ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Appunto per una giustizia non solo più efficiente, ma anche più giusta*
di Glauco Giostra
1. Il dibattito sulla riforma del processo penale ha suscitato un grande interesse non soltanto da parte degli addetti ai lavori, ma anche della politica, dei media e di ampi settori della società civile. Ed è questo un dato confortante perché sembra attestare la consapevolezza che la giustizia penale esprime la cifra della civiltà di un Paese. Non si può purtroppo non aggiungere, però, che il confronto ha spesso conosciuto sgangherate argomentazioni e accenti scomposti, rimandando una sensazione di deprimente rozzezza. Che ciascun locutore potesse ritenere di avere la giusta ricetta e la proclamasse stentoreamente può essere comprensibile, anche se poco giustificabile: mai, come in questa materia, vale il monito di Voltaire secondo cui «il dubbio può non essere piacevole, ma la certezza è ridicola». Ma a segnare un preoccupante degrado del confronto pubblico è la contagiosa tendenza a demonizzare le idee avverse, usando linguaggi e toni da stadio, o a invocare a sproposito l’usbergo di sacri principi costituzionali o di prescrizioni sovranazionali, con argomenti che, avrebbe detto Cordero, non valgono più di un pugno battuto sul tavolo.
Ciò può trovare spiegazione, non certo giustificazione, nella peculiarità dell’attuale situazione politica. Proprio perché, come si è detto, la giustizia penale è la più fedele carta di identità di un Paese, le scelte che la riguardano non sono semplici soluzioni di ingegneria giuridica per elaborare un efficiente e affidabile strumento di conoscenza, ma, presupponendo opzioni valoriali che definiscono lo statuto dell’individuo di fronte all’Autorità, hanno sensibilissime implicazioni culturali e politiche. Nella situazione data, un Governo che si avvale del sostegno di forze con opposte idealità, in particolare con speculari concezioni del rapporto tra Stato e cittadino, non può non incontrare insormontabili difficoltà ad approntare una riforma della giustizia penale razionale e coerente. La necessità di provvedere anche per ottenere gli ingenti finanziamenti dall’Europa può avere funzionato da collante, insieme alla capacità del Ministro della Giustizia e del Presidente del Consiglio di tenere insieme forze congenitamente centrifughe. Tuttavia, il compromesso cui inevitabilmente si è talvolta dovuti ricorrere non è di per sé un buon risultato, poiché per la giustizia penale non si tratta – come per molte altre trattative politiche – di trovare una linea mediana che soddisfi, con reciproci sacrifici, i contrapposti fronti ideologici, né di concedere qualcosa sia all’uno, sia all’altro per bilanciare le opposte pretese: il sistema giustizia rischia di perdere credibilità e di sommare gli errori di entrambi i poli dialettici, come talvolta è puntualmente avvenuto[1].
I toni manichei che hanno accompagnato e che verosimilmente continueranno ad accompagnare gli sviluppi della riforma trovano spiegazione o nella mancata consapevolezza della complessità della materia e delle controindicazioni di ogni soluzione, oppure nel desiderio di collocarsi, di marcare il proprio posizionamento politico-culturale, per il timore che approcci più problematici – di questi tempi distorsivamente percepiti come esitanti – condannino all’invisibilità mediatica o, peggio, siano causa di un’emorragia di consensi. Difficile dire quale spiegazione sia meno preoccupante.
2. Molti e molto autorevolmente interverranno qui a commento degli aspetti qualificanti dell’importante progetto all’esame del Parlamento: indugiare sui medesimi, da parte mia, potrebbe aggiungere ben poco. A me preme parlare di ciò su cui il disegno riformatore sostanzialmente tace, e di cui invece non si può non parlare nel momento in cui ci si ripromette di miglio rare il nostro modo di rendere giustizia. Almeno, se si vuole non soltanto una giustizia più efficiente e più rapida, secondo il meritorio e non disinteressato obbiettivo del momento, ma anche una giustizia più giusta[2]. Beninteso, per essere giusta la giustizia deve potersi realizzare in modo efficiente e in tempi ragionevoli, ma prima di ogni altra cosa deve costituire il più credibile sforzo per conseguire la verità, dando fondo a tutte le risorse conosciute, compatibilmente con il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo.
3. Il tornante epistemologico imboccato dal Codice di rito dell’89 – come è noto – aveva il suo punto di svolta nella prova dichiarativa. Si affermò un nuovo verbo processuale: tendenzialmente, l’unica prova attendibile, l’unico mattone utilizzabile per costruire la sentenza doveva essere la prova formata in contraddittorio. Le acquisizioni della psicologia cognitiva avevano da tempo «sbugiardato» la convinzione sottesa all’impianto del Codice del 1930, secondo cui il fatto storico, come un mosaico frantumato, lascia nella realtà fisica e nella percezione sensoriale umana tracce che è compito dell’investigatore rinvenire (investigazione come ricerca delle vestigia facti, cioè impronte del fatto). Non importa la tecnica di acquisizione di questi «reperti cognitivi”: più tessere del mosaico vengono recuperate, più agevole e attendibile sarà il compito del giudice che deve ricomporlo. Opzione metodologica che sarebbe senz’altro da sottoscrivere se la persona informata sui fatti fosse una res loquens e il suo prodotto narrativo non fosse destinato a cambiare a seconda di chi, come, dove, quando la compulsa. Le scienze della mente, invece, avevano da sempre dimostrato che la rievocazione del ricordo viene sensibilmente influenzata dalla tecnica maieutica: con il mutare del forcipe muta, talvolta anche in modo radicale, la conformazione del feto della memoria. Si convenne allora – e ancor oggi nessuna evidenza scientifica induce a riconsiderare quell’opzione – che la migliore levatrice del ricordo fosse la formazione dialettica della prova testimoniale. Quanto l’inquirente pubblico o privato raccoglie per mettere a punto la linea accusatoria o difensiva è materiale conoscitivo di scarto: ad avere valore probatorio, di regola, è soltanto ciò che il teste riferisce al giudice incalzato dalle domande delle parti.
4. Questa scelta gnoseologicamente qualificante del Codice vigente ha dovuto convivere con incongruenze normative e con degenerazioni delle prassi giudiziarie[3], che hanno compromesso la coerenza del sistema. Quanto alle prime, basterebbe ricordare la regola secondo cui, solo che sopraggiunga un’impossibilità di «interrogare» il testimone in dibattimento, si possono recuperare con valore di prova le sommarie informazioni rese dal soggetto durante le indagini (art. 512 c.p.p.) e che, senza l’accidente occorsogli, non sarebbero state neppure conoscibili dal giudice del dibattimento. Oppure la disposizione che conferisce valore di prova alle dichiarazioni testimoniali assunte in contraddittorio in altro procedimento (art. 238, primo comma, c.p.p.): un contraddittorio evidentemente privo di qualsiasi valore epistemologico nel processo a quem, a cui con tardiva e insufficiente resipiscenza il legislatore ha cercato di conferire senso, pretendendo che per essere traslabili in altro procedimento le dichiarazioni de quibus debbano essere state assunte con la presenza del medesimo difensore che assiste l’imputato nel processo di destinazione (art. 238, comma 2-bis, c.p.p.). Oppure, ancora, la norma che riconosce valore di prova alla testimonianza de relato, anche quando il teste indiretto sin dall’inizio fa riferimento a persona che sa già non essere più in grado di deporre e, quindi, di smentirlo (art. 195, terzo comma, c.p.p.). Per non dire, più in generale, dell’incongruenza di un appello tendenzialmente e sostanzialmente cartolare, in esito al quale può essere censurata e riformata una sentenza di primo grado fondata su testimonianze assunte dialetticamente davanti al giudice che l’ha emessa.
