari, ma cionondimeno non riesco a comprendere come un uomo possa proporre se stesso per un compito così strabiliante”.
Vi sono alcuni precisi corollari di questa profonda affermazione di Camus:
1) Il giudice che lo diviene per caso potrebbe essere meglio da quello che vuole fortemente diventarlo, maturando ambizioni di successo e carriera.
2) Occorre mantenere e promuovere sempre l’umiltà del giudice come opposto della sua ubris.
3) L’umanesimo è importante.
4) Il modello del giudice asceta è forse impossibile, ma il modello del giudice riluttante nel giudicare (infine prudente) è alla portata di tutti, purché sia temperato da un forte senso del dovere.
Il secondo paradosso: v’è connessione inestricabile fra diritto e violenza; il diritto è anche ritualizzazione della violenza.
Il giudice penitente. Il giudice strumento della violenza.
Lo Stato weberianamente ha il monopolio della violenza.
Esercita violenza legittima, ma in un perenne “ritorno del rimosso” può veder di nuovo l violenza dominare la scena (è accaduto nelle esperienze totalitarie).
Basta pensare a Kafka ed al suo “Il processo”[1] o ancora a Camus ed al suo “La caduta”[2] Antoine Garapon ha studiato – nel saggio Del giudicare – l’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200): il rituale, il rapporto fra scena, teatro e processo che raffredda e legittima la violenza (specie nel processo penale).
Su tale analisi si è rilevato da parte di Daniela Bifulco, nell’introduzione del libro, che nel soffermarsi sulle origini religiose del giudizio nella civiltà occidentale, Garapon si mostra ben consapevole di tale raddoppiamento-spostamento rituale della violenza (analizzato soprattutto dagli studi di Girard sul capro espiatorio), che, continuando a funzionare nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio, con il ritorno di una perenne sproporzione fra accusatore ed accusato.
In questo teatro il giudice – col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o velata dall’ascetica professionale – incarna, più che l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda – kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr. p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII).
Siamo cioè di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt > Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del tutto sostanzialmente a meno che non si affronti il problema dei fini e dei valori (che pure a sua volta è contraddistinto dalla lotta) – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che, etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario, con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico (ove la democrazia venga intesa come dominio della maggioranza e non come democrazia costituzionale sostanziale).
In questo quadro può ricordarsi anche che l’origine hobbesiana dello Stato si radica sulla violenza delle guerre religiose e che il diritto fiorisce nello spazio della loro sospensione come è ben noto a tutti gli studiosi dello ius publicum europaeum.
Il nesso hobbesiano conflitto – violenza – forza – diritto è costitutivo dell’esperienza giuridica e la dialettica fra queste componenti viene costantemente a riproporsi nella storia sia pure senza una direzione predeterminata da alcuna filosofia.
Agli albori dell’esperienza totalitaria del nazismo W. Benjamin scrive sulla critica della violenza.
Il testo propone il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti.
Ivi si legge: “il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia.
E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche... se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino paurosamente proprio nella realtà attuale”.
Il diritto si può fare strumento della violenza nella storia, come nell’epoca del totalitarismo ed il giudice può essere cieco strumento della violenza.
Profetico– tenuto conto dell’atmosfera che si respirava all’epoca dell’avvento del nazismo – è quanto Benjamin scrive del puro potere della polizia anche in situazioni dove c’è la polizia senza il bilanciamento del giudice[3].
Le conclusioni del saggio sono pessimistiche:
“il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti.”
Il terzo paradosso: Costituzionalismo e dimensione del sacro. Le basi morali della Rule of Law.
Si tratta del dilemma di Bökenförde:
«Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'omogeneità della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»
(Staat, Gesellschaft, Freiheit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1976, p. 60).
La secolarizzazione ha due volti: uno virtuoso ossia la fine della legittimazione a divinis del potere (fenomeno visto da Lowith in chiave storicistica, da Blumenberg senza una consolazione ma confidando nella forza dell’illuminismo) ed uno insidioso ossia l’approdo nichilistico della società che perde ogni cifra di trascendenza (plurale non necessariamente monista) e di capacità di speranza (Schmitt, Bloch da prospettive diverse se non opposte come quella della reazione conservatrice e del messianismo marxista).
È quel che accade con la versione minima, debole, procedurale della Rule of Law.
Con il contesto della cooperazione europea e globale sul piano economico che consente all’economico di dominare il politico, nella produzione della lex mercatoria.
Tanto che attualmente potrebbe predicarsi del liberalismo quello che una volta di diceva del socialismo: occorre distinguere il liberalismo ideale (ad esempio quello di Croce che relegava l’economia ad uno stadio non elevato dello sviluppo dello spirito) e quello reale che invece ha sposato o spesso rischia di sposare una logica inversa nel rapporto economia – politica – cultura.
Questo spiega il declino del costituzionalismo, anche in UE [4].
Sullo sfondo del ritorno di conflitti bellici (che speriamo cedano al più presto il posto a percorsi di pace) e di una generale svalutazione della vita umana (indotta da problemi demografici ed ambientali).
Un mondo senza alcuna dimensione sacrale del diritto (un mondo nichilistico in cui tutto è negoziabile) è esposto a crisi continue e resta spaesato e senza speranza.
Le divisioni tradizionali fra sfera pubblica sfera privata non funzionano più perché il loro presupposto era comunque un residuo sacrale del “politico”.[5]
E ci chiede se il fondamento della costituzione debba continuare ad essere visto nel contratto (come nella tradizione hobbesiano – lockeano – rousseauiana) sempre rivedibile con operazioni estenuate di ingegneria costituzionale o nel senso morale dell’individuo ossia nella sua capacità di essere libero (messa a rischio dalla rivoluzione digitale) anche scegliendo tragicamente fra valori differenti[6].
Ma sempre nel levinassiano senso dell’Altro come scaturigine dell’Ethos.
In che senso può operare il sacro?
Tema complesso ovviamente. Tocca il rapporto religione politica.
Al giurista è consentito volare più basso.
Il sacro opera come limite, come coscienza del limite.[7]
Tolstoj sovviene: “Se riesci a provare dolore sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri sei umano...”.
Può aggiungersi se senti la sofferenza della creazione come nelle encicliche che Papa Francesco ha dedicato al tema del rispetto della Natura, oggi oggetto della complessa attuazione costituzionale degli articoli 9 e 41 nuovo testo allora sei un uomo che si sente parte della creazione e sei un uomo felice.
Con le parole di Rilke, sentiamo di poter dire:
“Si cominciò a capire la natura quando non la si capì più”.
Il senso del limite, la immedesimazione nel dolore, restando terzi e ascoltando le voci degli altri: la professione del giudizio è tutta qui.
[1] Il protagonista del romanzo, Josef K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti si presentano presso la sua abitazione, dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso.
Ben presto, K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso. K. tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca. Tuttavia, tempi e modalità di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, non vengono mai pienamente rivelati all'imputato, neppure nel corso della sua deposizione presso il tribunale. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui.
Dietro consiglio dello zio, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all'impegno profuso per il suo caso, l'avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. K. decide infine di rimuovere il mandato all'avvocato, a dispetto del tentativo di dissuasione da parte dello stesso legale difensore. K. entrerà anche in contatto con un pittore, Titorelli, che sembrerà prodigarsi a suo vantaggio, anche in questo caso però senza effetti tangibili.
Questa rinuncia alla difesa prelude all'epilogo della vicenda. Josef K. viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
[2] Il protagonista della Caduta è Jean-Baptiste Clamence è un brillante avvocato parigino, una persona dedita al benessere degli altri che si prodiga in innumerevoli buone azioni che lo rendono un uomo stimato dalla maggior parte dei suoi conoscenti. Durante un lungo monologo (o dialogo, che egli intrattiene con un ascoltatore cui non cede mai la parola e che può essere identificato con il lettore stesso), Clamence si rende conto che la sua vita è in realtà incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sul senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.
Inoltre, mentre in pubblico mostra una maschera di virtù, in privato è un uomo dedito alla ripetizione continua e frustrata dei più disparati piaceri, dall'alcol alle donne. Resosi così conto della fondamentale duplicità della sua esistenza e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo nuovo "studio".
In quel luogo, egli cerca di far confessare e redimere i suoi uditori, assumendo il ruolo di profeta, pur essendo ben consapevole di essere un falso profeta, portando così le persone a provare ogni sorta di colpevolezza. La sua nuova condotta, però, non è un caso esemplare di redenzione, ma appunto una caduta, poiché Clamence ha invero abbandonato la maschera di duplicità che si era reso conto di indossare: ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che lo aveva contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei valori che riescono a tenere insieme la società basata sulle apparenze additata dallo scrittore.
Il nocciolo della nuova filosofia di vita del protagonista al Mexico City è quello del giudice-penitente. Essa consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, riesce a rendere colpevole l'umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, egli diventa giudice.
[3] La polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia.
Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati.
Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
[4] An increasing number of scholars have begun to express heightened concerns about the decline of constitutionalism in the context of the euro crisis management. For example, Agustín Menéndez has documented the breadth of the European Union’s ‘constitutional mutation’, warning that ‘the breakdown of constitutional law will result in the mid- or long-run in the breakdown of the Social and Democratic Rechtsstaat’. Gunnar Beck cautions that the recent euro crisis adjudication in the European and national courts has allowed a bending of the rules to suit the executive to the extent that ‘the Rechtsstaat is effectively suspended’.
The prevailing theories in Italy, as summarised by Andrea Simoncini, are that the euro crisis measures have accelerated a ‘decline of European constitutionalism’, with constitutions ‘destined to be obsolete’ in ‘the present age [that is] no longer the age of constitutions’.
A small but growing number of scholars have even expressed concern about the EU having taken an authoritarian turn in the euro crisis governance. Christian Joerges and Maria Weimer have cautioned against the entrenchment of ‘authoritarian executive managerialism’11 that ‘threatens to discredit the idea of the rule of law and its intrinsic linkages to democratic rule’.
Alexander Somek finds that in the EU’s euro crisis management, ‘formal legal constraints are bent in order to accommodate necessities’; he is concerned that this has led to ‘authoritarian liberalism’ and ‘loss of political agency’, with the executive branch gaining power, as the constraints on governance are economic.
Michael Wilkinson, also describing the EU crisis governance as ‘authoritarian liberalism’, has observed a process of ‘de-democratisation’, ‘de-legalisation’ and the overriding of Europe’s constitutional law with market teleology.
Altri riferimenti in Albi, Anneli; Bardutzky, Samo. National Constitutions in European and Global Governance: Democracy, Rights, the Rule of Law: National Reports (English Edition) (pp.33-34). T.M.C. Asser Press. Edizione del Kindle.
[5] Cfr. G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari Roma 2022.
[6] In tal senso vi sono illuminanti spunti nella lezione di Capograssi ripresa giustamente da V, Caputi Iambrenghi in Libertà e Autorità volumi I e II Napoli, 2021.
[7] È quanto mostra Garimberti ne L’etica del viandante, Milano, 2023 che sposa un politeisimo neopagano che per il giurista rispettoso della Carta fondamentale diviene pluralismo non nichilistico dei valori.
Immagine: Paul Cézanne, Natura morta con caraffa, bicchiere e mele, olio su tela, circa 1877, H. O. Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H. O. Havemeyer, 1929, Metropolitan Museum of Art, New York.
Tariffe incentivanti per impianti fotovoltaici. La rideterminazione tra autotutela e decadenza (Nota a Cons. Stato, Sez. II, 6 settembre 2024, n. 7461).
di Antonio Persico
Sommario: 1. La vicenda sottoposta alla seconda Sezione del Consiglio di Stato – 2. La normativa astrattamente applicabile: l’art. 42 d.lgs. 28/2011 e l’art. 21-nonies l. 241/1990 – 3. Il dibattito sulla natura del potere di “decadenza” del GSE: gli orientamenti della dottrina, il contrasto giurisprudenziale, l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 e le sopravvenienze normative – 4. La posizione della seconda Sezione del Consiglio di Stato – 5. Considerazioni conclusive
1. La vicenda sottoposta alla seconda Sezione del Consiglio di Stato.
La pronuncia in commento interviene su una vicenda legata alla fruizione delle tariffe incentivanti per impianti fotovoltaici previste dal c.d. II Conto Energia[1], prendendo una chiara posizione sul discrimen che intercorre tra l’annullamento di ufficio e la decadenza pubblicistica, nel tentativo di superare, definitivamente, un precedente contrasto giurisprudenziale.
Nel caso di specie, la Società titolare dell’impianto di produzione di energia rinnovabile, risultata poi vittoriosa (anche) in appello, aveva inteso valersi della “proroga” legislativa del II Conto Energia[2], per beneficiare delle tariffe ivi previste in luogo di quelle, meno vantaggiose, di cui al III Conto[3]. Il Gestore dei Servizi Energetici s.p.a. – GSE, a fronte dell’istanza a tal fine presentata, dopo aver contestato, mediante preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. 241/1990, l’adeguatezza della documentazione fotografica tesa a comprovare la conclusione dei lavori entro il termine previsto dalla l. 129/2010 (31 dicembre 2010), ma poi, con provvedimento risalente al mese di novembre del 2011, richiamate le osservazioni e la documentazione trasmesse a riscontro del preavviso di rigetto, accoglieva la domanda della Società. Iniziava così l’erogazione delle tariffe incentivanti di cui al II Conto. Nell’ottobre del 2016, tuttavia, il GSE effettuava un sopralluogo presso l’impianto, avviando un procedimento di verifica, che sarebbe culminato, nel mese di gennaio dell’anno 2020, in un provvedimento ostativo alla fruizione delle suddette tariffe, sul rilievo dalla mancata ultimazione dei lavori impiantistici nel riferito termine di legge, riconoscendo all’impianto le meno vantaggiose tariffe di cui al III Conto. Faceva seguito la quantificazione della somma da recuperare, calcolata sulla base della parte “eccedentaria” delle tariffe erogate rispetto a quelle asseritamente spettanti.
La Società adiva quindi il TAR Lazio, che, con sentenza n. 6858/2022 accoglieva il ricorso (integrato da motivi aggiunti), annullando gli atti impugnati in quanto espressione di un potere di autotutela esercitato oltre ogni termine ragionevole (dopo oltre 8 anni dall’ammissione all’incentivazione). A giudizio del TAR, infatti, non v’era dubbio che la vicenda andasse inquadrata nell’ambito dell’autotutela caducatoria, sub specie di annullamento d’ufficio, e che l’agire provvedimentale del GSE andasse valutato in relazione all’art. 21-nonies l. 241/1990, dal momento che il Gestore, non avendo accertato elementi fattuali nuovi mediante il sopralluogo, era “tornato sui suoi passi”, rivalutando, con esito questa volta negativo, il tema già affrontato dell’idoneità delle fotografie a comprovare la fine dei lavori.
Il GSE appellava la sentenza, sostenendo che gli atti impugnati non erano espressione del potere di annullamento di ufficio di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990, bensì del potere di verifica e controllo previsto dall’art. 42 d.lgs. 28/2011, posto che, in realtà, la Società non avrebbe allegato alcuna fotografia utile alle osservazioni trasmesse in riscontro al preavviso di rigetto.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha respinto l’appello e ha, per l’effetto, confermato la pronuncia impugnata, valorizzando il più recente orientamento giurisprudenziale, portato correttamente avanti dalla II Sezione, secondo cui «la titolarità del potere di verifica e controllo non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista»[4].
2. La normativa astrattamente applicabile: l’art. 42 d.lgs. 28/2011 e l’art. 21-nonies l. 241/1990.
Come accennato, due sono i referenti normativi primari in rilievo nel caso di specie.