Queste e altre incongruenze non andrebbero sottovalutate, pena la credibilità del sistema: se vi fosse la volontà di rimuoverle, peraltro, non sarebbe complicato porvi rimedio, e in parte la giurisprudenza e il legislatore si stanno muovendo in questa direzione. Ma vi è una criticità molto più insidiosa, sotterranea, corrosiva; una criticità, soprattutto, a cui non è facile apprestare un antidoto: inutile cercare nella «farmacia giuridica» un medicinale che prevenga o sani questa patologia. Bisogna attrezzarsi per imparare a diagnosticarla e per ridurne al minimo gli effetti con una pluralità di interventi sinergici.
Se il Codice vigente ha rimosso l’ingenuità epistemologica su cui poggiava quello precedente – vale a dire l’irrilevanza della tecnica di elicitazione nella prova testimoniale −, temo che esso stesso poggi su un presupposto non meno fallace: l’inalterabilità del patrimonio mnestico. L’attuale sistema è costruito intorno all’idea che alla fonte dichiarativa possa attingere chiunque in qualsiasi fase del procedimento e con qualsiasi metodo, purché l’unico sapere testimoniale utilizzabile in sentenza resti quello assunto in contraddittorio dinanzi al giudice della decisione. Ciò presuppone che il ricordo costituisca una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato della memoria; che il problema sia soltanto quello di ritrovarlo, usando la potente «torcia» del contraddittorio e di riportarlo nell’appartamento dell’attualità, a disposizione di coloro che ne chiedono notizia. Il ricordo, invece, è materia viva e deteriorabile. Talvolta, addirittura, frutto di un’involontaria creazione. Ciò che il contraddittorio è in grado di garantire è la sincerità, non la veridicità delle risposte: nessun esame incrociato riuscirà a far riferire fedelmente quanto originariamente percepito a un dichiarante che crede nella verità del suo falso ricordo[4].
5. «L’oblìo e la memoria – scriveva Borges – sono inventivi». Già l’azione silente di Cronos inavvertitamente sbiadisce un volto, offusca un particolare, confonde le parole ascoltate, oblitera un dato, scuce una sequenza: il ricordo con il trascorrere del tempo diviene spesso «impresentabile» e talora la ragione, solerte, provvede creativamente a ricomporlo. Capita, altre volte, che tra il momento della percezione e quello della rievocazione del percepito invisibili «neuro-sherpa» prendano dall’esterno informazioni, le trasportino nello scantinato e le impastino con il materiale conoscitivo che vi è stato conservato, trasformandolo. Con una sintesi che anche l’ultimo degli studiosi di psicologia forense troverebbe grossolana potremmo dire che tra i fattori in grado di adulterare il ricordo potrebbe essere utile distinguere: il decorso del tempo; i condizionamenti endo-processuali (soprattutto gli «interrogatori») e le suggestioni esterne (soprattutto mediatiche). Sono fattori che, naturalmente, possono concorrere tra loro e con altri, ma che è opportuno tenere separati perché differenti possono essere gli strumenti per neutralizzarne l’azione. Il decorso del tempo. Forse nell’idea originaria del Codice, che prevedeva indagini agili e sommarie e un dibattimento improntato al rispetto del principio di concentrazione, ove realizzata, il de corso del tempo avrebbe dovuto avere meno modo di esercitare la sua azione corrosiva sulla memoria. Ma con il nuovo carico funzionale assegnato alle indagini e con un’articolazione della fase dibattimentale in cui tra le udienze ormai intercorrono mesi e talvolta anni, a essere rievocati con la testimonianza assunta nel contraddittorio delle parti sono, di regola, fatti avvenuti diversi anni prima[5]. Essendo il patrimonio mnestico – come si diceva – materia deteriorabile, sempre più spesso si susseguono i «non ricordo». E altrettanto spesso questi «falli» nel tessuto della memoria vengono rammendati ricorrendo impropriamente a ciò che quello stesso teste aveva dichiarato agli inquirenti: quando non ci si limita a sollecitarne una mera conferma, gli si leggono sue dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero e gli si chiede se si riconosce in quanto a suo tempo affermato, ottenendo quasi sempre una risposta del tipo «Certo, se l’ho detto sarà senz’altro vero». Prassi palesemente illegittima e che tanto rievoca il mortificante dibattimento previgente.
Il supporto normativo sarebbe costituito dall’art. 499, quinto comma c.p.p., a norma del quale «Il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti»; ma cosa questa disposizione abbia a che fare con la prassi di un pubblico ministero (o di un difensore) che al teste immemore si rivolge dicendo: «Ora le leggo cosa ricordava in prossimità dei fatti e lei mi dice se si sente di confermare», è difficile capire. Soprattutto quando il vuoto di memoria investe l’intero oggetto della testimonianza, questa surrettizia forma di «aiuto alla memoria» finisce per realizzare di fatto proprio ciò che il vigente Codice si riprometteva di evitare: cioè, che si conferisse valore probatorio agli atti di indagine.
6. «Prima di valutare se una risposta è esatta – ammoniva Kant – si deve valutare se la domanda è corretta». Ciò è tanto più vero nel procedimento penale, durante il quale la persona interrogata cerca istintivamente di intuire dalla domanda quale sia la risposta preferita dal suo esaminatore. Le domande corrette sono quelle (c.d. «aperte») che rendono questa ricerca vana, ma possiamo senz’altro affermare – con un eufemismo – che non sono le più frequenti. In genere, l’interrogato coglie nelle parole o nell’intonazione della domanda l’aspettativa di una risposta che abbia un certo segno.
Ci sono poi domande che tendono intenzionalmente a condizionare la risposta, quando non a suggerirla; e queste, in particolare, quand’anche non sortiscano da subito l’effetto voluto, vanno a depositare il loro sottotesto nel fondaco mentale del dichiarante, che senza rendersene conto difficilmente in futuro riuscirà a prescinderne[6]. Questa subdola suggestione della domanda che punta a farsi risposta risulterà tanto più condizionante quanto più autorevole sarà la figura dell’interrogante agli occhi dell’interrogato[7], che successivamente opererà in modo inconsapevole ogni possibile rielaborazione mnestica per cercare di non discostarsi da quanto l’interrogante aveva lasciato intendere fosse la «sua» verità[8]. Considerazione che da sola dovrebbe bastare per prendere convintamente posizione rispetto al contrasto giurisprudenziale insorto in merito alla possibilità per il giudice di rivolgere domande suggestive al teste: pur riconoscendo che argomentazioni strettamente esegetiche possono essere spese per sostenere l’orientamento opposto, si deve escludere che il giudice possa suggerire le risposte con le proprie domande, perché in tal modo inquina irreversibilmente il giacimento mnestico del testimonio.
È pur vero che la giurisprudenza più avvertita ha di recente annullato una decisione basata sulle dichiarazioni rese dal teste a seguito di domande suggestive rivoltegli dal giudice[9]. Ma ciò, pur essendo esito ineccepibile, non risolve il problema. Quando si rinnoverà la testimonianza, le interferenze esercitate da quell’insinuante condizionamento operato dal giudice non mancheranno di produrre i loro effetti, che paradossalmente verranno «validati» dall’esame in contraddittorio del medesimo teste, il quale difenderà con incrollabile fermezza il ricordo che ha ormai inconsapevolmente e irreversibilmente rielaborato.