Da un lato vi è l’art.42 d.lgs. 28/2011, invocato dal GSE[5]. Quest’articolo, con riguardo agli incentivi nel settore elettrico e termico, positivizza il potere del Gestore di effettuare verifiche sui dati trasmessi degli istanti e controlli a campione sugli impianti, sancendo quindi, al comma, 3, che in caso di riscontrate violazioni rilevanti ai fini dell’erogazione degli incentivi, «il GSE dispone il rigetto dell'istanza ovvero la decadenza dagli incentivi, nonché il recupero delle somme già erogate». In attuazione di questa disposizione, è stato emanato il d.m. 31 gennaio 2014, il quale, oltre a disciplinare le modalità di esercizio dei poteri di verifica e controllo del Gestore, reca, all’allegato 1, un’elencazione – non tassativa[6] – delle violazioni rilevanti ai sensi dell’art. 42, co. 3, d.lgs. 28/2011. Di tale elencazione colpisce, in particolare, l’ambigua formulazione delle ipotesi contemplate e, per quanto maggiormente interessa in questa sede, della fattispecie di «mancata presentazione di documenti indispensabili ai fini della verifica della ammissibilità agli incentivi» (lett. a). Invero, il dato normativo non è perspicuo in quanto non distingue a seconda che la verifica dell’ammissibilità agli incentivi sia svolta prima dell’accoglimento dell’istanza, e in tale sede il Gestore rilevi la mancanza della documentazione necessaria, ovvero che il Gestore, dopo aver ammesso l’impianto a incentivazione, rilevi la mancanza della ridetta documentazione nell’ambito di un procedimento di verifica e controllo postumo. In questo secondo caso, si pone il quesito se il Gestore possa disporre tout court la “decadenza” dagli incentivi e il recupero delle somme erogate, ai sensi del comma 3 dell’art. 42 cit., senza incorrere in alcun limite atto a preservare la stabilità del rapporto incentivante e l’affidamento del beneficiario[7]. Orbene, l’ambigua e generica formulazione letterale dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 e del d.m. 31 gennaio 2014 si presta anche a una simile interpretazione, la quale è stata difatti sostenuta, anche nel caso di specie, dal GSE.
Dall’altro lato, vi è l’art. 21-nonies l. 241/1990, in tema di annullamento d’ufficio, nella versione risultante dalle modifiche introdotte dalla l. 124/2015[8]. In generale, l’annullamento d’ufficio configura un’ipotesi di autotutela decisoria di carattere caducatorio, in cui la p.A., a seguito di un riesame critico del proprio operato provvedimentale, può demolire, con efficacia retroattiva, in tutto o in parte, un proprio atto illegittimo, mediante un provvedimento di secondo grado. Si tratta di un potere (di regola) discrezionale, il cui esercizio è subordinato non solo alla presenza di un atto illegittimo (annullabile ai sensi dell’art. 21-octies l. 241/1990), ma anche a una positiva valutazione concreta sulla rispondenza dell’annullamento all’interesse pubblico: in tal senso, la norma impone di effettuare un bilanciamento degli interessi pubblici e di quelli privati, del destinatario del provvedimento e degli eventuali controinteressati, sul presupposto implicito, ma chiaro, che il ripristino della legalità violata non sia l’unico valore ordinamentale meritevole di protezione, e che un’azione amministrativa rispondente al canone del buon andamento e della proporzionalità non possa trascurare le posizioni giuridiche degli amministrati medio tempore sorte e/o consolidatesi. In sostanza, la norma vuole scongiurare esiti in cui la presunta soluzione (l’annullamento) si riveli peggiore del male (la violazione della legalità). Nello stesso ordine di idee milita la rilevanza dell’elemento temporale, che la l. 124/2015 ha reso assolutamente centrale, specificando che il termine ragionevole entro il quale può avvenire l’annullamento, a fronte di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, non può eccedere i diciotto mesi dalla relativa adozione (poi ridotti a 12 dal d.l. 77/2021, convertito nella l. 108/2021). La novella del 2015, come evidenziato in dottrina[9] e in giurisprudenza[10], ha inteso quindi garantire la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici, nonché l’affidamento legittimo riposto dal privato negli atti amministrativi, assistiti da una generale presunzione di legittimità[11]. In quest’ottica, risulta altresì chiara la ratio della deroga al suddetto limite temporale codificata dal comma 2-bis dell’ art. 21-nonies cit.: qualora il privato abbia indotto fraudolentemente in errore l’Amministrazione, mediante false rappresentazioni dei fatti o dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, avendo egli consapevolmente concorso all’adozione dell’atto illegittimo, non v’è ragione di tutelarne l’affidamento (invero insussistente o comunque non “legittimo”) attraverso la garanzia rappresentata dal limite temporale massimo per l’annullamento prescritto dal primo comma[12].
Peraltro, sono evidenti i risvolti economici della disciplina di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990. Le istanze di certezza e di stabilità giuridica che il Legislatore (in particolare, del 2015) ha inteso perseguire, attengono a condizioni fondamentali del contesto economico nazionale: in qualunque settore economico, gli investimenti vengono scoraggiati dalla perpetua caducabilità degli atti amministrativi di carattere ampliativo in base ai quali le imprese abbiano acquisito titolo allo svolgimento dell’attività economica ovvero abbiano conseguito benefici economici diretti a incentivare l’attività stessa[13]. Tali esigenze sono, ovviamente, avvertite anche nel settore della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Concludendo sull’art. 21-nonies, merita richiamare i condivisibili rilievi svolti dal Consiglio di Stato nel parere n. 839/2016, con cui è stata opportunamente valorizzata la portata garantista della novella legislativa del 2015. Il parere afferma, in proposito, che la previsione di un «confine temporale introduca un ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati». Il parere prosegue evidenziando che la novella di cui alla l.124/2015 ha consacrato una nuova «regola di certezza dei rapporti, che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, che fa prevalere l’affidamento»; regola della quale è sottolineata la portata generale, al punto che il Consiglio di Stato ritiene che essa debba essere applicata «anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti “di annullamento”», sul rilievo che «alcune disposizioni utilizzano infatti, impropriamente, i termini “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” (dai benefici) o simili per indicare, oltre all’abusivo utilizzo del titolo, la reazione dell’ordinamento all’illegittimo conseguimento del titolo, utilizzando forme che sono state definite di “annullamento travestito”».
3. Il dibattito sulla natura del potere di “decadenza” del GSE: gli orientamenti della dottrina, il contrasto giurisprudenziale, l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 e le sopravvenienze normative.
Intorno alla previsione di cui all’art. 42 d.lgs. 28/2011, è sorto un dibattito dottrinario teso a individuare la natura del potere del GSE di disporre la decadenza dagli incentivi[14]. La dottrina, invero, ha negato trattarsi di un potere unitario, articolando il ragionamento sulla base delle diverse ipotesi di violazioni rilevanti che il Gestore potrebbe accertare. In tal senso, la ricostruzione di Travi[15], condotta in relazione al sistema di incentivazione degli interventi di efficientamento energetico (mediante i cd. certificati bianchi), ha evidenziato che, in caso di coerenza tra l’intervento descritto nella proposta progettuale approvata dal GSE e quello effettivamente realizzato, la decisione del Gestore di non approvare la richiesta di verifica e certificazione sul rilievo dell’inammissibilità dell’intervento e di disporre conseguentemente la decadenza dal regime incentivante sottende una valutazione critica da parte del Gestore del proprio operato provvedimentale culminato nell’approvazione della proposta, conseguendone che il GSE può procedere al ritiro di tale approvazione solo nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 21-nonies d.lgs. 28/2011; a contrario, non verrebbe in rilievo la normativa sull’annullamento di ufficio se il rifiuto del Gestore di riconoscere la certificazione si basi sulla difformità dell’intervento concretamente realizzato rispetto a quello progettato. Un’altra dottrina[16], a propria volta, ha predicato la necessità di distinguere i casi in cui il GSE accerti, nel corso dell’incentivazione, la mancanza dei requisiti oggettivi di ammissione al beneficio economico da quelli di violazione derivante da un comportamento del beneficiario: nei primi verrebbe in rilievo un potere di autotutela riconducibile all’art. 21-nonies l. 241/1990, nei secondi la “decadenza” si atteggerebbe quale sanzione volta a reprimere condotte illecite. Altra dottrina ancora[17] ha suggerito di distinguere quattro tipologie di provvedimenti adottabili ex art. 42, co. 3, d.lgs. 28/2011, dal momento che, in ragione della violazione accertata, il potere esercitato dal Gestore può essere qualificato in termini di annullamento d’ufficio, di decadenza amministrativa, di autotutela obbligatoria ovvero di autotutela privatistica.
La giurisprudenza, a propria volta, si è divisa, dando luogo al contrasto giurisprudenziale che la pronuncia in commento ha ritenuto ormai definitivamente superato. Per un primo orientamento, la disciplina speciale di cui all’art. 42 cit. metterebbe interamente “fuori gioco” la normativa generale di cui all’art. 21-nonies cit., di talché l’attività di verifica del GSE e il susseguente provvedimento che disponga la decadenza dagli incentivi, non potrebbero essere affatto qualificati come esercizio di un potere di autotutela[18]. Per un secondo orientamento, invece, la rivalutazione, a distanza di tempo, da parte del GSE dell’effettiva spettanza dei benefici già erogati e in corso di erogazione comporta l’esercizio di un potere di autotutela, che deve rispettare i limiti imposti dall’art. 21-nonies cit.[19]. Il primo orientamento è stato a lungo portato avanti dalla Sezione III-Ter del TAR Lazio[20], mentre il secondo ha trovato conferma in recenti pronunce della II Sezione del Consiglio di Stato[21].
In argomento, nel frattempo, è intervenuta l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 che, pur senza prendere espressamente posizione sul segnalato contrasto giurisprudenziale, ha affermato che la decadenza dagli incentivi contemplata dall’art. 42 d.lgs. 28/2011 è pienamente sussumibile nella categoria della “decadenza pubblicistica” quale vicenda estintiva con efficacia di regola ex tunc di una posizione giuridica di vantaggio (cd. beneficio). Tale categoria si differenzierebbe radicalmente dall’istituto della sanzione, stante l’irrilevanza dell’elemento soggettivo e il carattere non afflittivo dell’effetto ablatorio-restitutorio, ma sarebbe anche da distinguere rispetto al «più ampio genus dell’autotutela», rispetto al quale presenterebbe degli elementi comuni, ma si caratterizzerebbe specificamente: «a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti; b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti». L’argomentare della Plenaria suscita per vero, a sua volta, una serie di interrogativi: innanzitutto, non è specificato quali siano i tratti comuni della decadenza in questione con l’autotutela (solo l’efficacia ex tunc degli effetti del provvedimento?), né si comprende se, a giudizio della Plenaria, essa faccia parte del più ampio genus dell’autotutela, e se tale espressione alluda all’autotutela decisoria o all’autotutela tout court. Ancora, il requisito sub lett. a), appare a chi scrive logicamente debole: infatti, non pare che la qualificazione della natura di un potere amministrativo possa essere basata sulla circostanza che esso sia previsto o meno da norme della legge 241/1990, specialmente se si tiene conto che l’autotutela caducatoria è stata positivizzata all’interno di quest’ultima legge soltanto a opera della l. 15/2005; l’argomento sub lett. b) allude a un “vizio”, così evocando una rivalutazione della legittimità di precedenti atti amministrativi, ma subito dopo vengono menzionate ipotesi non qualificabili come “vizi” attizi, quali la violazione delle prescrizioni amministrative da parte del beneficiario ovvero la sopravvenuta perdita dei requisiti soggettivi od oggettivi; appare poi arduo ravvisare gli elementi caratterizzanti di un istituto in ipotesi che ricorrono… more solito, e che dunque potrebbero anche non ricorrere ovvero costituire il presupposto applicativo di altri poteri: ad esempio, la falsità delle rappresentazione dei fatti o delle autodichiarazioni per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze passate in giudicato, è anche il presupposto dell’annullamento di ufficio oltre il termine di legge ai sensi del comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. 241/1990(. Insomma, il discorso dell’Adunanza Plenaria non appare del tutto perspicuo nel chiarire l’ubi consistam della decadenza pubblicistica e i suoi rapporti con il genus dell’autotutela. L’unico chiaro elemento differenziale sembra risiedere nel carattere vincolato del potere, a fronte della discrezionalità che (di regola) connota l’autotutela caducatoria. A ogni modo, l’Adunanza Plenaria sembra muovere da una concezione unitaria del potere del GSE di cui all’art. 42, co. 3, cit., il cui esercizio sarebbe in ogni caso doveroso a prescindere dal fattore temporale e al possibile affidamento del privato; tuttavia, sotto un diverso angolo visuale, si potrebbe affermare che la sentenza n. 18/2020 non abbia escluso affatto che, qualora il “vizio” accertato dal Gestore attenga all’originaria mancanza dei requisiti oggettivi o soggettivi per l’ammissione all’incentivazione, erroneamente ritenuti sussistenti in sede di accoglimento della domanda, l’agire provvedimentale dell’ente di vigilanza che disponga la “decadenza” e il recupero degli incentivi ricada nel perimetro applicativo dell’art. 21-nonies l. 241/1990 e non già in quello dell’art. 42 d.lgs. 28/2011. Infatti, si farebbe questione, in questa ipotesi, di una “tipologia di vizio” tipicamente rientrante nei presupposti applicativi dell’annullamento d’ufficio.
Sul versante normativo, l’ art. 56 del d.l. 76/2020 avrebbe dovuto sancire il superamento del dibattito intorno alla natura del potere di “decadenza” del GSE. Invero, il suo comma 7 ha esplicitamente subordinato il potere del gestore di disporre la decadenza dagli incentivi e il recupero di quelli già erogati al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990. In tal modo, il Legislatore ha evidentemente inteso promuovere nell’ambito dei rapporti di incentivazione che vedono parte il GSE le stesse esigenze di certezza del diritto, di stabilità dei provvedimenti ampliativi e di tutela dell’affidamento sottese a quest’ultimo articolo, in particolare nella versione risultante dalle modifiche apportate dalla l. 124/2015. Nondimeno, la rilevanza del tema della natura del potere di “decadenza” del GSE non può considerarsi esaurita, dal momento che, secondo unanime giurisprudenza[22], la novella di cui al d.l. 76/2020 non avrebbe inciso sulla natura del potere di cui all’art. 42 d.lgs. 28/2011, il quale continua a dover essere applicato nella versione precedente, secondo la regola tempus regit actum, alle fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.l. 76/2020[23].
Nel caso affrontato dalla sentenza in commento, il provvedimento impugnato precedeva tale sopravvenienza normativae la sua legittimità andava di conseguenza scrutinata sulla base della versione dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 antecedente alle modifiche di cui all’art. 56 d.l. 76/2020, di talché il Consiglio di Stato non avrebbe potuto stigmatizzare il superamento del limite temporale previsto dal primo comma dell’art. 21-nonies l. 240/1990, senza aver prima ricondotto il potere in concreto esercitato dal GSE all’annullamento d’ufficio e dunque predicato la diretta applicabilità alla fattispecie dell’art. 21-nonies cit.
4. La posizione della seconda Sezione del Consiglio di Stato.
La seconda Sezione ha ritenuto difatti applicabile, al caso di specie, l’art. 21-nonies l. 241/1990, previa qualificazione del provvedimento impugnato come atto di autotutela (segnatamente, di annullamento di ufficio parziale). La sentenza in commento addiviene a tale soluzione in linea con l’orientamento giurisprudenziale recentemente portato avanti dalla stessa Sezione – cui si è fatto cenno in apertura e nel precedente paragrafo – in base al quale il GSE non può rimettere in discussione, sine die, l’esistenza dei requisiti per accesso all’incentivazione, dovendo a tal fine provvedere in autotutela nel rispetto dei presupposti di cui all’art. 21-nonies cit. Sul punto, la pronuncia in esame dà invero atto del contrario orientamento giurisprudenziale – al quale pure si è fatto cenno nel precedente paragrafo –, e tuttavia lo ritiene definitivamente superato alla luce del diverso orientamento portato avanti, anche nel caso di specie, dalla II Sezione, alla quale vengono attualmente assegnate le controversie concernenti il GSE. Ed è proprio sul rilievo dell’avvenuto consolidamento, nella giurisprudenza della Sezione, dell’orientamento volto ad ammettere l’applicabilità al GSE della normativa in tema di annullamento d’ufficio, che la pronuncia in commento giunge a escludere la necessità di rimettere il ricorso all’Adunanza Plenaria.