La sollecitazione a riplasmare la memoria di alcuni eventi può anche essere indotta dall’ascolto dell’esame di altri soggetti sugli stessi[10]. Di qui, non soltanto la regola fondamentale che vieta l’esame contestuale di più testimoni (art. 497, primo comma, c.p.p.), ma anche la prescrizione, non di rado inosservata, di evitare che la persona citata, prima di deporre, «possa assistere agli esami degli altri o vedere o udire o essere altrimenti informata di ciò che si fa nell’aula di udienza» (art. 149, disp. att., c.p.p.)[11]. Quasi sempre, peraltro, i testimoni stazionano insieme e a lungo nella «astanteria» del tribunale prima di deporre, avendo modo di condividere ricordi e propositi testimoniali[12].
7. La memoria di un testimone è esposta non soltanto agli input interni al processo, ma anche a fattori esogeni non meno condizionanti. Per lo spazio che i nostri organi di informazione riservano alla cronaca nera è tutt’altro che infrequente la narrazione mediatica delle vicende giudiziarie che ne conseguono; narrazione quasi mai limitata alla sobria pubblicazione del contenuto degli atti del procedimento non più segreti, come pretende l’art. 114 c.p.p., di cui l’art. 684 c.p. blandamente sanziona l’inosservanza. I «riflettori dell’attualità» vengono puntati con scomposta bulimia non soltanto sugli sviluppi giudiziari del fatto di cronaca che per la sua gravità o per i soggetti coinvolti ha suscitato la preoccupata attenzione dell’opinione pubblica, ma anche sul contesto familiare o sociale che ne fa da sfondo, captando febbrilmente con la telecamera o con il microfono immagini e dichiarazioni dei protagonisti del processo e di coloro che su quel fatto o sul possibile responsabile si presume abbiamo qualcosa da dire[13].
In un frastornante rimbalzo multimediale, si alternano o affastellano: interviste a conoscenti o a parenti dell’accusato o della vittima; filmati-highlights predisposti dagli organi di polizia, anche tramite un montaggio ad arte, per promuovere un’operazione in vestigativa; conferenze stampa degli organi inquirenti o, talvolta, dei questori; dichiarazioni rilasciate dall’indagato, dalla vittima o dai loro avvocati; imitazioni foniche di intercettazioni; reportage; raccolta delle voci correnti nel contesto sociale dei presunti protagonisti del fatto di reato. Quando non si allestiscono addirittura talk show, in cui spesso improbabili esperti ricostruiscono movente e dinamica del delitto, con ciò raggiungendo il massimo della contaminazione mediatica: una sorta di foro alternativo nel quale si scimmiottano liturgie e terminologie della giustizia ordinaria. È con il contorno di un siffatto contesto che sovente si sviluppano le più delicate vicende giudiziarie[14]. Riesce difficile immaginare che la persona informata sui fatti non rimoduli subliminalmente il proprio ricordo per raccordarlo con ciò che vede e che sente a proposito dei medesimi. Molto spesso subirà una sorta di inespugnabile «subornazione mediatica», impermeabile a ogni contraddittorio, che rende inservibile, quando non fuorviante, il relativo contributo testimoniale. La giurisprudenza più avvertita ha già preso atto dell’insidiosità del fenomeno: talvolta ha dichiarato inaffidabile l’apporto del testimone, avendo il clamore mediatico irreversibilmente compromesso la sua credibilità[15], altre volte ha di fatto permesso di recuperare dichiarazioni del teste, rese quando verosimilmente la manipolazione mediatica non aveva ancora esercitato i suoi effetti[16]. Ma non è difficile rendersi conto di come siffatti rimedi presentino problemi non meno delicati di quelli che sono chiamati a risolvere[17].
8. Sembra dunque di poter concludere che la visione stereoscopica del contraddittorio consente, sì, di scrutare meglio nel patrimonio mnestico della persona informata sui fatti al momento in cui la si esamina, ma è impotente nei confronti delle manipolazioni che questo può aver subìto rispetto alla sua conformazione originaria. Il Codice dell’89 non ha tenuto conto dell’evenienza – sempre più frequente con l’esponenziale incremento dei media – che testi sinceri e dialetticamente escussi potessero riferire il falso: è un sistema imbelle rispetto alla prospettiva di un’ingiustizia fondata sulla sincerità[18]. Ignorare questo problema di fondo sarebbe atteggiamento irresponsabile ed eticamente deplorevole; pensare di risolverlo con un ritocco normativo, sarebbe espressione di sprovveduto velleitarismo.
Ciò che si può e si deve fare è anzitutto porre le condizioni affinché maturino una conoscenza e una consapevolezza dei rischi connessi alla inconscia trasfigurazione della traccia mnestica. È indispensabile che fin dal percorso universitario e poi, a seguire, negli incontri di aggiornamento professionale per magistrati, avvocati e appartenenti alla polizia giudiziaria si forniscano gli elementi di base del funzionamento della memoria: non già perché il giurista debba avere una competenza scientificamente approfondita dei meccanismi neuronali, ma perché sia culturalmente avvertito della complessità e dei limiti della percezione, del suo immagazzinamento, della sua deteriorabilità e della sua rievocazione. Condizione necessaria, ancorché largamente insufficiente, per cercare di contenere le deleterie conseguenze legate alla adulterazione del vissuto testimoniale.
Quanto agli antidoti di carattere normativo, non essendovi una soluzione univoca e facilmente percorribile, si deve lavorare a una serie di accorgimenti in grado di ridurre la contaminazione del convincimento giudiziale per falsi ricordi del testimone. Vi è, anzitutto, una precondizione di efficacia rispetto a ogni soluzione: che sia ridotto il tempo tra la percezione del fatto e la sua rievocazione con valore probatorio. Più questo intervallo temporale si dilata, più aumentano i rischi che il ricordo non soltanto deperisca, ma si contamini con sopravvenuti elementi spuri. Da questo punto di vista, la riforma in discussione – puntando prioritariamente a ridurre i tempi del procedimento penale – potrebbe indirettamente produrre effetti positivi al riguardo.
Come è noto, il sistema conosce anche un espediente «artificiale» per avvicinare il momento della prova ai fatti da provare, quando la fase del giudizio si prospetta pericolosamente lontana: l’incidente probatorio. La difficoltà, tuttavia, consisterà nel prefigurare presupposti che riescano sì ad assicurare la formazione anticipata della prova quando l’entità del tempo che presumibilmente trascorrerà prima del giudizio o l’abnorme risonanza mediatica del caso rischierebbe di deteriorare il contributo dichiarativo, ma che non si prestino a un abuso del rimedio, con conseguente anticipazione del baricentro probatorio alla fase delle indagini. Se non riuscirà ad affermarsi un indirizzo vòlto a far rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 392, primo comma, lett. a), c.p.p., anche la non rinviabilità del contributo testimoniale verosimilmente destinato ad arrivare «inquinato» alle soglie del dibattimento[19], sarebbe opportuna una circoscritta interpolazione normativa per riservare l’incidente alla situazione di evidente esposizione del teste a condizionamenti mediatici o ambientali.