Dell’Adunanza Plenaria, invece, la seconda Sezione richiama la sentenza n. 18/2020, nell’intento di tracciare una chiara linea distintiva tra ipotesi di decadenza ex art. 42 d.lgs. 28/2011 e ipotesi di annullamento di ufficio. In particolare, la pronuncia in commento intende valorizzare gli approdi ermeneutici dell’organo di nomofilachia, nella parte in cui ha ravvisato un elemento distintivo tra autotutela e decadenza ne «la tipologia del vizio, more solito individuato [in caso di decadenza] nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporti». Tale indicazione viene utilizzata dalla seconda Sezione per distinguere con nettezza l’ambito applicativo dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 da quello dell’art. 21-nonies l. 241/1990, escludendo con decisione la possibilità di “sovrapposizioni”. In tal senso, la pronuncia precisa che, laddove sia stato riconosciuto al privato il bene della vita, ovvero il beneficio economico/l’incentivo, all’esito di uno specifico procedimento, la decadenza può riguardare, solamente, tre ipotesi: - conseguimento del beneficio sulla base di dichiarazioni o documenti non veri; - inadempimento alle condizioni e agli obblighi cui il beneficio è subordinato; - sopravvenuta carenza dei requisiti per il suo ottenimento. Di contro, si ricade nell’autoannullamento allorché «l’Amministrazione, dopo aver valutato e ritenuto sussistenti, esplicitamente o implicitamente, i presupposti per la concessione dell’incentivo, così ingenerando nel privato il ragionevole convincimento della sua spettanza, riesamini la situazione e pervenga a una conclusione opposta». Da tale argomentare, il Collegio trae la conclusione per cui, sotto un'altra prospettiva, l’elemento dirimente, che consentirebbe di distinguere la decadenza dall’autoannullamento, consisterebbe nell’affidamento legittimo del privato, incompatibile con la decadenza («questi non vanta alcun affidamento “legittimo”, laddove abbia presentato documenti o dichiarazioni false, e perché la violazione delle prescrizioni e la sopravvenuta carenza dei requisiti sono successivi alla concessione del beneficio»), configurabile (e tutelabile) invece in ipotesi di autoannullamento.
Applicando la regula iuris così individuata al caso di specie, rilevato che il tema della conclusione dei lavori era già stato affrontato e risolto positivamente in sede di ammissione alle tariffe incentivanti, il Collegio ha ricondotto il potere in concreto esercitato dal GSE al paradigma dell’annullamento d’ufficio, stigmatizzando la violazione, da parte del GSE, dell’art. 21-nonies l. 241/1990, realizzata attraverso una macroscopica inosservanza del termine ragionevole (il provvedimento del gennaio 2020 era di oltre otto anni successivo all’ammissione alle tariffe incentivanti), in spregio al legittimo affidamento del privato.
5. Considerazioni conclusive
In definitiva, la pronuncia in commento si pone nel solco di un orientamento garantista volto a riconoscere e tutelare l’affidamento del privato sulla stabilità dei rapporti di incentivazione con il GSE. In quest’ottica, sussumendo la vicenda nel paradigma dell’autotutela caducatoria sub specie di annullamento di ufficio, la seconda Sezione ha valorizzato le esigenze di certezza del diritto e di stabilità dei provvedimenti ampliativi, in linea con quanto auspicato dal parere n. 839/2016. Quest’ultimo, infatti, sottolineava il carattere generale della regola scolpita nell’art. 21-noneis l. 241/1990 e metteva in guardia dalle forme di “annullamento travestito”, in presenza delle quali dovrebbero trovare parimenti applicazione le garanzie previste dal ridetto art. 21-nonies. Nello stesso ordine di idee, appare condivisibile la netta presa di distanza dalle letture estensive e “totalizzanti” del potere del GSE ex art. 42 d.lgs. 28/2011, che pure hanno trovato cittadinanza nella giurisprudenza configurando in capo al Gestore un(o) (stra)potere inesauribile di riesame tale da rendere geneticamente instabili i rapporti d’incentivazione[24].
In chiave critico-costruttiva, si può infine provare ad aggiungere uno spunto di riflessione ulteriore. L’idea che in presenza di dichiarazioni o documenti falsi, presentati in sede di domanda di accesso all’incentivazione, verrebbe necessariamente in rilievo il potere vincolato di decadenza del GSE porta a concludere che in questi casi non vi sia mai un affidamento meritevole di tutela. Tuttavia, la prassi in tema di cd. artato frazionamento, dimostra che non di rado la falsità dichiarativa o documentale è stata a suo tempo realizzata dal soggetto che ha progettato e spacchettato artificiosamente l’impianto, cedendo poi ad altre imprese la titolarità di singoli progetti e dei rapporti incentivanti nel frattempo instaurati con il GSE. Orbene, negare qualsivoglia posizione di affidamento tutelabile in capo all’acquirente in buona fede che abbia acquistato un singolo progetto e per lungo tempo percepito gli incentivi, specialmente se l’artato frazionamento è stato posto in essere prima della positivizzazione normativa del relativo divieto, può apparire eccessivo e condurre a conseguenze ordinamentali non auspicabili, quali il fallimento di attività dirette alla produzione di energia da fonti rinnovabili e la liquidazione di imprese operanti nel settore, a fronte di provvedimenti che dispongano la restituzione di somme ingenti. In quest’ottica, ci si può interrogare se non sia preferibile ricondurre anche le ipotesi di falsità dichiarative e documentali al paradigma dell’annullamento d’ufficio, e segnatamente al comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. 241/1990. Difatti, tale soluzione lascerebbe intatta la possibilità di procedere al recupero di incentivi non spettanti oltre il limite temporale previsto dal primo comma, epperò residuerebbe in capo all’Amministrazione un margine di discrezionalità per valutare l’eventuale affidamento del beneficiario, non facendosi questione di un provvedimento vincolato[25].
[1] D.m. 19 febbraio 2007.
[2] Il riferimento è all’art. 2-sexies d.l. 3/2010, convertito con modificazioni in l. 41/ 2010, come sostituito dall’art. 1-septies del d.l. 105/ 2010, convertito con modificazioni in l. 129/2010.
[3] D.m. 6 agosto 2010.
[4] Vengono citate in tal senso le pronunce della seconda Sezione del Consiglio di Stato, n. 4983/2022 e n. 1007/2023.
[5] Per un’analisi più dettagliata del contenuto di tale articolo si rinvia a A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile: stato dell’arte e persistenti complessità, in Federalismi.it, 17, 2022.
[6] Cfr. art. 11, co. 2, d.m. 31 dicembre 2014.
[7] Per una generale ricognizione giurisprudenziale in argomento vds. E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, in Federalismi.it, 5, 2023.
[8] Tra i contributi successivi alla cd. Riforma Madia, senza pretesa di esaustività, vds. M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2023; M. Immordino, I provvedimenti di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2021; C.P. Santacroce, Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle “briglie” del legislatore, in Federalismi.it, 21, 2018; R. Caponigro, Il potere di annullamento di ufficio, in Federalismi.it, 23, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in Federalismi.it, 6, 2017; Id., Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambia mento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, 125 ss.; M.A. Sandulli, Autotutela, in Treccani. Il Libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2016; Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, in Federalismi.it, 17, 2015; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, 20, 2015.
[9] Cfr. in particolare M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. Giur. Edilizia, 3, 2018, 687; Id., Autotutela, cit., nonché Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, cit.
[10] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6472.
[11] Cfr. M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit.
[12] Sulla necessità del giudicato penale anche in ipotesi di “false rappresentazione dei fatti”, per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio oltre il termine di cui all’art. 21-nonies, co.1, nonché sul contrario orientamento giurisprudenziale, si rinvia a M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18, l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, op. cit., 253 ss.; Id., Edilizia (voce), in Enciclopedia del Diritto – I Tematici, III, 2022; Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, cit. La medesima Autrice, inoltre, evidenzia che le misure di semplificazione, in particolare in tema di autodichiarazioni, per come intese da una certa giurisprudenza, hanno dato luogo a un «graduale trasferimento di responsabilità dalle amministrazioni ai privati», con inevitabile incidenza sulla stabilità dei titoli e, soprattutto, dei “benefici”: cfr. M.A. Sandulli, Introduzione, inM.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, op. cit., 9.
[13] La stessa autorevole dottrina ha, peraltro, da tempo evidenziato lo stretto legame intercorrente tra la certezza del diritto e la stabilità dei provvedimenti ampliativi, e in particolare di quelli attributivi di vantaggi economici, da un lato, e la ripresa, il rilancio ovvero la crescita economica del Paese, dall’altro lato: cfr. M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit.; Id., I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, in Federalismi.it, 22, 2018; Id., Conclusioni alle giornate di studio su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giuridiche e diritto alla sicurezza giuridica”, in Federalismi.it, 14, 2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss, nonché in www.giustizia-amministrativa.it; Id., Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 23, 2017; Id., Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambia mento: il codice dei contratti e la riforma Madia, cit.; Id. , Autotutela, cit.
[14] In argomento, vds. A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile: stato dell’arte e persistenti complessità, cit.
[15] A. Travi, I poteri di revisione del G.S.E., in P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Milano, Wolters Kluwer, 2017.
[16] F. Scalia, Controlli e sanzioni in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili, in Federalismi.it, 9, 2018.
[17] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. Semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, in AmbienteDiritto.it, 1, 2021.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 aprile 2019, n. 2380.
[19] Cons. Stato, Sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324.
[20] Cfr. ad es, TAR Lazio, Sez. III-Ter, 18 gennaio 2019, n. 2165 e altra giurisprudenza ivi citata.
[21] Oltre alle sentenze menzionate nella pronuncia in commento, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 31 luglio 2023, n. 7404.
[22] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 4 giugno 2024, n. 4977.
[23] Cfr. M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18, l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), cit.
[24] Cfr. sul punto M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit., la quale rilevava che «l’operatività del suddetto termine di 18 mesi […] viene così tendenzialmente esclusa in riferimento ai provvedimenti che, seppure diretti a rimuovere ex tunc (con ripristino dello status quo ante o recupero delle somme eventualmente concesse) il titolo o il vantaggio economico conseguito per difetto originario dei relativi presupposti e dunque rientranti a pieno titolo nel modello che i richiamati pareri del Consiglio di Stato hanno definito “annullamento travestito”, non sono formalmente qualificati come “annullamento”: è consolidata in tal senso la giurisprudenza della sezione III-ter del TAR Lazio sui provvedimenti di decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili assunti dal GSE a distanza di anni dal relativo rilascio».
[25] Cfr. C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, cit.
I doveri dei magistrati di oggi
Relazione introduttiva
Comitato direttivo centrale 16-17 novembre 2024
Presidente ANM Giuseppe Santalucia
La Giunta esecutiva, nel documento varato il 1° novembre scorso all’indomani dell’aspra polemica politico-mediatica contro la sezione immigrazione del Tribunale di Bologna, e in specie del collega Marco Gattuso, ha denunciato l’aria pesante che da qualche tempo si respira nella e intorno alla giurisdizione.
Quell’aria, nelle due settimane e poco più da quel documento, è divenuta ancora più pesante.
È proprio per questa ragione che, a mio giudizio, oggi il Comitato direttivo centrale dovrà in risposta impegnarsi affinché l’aria si faccia più respirabile, leggera, perché si allenti la morsa polemica e il clima delle relazioni istituzionali torni al sereno.
So bene!
L’obiettivo è facile a dirsi ma per nulla a raggiungersi, anche e soprattutto perché non dipende da noi, non sono nella nostra disponibilità gli strumenti per sedare un conflitto a cui non abbiamo dato causa.
Eppure, non possiamo muoverci altrimenti.
Il tema oggi è cosa e come fare.
Su questo dobbiamo interrogarci nella nostra discussione sui molti punti all’ordine del giorno, in gran parte aspetti e profili di un’unica grande questione.
Nella speranza di introdurre utilmente la discussione, indico con la necessaria sintesi le tessere del mosaico che, secondo la prospettiva che vi propongo, dovremo caparbiamente cercar di comporre o di ricomporre.
Ciò farò utilizzando copiosamente la categoria del dovere, che mi sembra la più adeguata a sostanziare quel che ritengo per noi magistrati un passaggio ineludibile:
una chiara presa di posizione all’interno della cornice dei principi democratici e liberali che ci devono guidare con forza ancora maggiore per venir fuori dalla canea da cui siamo circondati.
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In questo difficile scenario, con piena consapevolezza del ruolo che ci spetta.
Abbiamo il dovere di non arrenderci alla fatica di spiegare quali sono i termini della questione dei trattenimenti dei richiedenti asilo, anche quando i nostri interlocutori del momento sviliscono con ostentato fastidio le ragioni del diritto a pretesti da azzeccagarbugli, mostrando di non voler ascoltare, arroccati sulla formula propagandistica della magistratura politicizzata.
Abbiamo il dovere di ribadire che la magistratura italiana non è in nessuna sua parte attraversata da faziosità politica e non avversa i programmi di chi oggi è maggioranza politica di governo.
Abbiamo il dovere di ricordare, sulla scia del bel documento sottoscritto da oltre 250 magistrati in pensione (e che ci è stato trasmesso qualche giorno fa), quale sia la missione di una magistratura autonoma ed indipendente in una democrazia liberale la cui Carta fondamentale pone al centro la persona e i suoi diritti fondamentali, che si sottraggono, e se del caso si oppongono, alle volontà dispositive delle maggioranze, pur quando estese e pur se democraticamente elette.
Abbiamo il dovere di non cedere alla stanchezza e allo sconforto, trovando la forza di contrastare, con la ragione e il diritto, la coltre di maliziose accuse che ci piovono addosso, che confondono, sconcertano, disorientano, sporcano l’immagine di una fondamentale Istituzione, presidio di libertà e di uguaglianza, quale è, è stata nella storia di questo Paese e, per mezzo di noi tutti e di quanti verranno, sarà ancora la magistratura italiana.
Abbiamo il dovere di riaffermare che la soggezione è alla legge e non al legislatore del momento, che la legge vive all’interno di un reticolo sistematico che vede un concorso di fonti al cui interno la relazione gerarchica non è la sola direttrice ordinante e che, in ogni caso, in quella relazione il vertice è assegnato alla Costituzione e, in alcune materie, alla normativa eurounitaria.
Lungo questo tracciato, che non ha alternative, che si impone a noi con forza pari soltanto alla sensibilità costituzionale che ci anima, al contempo e in parallelo
Abbiamo il dovere di evitare che la paura, il timore di essere osservati, in qualche modo sorvegliati, si insinuino e si conquistino uno spazio tra noi, quando assistiamo a fatti inquietanti, al venir fuori, dopo esser stato evidentemente conservato per anni alla bisogna, lo screenshot di qualche nostro stato whatsapp, reso noto al tempo soltanto ai nostri pochi contatti telefonici (mi riferisco ai recenti articoli di stampa che hanno riguardato la collega Antonella Marrone).
Un giudizio critico su un messaggio social di un personaggio pubblico che al tempo non era al Governo serve oggi, trascorsi due anni e più, per definire l’immagine di un magistrato politicamente antagonista, schierato, pregiudizialmente ostile, ora che quel personaggio pubblico è al Governo del Paese e soprattutto ora che il magistrato autore di quello stato whatsapp ha preso un provvedimento sgradito al Potere, peraltro occupando un posto ed esercitando una funzione tutt’affatto diversi da quelli del tempo.
Abbiamo il dovere di conservare integra la serenità nello svolgimento dei nostri compiti, pur se recandoci in ufficio, accomodandoci alla scrivania, sapremo che il provvedimento che ci toccherà assumere, secondo linee consolidate della giurisprudenza e orientamenti interpretativi della nostra sezione formati nelle apposite riunioni indette per assicurare uniformità di indirizzo, ci consegnerà sia al pericolo di essere additati come magistrati comunisti (termine che si carica di significato spregiativo ben oltre i confini della sua naturale semantica) e nemici del popolo; sia al pericolo di veder violata la nostra sfera di riservatezza con la pubblicazione di fotografie attinenti a momenti di vita privata e con notizie sulle nostre relazioni affettive.