A inquinare la fonte dichiarativa, tuttavia, non sono soltanto il fattore tempo o i condizionamenti mediatici, ma anche le stesse domande formulate per compulsarla: specialmente se formulate in un certo modo «conducente», possono ripercuotersi sul tenore delle risposte che la stessa persona informata sui fatti darà subito o nel prossimo esame[20]. E le risposte date dal teste vanno a sedimentarsi «silenziosamente» nella sua memoria: dopo la prima, ogni «testimonianza» rischia di fondarsi sul ricordo non già dei fatti, ma della testimonianza precedente[21]. Di qui l’esigenza di evitare al massimo la ripetizione degli «interrogatori», ma soprattutto di conoscerne effettivamente le concrete modalità di svolgimento. Il dogma della tendenziale irrilevanza probatoria delle indagini ha indotto a non preoccuparsi troppo di questo aspetto: se condotte con inaffidabili modalità dalla parte – si è ragionato – le conseguenze negative ricadranno sull’azione di questa, dal momento che i risultati conseguiti non reggeranno alla corretta formazione della prova in giudizio. Ebbene, almeno con riguardo ai contributi dichiarativi, si tratta di assioma smentito da accreditati e indiscussi studi sulla psicologia della memoria. Ciò che in superficie incontra la intransigente dogana della separazione delle fasi e dei fascicoli, sotterraneamente e incontrollatamente «passa» – per gli insidiosi meccanismi di manipolazione del ricordo – veicolato da un inconsapevole contrabbandiere: il testimone. Questi, in giudizio, andrà a ripescare nel magazzino della memoria, un ricordo rimodellato alla luce delle informazioni implicitamente o esplicitamente contenute nelle domande ricevute. Una insinuazione, una suggestione, una velata minaccia, un bluff, un dato presupposto nella domanda rivolta dall’inquirente alla persona informata sui fatti spesso inciderà sulla risposta che quella persona darà in giudizio, rispondendo con sincerità alle domande delle parti e del giudice.
La prevista inutilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rilasciate all’inquirente, dunque, è strumento impotente. È necessario che le parti possano vedere e sentire ciò che ha subìto «a monte quel teste»[22], per infirmarne eventualmente le affermazioni rese in giudizio o, all’opposto, per recuperare le dichiarazioni rese durante un inappuntabile «interrogatorio», quando successivamente la fonte dovesse risultare irrecuperabilmente compromessa. I verbali degli atti di indagine – approssimativi sempre, talvolta «addomesticati» – non possono essere sufficienti. Una video-registrazione degli atti è dunque necessaria[23] e oggi anche realizzabile senza particolari difficoltà di carattere organizzativo o economico[24]. Bisognerebbe, per contro, che gli «interrogatori» svolti senza questa garanzia restino non soltanto fuori dal giudizio, ma anche dal procedimento e che possano eventualmente costituire illecito disciplinare.
Si dovrebbero, poi, predisporre ulteriori misure a presidio della «verginità» del contributo testimoniale. Tra le altre: evitare che in caso di amnesie la sollecitazione in aiuto alla memoria si risolva nella lettura delle dichiarazioni precedentemente rese, secondo una prassi purtroppo ormai invalsa, e bandire di regola la possibilità di rivolgere domande suggestive, da chiunque provengano. Una volta fatto tutto il possibile per «proteggere» la genuinità del ricordo e della sua rievocazione, la rinnovazione della prova in appello, già in difficoltà di senso allo stato attuale, da simulacro di garanzia diverrebbe elemento di probabile inquinamento decisorio: non soltanto non potrebbe apportare alcun valore aggiunto, ma probabilmente nel bacino probatorio del giudice di secondo grado sfocerebbe un affluente che ha raccolto lungo il percorso detriti ed elementi inquinanti. Difficile immaginare che la prova dichiarativa replicata in appello possa esprimere un contenuto altrettanto affidabile di quello espresso in primo grado, impossibile – se in questo hanno dispiegato i loro effetti tutte le dovute garanzie – che ne possa esprimere uno migliore.
9. Si è certo consapevoli che gli accorgimenti sopra grossolanamente abbozzati necessiterebbero di ben più curata messa a punto, ma ciò che più premeva era richiamare l’attenzione su questa ineludibile criticità del nostro sistema processuale. Un sistema che ha verosimilmente individuato il miglior metodo per far sì che il testimone riferisca quel che ricorda, ma trascura di considerare che «quel che ricorda» potrebbe non essere più rispondente al vero: un sistema la cui ossatura epistemologica è affetta da una grave forma di osteoporosi.
Se non si vuole ancora una volta registrare mezzo secolo di ritardo rispetto alle ormai consolidate acquisizioni della scienza della mente; se si ha a cuore una giustizia più giusta e non soltanto più rapida; se si intende preservare e rivitalizzare l’idealità che permeava il Codice dell’89 – quella cioè di apportare al processo il miglior contributo testimoniale possibile – l’epistemologia forense deve fare un altro passo avanti: non basta più apprestare la miglior tecnica maieutica per la rievocazione del ricordo, nell’implicito presupposto che questo abbia un’inalterabilità minerale, ma bisogna cercare di evitare che l’argilla di cui è composto subisca la manipolazione del tempo e delle suggestioni esterne. Non si tratta di sconfessare le scelte di quarant’anni fa, ma, al contrario, di raccoglierne il testimone, poiché – come diceva Gustav Mahler – «tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco».
*Il presente contributo è apparso sul n. 4/2021 della Rivista "Politica del diritto".
[1] Esempio emblematico, l’introduzione di una iugulatoria causa di improcedibilità, irrealistica e discutibile, e di una non meno discutibile e insidiosa discrezionalità riconosciuta ai giudici procedenti di dilatare tali limiti quando la complessità del caso non consentirebbe loro di rispettarli
[2] Dal Ministero dell’Economia e delle Finanze apprendiamo che nel 2020 sono state indennizzate 766 persone per l’ingiustizia subìta (numero comprensivo sia delle riparazioni per ingiusta detenzione, sia di quelle per condanna inflitta a soggetti risultati innocenti a seguito di revisione). Si tratta di un numero che sottostima largamente la dimensione reale del fenomeno, sia perché l’innocente – uscito dall’incubo giudiziario – non sempre presenta istanza di revisione, sia perché talvolta le istanze presentate vengono respinte per una ritenuta «corresponsabilità» dell’imputato nella decisione errata. Beninteso, niente potrà mettere i pronunciamenti umani al riparo dall’errore, ma niente può esonerarci dal dovere di dar fondo a tutte le nostre risorse per contenerlo nei limiti. Cfr. postea, nota 18.
[3] Per una importante esemplificazione, si veda, al riguardo, il prossimo paragrafo.
[4] Quando una sollecitazione esterna entra nella mente del testimone capita qualcosa di simile a ciò che succede quando qualcuno si introduce senza le doverose cautele sul luogo del crimine: il lavoro della polizia scientifica ne risulta alterato, spesso irreversibilmente.
[5] Non è soltanto la distanza tra la percezione dei fatti – la codifica della percezione sensoriale, per dirla con il linguaggio delle neuroscienze – e la rievocazione del relativo ricordo a pesare sulla attendibilità della ricostruzione giudiziaria, ma anche quella, non meno deleteria per una giusta decisione, tra il momento di assunzione della testimonianza e la sua valutazione da parte del giudice.
[6] Dato che le scienze cognitive considerano ormai acquisito da circa mezzo secolo, cioè dai primi fondamentali studi della Loftus (E.F. Loftus, J.C.Palmer, Reconstruction of Automobile Destruction, in Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 13, 1974, pp. 585 ss.; E.F. Loftus, G. Zanni, Eyewitness Testimony: The Influence of the Wording of a Question, in Bulletin of the Psychonomic Society, 5, 1975, pp. 86 ss.) e di Gudjonsson (G.H. Gudjonsson, A New Scale of Interrogative Suggestibility, in Personality and Individual Differences, 7, 1984, pp. 195 ss).