Abbiamo il dovere di non cadere nel tranello di individuare la causa del vortice di polemiche, in cui il nostro ufficio viene risucchiato, nel collega, vicino di stanza, per aver questi preso parte giorni prima, settimane prima, mesi prima, anni prima, ad un convegno su temi giuridici divenuti politicamente scottanti, per aver questi espresso opinioni nell’esercizio del diritto, fino a qualche tempo fa incontestato, di esser presente nel dibattito interno alla comunità dei giuristi su aspetti dell’ordinamento che ora ci proiettano prepotentemente e nostro malgrado sulla scena pubblica.
Abbiamo il dovere di non attardarci nella domanda se sia ancora il caso, visti gli attacchi ripetuti nei confronti di sempre più colleghi, di prender parola ad un convegno, ad una pubblica riunione, in cui, con lo strumento dell’argomentazione composta e rispettosa delle Istituzioni tutte, potremmo assentire o dissentire su una qualche interpretazione o su qualche disegno di legge, pur di iniziativa governativa, o potremmo svolgere addirittura critiche, che so, sulle linee della politica penale della maggioranza di Governo, per il timore che l’indomani quelle nostre opinioni potranno formare il banco di accusa della nostra faziosità e il banco di prova della nostra parzialità.
Abbiamo il dovere di scongiurare il rischio che la giusta pretesa di imparzialità e di apparenza di imparzialità non si confonda in taluno con la volontà di ridurci al silenzio, di mettere i magistrati all’angolo, nell’angolo buio di un funzionariato pre-costituzionale.
Tutto ciò lo dobbiamo, prima che a noi stessi, alle persone della cui vicende di vita saremo chiamati ad occuparci tenendo fede, senza arretramenti, al mandato costituzionale di autonomia e di indipendenza, di indipendenza anche dalle nostre comprensibili personali preoccupazioni, rinnovando con la consapevolezza del ruolo un dovere di resilienza, il cui adempimento pone al riparo la funzione del giudicare dalle temperie che possono turbare le nostre vite.
Lo dobbiamo anche ai tanti giovani magistrati che si apprestano in questi giorni a muovere i primi passi nel nostro difficile eppure appassionante mondo professionale, perché anche col nostro esempio possano apprendere e rafforzarsi nella virtù forse più importante per un magistrato: la fermezza nella decisione temprata dal dubbio che innerva lo studio e l’esame delle contrapposte ragioni e che si dissolve nel momento in cui la decisione matura, senza che pressioni esterne o interne possano influenzarla.
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Il contesto che genera inquietudine si è da ultimo arricchito della proposizione di un emendamento in sede di conversione del decreto-legge (n. 145 del 2024) sui flussi migratori e sulla protezione internazionale, diretto a spogliare le sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali della competenza sulla convalida dei trattenimenti, con soave e sorprendente indifferenza per le ragioni dell’organizzazione giudiziaria.
Così, con un colpo di penna si vorrebbe stravolgere l’ordinario assetto delle competenze e la Corte di appello, già gravata da importanti carichi di lavoro che ci hanno fatto dubitare della possibilità di centrare gli ambiziosi obiettivi del PNRR, dovrebbe occuparsi delle procedure di convalida, se non ho letto male con le sue sezioni penali.
È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze; si percepisce piuttosto la voglia di rappresentare nel modo più plateale, appunto: con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative.
Nell’impossibilità di degiurisdizionalizzare le procedure di convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo, si vorrebbe svilire il senso della specializzazione, si vorrebbe sostituire il giudice perché le sue pronunce non sono state gradite.
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E mentre cresce l’insofferenza per la giurisdizione, il lavoro parlamentare per la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, o meglio sulla separazione della magistratura, viene accelerato.
Una riforma che, stando agli irenici propositi di chi se ne fa sostenitore, non dovrebbe nutrirsi delle ragioni che stanno a fondamento delle attuali tensioni e che pure, a dispetto di qualche dotta argomentazione, in più di un’occasione autorevoli esponenti politici della maggioranza hanno presentato, con indubbia sincerità, come la risposta ad una magistratura con troppa indipendenza, che non si rassegna, come dovrebbe, ad applicare la legge senza interpretarla.
A mio giudizio si scorge, senza particolare difficoltà, la coerenza tra quel che accade oggi in materia di diritto di asilo e quel che matura in Parlamento sulla riforma costituzionale.
È un’idea di giurisdizione diversa da quella che ci ha guidato per molti e molti anni, che abbiamo per tutto questo tempo condiviso con l’avvocatura.
La giurisdizione è un bene comune e sono convinto in maniera radicata che gli avvocati italiani non possono che dissentire da un progetto volto al ridimensionamento del giudiziario, che non potrebbe che restringere i loro spazi di azione come promotori della difesa dei diritti.
Per questa ragione faccio fatica a comprendere la posizione di una parte dell’avvocatura, mi riferisco all’Unione delle camere penali che, da un lato, non lesina parole di sferzante critica alle politiche governative in materia penale e penitenziaria e avverte il bisogno di affermare, in uno per il vero con altre autorevoli voci (v., ad esempio, l’Associazione degli studiosi di diritto dell’Unione europea), che le recenti decisioni giudiziarie in tema di convalida di trattenimenti sono tutt’altro che abnormi; e dall’altro, è riluttante a considerare la riforma costituzionale per quel che è e non per quello che vorrebbe che fosse.
Siccome non ho alcun intento polemico e non ho alcuna voglia di ribattere con la stizza che pure si dovrebbe ad un recente deliberato dell’Unione, in cui si legge, stanco refrain, di politicizzazione della magistratura, di violazione del principio della separazione dei poteri (dall’Unione vista come conseguenza dell’espansione indebita del potere giudiziario), rivolgo alle camere penali l’invito sincero a rinnovare la loro riflessione critica sul disegno di legge sulla separazione della magistratura, ad osservare quel che accade e ad essere conseguenti alle premesse di quel liberalismo penale di cui si fanno in molte occasioni interpreti.
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Concludo infine con un auspicio, che potrà pure sembrare poca cosa ma che mi sta a cuore per una ragione ideale tutt’altro che banale.
Sarebbe bene, penso, che quanti partecipano al dibattito pubblico, doverosamente allargato, sulla riforma costituzionale, si astengano, una volta che scoprono di essere privi di buoni argomenti per sostenerla, dal discutibile espediente di usare il nome e la figura di Giovanni Falcone per elevare tono, qualità e contenuti della riforma.
La memoria di un eroe, di un martire della Repubblica, va onorata astenendosi dall’usare il suo nome nel confronto, a volte anche acceso, su una riforma che matura a oltre trent’anni dal suo estremo sacrificio.
Questa riforma, se e quando sarà varata, non potrà portare il nome di Giovanni Falcone; non gli appartiene, non potrebbe appartenergli, appartiene ad altri.
Almeno questo sia concesso alla verità dei fatti e sia sottratto alla mistificante opera della propaganda.
Buon lavoro!
Parthenope
Perla di mare e fiamma di vulcano, Napoli si sveste e si riveste d’incanto e d’obbrobrio allo sguardo di un occhio galleggiante tra acqua di sale e sangue, che scruta con scandaglio estetico e fuori da ogni spoglio morale le incrostazioni antropologiche di un popolo frastagliato di identità e diversità, tradizione e trasgressione, godimento e afflizione. E se, come si dice, è vero che ogni singolo napoletano come la geometria dei frattali replica allo stesso modo su scala diversa l’originale complessivo di cui è parte, incarnando ciascuno un’icona del tutto, è anche vero che Parthenope, col suo mito universale di bellezza e seduzione, è la migliore candidata a rappresentarne l’archetipo più espressivo, l’emblema sinottico, il florilegio di vizi e virtù in cui l’intera città si rispecchia con l’orgoglio di rivedersi ogni volta così mutante e così uguale.
La rassegna dei suoi simboli diventa allora la vera trama di un film incarnato da una Parthenope ricomposta in un prodotto di sfolgorante ma sfuggente bellezza e di assoluta inafferrabilità.
Dal grande armatore all’oro e al sangue di San Gennaro, dal divismo estenuato e polemico dell’attrice napoletana emigrata al nord al rigido contesto universitario e fino ai rituali di superstizione e di camorra, è proprio tra aristocratiche sontuosità, isole del bel mondo e caverne suburbane che si snoda l’itinerario antropologico in cui si muove l’occhio curioso di Sorrentino in cerca di risposte a domande che non sa fare, ma che sente impellenti; quesiti che puntualmente ricorrono come incubi di un irrisolto rapporto con la città natale, come un intimo grumo ossessivo non si sa se sedotto dal mistero o abbindolato dalla truffa di un popolo che sopravvive illeso; e tuttavia immenso come il suo mare e carico di fascino come il suo vulcano quiescente.
“Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto” recita Céline in esordio al film; ed è proprio questa enormità che deve indurci a “vederla” la vita e non a giudicarla; questi i termini del sintomatico patto siglato da Parthenope e dal prof. Marotta, che li condurrà ad un idillio professionale foriero di successo per la donna. La medesima enormità del mostro umano generato dall’accademico, da questi poi mostrato a Parthenope, che col suo sorriso beffardo, candido e non sofferente riassume dall’inizio alla fine l’orrenda grandiosità di una Napoli opaca e indimenticata.
Il vigore espressivo del film, superbamente sostenuto nel suo contorno recitativo da un Silvio Orlando assolutamente perfetto e da maschere vibranti di solida teatralità, impersonate da Luisa Ranieri (Greta Cool), Isabella Ferrari (Flora Malva) e Peppe Lanzetta (il vescovo Tesorone), emerge in tutta la sua forza estetica nel debutto della sfavillante Celeste Della Porta (Parthenope giovane) e in una sempre efficace Stefania Sandrelli (Parthenope adulta), ma risalta alla pari da una felice e coerente scelta musicale, non a caso incentrata sulla splendida “Era già tutto previsto” di Cocciante e ancor di più nel battito sincrono ed ossessivo dell’iniziale Exodus (Excerpt No. 1) della Polish Radio National Symphony Orchestra, sinonimo timbrico della fobica pulsazione di vitalità di una città comunque eterna.
Le conseguenze per le giurisdizioni nazionali della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea
di Massimo Francesco Orzan
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. – 3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale. – 3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento. – 3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico. – 3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte – 3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame. – 3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale. – 4. Osservazioni conclusive.
1. Introduzione.
Con il regolamento (UE, Euratom) 2024/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 aprile 2024 che modifica il protocollo n. 3 sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea[1] (reg. 2024/2019) è stata approvata una riforma particolarmente significativa di questa Istituzione (CGUE), che è entrata in vigore il 1° settembre 2024[2]. Parallelamente all’approvazione di questa modifica, la Corte di giustizia (Corte) e il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) hanno emendato i propri regolamenti di procedura (di seguito, rispettivamente, RP Corte[3] e RP Trib.[4]) nonchè le proprie norme pratiche di esecuzione[5], in larga misura per dotarsi della normativa di dettaglio necessaria per garantirne la corretta attuazione[6]. Inoltre, la Corte ha aggiornato le proprie Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[7]. Il RP Corte è entrato in vigore il 1° ottobre 2024[8], mentre quello del Tribunale il 1° novembre 2024[9].
Nel presente contributo, dopo avere brevemente illustrato i tratti essenziali di questa riforma, l’attenzione si concentrerà sull’aspetto indubbiamente più rilevante relativo al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale, aspetto che modifica la relazione tra le due giurisdizioni del Kirchberg ed è sucettibile di incidere sull’attività delle giurisdizioni nazionali. Seguono alcune considerazioni conclusive, che cercano di delineare i possibili scenari di sviluppo futuro della CGUE.
2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La recente riforma dello statuto della CGUE è il risultato di una procedura avviata dalla Corte il 22 ottobre 2022 conformemente all’art. 281 TFUE, attraverso la presentazione di una domanda volta alla modifica dello Statuto della CGUE. Giustificata largamente, come nelle precedenti occasioni, dalla necessità di fare fronte a un aumento costante del carico di lavoro dell’Istituzione[10], in questo caso particolare quello della Corte[11], ma anche dalla volontà di sfruttare al meglio le potenzialità del Tribunale a seguito del raddoppio dei suoi membri[12], in tale domanda, la Corte proponeva di trasferire la competenza a conoscere le domande pregiudiziali in alcune materie al Tribunale e di estendere il meccanismo di ammissione preventiva delle impugnazioni, in vigore dal 1° maggio 2019 (il meccanismo di filtro)[13], previsto per alcune categorie di decisioni del Tribunale a talune altre[14]. Nel corso della discussione interistituzionale che ne è scaturita, a queste proposte se ne sono aggiunte altre riguardanti l’estensione, sottoposta a certe condizioni, del novero delle Istituzioni titolari del diritto di depositare memorie od osservazioni nell’ambito della procedura pregiudiziale ai sensi dell’art. 23 statuto[15], il regime della pubblicità delle memorie o delle osservazioni depositate in tale ambito nonché il coinvolgimento preventivo della società civile in vista di futuri interventi sullo statuto attraverso una consultazione pubblica, precedente all’adozione da parte della Corte di una domanda legislativa.
All’esito dell’iter approvativo, tanto le proposte della Corte che quelle sorte nel corso del dibattito interistituzionale che ne è seguito sono confluite, con alcune modifiche, nel reg. 2024/2019.
Per quanto riguarda il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale, in primo luogo, è stato convenuto l’inserimento dell’art. 49 bis statuto consacrato alla disciplina della designazione dell’Avvocato generale dinanzi a questa giurisdizione[16]. In secondo luogo, l’art. 50 statuto è stato modificato con la sostituzione dei 2° e 3° commi e l’aggiunta, rispetto alla proposta della Corte, di un 4° comma[17]. Peraltro, va rilevato che in questo contesto è stata decisa la creazione di una nuova sezione, la Sezione Intermedia, che in realtà sarà una formazione dei collegi del Tribunale non solo nell’ambito delle domande pregiudiziali ma anche nel contenzioso diretto[18]. In terzo luogo, è stato inserito l’art. 50 ter, il quale identifica le materie trasferite dalla Corte al Tribunale, che sono le seguenti: il sistema comune di imposta sul valore aggiunto, i diritti di accisa, il codice doganale, la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata, la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri e il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra[19].
L’articolo in parola ruota intorno ad alcuni principi fondamentali. Da un lato, il Tribunale è competente a conoscere le domande pregiudiziali che rientrano esclusivamente in una o più delle sei materie sopraccitate. Dall’altro, il trasferimento è escluso nell’ipotesi di domande che, pur riconducibili a siffatte materie, sollevano questioni indipendenti relative al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CdfUE)[20]. La determinazione della trasferibilità o meno di una domanda rientrante in una di queste materie è rimessa dall’art. 50 ter, 3° c. statuto, a un meccanismo di contollo ex ante, il cd. sportello unico, esaminato nel par. 3.1. del presente contributo. Infine, il 4° comma di tale articolo impone al Tribunale la specializzazione in materia pregiudiziale, così da assicurare alle domande rivolte dalle giurisdizioni nazionali, lo stesso trattamento previsto dinanzi alla Corte, come si avrà modo di illustare nel par. 3.2. In quarto luogo, è stata introdotta una modifica all’art. 54 statuto, al fine di estendere alle domande pregiudiziali la logica soggiacente il rinvio tra Corte e Tribunale previsto da detto articolo per i ricorsi diretti[21].