[7] Un fenomeno che si accentua quando si ha a che fare con testimoni bambini: cfr. le considerazioni e gli ampi riferimenti bibliografici di G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 107 ss., 137 ss.; nonché, sul tema specifico, G. Gulotta, D. Ercolin, La suggestionabilità dei bambini: uno studio empirico, in Psicologia e Giustizia, 5, 2004, pp. 1 ss. Inaccettabilmente restrittivo, dunque, appare l’orientamento della Suprema Corte secondo cui la suggestionabilità del minore è rilevante ai fini del giudizio di attendibilità della sua deposizione solo quando il grado di influenzabilità individuale assume forme patologiche, come nelle personalità isteriche o immature (Cass., Sez. III, 4.10. 2007, dep. 21.11.2007, Rv. 238065 – 01)
[8] In tali circostanze opera al massimo grado l’effetto compliance, cioè quella tendenza a cercare di compiacere l’interlocutore che può portare «ad una modifica del resoconto testimoniale», quando non addirittura, «nel tempo, ad un vero e proprio cambiamento della memoria» (G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., p. 89). Effetto sicuramente rafforzato qualora l’interrogante mandi segnali di approvazione o disapprovazione delle risposte (c.d. «bias dell’intervistatore»): cfr., anche per riferimenti bibliografici, G. Gulotta, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 269-270.
[9] Cfr. Cass., Sez. IV, 6.02.2020, in Proc. pen. e giust., 2020, pp. 1204 ss., la quale ebbe a rilevare che «le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta e in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa ne hanno gravemente pregiudicato l’attendibilità, di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni rese da costei […] appare radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata».
[10] Parlano di «paradigma del contagio sociale», dandone interessante dimostrazione sperimentale, M.L. Meade, H.L. Roediger, Explorations in the Social Contagion of Memory, in Memory & Cognition, 2002, pp. 995 ss.
[11] L’inosservanza del divieto per il testimone di assistere all’esame delle parti e degli altri testimoni non determina, peraltro, alcuna nullità o inutilizzabilità della testimonianza assunta, «potendo semmai influire sulla valutazione di attendibilità di quest’ultima da parte del giudice» (Cass., Sez. VI, 10.03.2010, dep. 8.06.2010, Rv 247107-01).
[12] Sulla tendenza a conformare le proprie versioni quando i testimoni dei medesimi fatti hanno l’opportunità di interloquire tra loro, cfr. F. Gabbert, A. Memon, D.B. Wright, Memory Cnformity: Disentangling the Steps toward Influence During a Discussion, in Psyconomic Bullettin & Review, 13, 2006, pp. 480 ss., che ricreando artificialmente una simile situazione hanno dimostrato l’inequivoca osmosi delle memorie.
[13] Si aggiunga che pure il semplice «fenomeno sociale del “sentito dire”» e del pettegolezzo ha certamente un’influenza importante sul resoconto di un testimone (cfr. G. Mazzoni, Psicologia della testimonianza, Roma, Carocci, 2011, p. 23).
[14] È pur vero che i processi che guadagnano la ribalta mediatica nazionale sono statisticamente pochi. Ma, a parte che è su di essi che il teleutente si forma una malsana e perniciosa idea della giustizia e di ciò che viene valorizzato ove si fosse chiamati a offrire il proprio contributo testimoniale, si ha ragione di ritenere che anche per i processi che esauriscono la loro rilevanza a livello locale, si ripete spesso, in sedicesimo, lo stesso fenomeno. Si tratterà di suggestioni operate da fonti mediatiche da un lato a minor raggio di diffusione, dall’altro però più prossime.
[15] Nel famigerato caso del «mostro di Firenze», si ritenne «totalmente inattendibile la deposizione di A.B., emblematica dei possibili effetti nocivi che all’imputato possono derivare dalle suggestioni dei mezzi di informazione»; un riconoscimento operato «a distanza di circa 11 anni, quando televisione e giornali avevano ormai messo in moto il meccanismo dello “sbatti il mostro in prima pagina” ed il Pacciani era divenuto il possibile oggetto di tutte le suggestioni popolari» (Corte di assise d’appello, 13 febbraio 1996, in Foro it., 1997, 2, c. 65 ss.).
[16] La Corte di cassazione ha ritenuto ineccepibile la decisione della Corte di assise di appello di Milano che – nel processo per l’omicidio di Chiara Poggi – giornalisticamente noto come «delitto di Garlasco» – non aveva ammesso la rinnovazione delle deposizioni di due testimoni in ragione della perdita di genuinità nel frattempo delle loro dichiarazioni, «avendo il “tema bicicletta” […] costituito oggetto di una esagerata attenzione mediatica, tale da influenzare il ricordo delle testi, rendendo difficile, se non impossibile, distinguere tra ciò che le stesse avevano effettivamente visto quella mattina e quello che in seguito ricordavano di aver visto» (Cass., Sez. V, 12.12.2015, in Dir. pen. cont., 29.06.2016).
[17] Rinunciare al contributo di un teste ritenendolo irrimediabilmente condizionato dal martellamento mediatico è decisione delicata che può ledere gravemente le prerogative dell’accusa o della difesa, in base a una valutazione dagli incerti e opinabili parametri. Recuperare dichiarazioni già rese dal teste, poi, supponendo che siano state rilasciate prima che queste suggestioni operassero, è rimedio che ha senz’altro una sua plausibilità, ma che risente anch’esso dell’opinabilità del presupposto. E ancora: se i fattori di condizionamento fossero intervenuti nelle more del giudizio di primo grado, cosa dovremmo recuperare con valore di prova? Le dichiarazioni rese durante le indagini?
[18] Nel 1992 ha preso avvio negli Stati Uniti un programma, denominato Innocence Project, con l’obbiettivo di scagionare – soprattutto tramite l’utilizzo del test del DNA – le persone ingiustamente condannate. Da questa iniziativa sono germinate, specie nei Paesi anglosassoni, organizzazioni la cui azione, pur declinata in diverse modalità, ha precipuamente la stessa finalità istituzionale (da noi opera, dal 2014, l’Italy Innocence Project), nonché quella di elaborare tecniche e metodologie in grado di contenere gli errori giudiziari; con il medesimo obbiettivo sono state redatte in Italia, nel 2013, le Linee Guida Psicoforensi. Per un processo sempre più giusto (su cui si veda, per tutti, G. Gulotta, Innocenza e colpevolezza, cit.). Estremamente significativo, in questa sede, è il fatto che nella maggioranza dei casi l’ingiusta condanna scoperta grazie alle organizzazioni de quibus si basasse su un contributo testimoniale, su una errata ricognizione personale o su una falsa confessione (Cfr. G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., pp. 160 ss.).
[19] Per una lungimirante apertura esegetica in tal senso, cfr. F. Cordero, Codice di procedura penale commentato, II ed., Torino, UTET, 1992, p. 467.
[20] Decisivi spesso gli stessi «interrogatori» a cui il teste viene sottoposto prima del dibattimento, cfr. E. Gora, I. Rampoldi, Come nell’interrogatorio la domanda può influenzare la risposta, in G. Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 539 ss.
[21] Verità, sempre conosciuta da grandi scrittori. In un noto racconto di Borges, il protagonista va a incontrare un vecchio colonnello per sapere come erano andate le cose durante una certa battaglia. Il colonnello gli racconta con tale dovizia di parti colari, «con periodi così precisi e in modo tanto vivo» da fargli temere che avendo egli «narrato molte volte quelle stesse cose, […] dietro le sue parole non rimanessero quasi ricordi» (J.L. Borges, L’altra morte, in Id., L’Aleph, 1952, p. 71). Scrive Hector Bianciotti che «il signor Tenant avrebbe sempre ripetuto le stesse cose; forse le aveva dimenticate e gli rimaneva solo quel racconto imparato a memoria che si ripeteva senza più figurarsele» (Senza la misericordia di Cristo, Palermo, Sellerio, 1985, p. 71).
[22] Nella notissima e inquietante vicenda giudiziaria, giornalisticamente conosciuta come «Diavoli della bassa modenese», la Cassazione ha rigettato i ricorsi contro le assoluzioni pronunciate della Corte di appello, che aveva trovato sorprendente che dei colloqui avuti dalle due psicologhe con i bambini non sia restata traccia, mentre «sarebbe stato del tutto fisiologico provvedere alla registrazione». L’omissione era stata sostanzialmente giustificata con il tempo che avrebbe richiesto la trascrizione delle conversazioni. La Corte di secondo grado l’aveva ritenuta ragione insufficiente e considerato grave che nulla si potesse sapere «in ordine alle vivide modalità espressive, alle esitazioni, alle incertezze, agli imbarazzi, alle contraddizioni recate nelle narrazioni». La Cassazione ha condiviso i rilievi della Corte territoriale, rilevando come che ciò che «ha un peso indubbio sul piano della prova è che non esiste un reperto documentale afferente alle uniche informazioni selettive: le prime dichiarazioni dei piccoli, quelle cioè più genuine e meno aperte al dubbio di contaminazioni e suggestioni» (Cass., Sez. IV, 3.12.2014, dep. 23.01.2015, Rv. 3279-15).
[23] Cfr. al riguardo, per incisive considerazioni e per riferimenti comparatistici, G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., pp. 92 ss. Nella legge delega per la riforma del processo penale di recente approvata, si fa riferimento alla video-registrazione o, almeno all’audio-registrazione, dei contributi testimoniali (art. 1, ottavo comma, lett. a e b), con previsioni il cui vincolo precettivo, peraltro, è piuttosto blando per la presenza di formule «esonerative»: molto dipenderà da come il legislatore delegato interpreterà il mandato politico del delegante.
[24] Non si ignora che la videoregistrazione costituisca un ulteriore elemento di «soggezione» per la persona informata sui fatti, già in una condizione di «inferiorità» psicologica, quando viene sentita per fini di giustizia, ma è costo più che compensato dai vantaggi che riesce a offrire.
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
Le correnti: un male necessario? di Carlo Guarnieri
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Quando parliamo di correnti giudiziarie ci riferiamo a gruppi organizzati di magistrati, dotati di organi direttivi e di strutture di comunicazione, con fini istituzionali latu sensu politico-culturali. Il contesto in cui nascono e si sviluppano le correnti è quello del conflitto che travaglia la magistratura italiana a partire dalla metà degli anni 50 del secolo scorso e che ha come oggetto la cosiddetta carriera, cioè le verifiche che a quel tempo dovevano superare i magistrati che volessero occupare, all’interno dell’organizzazione giudiziaria, posizioni di maggior prestigio come essere a capo di un tribunale, di una corte d’appello, di una procura o far parte della corte di cassazione. Tradizionalmente, queste verifiche erano controllate dai magistrati che già le avevano superate, disegnando così una struttura tendenzialmente piramidale governata dal meccanismo della cooptazione.
In questo contesto, il conflitto che emerge riguarda proprio queste verifiche che vengono considerate da molti magistrati una violazione dell’indipendenza in quanto, mettendo nelle mani dei magistrati di grado più elevato le promozioni, concedono loro di fatto anche il potere di influenzare i comportamenti dei loro colleghi, nonostante l’art. 101 della Costituzione stabilisca che “i giudici sono soggetti solo alla legge”. È qui che iniziano ad organizzarsi le cosiddette correnti, così designate perché – pur con differenze circa le strategie da seguire per ottenere una riforma dell’assetto - tutte operano all’interno dell’associazione maggiormente rappresentativa – l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) - quella cui alla fine aderisce la quasi totalità dei magistrati. A questa prima articolazione – di tipo per così dire sindacale – si aggiungerà in seguito, alla fine degli anni ’60, una differenziazione più nettamente politica e che si riferisce soprattutto al ruolo del giudice nel sistema politico e quindi al suo rapporto con il sistema giuridico ed in particolare sull’importanza da dare al testo costituzionale[i].
L’esito del conflitto vede la sostanziale vittoria di chi intende trasformare in profondità l’assetto della magistratura, con la conseguenza che le garanzie di indipendenza dei magistrati vengono nettamente rafforzate[ii]. Va sottolineato che tale mutamento viene ottenuto attraverso la riforma del CSM, dove – almeno a partire dal 1975 – i due terzi dei componenti sono magistrati direttamente eletti dai propri colleghi. Questo fatto, da un lato, irrobustisce l’indipendenza – esterna ed interna – dei nostri magistrati e, dall’altro, favorisce lo sviluppo di una forte competizione fra le varie correnti che si dispiega, appunto, anche a livello elettorale. Il ruolo delle correnti nel governo della magistratura assume infatti un particolare rilievo. Non solo tutte le decisioni che toccano i magistrati sono prese da CSM. Quasi tutti i componenti togati del Consiglio appartengono ad una o a un’altra delle correnti dell’Anm, che così quelle decisioni sono in grado di influenzare in modo rilevante. Infatti, il ruolo dei componenti laici, pur non trascurabile, è decisamente secondario e può esplicarsi solo qualora – e nella misura in cui – le correnti si presentino divise.
Le disfunzioni di questo assetto non hanno tardato a manifestarsi. Innanzitutto, affidare le valutazioni di professionalità ad un organo formato per due terzi da chi viene eletto proprio da coloro che deve valutare ha in pratica vanificato l’efficacia delle valutazioni, anche quando queste siano previste e siano caratterizzate da notevole complessità: di solito, più del 99% dei valutati ottiene un risultato positivo[iii]. In altre parole, si innesca qui un chiaro conflitto di interessi, favorito proprio dalla presenza delle correnti. Infatti, il divieto di immediata rieleggibilità – che dovrebbe servire a impedire una eccessiva disponibilità dei membri togati nei confronti dei loro colleghi – di fatto non ha efficacia proprio per la presenza delle correnti. Infatti, qualora un componente togato del consiglio si mostri eccessivamente “severo” nella valutazioni sarà la sua corrente a pagarne il conto alle prossime elezioni. Si spiega così – pur con qualche valorosa eccezione – la tendenza al lassismo che caratterizza l’operato del consiglio in questo campo. La conseguenza più rilevante dal punto di vista organizzativo è stata che le verifiche tradizionali di professionalità – la carriera – sono state smantellate e non sono state sostituite da altre.
Allo stesso tempo, questa situazione, rendendo sulla carta tutti magistrati egualmente bravi, non ha fatto che allargare i margini di scelta del Consiglio quando i candidati ad una posizione siano più di uno. È quanto avviene per quelle posizioni direttive che – ad esempio, quando riguardano gli uffici requirenti – comportano per chi le ricopre prestigio e soprattutto l’esercizio di un notevole potere verso l’esterno – la società, l’economia, la politica - ma anche verso l’interno, cioè verso i propri colleghi. Sono posizioni ricercate da molti magistrati e che attirano l’interesse del sistema politico e quindi anche dei componenti laici del CSM. Questo fatto, unito alla composizione proporzionale del consiglio, rende molto probabile che alla fine le varie correnti si accordino – con l’eventuale partecipazione di membri laici – per spartirsele fra loro. Non solo, è poi anche probabile che nei processi di nomina la fedeltà – alla corrente – venga premiata, a scapito della competenza: avere un proprio magistrato alla guida di un importante ufficio è, per una corrente, fonte di prestigio e soprattutto di potere, potere utile anche a rafforzare ulteriormente il proprio consenso elettorale.