Per quanto riguarda l’estensione del meccanismo di filtro la domanda della Corte relativa all’art. 58 bis statuto è stata sostanzialmente accolta, salvo modifiche testuali minori[22]. È utile osservare che questa modifica non è priva di importanza rispetto ai possibili sviluppi della CGUE. In particolare, al di là dell’estensione a tutte le commissioni di ricorso del meccanismo di filtro, l’inclusione delle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base di una clausola compromissoria conformemente all’art. 272 TFUE costituisce un passaggio particolarmente rilevante. In effetti, è opportuno ricordare che la creazione del meccanismo del filtro era stata sostanzialmente giustificata dal fatto che esso avrebbe riguardato contenziosi in cui esistevano meccanismi di revisione previsti a livello delle agenzie dell’Unione, che potevano ammettere che fosse il solo Tribunale a conoscere il ricorso avverso una decisione adottata da tali agenzie all’esito di una procedura complessa. Ora, se è vero che nella domanda legislativa la Corte ha spiegato le ragioni per estendere il meccanismo del filtro alle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base dell’art. 272 TFUE[23], resta il fatto che per la prima volta tale meccanismo si applica a un ricorso diretto, che non presenta le specificità di quello originato dalle decisioni delle commissioni di ricorso[24]. In definitiva, il contenzioso fondato su una clausola compromissoria potrebbe essere un’“apripista” per altre categorie di ricorsi diretti in futuro.
Per quanto riguarda il novero delle Istituzioni competenti a depositare memorie od osservazioni nell’ambito di una domanda pregiudiziale, l’art. 23 statuto è stato modificato, riconoscendo tale possibilità al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Banca centrale, i quali potranno depositarle nel caso in cui considerino di avere un “particolare interesse” rispetto alla suddetta domanda[25].
Con riferimento al regime di pubblicità degli atti processuali, contariamente alla proposta iniziale del Parlamento europeo[26], esso è stata ridimensionato e riformulato. Da un lato, tale regime è stato circoscritto alle sole domande pregiudiziali e, dall’altro, l’art. 23, 4° c., statuto prevede, diversamente da quanto proposto del Parlamento europeo, non un diritto di domandare l’accesso alle memorie o osservazioni, ma un obbligo in capo alla Corte e al Tribunale di pubblicarle sul sito della CGUE, entro un termine ragionevole dalla pronuncia della sentenza, salvo opposizione dei loro autori[27].
Infine, con riguardo alla partecipazione della società civile rispetto a future modifiche dello statuto della CGUE, è stato introdotto l’art. 62 quinquies statuto, il quale stabilisce che «[p]rima di presentare una domanda o una proposta di modifica del presente statuto, la Corte di giustizia o, se del caso, la Commissione procede ad ampie consultazioni”. Questo vuol dire che per l’avvenire, eventuali interventi sullo statuto dovranno essere proposti coinvolgendo preliminarmente soggetti esterni per rafforzare la trasparenza e l’apertura del processo giudiziario.
3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale
Dopo avere delineato le diverse modifiche statutarie introdotte dal reg. 2024/2019, è ora opportuno approfondire quella relativa al traferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie dalla Corte al Tribunale. Questo trasferimento costituisce un passaggio di rilevanza epocale, tenuto conto della funzione fondamentale assolta dal meccanismo pregiudiziale nel processo di integrazione[28]. In una prima parte del paragrafo, sono illustrati i meccanismi previsti per garantire il corretto riparto di competenze tra Corte e Tribunale. In una seconda parte, sono esaminate le norme di cui il Tribunale si è dotato per assicurare che le domande pregiudiziali trasferite dalla Corte siano trattate alle stesse condizioni garantite da quest’ultima. Questa scelta metodologica riposa sulla convinzione della necessità di mettere in evidenza le modifiche dello statuto che più sono suscettibili di avere un impatto sull’attività dei giudici nazionali, i quali svolgono dagli albori del processo d’integrazione un ruolo centrale per il suo corretto funzionamento.
3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento.
La corretta attuazione della riforma è ancorata a tre meccanismi di controllo, che operano ex ante, il sopraccitato sportello unico, in itinere, attraverso la possibilità riconosciuta al Tribunale di rinviare alla Corte una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione che richiede una decisione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea, ed ex post, per mezzo della facoltà accordata alla Corte di riesaminare le decisioni rese dal Tribunale. Il primo meccanismo è stato introdotto con il reg. 2014/2019, il secondo e il terzo, invece, erano già previsti nel diritto primario dal Trattato di Nizza, che aveva prefigurato la possibilità che il Tribunale fosse competente a conoscere le domande pregiudiziali.
3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico.
Lo sportello unico, il meccanismo, prefigurato in termini generali all’art. 50 ter, 3° c., statuto, trova la sua disciplina di dettaglio all’art. 93 bis RP Corte. Tale articolo prevede che una domanda pregiudiziale sia immediatamente trasmessa dal cancelliere al presidente, al vicepresidente e al primo avvocato generale, ipotizzando due scenari: il primo, nel quale, sentiti il vicepresidente e il primo avvocato generale, il presidente conclude che la domanda pregiudiziale riguarda esclusivamente una delle sei materie individuate all’art. 50 ter, 1° c., statuto e quindi ne informa la cancelleria perché la trasferisca al Tribunale; il secondo, nel quale, sentiti gli altri due membri, il presidente può ritenere che la domanda pregiudiziale riguardi anche altre materie o sollevi questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE. In questa ipotesi, senza indugio, il presidente deferisce la questione alla Riunione Generale. Se quest’ultima conferma l’impressione del presidente, la domanda è trattata dalla Corte, in caso contrario, essa è trasmessa al Tribunale. L’articolo precisa poi che in caso di trasferimento al Tribunale, la cancelleria della Corte informa il giudice del rinvio della decisione.
Rispetto allo sportello unico, disciplinato dall’art. 93 bis RP Corte, il cui fondamento[29] e composizione[30] non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina, due questioni meritano in questa sede di essere esaminate relative alle modalità concrete delle sue valutazioni e alla percezione che le giurisdizioni nazionali potrebbero avere del suo funzionamento.
In primo luogo, è lecito interrogarsi sulle modalità concrete della valutazione che lo sportello unico è chiamato a svolgere. Innanzitutto, va rilevato che l’art. 50 ter statuto individua due criteri: un primo, oggettivo, desumibile dal 1° comma – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – e, un secondo, previsto al 2° comma dello stesso articolo, che può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento, in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE.
Il primo criterio non dovrebbe sollevare particolari difficoltà interpretative. Una domanda pregiudiziale che, esulando dal perimentro delle sei materie sopraccitate, sconfini in altre materie, che restano di competenza della Corte, non deve essere trasferita. Il secondo criterio, invece, potrebbe risultare più problematico, poiché al netto di riferimenti al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla CdfUE, effettuati dal giudice a quo, il meccanismo di cui all’art. 94 bis RP Corte dovrebbe valutarne l’effettiva pertinenza per la soluzione del quesito pregiudiziale rivolto alla Corte. In termini generali, e per non pregiudicare l’obiettivo della riforma stessa, sarebbe auspicabile che la Corte effettuasse un’interpretazione che, nel rispetto del dettato statutario, garantisca il trasferimento del maggior numero di domande al Tribunale.
Ad ogni buon conto, le prime risposte a questo profilo potenzialmente problematico dovrebbero aversi entro un anno dall’entrata in vigore della riforma, tenuto conto che l’art. 3, par. 1, reg. 2024/2019 prevede che, a partire da tale termine, la Corte pubblicherà e aggiornerà un elenco di esempi relativi all’applicazione dell’applicazione dell’art. 50 ter statuto. Queste pubblicazioni consentiranno quindi di avere un riscontro sul funzionamento dello sportello unico.
In secondo luogo, l’analisi dello sportello unico consente di svolgere qualche considerazione su una problematica individuata dalla dottrina legata alla possibile “reazione” delle giurisdizioni nazionali rispetto al meccanismo in parola. In effetti, alcuni autori hanno osservato che il trasferimento delle domande dalla Corte al Tribunale potrebbe essere percepito dalla giurisdizione remittente come, in sostanza, un declassamento del rilievo del suo quesito, che avrebbe per effetto di disincentivare il ricorso a questo strumento vitale per l’ordinamento giuridico dell’Unione[31]. Ora, benchè la questione non sia stricto sensu giuridica, è innegabile che essa non sia priva di interesse. In proposito, solo la prassi potrà chiarire se, in concreto, il timore si rivelerà fondato o meno. Resta il fatto che nella valutazione effettuata dal giudice a quo sull’opportunità di rivolgersi a quelli del Kirchberg non dovrebbero rilevare considerazioni extra‑giuridiche, nella misura in cui il rinvio pregiudiziale risponde alla necessità di ottenere una risposta per la soluzione concreta di una causa pendente[32]. Peraltro, non va dimenticato che tutte le giurisdizioni sono tenute ad agire nel rispetto del principio di leale cooperazione, con la conseguenza che il sottrarsi a questo esercizio di diaologo in ragione della pretesa mancanza di attrattività di un rinvio pregiudiziale trasmesso al Tribunale non sarebbe conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione[33]. Inoltre, la capacità predittiva della giurisdizione remittente circa la decisione della Corte di trasferire o meno la domanda pregiudiziale al Tribunale va relativizzata. Infatti, se è vero che il criterio desumibile dall’art. 50 ter, 1° c., statuto – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – è oggettivo, quello previsto al 2° comma dello stesso articolo – in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE – può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento. In definitiva, rispetto a questo secondo criterio, il giudice a quo, che decidesse di rivolgere un quesito pregiudiziale alla Corte non saprà necessariamente quale giurisdizione lo tratterà, con la conseguenza che i timori espressi potrebbero risultare in concreto infondati.
Ad ogni buon conto, al netto delle due questioni appena esaminate, è auspicabile che lo sportello unico possa funzionare con una certa celerità. In effetti, chi scrive è dell’avviso che per essere considerato soddisfacente, esso dovrebbe essere capace di garantire il trasferimento della domanda pregiudiziale non più tardi entro un mese dal suo deposito presso la cancelleria della Corte.
3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte.
Per quanto riguarda il meccanismo di controllo in itinere, esso trova fondamento all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, il quale dispone che «[i]l Tribunale, ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l'unità o la coerenza del diritto dell’Unione, può rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia affinché si pronunci” Anche in questo caso, questa previsione di carattere generale è dettagliata all’art. 207 RP Trib., dedicato ai Rinvii dinanzi alla Corte[34] e, segnatamente ai parr. 3 e 4 di tale articolo, dai quali si evince che, la sezione investita della causa, in qualsiasi momento del procedimento, e il presidente o il vicepresidente[35], sentito l’avvocato generale, possono proporre alla Conferenza Plenaria il rinvio previsto dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, che decide, se rinviarla alla Corte. In proposito, è interessante rilevare che tanto l’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE che l’art. 207, par. 3, RP Trib. sembrano conferire alla Conferenza Plenaria una semplice facoltà di rinviare la causa alla Corte[36]. In realtà, se la Conferenza Plenaria dispone di un’assoluta discrezionalità nel valutare se le condizioni individuate all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE sono soddisfatte, qualora concluda in tal senso, malgrado il fatto che l’articolo in parola si limiti a prevedere la facoltà di trasferire la causa alla Corte, il rinvio a quest’ultima appare essere la soluzione più coerente con l’impianto complessivo della riforma.
3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame.
Infine, il controllo ex post sulle decisioni che il Tribunale renderà nell’ambito delle domande pregiudiziali trasferitegli si realizza attraverso la procedura di riesame. In proposito, è utile ricordare che il RP Corte già prevedeva un titolo, il Sesto, relativo a questo rimedio eccezionale che, fino alla dissoluzione del Tribunale della funzione pubblica (TFP) trovava applicazione nell’ipotesi di pronunce del Tribunale rese nell’ambito dell’impugnazione avverso le decisioni adottate da questa giurisdizione specializzata, conformemente all’art. 193 RP Corte[37]. L’ipotesi di riesame di una decisione resa dal Tribunale era (e resta), invece, disciplinata all’art. 194 RP Corte[38].
Malgrado la disciplina del riesame delle pronunce pregiudiziali fosse già contemplata nel RP Corte, la Corte ha ritenuto necessario apportare un’integrazione, inserendo l’art. 193 bis, consacrato all’Assenza di una proposta di riesame. La disposizione in parola prevede che allo scadere del mese previsto dall’art. 62, 2° c., statuto, se il Primo avvocato generale non formula alcuna proposta di riesame, il cancelliere ne informa immediatamente il Tribunale, che a sua volta lo comunica al giudice del rinvio e agli interessati menzionati dall’art. 23 statuto. Questa precisazione risponde ad esigenze di celerità e di buona amministrazione della giustizia, poiché le decisioni rese dal Tribunale spiegano i loro effetti solo alla scadenza del termine contenuto all’art. 62, 2° c., statuto, con la conseguenza che appare utile informare il prima possibile le parti dinanzi al Tribunale del carattere assunto dalla decisione adottata da quest’ultimo. Su questo aspetto, si ritornerà in conclusione del presente paragrafo.
A parte l’inserimento di questa disposizione integrativa, due aspetti del riesame nell’ambito del rinvio pregiudiziale meritano di essere segnalati. Innanzitutto, a differenza del riesame di una decisione del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni avverso una pronuncia del TFP, in cui, dopo avere annullato siffatta decisione, la Corte poteva decidere di rinviare la causa al Tribunale, in materia pregiudiziale, per espressa previsione dell’art. 62 ter, 2° c., statuto, il procedimento si conclude con la sentenza della Corte che si sostituisce a quella del Tribunale. La ratio di questa differenza è senza dubbio da ricercare nella diversa natura del rinvio pregiudiziale rispetto ai ricorsi diretti, che si riverbera sul riesame. Nella prima ipotesi, la Corte sarà chiamata a “correggere” la decisione del Tribunale e, per evitare di contribuire all’eccessivo allungamento della procedura dinanzi al giudice a quo, si pronuncerà direttamente sulla domanda rivolta da quest’ultimo. Nella seconda ipotesi, invece, la Corte interveniva annullando una sentenza resa dal Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni, con la conseguenza che, nella logica del ricorso diretto in cui tale annullamento si inseriva, era naturale che essa rinviasse la causa al Tribunale perché la risolvesse, applicando i principi stabiliti nel riesame.
Inoltre, sarà interessante valutare l’approccio che la Corte adotterà rispetto alla proposta del Primo Avvocato generale di avviare la procedura di riesame in presenza di «rischi per la coerenza e l’unità del diritto dell’Unione europea». Alcuni elementi di comparazione esistono. In primo luogo, con riguardo al riesame delle decisioni del Tribunale adottate da quest’ultimo in qualità di giudice delle impugnazioni, in una decisione di principio, Petrilli c. Commissione, la Corte aveva definito in termini piuttosto restrittivi i limiti del proprio intervento rispetto alle pronunce del Tribunale[39]. In secondo luogo, sebbene con le cautele dovute in ragione della diversa natura del procedimento che si instaura, qualche spunto può essere offerto anche dalla prassi relativa al meccanismo di filtro, nell’ambito del quale l’impugnazione è ammessa se «solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione»[40]. Malgrado questi possibili elementi di comparazione, è lecito supporre che, tenendo conto della funzione del rinvio pregiudiziale[41], la Corte valuterà con una particolare attenzione eventuali proposte di riesame del Primo avvocato generale. In effetti, a differenza del riesame delle decisioni rese dal Tribunale avverso pronunce adottate dal TFP e dell’ammissione preventiva delle impugnazioni che rilevano del contenzioso diretto, nel caso di una sentenza pregiudiziale, a causa degli effetti da essa prodotti[42], si impone all’evidenza la necessità di intervenire per evitare che “circolino” nell’ordinamento giuridico dell’Unione decisioni suscettibili di arrecare pregiudizio alla coerenza e unità di tale ordinamento[43].
L’analisi di questi tre meccanismi consente di svolgere alcune considerazioni sulla potenziale incidenza che essi avranno sui giudici nazionali. Per quanto riguarda il primo meccanismo, è utile osservare che per il giudice a quo, nulla cambia in termini procedurali. In effetti, la domanda pregiudiziale continua a essere depositata presso la cancelleria della Corte. Nondimeno, lo sportello unico non può essere considerato neutro, nella misura in cui dalla valutazione che esso effettuerà, dipenderà la determinazione della giurisdizione competente a trattare la domanda.
Lo stesso può dirsi, in sostanza, per il secondo meccanismo, poiché l’iniziale attribuzione di una domanda pregiudiziale al Tribunale può essere rimessa in discussione da quest’ultimo, qualora le condizioni previste dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE risultino soddisfatte.
Infine, è sicuramente il terzo meccanismo consistente nella procedura di riesame a essere potenzialmente lo strumento suscettibile di impattare maggiormente sul giudice del rinvio. Quest’ultimo, che al momento della pronuncia di una sentenza pregiudiziale resa dalla Corte, può immediatamente applicarne gli insegnamenti al giudizio pendente, dovrà “famigliarizzare” con una situazione nuova. La sentenza del Tribunale, infatti, come già sopraosservato non produce effetti immediatamente. Il giudice nazionale dovrà quindi attendere la reazione del Primo Avvocato Generale. Qualora quest’ultimo decida di non proporre il riesame, la sentenza del Tribunale potrà spiegare i suoi effetti. Nel caso in cui il Primo avvocato generale proponga il riesame, sarà necessario attendere la decisione della Corte. Se ques’ultima dovesse decidere di riesaminare la decisione, il giudice nazionale dovrà attendere la conclusione di tale procedimento. In proposito, va peraltro ricordato che dall’art. 194 RP Corte si evince che nel caso in cui il Tribunale abbia fornito più risposte, il riesame può vertere solo su alcune di esse. Se poi, all’esito del riesame, integrale o parziale della decisione del Tribunale, la Corte dovesse concludere che essa pregiudica l’unità o la coerenza dell’Unione europea, la soluzione formulata dalla Corte in merito alle questioni oggetto di riesame si sostituirà a quella del Tribunale.
3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale.
Un altro asse fondamentale della riforma relativa al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale riguarda la garanzia che dinanzi a quest’ultimo le questioni sollevate dai giudici nazionali ottengano lo stesso trattamento di quello offerto davanti alla Corte. Questa necessità, fin dall’inizio considerata imprescndibile dalla Corte nella sua proposta, è stata accolta favorevolmente[44]. Per raggiungere questo obiettivo di « specularità » sono state apportate una serie di modifiche statutarie, da un lato, al fine di dotare il Tribunale della figura dell’Avvocato generale per default nell’ambito dei procedimenti pregiudiziali, visto che tale figura dinanzi a questa giurisdizione è prevista solo come facoltativa nei ricorsi diretti, attraverso l’inserimento dell’art. 49 bis statuto. Tale articolo prevede che, in primo luogo, un giudice può essere eletto A.G. le per un periodo di tre anni, rinnovabile una sola volta, e, in secondo luogo, nel corso del suo mandato di A.G., questo giudice continua a partecipare ai collegi giudicanti nel contenzioso diretto della sezione di appartenenza, ma non può integrare i collegi competenti a decidere le domande pregiudiziali. Dall’altro, il già citato art. 50 ter, 4° c., statuto impone l’obbligo in capo al Tribunale di dotarsi di sezioni specializzate per il trattamento delle domande pregiudiziali, disponendo che «[tali domande] di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
Queste due modifiche hanno naturalmente necessitato un intervento significativo sul RP Trib. in precedenza in vigore del quale si da conto di seguito, dopo avere offerto qualche elemento di comprensione quanto al tema della specializzazione del Tribunale.
In proposito, è utile ricordare che la specializzazione non è una novità per il Tribunale[45]. In effetti, oltre ad alcune esperienze pregresse[46], dal 2019, data di conclusione della riforma che ha visto il raddoppio dei suoi membri e la dissoluzione del TFP, il Tribunale è composto da dieci sezioni, di cui sei specializzate in proprietà intellettuale e quattro in funzione pubblica[47]. Questa specializzazione trova fondamento nell’art. 25, par. 1, seconda frase, RP Trib.[48], una norma abilitante, che consente al Tribunale di decidere se e come specializzarsi in determinate materie. Diversamente, in ossequio alla previsione contenuta all’art. 50 ter, 4° c., statuto, l’art. 25, par. 2, terza frase, RP Trib.[49] impone, come appena evidenziato, la specializzazione in materia pregiudiziale come un obbligo e non come una facoltà.
Per quanto riguarda le modalità concrete della specializzazione in ambito pregiudiziale, in primo luogo, sebbene in via transitoria, fino al settembre 2025, data di rinnovo parziale del Tribunale, esso ha optato per la creazione di una sezione ad hoc[50], presieduta dal vicepresidente e composta da dieci membri, che si riunisce, in linea di principio, con cinque giudici, designati secondo un sistema di rotazione[51]. In secondo luogo, contrariamente ai ricorsi diretti, per i quali la sezione standard del Tribunale è fissata a tre giudici, al pari di quanto previsto dinanzi alla Corte, l’art. 26, par. 1, reg. proc. Trib. prevede che le domande pregiudiziali siano attribuite per default a una sezione composta da cinque membri. In terzo luogo, in ragione, da un lato, della specularità del procedimento garantito dinanzi al Tribunale nell’ambito del trattamento delle domande pregiudiziali in virtù del quale il collegio per default è fissato a cinque membri e, dall’altro, della volontà di assicurare, anche in tale ambito, agli Stati membri e alle Istituzioni il diritto riconosciuto loro nel quadro del contenzioso diretto di richiedere che una causa sia conosciuta da una formazione composta da almeno cinque membri in luogo di quella standard costituita da tre giudici, il RP Trib. prevede che, se una richiesta in tal senso è presentata dagli Stati membri e dalle Istituzioni, la sopraccitata Sezione Intermedia deve essere automaticamente investita di una domanda pregiudiziale[52]. In quarto luogo, in applicazione del principio contenuto al testé citato art. 49 bis statuto, è stato inserito l’art. 31 bis reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i giudici eleggono, tra loro, quelli chiamati a svolgere la funzione di Avvocato generale. Anche per l’elezione degli Avvocati generali per il trattamento delle domande pregiudiziali, il Tribunale ha optato per una fase transitoria. Infatti, conformemente all’art. 246, par. 7, reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i primi giudici che esercitano le funzioni di A.G. sono eletti subito dopo il 1° settembre 2024 e il loro mandato scade in occasione del sopraccitato rinnovo parziale previsto nel settembre 2025, il Tribunale ha adottato una decisione in tal senso[53].
4. Osservazioni conclusive.
Alla luce dell’analisi effettuata, è possibile svolgere alcune brevi riflessioni finali, da un lato, sulle prospettive future di evoluzione della CGUE e, dall’altro, sull’impatto della riforma appena entrata in vigore sulle giurisdizioni nazionali.
Con riguardo al primo tema, vari autori considerano che il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale segni una tappa fondamentale del processo di costituzionalizzazione della Corte[54]. In realtà, il trasferimento, anche se parziale, della “chiave di volta” del sistema[55], del backbone dell’ordinamento giuridico dell’Unione[56], avrebbe potuto essere considerato una tendenza opposta alla costituzionalizzazione di questa giurisdizione[57]. Ciò che invece consente di considerare la riforma appena entrata in vigore un punto di svolta in questo processo è la circostanza che, oltre a realizzarsi in base a dei controlli in itinere ed ex post, già previsti nel diritto primario, consistenti, rispettivamente, nella possibilità per il Tribunale di rinviare una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea e nella facoltà di riesaminare le decisioni del Tribunale, tale trasferimento è stato ancorato a un controllo ex ante, attraverso il meccanismo dello sportello unico. Questo “Cortecentrismo”[58], da un lato, è stato la precondizione per l’accoglimento della proposta e, dall’altro, esprime il ruolo che la Corte si avvia ad assumere[59].
Questa ultima considerazione offre altresì l’occasione per mettere la presente riforma in prospettiva rispetto alle due precedenti del 2015 e del 2018, che risultano strumentali ad essa. Nel raddoppiare il numero dei membri del Tribunale, la riforma del 2015 ha potenziato le sue capacità di funzionamento ben al di là della necessità di alleviare il suo carico di lavoro e intervenire sui suoi ritardi, creando quindi le condizioni per un progressivo alleggerimento della Corte. A sua volta, la proposta di riforma del 2018 perseguiva, nel complesso, l’obiettivo di alleviare il carico di lavoro della Corte nell’ambito nei ricorsi diretti, peraltro già in larga parte di competenza del Tribunale. Infatti, a questo rispondeva la logica di introdurre il meccanismo di filtro per limitare la funzione della Corte in qualità di giudice delle impugnazioni e di devolvere al Tribunale il trattamento di alcuni procedimenti d’infrazione[60]. Com’è noto, questo secondo asse della proposta di riforma non è stato accettato, ma non è inverosimile ipotizzare che se lo fosse stato, la devoluzione dei ricorsi in infrazione sarebbe stata estesa negli anni a venire. Ora, il mancato accoglimento di questa parte della proposta del 2018 spiega, in parte, il trasferimento al Tribunale di alcune competenze pregiudiziali, che risponde indubbiamente a un approccio pragmatico[61].
In linea con questo approccio, è possibile immaginare che nel breve/medio periodo potrebbero avere luogo, da un lato, l’ulteriore estensione del meccanismo del filtro e, dall’altro, il trasferimento di nuove materie dalla Corte al Tribunale nell’ambito della competenza pregiudiziale, come preconizza l’art. 3, par. 2, reg. 2024/2019[62]. Se così fosse, sarebbe sviluppato un modello che rientrerà (ancora) nel perimetro stabilito dal diritto primario, ma che proietterebbe la CGUE sempre più verso i limiti stabiliti dai trattati. In effetti, ad oggi, tanto il meccanismo di filtro, peraltro non previsto esplicitamente dai trattati, che il trasferimento di una parte delle domande pregiudiziali, sono da considerarsi eccezioni alla regola. Nel momento in cui il paradigma si rovesciasse, e queste eccezioni diventassero la norma, i limiti definiti dal diritto primario sarebbero sorpassati e la necessità di intervenire con una revisione ex art. 48 TUE delle regole previste nel diritto primario sarebbe indispensabile[63].
Con riguardo all’impatto che la riforma appena entrata in vigore avrà sulle giurisdizioni nazionali, due ordini di considerazioni si impongono. In primo luogo, è innegabile che, in termini strutturali, il fatto che la Corte, la quale ha da sempre detenuto il monopolio della competenza pregiudiziale, la condivida ora con il Tribunale, può essere fonte, a vario titolo, di perplessità per il giudice nazionale. Tuttavia, l’analisi svolta ha evidenziato che in ragione della rilevanza strutturale del trasferimento di alcune competenze pregiudiziali al Tribunale, il trasferimento in parola è stato assicurato attraverso la predisposizione di meccanismi di controllo ad ogni livello e la garanzia che dinanzi al Tribunale le domande pregiudiziali avranno lo stesso trattamento di quelle davanti alla Corte. In questo contesto è quindi auspicabile che i timori espressi da taluni sul fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero ridurre il ricorso allo strumento pregiudiziale nelle sei materie trasferite al Tribunale non trovino seguito nell’attività quotidiana di tali giurisdizioni.
In secondo luogo, da un punto di vista strettamente giuridico in relazione alla gestione delle cause che hanno originato la domanda alla Corte e, più in generale, in virtù del carattere erga omnes[64] delle pronunce dei giudici del Kirchberg, il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie apre a una nuova fase delle relazioni tra CGUE e giurisdizioni nazionali. Come osservato nel par. 3.1.3. supra, infatti, a differenza delle decisioni rese dalla Corte, quelle del Tribunale non spiegano i propri effetti il giorno della pronuncia, poiché tali decisioni possono essere oggetto di riesame. Anche in questa ipotesi, sebbene sia auspicabile che negli anni a venire la Corte adoperi questo strumento eccezionalmente[65], lo statuto disciplina in modo esaustivo tutti i possibili scenari in modo da garantire che non sussistano lacune o dubbi sugli effetti delle sentenze pregiudiziali, in ragione della loro funzione fondamentale nell’ordinamento giuridico dell’Unione.
In definitiva, il successo della riforma appena entrata in vigore dipenderà, da un lato, dalla capacità della Corte di fare una corretta applicazione dello sportello unico e laddove necessario della procedura di riesame e, dall’altro, da quella del Tribunale nel calarsi nell’esercizio di questa nuova competenza. Nondimeno, per entrambe le giurisdizioni sarà fondamentale che i giudici nazionali non facciano mancare il loro apporto, continuando a ricorrere al rinvio pregiudiziale, uno strumento vitale per l’integrazione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri.
L’autore si esprime a titolo strettamente personale e non impegna l’Istituzione di appartenenza.
[1] GUUE L, 2024/2019, 12.08.2024, pp. 1-8.
[2] Per un primo commento a questa riforma v. M. Condinanzi, C. Amalfitano, Il Tribunale oltre il pregiudizio: le pregiudiziali al Tribunale, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024; R. Mastroianni, Il trasferimento delle questioni pregiudiziali al Tribunale: una riforma epocale o un salto nel buio?, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 1-28; M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74; D. Sarmiento, Gaps and ‘Known Unknowns’ in the Transfer of Preliminary References to the General Court, ivi; The 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice of the EU. October 2024, consultabile su EULawLive.
[3] GUUE L, 2024/2094, 12.08.2024, pp. 1-7.
[4] GUUE L, 2024/2095, 12.08.2024, pp. 1-22.
[5] Rispettivamente in GUUE L, 2024/2173, 30.08.2024 e GUUE L, 2024/2097, 12.08.2024. Per un primo commento delle Istruzioni pratiche alle parti dinanzi alla Corte v. M. Puglia, Istruzioni pratiche alle parti relative alle cause proposte dinanzi alla Corte: le principali novità, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[6] In proposito, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74. In effetti, i regolamenti di procedura delle due giurisdizioni sono stati modificati innanzitutto per dare esecuzione agli emendamenti apportati allo Statuto concernenti il trasferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie. Sono stati effettuati, poi, degli interventi comuni sui due regolamenti di procedura, debitori della discussione sorta a seguito della domanda legislativa, relativi agli interessati che possono depositare memorie od osservazioni ai sensi dell’art. 23 Statuto e al loro regime di pubblicità. Infine, la Corte e dal Tribunale hanno apportato modifiche ai loro regolamenti di procedura indipendentemente da tale domanda e dal dibattito che ne è scaturito. In definitiva, le due giurisdizioni hanno sfruttato l’occasione rappresentata dalla riforma, da un lato, per inserire una nuova disposizione, comune, avente ad oggetto la trasmissione delle udienze e, dall’altro, per integrare, precisare e chiarire la portata di altre disposizioni, alla luce della loro prassi applicativa.
[7] Per un primo commento di tale documento v. G. Grasso, La riforma del rinvio pregiudiziale e le nuove raccomandazioni ai giudici nazionali, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[8] Cfr. art. 210 RP Corte.
[9] Cfr. art. 246, par. 2 RP Trib.
[10] Sulle ragioni soggiacenti la creazione del Tribunale di prima istanza (poi Tribunale), v. M. Jaeger, 25 Years of the General Court – Looking Back and Forward, cit., pp. 3-38.
[11] Cfr. la Domanda presentata dalla Corte di giustizia, ai sensi dell’articolo 281, secondo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di modificare il Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, p. 3 (https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15936-2022-INIT/it/pdf).
[12] Ibid., pp. 3 e 4.
[13] Sul cd. meccanismo di filtro delle impugnazioni v. C. Amalfitano, Note critiche sulla recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, in DUE, 2019, p. 29 ss.; M.A. Gaudissart, L’admission préalable des pourvois: une nouvelle procédure pour la Cour de justice, in CDE, 2020, p. 177 ss.; A. Gentile, One Year of Filtering before the Court of Justice of the European Union, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2020, p. 807 ss.; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering of Certain Categories of Appeals before the Court of Justice, in European Intellectual Property Review, 2020, p. 426 ss.; P. Iannuccelli, L’ammissione preventiva delle impugnazioni contro le decisioni del Tribunale dell’Unione europea ex art. 58 bis dello Statuto: una prima valutazione e le eventuali applicazioni future, in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione europea alla ricerca di un assetto efficiente e (in)stabile: dall’incremento della composizione alla modifica delle competenze, Milano, 2022, pp. 117-142; C. Oró Martínez, The Filtering of Appeals by the Court of Justice: Taking Stock of the Two First Orders Allowing an Appeal to Proceed, in Weekend EU Law Live Edition, 2022, n. 112; L. De Lucia, New Developments Concerning Article 58a of the Statute of the Court of Justice of the European Union, in EU Law Live, 21/03/2023; K. Bradley, The Court of Justice Appeal Filter Mechanism and Effective Judicial Protection: Throwing Out the Baby With the Bathwater?, in EU Law Live, 1/07/2024; R. Torresan, Filtering Appeals over Decisions Originally Taken by Boards of Appeal: Rationale, Impact and Possible Evolution of Article 58a of the CJEU Statute, 2024.