L’assetto che abbiamo sommariamente descritto appare piuttosto stabile. Il controllo esercitato dalle correnti sul CSM permette ai magistrati di superare senza problemi – a meno di gravissime mancanze – i vagli di professionalità, con i relativi miglioramenti del trattamento economico, sostanzialmente anche continuando a svolgere le stesse funzioni o solo con minimi aggiustamenti. Per chi invece intenda aspirare a ricoprire posizioni più importanti le correnti offrono delle strade promettenti, almeno a chi sia disposto ad impegnarsi nell’attività associativa: questi ultimi infatti sono quasi sempre ricompensati con la nomina a qualche posizione importante. Quindi poco potrebbe incidere una riforma della legge elettorale[iv]. Forse solo il sorteggio applicato in modo integrale – cioè fra tutti i magistrati – potrebbe avere delle conseguenze rilevanti, anche se probabilmente per lo più negative[v].
Una volta messi in luce i limiti delle correnti giudiziarie, possiamo però anche domandarci se esse vadano davvero considerate un male. Per fare questo bisogna innanzitutto partire dalla constatazione – ormai largamente accettata – dell’accresciuta creatività giurisprudenziale[vi] e dagli ampi margini di discrezionalità che di fatto godono gli uffici del pubblico ministero (e quindi anche chi li dirige)[vii]. In questo contesto, in cui i magistrati vengono ancora reclutati con un concorso pubblico che mira solo a valutare le loro conoscenze del diritto e con successive valutazioni che di fatto non sono operative, le correnti svolgono un ruolo non indifferente: segnalano infatti all’esterno dell’istituzione, almeno a grandi linee, le modalità con cui la discrezionalità verrà esercitata. Lo stesso collateralismo – oggi peraltro molto meno in voga – collegando correnti di magistrati a indirizzi politici introduceva, anche se in modo surrettizio, una forma di responsabilità. Semmai, il declino della dimensione programmatica ha coinvolto, dopo i partiti politici, anche le correnti giudiziarie che oggi possono essere accusate di voler influire non tanto sulle politiche giudiziarie quanto sulla spartizione delle posizioni direttive.
Se si intende ovviare ai limiti di questa situazione i punti su cui agire sono altri. Innanzitutto, bisogna partire dal fatto che, come abbiamo più volte sottolineato, i meccanismi di valutazione delle capacità professionali sono gravemente carenti. Oltretutto, smantellata la tradizionale carriera, non si è agito per rendere più accurata la selezione iniziale. La conseguenza è che è cresciuta a dismisura l’influenza della correnti, che possono tranquillamente scegliere fra magistrati tutti formalmente bravi. Allo stesso tempo, il declino della dimensione programmatica delle correnti ha aperto la via ad una crescente autoreferenzialità degli orientamenti professionali, anche perché la nostra magistratura è, anche in Europa continentale, la più chiusa al contributo delle altre professioni giuridiche[viii].
Il risultato forse più problematico è che, in un contesto in cui il magistrato – giudicante e soprattutto requirente – si trova a godere di dosi crescenti di discrezionalità, tale discrezionalità viene esercitata in modo sempre meno trasparente. Pensare che i nostri magistrati siano “soggetti” alla legge può essere solo un’utopia. Sapere però, almeno a grandi linee, come vorranno adoperare i margini che il sistema lascia loro è un obiettivo che, in un regime democratico costituzionale, non può essere abbandonato.
[i] Vedi C. Guarnieri, Giustizia e politica, Il Mulino, Bologna, 2003 e, di recente, E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari, 2018.
[ii] Il caso italiano – talvolta preso a modello da istituzioni dell’Unione Europea o del Consiglio d’Europa - presenta tali caratteri in modo particolarmente ampio.
[iii] Vedi G. Di Federico, Le valutazioni della professionalità dei magistrati, in C. Guarnieri, G. Insolera e L. Zilletti (acd), Anatomia del potere giudiziario, Carocci, Roma, 2016, pp. 79-85. Va aggiunto che queste percentuali sono possibili anche perché non esiste limite al numero di giudizi positivi che possono essere emessi. In altre parole, il CSM non è obbligato a scegliere.
[iv] Chi scrive si è in passato espresso in favore del Voto singolo trasferibile: un sistema tendenzialmente proporzionale che avrebbe il pregio di premiare le personalità di grado di aggregare consensi anche al di là degli schieramenti correntizi. Difficilmente però anche questo sistema sarebbe in grado di trasformare in modo radicale l’attuale assetto. Si veda più avanti nel testo qualche suggerimento sugli interventi con maggiore impatto.
[v] Come affidare il controllo del CSM ad un piccolo gruppo di magistrati, privo di qualunque rappresentatività e magari anche delle capacità a gestire un organo complesso come il CSM. Non considero poi di proposito il tema della costituzionalità del sorteggio.
[vi] Il fenomeno venne chiaramente identificato a suo tempo da M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano, 1983.
[vii] Da ultimo vedi E. Bruti Liberati in “Il Foglio” 9 luglio 2019.
[viii] Si pensi che anche in Francia ormai circa il 30% dei magistrati viene reclutato con concorsi “laterali”, aperti a chi ha già maturato delle esperienze professionali.
* Sul Forum si rinvia alla lettura Introduzione di Alfonso Amatucci al forum I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? ,
Seguiranno: I mali del Csm di Giorgio Spangher e I mali del CSM: invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
I mali del CSM: l’invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Vi ringrazio per avermi invitato e coinvolto in questa Tavola Rotonda. Il suo titolo “L’invadenza delle correnti o la loro scomparsa” è molto attuale e ci pone di fronte al dubbio che la storia più recente e i fatti degli ultimi mesi hanno reso urgente: è possibile, a fronte dei fenomeni che abbiamo vissuto in queste ultime settimane , trovare una terza via dell'associazionismo che non porti inevitabilmente alla scomparsa delle correnti o ad una loro inevitabile invadenza degenerativa del sistema?
Il titolo postula che se le correnti ci sono, sono invadenti per natura e l’alternativa è che loro vengano meno. E quindi dobbiamo interrogarci se ci sia un’altra strada.
Per comprendere la situazione in cui ci troviamo sarebbe necessario, a mio parere fare un piccolo passo indietro.
La storia dei nostri gruppi associativi, di tutti i gruppi associativi, parte da grandi contrapposizioni culturali. La prima divisione nell’associazionismo giudiziario si basava sull’applicazione e interpretazione dell’art. 3 della Costituzione: questo ha creato la prima distinzione tra magistrati progressisti e magistrati conservatori. Facendo un rapido balzo in avanti nel tempo, abbiamo vissuto tutti quanti – e forse noi della nostra generazione l’abbiamo vissuta meglio e di più – una fase in cui le grandi contrapposizioni ideali all'interno della magistratura sono andate pian piano scemando. Forse perché alcune posizioni, alcune scelte erano diventate patrimonio comune dell’intera Magistratura, non c’era più bisogno di contrapporsi ad esse; molte di queste posizioni comuni erano originariamente posizioni della Magistratura progressista, e questo sicuramente può far vanto a molti di voi.