[14] La Corte ha proposto di estendere il meccanismo in parola alle pronunce del Tribunale avverso le decisioni adottate da commissioni di ricorso che già esistevano al momento dell’entrata in vigore al 1° maggio 2019, ma che non figuravano nella lista dell’art. 58 bis, e a quelle rese nei ricorsi introdotti conformemente a una clausola compromissoria sulla base dell’art. 272 TFUE.
[15] In prima battuta, la proposta riguardava solo il Parlamento europeo. Di seguito, è stata estesa al Consiglio e alla Banca Centrale europea.
[16] Cfr. l’art. 49 bis statuto secondo il quale «[i]l Tribunale è assistito da uno o più avvocati generali nel trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale che gli sono trasmesse a norma dell’articolo 50 ter.
I giudici del Tribunale eleggono tra loro, conformemente al regolamento di procedura del Tribunale, i membri chiamati a svolgere le funzioni di avvocato generale. Durante il periodo in cui tali membri esercitano le funzioni di avvocato generale, essi non fanno parte del collegio giudicante nelle domande di pronuncia pregiudiziale.
Per ciascuna domanda di pronuncia pregiudiziale, l’avvocato generale è scelto tra i giudici eletti per esercitare tale funzione che appartengono a una sezione diversa da quella alla quale la domanda in questione è stata attribuita.
I giudici chiamati a esercitare le funzioni di cui al secondo comma sono eletti per un periodo di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta».
[17] Cfr. l’art. 50 statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale si riunisce in sezioni, composte di tre o cinque giudici. I giudici eleggono nel loro ambito i presidenti delle sezioni. I presidenti delle sezioni di cinque giudici sono eletti per una durata di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta.
Il Tribunale può altresì riunirsi in grande sezione, in sezione intermedia tra le sezioni di cinque giudici e la grande sezione o statuire nella persona di un giudice unico.
Il regolamento di procedura determina la composizione delle sezioni nonché i casi e le condizioni in cui il Tribunale si riunisce in tali diversi organi giudicanti.
Il Tribunale, quando è adito ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si riunisce in sezione intermedia su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione dell’Unione che è parte nel procedimento».
[18] Per la composizione di tale Sezione, costituita dal vicepresidente del Tribunale, che la presiede, ed altri otto membri v. Composizione della Grande Sezione e della Sezione Intermedia (2024/6452), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[19] La Corte ha individuato le sei materie in base a quattro caratteristiche: la loro identificabilità e distinguibilità; la sostanziale assenza di questioni di principio; l’esistenza di una giurisprudenza consolidata; infine, il fatto che, prese nel loro insieme, tali materie garantivano un volume significativo di quesiti pregiudiziali capace di alleggerire in concreto il carico della Corte. In effetti, la Corte ha evidenziato che sommate tra loro queste sei materie costituivano circa il 20% delle domande pregiudiziali mediamente introdotte. La scelta delle materie non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina. Per una ricostruzione completa delle discussioni sulle materie trasferibili dalla Corte al Tribunale precedenti alla riforma attuale v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 518, nota 55. Quanto alle materie individuate dalla Corte nella sua proposta, alcuni autori considerano, in sostanza, giustificabile l’approccio della Corte (S. Iglesias Sánchez, Preliminary Rulings, cit., pp. 6-8), mentre altri, in termini più (M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court: What Judicial Architecture for the European Union?, in CMLR, 2023, p. 1521) o meno critici (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 528-530) hanno mosso dei rilievi alla scelta della Corte.
[20] Cfr. l’art. 50 ter statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale è competente a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale, sottoposte ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che rientrino esclusivamente in una o più delle seguenti materie specifiche:
a) il sistema comune di imposta sul valore aggiunto;
b) i diritti di accisa;
c) il codice doganale;
d) la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata;
e) la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri in caso di negato imbarco o
di ritardo o cancellazione di servizi di trasporto;
f) il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra.
In deroga al primo comma, la Corte di giustizia conserva la competenza a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale che sollevano questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della C[dfUE].
Ogni domanda sottoposta ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è presentata dinanzi alla Corte di giustizia. Dopo aver verificato, quanto prima possibile e secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura, che la domanda di pronuncia pregiudiziale rientri esclusivamente in una o più materie di cui al primo comma del presente articolo, la Corte di giustizia trasmette tale domanda al Tribunale.
Le domande di pronuncia pregiudiziale di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
[21] Cfr. l’art. 54, 2° c., statuto, il quale dispone che «[q]uando il Tribunale constata di essere incompetente a conoscere di un ricorso o di una domanda di pronuncia pregiudiziale che rientri nella competenza della Corte di giustizia, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultima. Allo stesso modo, quando la Corte di giustizia constata che un ricorso o una domanda di pronuncia pregiudiziale rientra nella competenza del Tribunale, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultimo, che non può in tal caso declinare la propria competenza».
[22] Cfr. l’art. 58 bis statuto in forza del quale «[l]’esame delle impugnazioni proposte contro le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente di uno dei seguenti organi e organismi dell’Unione è subordinato alla loro ammissione preventiva da parte della Corte di giustizia:
a) Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale;
b) Ufficio comunitario delle varietà vegetali;
c) Agenzia europea per le sostanze chimiche;
d) Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea;
e) Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia;
f) Comitato di risoluzione unico;
g) Autorità bancaria europea;
h) Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati;
i) Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali;
j) Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie.
La procedura di cui al primo comma si applica altresì alle impugnazioni proposte contro:
a) le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente, istituita dopo il 1º maggio 2019 in seno ad ogni altro organo o organismo dell’Unione, che deve essere adita prima di poter proporre un ricorso dinanzi al Tribunale;
b) le decisioni del Tribunale relative all’esecuzione di un contratto contenente una clausola compromissoria, ai sensi dell’articolo 272 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’impugnazione è ammessa, in tutto o in parte, in osservanza delle modalità precisate nel regolamento di procedura, quando essa solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione.
La decisione relativa all’ammissione o meno dell’impugnazione deve essere motivata ed è pubblicata».
[23] Nella proposta legislativa, la Corte ha osservato che le cause promosse dinanzi al Tribunale in forza di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato a nome o per conto dell’Unione richiedono al Tribunale di applicare al merito della controversia il diritto nazionale al quale fa riferimento la clausola compromissoria e non di applicare il diritto dell’Unione. Partendo da questa constatazione, la Corte ha concluso che le impugnazioni proposte in tale ambito non sollevano, in linea di principio, questioni importanti per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione, con la conseguenza che alle pronunce che mettono fine all’istanza decise dal Tribunale per questa tipologia di ricorsi può essere applicata alla procedura di ammissione preventiva delle impugnazioni di cui all’art. 58 bis statuto.
[24] Peraltro, va osservato che, sebbene subordinata alla creazione di commissioni di ricorso sul modello di quelle esistenti, la dottrina ha già individuato nel contenzioso della funzione pubblica e in quello dell’accesso ai documenti due materie che in futuro potrebbero fare l’oggetto del meccanismo di filtro. Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court in the Institutional Framework of the Union, in Weekend EU Law Live Edition, 2021, n. 81, pp. 25 e 26.
[25] In proposito, va osservato che, in primo luogo, al netto di questo riferimento all’“interesse particolare” che Parlamento europeo, BCE e Consiglio devono avere per depositare memorie od osservazioni scritte, è lecito supporre che la dimostrazione di tale interesse non sarà una vera e propria condizione sottoposta al vaglio della Corte e del Tribunale. Al contrario, è immaginabile che entrambe le giurisdizioni valuteranno questo interesse in termini piuttosto favorevoli nei confronti delle tre Istituzioni. In secondo luogo, non può tacersi la circostanza che, aumentando il volume dei documenti processuali che dovranno essere esaminati dalle due giurisdizioni, l’apertura al Parlamento europeo, alla BCE e al Consiglio della possibilità di depositare memorie od osservazioni potrebbe determinare un allungamento della durata dei procedimenti. Tuttavia, quanto all’effettiva incidenza di questa estensione sulla durata dei procedimenti, soltanto la prassi applicativa di queste disposizioni fornirà utili elementi per trarne le conseguenze.
[26] Inizialmente, la proposta del Parlamento europeo, non era limitata al procedimento pregiudiziale e configurava un diritto all’accesso dei documenti processauli. Sebbene nella proposta il Parlamento europeo avesse espresso la convinzione della necessità di garantire l’accesso ai documenti senza sacrificare la confidenzialità e la segretezza degli atti processuali, in concreto, sarebbe stato molto complesso e problematico garantirne l’esecuzione, in particolare nell’ambito del contenzioso diretto. Innanzitutto, non può tacersi che questo accesso agli atti processuali, tanto di procedimenti conclusi ma ancor più di procedimenti pendenti, avrebbe sollevato delicati problemi di coordinamento con l’art. 15, par. 3, quarta frase, TFUE, secondo il quale «[l]a Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Banca europea per gli investimenti sono soggette al [principio di trasparenza] soltanto allorché esercitano funzioni amministrative». Inoltre, l’accesso preconizzato dal Parlamento europeo avrebbe creato difficoltà anche rispetto ai principi stabiliti dalla Corte, la quale ha giudicato che «le limitazioni all’applicazione del principio di trasparenza per quanto concerne l’attività giurisdizionale perseguono la medesima finalità, vale a dire quella di garantire che il diritto d’accesso ai documenti delle istituzioni sia esercitato senza arrecare pregiudizio alla tutela delle procedure giurisdizionali [… rilevando] in proposito che la tutela di tali procedure implica, segnatamente, che sia garantita l’osservanza dei principi della parità delle armi nonché della buona amministrazione della giustizia». Cfr. Corte giust., 21 settembre 2010, cause riunite C 514/07 P, C 528/07 P e C 532/07 P, Svezia e a. c. API e Commissione, ECLI:EU:C:2010:541, punti 84 e 85.
[27] Con riguardo alla disciplina in concreto del regime di pubblicità, essa rappresenta un non facile equilibrio tra la ragione del suo inserimento, ossia l’accesso rapido e semplice all’insieme dei documenti depositati nell’ambito del procedimento pregiudiziale e il rispetto della manifestazione di volontà degli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di non vedere pubblicate le loro memorie od osservazioni. È inutile nascondere che l’equilibrio raggiunto sembra prediligere il secondo rispetto al primo. Certo, l’opposizione deve essere introdotta entro un termine di tre mesi dall’adozione della decisione, tuttavia, essa non deve essere motivata e non è impugnabile. Di conseguenza, la disposizione conferisce agli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di esercitare, in sostanza, un diritto di veto alla pubblicazione degli atti di cui sono autori. Resta il fatto che la disposizione in parola rappresenta un’apertura importante rispetto all’applicazione, per quanto possibile, alle procedure giudiziarie del principio di trasparenza.
[28] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[29] Ad esempio, M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1524, esprime riserve sul meccanismo, domandando retoricamente «why then does [Court’s Request] add a third element of additional “ex-ante” control into that scheme, which if used to maximum effect, can indeed be very selective? The conundrum of “transferring without letting go” that permeates the entire proposal of the Court starts clearly coming to the surface. Why then would one even start transferring any jurisdiction when there is such a low level of trust in the capacity of the other body to handle that workload?». Ancora, J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, all’alba della sua entrata in vigore, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 8-11, dopo avere osservato che «la proposta aggiunge un nuovo meccanismo di controllo, che si aggiunge a quelli previsti dai trattati […] », rileva che «[s]ulla legittimità di tale approccio pare lecito porsi qualche dubbio» e, a seguito di dell’analisi di alcune norme del diritto primario conclude che «le competenze che i trattati attribuiscono [al Tribunale] dovrebbero poter essere assorbite [dalla Corte] solo nei limiti previsti dai trattati stessi [e] i trattati non mettono limiti nel filtrare, ex ante, quali pronunce debbano andare al Tribunale, ma solo chiedendo a quest’ultimo di rimettere la causa alla Corte, se si rende conto di dover adottare una “decisione di principio”». Infine, R. Alonso García, The Persian Jurist in Luxembourg. On the Decentralisation of the Preliminary Ruling Procedure, in EU Law Live Edition, 2024, p. 10, n. 195, osserva che «the one-stop shop system, under the reform, does not reflect the will of the Member States as materialised in the Treaty of Nice, as it is clearly more favorable to the introduction of the one stop-shop mechanisms in the Registry of the General Court, not of the Court of Justice». Indubbiamente, i trattati non fanno riferimento al meccanismo in parola, tuttavia, chi scrive è dell’avviso che nella misura in cui, da un lato, l’art. 256, par. 3, prima frase, TFUE si limita a circoscrivere la competenza del Tribunale a conoscere le questioni pregiudiziali individuate dallo statuto e, dall’altro, l’art. 50 ter, 3° c., statuto dispone che la Corte deve stabilire se siffatte questioni rientrino in tale competenza, il meccanismo in parola risulta conforme ai trattati (in questo senso v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 533). Peraltro, anche ragioni pratiche sembrano deporre in favore della sua esistenza. In effetti, come si avrà modo di osservare in seguito, la valutazione in concreto della permanenza alla Corte o del trasferimento al Tribunale di una domanda pregiudiziale rientrante esclusivamente nelle sei materie individuate nello statuto potrebbe sollevare alcune difficoltà, con la conseguenza che la Corte, la giurisdizione che dall’origine delle Comunità fino ad oggi è stata la sola competente a conoscere le domande sollevate dai giudici nazionali, potrebbe beneficiare del proprio expertise nell’adottare la decisione più consona allo spirito della modifica statutaria appena intervenuta.
[30] La dottrina non ha mancato di interrogarsi sull’opportunità di dare a questo meccanismo un tratto intergiurisidzionale, inserendovi tanto membri della Corte che del Tribunale (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 534) o, addirittura, di demandare questa funzione al solo Tribunale (J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 27). Indubbiamente, nella logica di condivisione della funzione pregiudiziale che sottende il trasferimento al Tribunale di alcune materie specifiche, un sistema di valutazione “misto” avrebbe sublimato questa logica. Tuttavia, la Corte, che è la giurisdizione con una consuetudine nel trattamento delle domande pregiudiziali, forte di questa abitudine, dovrebbe assolvere questa funzione di “smistamento” con una certa rapidità. Inoltre, nell’ipotesi di un meccanismo misto si sarebbe potuto porre un problema di accordo al suo interno quanto alla trasferibilità o meno di una domanda. Certo, alcune procedure avrebbero potuto essere immaginate per superare eventuali impasses, ma già la loro stessa prefigurazione avrebbe portato detrimento alla celerità del procedimento. Quanto all’ipotesi di uno sportello unico gestito dal Tribunale, seppure intellettualmente stimolante, essa sarebbe risultata poco praticabile in concreto. In particolare, è molto difficile immaginare che le Istituzioni e gli Stati membri avrebbero accettato un simile meccanismo. In effetti, fin dall’inizio, la Corte ha indicato che il Tribunale avrebbe garantito le stesse procedure da essa offerte nel trattamento delle domande pregiudiziali, così da rassicurare i diversi attori istituzionali sulla sostanziale corrispondenza dell’esame di tali domande dinanzi alle due giurisdizioni. In questo contesto, l’attribuzione al Tribunale della competenza a decidere quali domande trasferire e quali trattenere avrebbe rappresentato un elemento di novità poco conciliabile con lo spirito della proposta.
[31] Sul punto v. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1536 e 1537, il quale si interroga su «what sort of moral high ground does one have for insisting there is a duty to make a reference, and then even potentially enforcing it, while simultaneously insisting that the area of law is so clear and by implication unimportant that one does not need to deal with it oneself?»; C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 538 e 539; J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., pp. 20-22. In particolare, il primo autore citato (p. 1537), si domanda se «[w]ill all that generate a tendency of national courts to include horizontal, broader issues in their references, so their case will be kept “upstairs”? Will there be an inclination to withdraw a request for a preliminary ruling if the individual case has been transferred “downstairs”?». In sostanza, il timore non celato consiste nel fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero collegare artificialmente le domande pregiudiziali alle deroghe previste all’art. 50 ter, 2° c., statuto, in modo così da garantire il loro trattenimento alla Corte.
[32] In questo senso v. F. Viganò, La proposta di riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, il quale ha osservato che per un giudice tutte le cause sono uguali perché tutte indicative di una sete di giustizia. Si veda anche il contributo di C. Wissels, T. Boekestein, The Proof is in the Pudding’: Some Thoughts on the 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice from a Highest National Court, in EU Law Live, 09/07/2024, i quali sono membri del Consiglio di Stato olandese e osservano che «[w]hether or not national courts will receive the transfer of jurisdiction to the General Court positively and refer questions to it, will depend on how the reform plays out in practice. […] the national court’s appreciation of the preliminary reference procedure is mostly dependent on three factors (in no particular order). Firstly, the time it takes the CJEU to answer the preliminary reference and the corresponding delay caused in the domestic procedure. Secondly, the coherence of the Court’s case law and the unity of EU law. Thirdly, the quality of the reply: the Court’s answer should be clear and easy to apply in the case before the national court. Ideally, it should also be formulated in such a way that it can be applied in related cases with relative ease».
[33] Sul punto v. D. Petríc, The Preliminary Ruling, cit., p. 38, il quale osserva che «the principle of sincere cooperation from art. 4(3) TEU […] should guide not only national courts in their interaction with the General Court, but should also guide the two EU courts in determining their respective jurisdictions and allocation of preliminary references between themselves. Their engagement should be respectful, and they should be doing everything to ensure the smooth functioning of the preliminary ruling procedure, and, by extension, the effectiveness of EU law and the attainment of the Union’s goals. All courts in the EU have a stake in this, and there is no way around cooperation, no matter how difficult it may be» e che «the entire system depends on the bona fide behaviour of all the judicial actors involved».
[34] L’art. 207, parr. 1 e 2, RP Trib. disciplina le ipotesi di rinvio alla Corte qualora un quesito pregiudiziale sia erroneamente depositato dinanzi al Tribunale e nei casi previsti all’art. 54, 2° c., Statuto, relativi all’incompetenza del Tribunale.
[35] Per quanto riguarda il presidente e il vicepresidente, questa facoltà è riconosciuta loro fino alla chiusura della fase orale del procedimento e, se sono state presentate conclusioni, non oltre una settimana dopo la presentazione di queste ultime, o prima della decisione di statuire senza fase orale.
[36] Sul problema della natura facoltativa od obbligatoria del rinvio di una causa dal Tribunale alla Corte v. D. Düsterhaus, Referring Cases Back to the Court of Justice: Faculty or Duty?, in EU Law Live, 04/07/2024).
[37] Sul riesame delle decisioni del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni v. P. Iannuccelli, A. Tizzano, Premières applications de la procédure de “réexamen” devant a Cour de justice de l’Union européenne, in N. Parisi (a cura di), Scritti in onore di Ugo Draetta, Napoli, 2011, p. 733 ss.; M. Brkan, La procédure de réexamen devant la Cour de justice: vers une efficacité accrue du nouveau règlement de procédure, in S. Mahieu (dir.), Contentieux de l’Union européenne. Questions choisies, Bruxelles, 2014, pp. 489-513; R. Rousselot, La procédure de réexamen en droit de l’Union européenne, in Cahiers de droit européen, 2014, p. 594 ss.; B. Cortese, Articoli 62, 62 bis e 62 ter Statuto, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), op. cit., pp. 322 e 323; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 428; K.P.E. Lasok, Lasok’s European Court Practice and Procedure, London, New York, Dublin, IV ed., 2022, pp. 1234-1241.
[38] L’art. 194 RP Corte prevede che “1. La proposta del primo avvocato generale di riesaminare una decisione del Tribunale adottata ai sensi dell’articolo 256, paragrafo 3, TFUE è trasmessa al presidente della Corte e al presidente della sezione del riesame. Contemporaneamente, il cancelliere è informato di tale trasmissione.
2. Non appena viene informato dell’esistenza di una proposta di riesame, il cancelliere trasmette il fascicolo del procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale ai membri della sezione del riesame.
3. Il cancelliere informa parimenti il Tribunale, il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale, nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, dell’esistenza di una proposta di riesame.
4. Non appena ricevuta la proposta di riesame, il presidente della Corte designa il giudice relatore tra i giudici della sezione del riesame, su proposta del presidente di questa sezione. La composizione del collegio giudicante è determinata, conformemente all’articolo 28, paragrafo 2, del presente regolamento, il giorno dell’attribuzione della causa al giudice relatore.
5. Tale sezione decide, su proposta del giudice relatore, se occorra riesaminare la decisione del Tribunale. Nella decisione di riesaminare la decisione del Tribunale sono indicate solo le questioni oggetto del riesame.
6. Il Tribunale e il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, sono subito avvisati dal cancelliere della decisione della Corte di riesaminare o di non riesaminare la decisione del Tribunale.
7. Un avviso contenente la data della decisione di riesaminare la decisione del Tribunale e le questioni oggetto di riesame è pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”.
[39] Cfr. Corte giust., 8 febbraio 2011, causa C-17/11 RX, Commissione c. Petrilli, ECLI:EU:C:2011:55, punto 4, in cui la Corte ha affermato «che non [le] spetta, in sede di procedura di riesame, pronunciarsi sulla fondatezza di un’evoluzione giurisprudenziale del Tribunale, operata da quest’ultimo in veste di giudice d’appello […] in quanto spetta ormai unicamente al [TFP] e al [Tribunale] far evolvere la giurisprudenza in materia di funzione pubblica; [essa] è competente solo ad evitare che le pronunce del Tribunale non compromettano l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione». In questo contesto va rilevato che, in effetti, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
[40] Ad oggi, la quasi totalità delle domande di ammissione sono state rigettate e, a differenza della procedura di riesame, la Corte non ha assunto una posizione di principio, ma piuttosto un case by case approach nel pronunciarsi sull’ammissibilità dell’impugnazione. Per un’analisi di questo approccio casistico sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 429.
[41] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[42] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[43] In questo senso si pronuncia anche M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1526 e 1527, il quale, da un lato, rileva che «[t]he unknown relates nonetheless to how a procedure used previously only rarely in staff cases would operate in the context of preliminary rulings. The reason for those doubts is simple: the type of procedure is radically different, and so are the stakes. The likelihood of “a serious risk of the unity or consistency of Union law being affected” is arguably somewhat less acute in circumscribed direct disputes involving EU staff than it is in diffuse and a multi-polar preliminary ruling procedure. Within the latter kind of procedure, by definition, the risk is bound to arise far more often» e, dall’altro, osserva che «[i]f the up-to-date experience of the Court in the filtration of appeals pursuant to Article 58a of the Statute of the Court could serve as a parallel, that could indeed be the case. There, too, similarly worded conditions have so far generated only few occasions on which it was found that a decision of the GC should be allowed to proceed to full review on merits. However, it is again fair to question the comparability of the data, as it comes from different types of proceedings, with different scope and impact».
[44] Non è questa la sede per un’analisi diffusa della correttezza della presunzione secondo la quale la specializzazione implichi necessariamente una migliore amministrazione della giustizia. Di conseguenza, nel presente lavoro la si considererà come avverata. Per un’analisi problematica della questione, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, La specializzazione del Tribunale dell’Unione europea tra realtà e prospettive: ieri, oggi, domani(?), in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione alla ricerca di un equilibrio efficiente e (in)stabile, op. cit., pp. 89-116.
[45] Sulla specializzazione del Tribunale v. U. Öberg, A. Mohamed, P. Sabouret, On Specialisation of Chambers at the General Court, in M. Derlén, J. Lindholm (eds.), The Court of Justice of the European Union: Multidisciplinary Perspectives, Oxford, 2018, p. 211 ss.; F. Clausen, Quelle place pour la spécialisation au sein des juridictions de l’UE, in D. Dero-Bugny, A. Cartier Bresson (sous la direction de), Les réformes de la Cour de justice de l’Union européenne. Bilan et perspectives, Bruxelles, 2020, p. 131 ss.
[46] All’indomani della creazione del(l’allora) marchio comunitario (oggi dell’Unione europea) e del conferimento della relativa competenza al Tribunale di conoscere i ricorsi avverso le decisioni adottate dall’UAMI (oggi EUIPO), una prima forma di specializzazione era consistita nell'istituzione, per un periodo circoscritto, di due sezioni specializzate in tale materia. Una seconda applicazione della specializzazione ha avuto luogo a seguito della creazione del TFP. In questa occasione, il Tribunale, competente a conoscere i ricorsi avverso le pronunce del TFP in base all’art. 11 dell’allegato I dello statuto, ha istituito la sezione delle impugnazioni, organizzata in sotto-formazioni, e costituita dal presidente, dal vicepresidente (dopo la creazione di questa funzione nel 2013) e dai presidenti di sezione del Tribunale.
[47] Per quanto riguarda il contenzioso dei ricorsi diretti, in primo luogo, le cause in materia di funzione pubblica e di proprietà intellettuale sono ripartite, rispettivamente, tra le quattro e le sei sezioni specificamente designate a tal fine nella decisione di assegnazione dei giudici alle sezioni, in base a un turno stabilito in relazione all’ordine di registrazione delle cause in cancelleria. In secondo luogo, le cause riguardanti, da un lato, la concorrenza, gli aiuti di Stato e le misure di difesa commerciale, le norme relative alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno nonché le norme relative ai mercati e ai servizi digitali e, dall’altro, le materie rimanenti, sono ripartite tra le dieci sezioni. In terzo luogo, al presidente la possibilità di derogare al turno per tutte le materie in ragione della connessione tra le cause e del carico di lavoro delle sezioni. Tutte queste regole di attribuzione dei ricorsi sono contenute nella decisione relativa ai Criteri di attribuzione delle cause alle sezioni (2024/6453), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[48] La seconda frase della disposizione in parola prevede che “[i]l Tribunale può incaricare una o più sezioni di conoscere di cause in materie specifiche ».
[49] La terza frase di tale disposizione indica che «[i]l Tribunale designa una o più sezioni incaricate del trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale».
[50] In proposito, oltre alla soluzione adottata in via transitoria dal Tribunale, la dottrina ne ha discusse altre, prefigurando la possilità che, ferma restando l’organizzazione attuale in dieci sezioni, la specializzazione in materia pregiudiziale fosse assorbita nell’ambito delle sezioni esistenti, dando così luogo ad una sottospecializzazione, o attraverso la creazione di sezioni autonome. In questa seconda ipotesi, di conseguenza, stante il numero di dieci sezioni, una modifica del numero delle sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale e funzione pubblica sarebbe necessaria. Quanto al numero di queste sezioni, il dato normativo non consente di determinarlo, tuttavia, tenuto conto delle domande pregiudiziali che dovrebbero essere mediamente trasferite al Tribunale, la dottrina ha ventilato la possibilità che esse saranno due. Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 12.
[51] Cfr. Costituzione delle sezioni e assegnazione dei giudici alle sezioni, GUUE C, 2024/6456, 28.10.2024, p. 4.
[52] Cfr. art. 28, par. 8, RP Trib.
[53] Cfr. Elezioni degli avvocati generali per il trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale e di un giudice chiamato a sostituirli in caso di impedimento (2024/6455), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[54] V. S. Iglesias Sánchez, D. Sarmiento, A New Model for the EU Judiciary: Decentralising Preliminary Rulings as a Paradoxical Move towards the Constitutionalisation of the Court of Justice, in EU Law Live, 08/04/2024.
[55] V. A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4.
[56] In questo senso si esprime M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1517.
[57] In questo contesto, rispetto al ruolo costituzionale della Corte, è opportuno distinguere tra una nozione funzionale e una strutturale. In termini funzionali, come osservato in dottrina (D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018, p. 48; Id., Direct Effect in EU Law, Oxford, in corso di pubblicazione), la costituzionalizzazione della Corte comincia ben prima delle modifiche di Nizza, quando «[l]a Corte di giustizia […], a partire da Van Gend & Loos, dà avvio al processo di costituzionalizzazione di se stessa e della propria funzione nell’ordinamento comunitario», ferma restando, beninteso, la peculiarità di una siffatta costituzionalizzazione nell’ambito di tale ordinamento [T. Tridimas, Bifurcated Justice: The Dual Character of Judicial Protection in EU Law, in A. Rosas, E. Levits, Y. Bot (eds.), The Court of Justice and the Construction of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case-Law, The Hague, 2013, pp. 367-379]. In termini strutturali, invece, la costituzionalizzazione della Corte si traduce nella cristallizzazione nel diritto primario di un riparto di competenze tra essa, da un lato, e il Tribunale (e le eventuali giurisdizioni specializzate), dall’altro, che la proietta a diventare la giurisdizione cui è conferito il trattamento delle sole cause suscettibili di avere, a vario titolo, una valenza fondamentale per il funzionamento dell’ordinamento dell’Unione. Nel presente contributo a questa nozione ci si riferisce.
[58] Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 20.
[59] V. T. Tridimas, Breaking with Tradition: Preliminary Reference Reform and the New Judicial Architecture, in EU Law Live, 26/06/2024, il quale osserva che «[t]his amendment is more likely to be the opening shot rather than the end of the road».
[60] Per un’analisi critica di questa proposta v. R. Adam, La recente proposta della Corte di trasferire i ricorsi per inadempimento al Tribunale dell’Unione, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, pp. 2-16.
[61] Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court, cit., p. 24, il quale osserva che «pragmatism has its limits [and a]s any building, the judicial architecture of the Union must obey certain rules and stay within the limits set by the Treaties». Lo stesso autore distingue, peraltro, tra un modello giudiziario ispirato, appunto, a pragmatismo, riconducibile alla riforma contenuta nel reg. 2024/2019 e un modello concettuale nel quale la Corte dovrebbe assumere il ruolo di una Corte costituzionale e il Tribunale quello di un Consiglio di Stato. Su tali modelli si tornerà di seguito.
[62] Anche la dottrina, pur dando conto delle preoccupazioni e delle inquietudini legate al trasferimento delle competenze pregiudiziali al Tribunale, osserva che «[g]razie, infatti, al diffondersi della prassi delle decisioni del Tribunale in materia pregiudiziale e alla conseguente assuefazione a questa prassi, ma soprattutto a seguito della crescita inarrestabile del contenzioso innanzi alla Corte, non è difficile prevedere che tra qualche anno si finirà inevitabilmente per sollecitare un ulteriore trasferimento di “materie specifiche” e poi ancora di altre fino ad un limite oggi imprevedibile. E questo avverrà, con ogni probabilità, con molte minori reticenze e perplessità di quante ne siano state espresse in occasione di questo primo passaggio». Così A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4. Altri autori non mancano, invece, di esprimere riserve, a monte, considerando il trasferimento al Tribunale delle competenze in alcune materie uno «short-term palliative» con la conseguenza che ulteriori interventi rappresenteranno soluzioni estemporanee per tamponare bisogni immediati, ma non avranno carattere strutturale. V. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1543.
[63] Sulla circostanza che l’estensione del filtro generalizzato potrebbe sollevare problemi di conformità rispetto all’art. 256, par 1, 2° c. TFUE, v. M. Condinanzi, Corte di giustizia e Tribunale dell’Unione europea: storia e prospettive di una “tribolata” ripartizione di competenze, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, p. 11.
[64] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[65] In questo contesto va rilevato che, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra Statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
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