Il problema è che questo ha determinato un isterilimento dell’associazionismo – e devo dire, di alcuni gruppi, più che di altri.
Il fatto che alcuni gruppi associativi abbiano perso una forte componente di aggregazione culturale, ha determinato, in un sistema nel quale è necessario comunque – come nellapolitica generale – aggregare consensi, che si scivolasse progressivamente su un terreno diverso, quello dell'aggregazione per clientele; la stessa strada percorsa dalla politica in tempi diversi e forse precoci rispetto alla Magistratura. Quando non è più possibile aggregare consensi in base ad opzioni ideali, i sistemi rappresentativi degenerano ed iniziano ad aggregarsi attraverso altri fattori, per esempio aggregare per interessi.
La scelta di seguire politiche corporative – ma direi di più – politiche clientelari, è stata ed è ancora oggi – ed i risultati elettorali lo dimostrano – per alcuni gruppi una scelta di sopravvivenza.
Questo ovviamente deve essere un primo punto di riflessione, anche per chi cerca di mantenere in piedi una identità culturale e continuare a ragionare nel dare contenuti ideali, culturali, valoriali all’associazionismo.
Ovviamente questa tensione non è, non è stata priva di contraccolpi.
Noi abbiamo vissuto nella storia della Magistratura delle scissioni importanti, proprio per il rigetto, anche all’interno dei gruppi che si avviavano, verso logiche più corporative e clientelari; fenomeni di rigetto che hanno prodotto scissioni, svolte e creazioni di nuovi soggetti. La nascita del Movimento per la Giustizia è parte di questa storia: è il rigetto rispetto a logiche clientelari che avevano pervaso e che già molti anni fa erano considerate un di cancro sia in Unità per la Costituzione, che in Magistratura Indipendente. Ma se guardiamo più vicino a noi, tutto sommato anche la scissione di Magistratura Indipendente con la creazione di Autonomia e Indipendenza è una scelta che si fonda radicalmente sull’affermazione di una questione morale, e sul rigetto di un modello di fare associazionismo basato sulla gestione clientelare del potere e sul più opaco collateralismo alla politica.
In tutto questo, si inserisce poi la nuova (ormai vecchia) legge elettorale per il rinnovo del CSM.
La legge elettorale vigente ha determinato una ulteriore torsione di questo sistema, portando a due fenomeni.
Nel tentativo di ridurre la capacità e il potere delle correnti, il legislatore che fa? Crea un sistema elettorale con un collegio unico nazionale, maggioritario ed uninominale; riduce il numero di consiglieri; inconsapevolmente mette in mano alle correnti la possibilità di designare, di nominare ex ante rispetto alle elezioni quelli che saranno gli eletti al Consiglio Superiore della magistratura. Priva gli elettori di qualsiasi potere di scelta.
Questo determina – dicevo- due effetti distorsivi. Il primo: il fatto che gli eletti vengano, di fatto, sostanzialmente nominati, che vengono prescelti dalle correnti crea un forte rapporto di dipendenza tra il gruppo e il nominato. Talvolta, come abbiamo visto di recente il rapporto di dipendenza non è neanche nei confronti della corrente ma di chi, all'interno di essa esercita una posizione di potere reale controllando il consenso elettorale.
Il secondo effetto distorsivo, che pure non dobbiamo sottovalutare, va in senso opposto al primo, e si traduce nella totale autonomizzazione dell'eletto rispetto al gruppo che lo ha sostenuto, determinando l'eliminazione di ogni responsabilità politica che pure deve essere alla base di un sistema di rappresentanza realmente democratico. Ciò avviene in relazione alla candidatura del personaggio di grande prestigio personale, che si impone rispetto al gruppo. La scelta di candidature di grande prestigio personale porta ad una importante affermazione elettorale ma fatalmente, nel corso del mandato colloca questo tipo di candidato all'esterno del meccanismo di rappresentanza del gruppo che postula, appunta, la responsabilità politica. Quel meccanismo in base al quale le scelte di governo e di gestione, quando risultino errate o persino compromettenti si ripercuotono in una responsabilità politica che ricade sul gruppo. Se però il soggetto eletto, in virtù dei consensi prevalentemente personali, si rende completamente svincolato rispetto al gruppo e addirittura è soverchiante rispetto ai principi e ai valori del gruppo che dovrebbe rappresentare diventa completamente autoreferenziale e le sue scelte finiscono per essere determinate da logiche personalissime e talvolta opache.
Questo è – a mio parere- il quadro nel quale si inseriscono i fatti più recenti emerse dalle indagini della Procura della Repubblica di Perugia ed a noi noti tramite le cronache dei mezzi di informazione.
Tali recenti vicende rappresentano certamente una ulteriore involuzione del sistema. Perché, come premettevo, questa vicenda dimostra come non sono più neanche correnti a intervenire in modo deviante sulle decisioni del governo autonomo, sono soggetti che all’interno delle correnti assumono una posizione di potere.
Perché dico che non sono neanche più correnti? Perché secondo le ricostruzioni dell'informazione, intorno ad un tavolo, la sera, in un certo albergo a tessere le trame delle nomine di vertice in alcuni importati uffici giudiziari scopriamo che non ci sono i segretari delle correnti, quelli che avrebbero la rappresentanza statutaria del gruppo e ne potrebbero indirizzare le scelte. E non c’è neanche una sola corrente. Ci sono dei soggetti che hanno un potere reale – che si traduce nella disponibiltà dei consensi elettorali necessari per far eleggere i consiglieri superiori– e che sono esponenti di due differenti correnti che, per inciso, assumono spesso posizioni conflittuali tra di loro. Quello che viene in emersione è quindi, una cosa ancora ulteriore e diversa rispetto ai fenomeni già noti della degenerazione correntizia. Configura l’aggregazione di un sistema di potere, che a questo punto si stacca in modo apprezzabile dal sistema delle correnti.
E non si può sottacere, se si vuole ben comprendere il fenomeno, che a quel tavolo non c’erano soltanto magistrati. C’era anche la politica. Anche la politica gioca, in questa circostanza, un ruolo improprio e deviante rispetto alle dinamiche consigliari. Si tratta peraltro di una politica che porta le proprie istanze meno nobili nel luogo ove vengono presi segreti accordi anziché nella sede istituzionale propria, il CSM, nella quale quelle decisioni devono essere prese e dove, per dettato costituzionale la politica ha piena cittadinanza a partecipare in modo pubblico e trasparente.
Il contributo della politica a quel tavolo non è neanche più un contributo meramente clientelare; sembra essere, invece e ben più gravemente, il tentativo di orientare, attraverso le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, le scelte giurisdizionali che in quegli uffici dovranno essere assunte.
Questo è il livello di torsione al quale siamo arrivati.
E allora, concludendo, e tornando alla domanda principale: c’è uno spazio nel quale l'associazionismo giudiziario può esercitare il suo ruolo senza diventare metastasi del sistema di autogoverno?
Credo che una soluzione adeguata non possa che imporre che il CSM rimanga una istituzione fondata sul principio di rappresentanza. Va quindi bandita e dichiarata inaccettabile ogni ipotesi di riforma che preveda la sua formazione attraverso strumenti differenti dalle elezioni. In particolare deve essere respinta l'ipotesi di sua composizione per sorteggio. Su questo, noi qui in questa sala siamo tutti d’accordo ma, devo dire, sono pochi quelli tra i giuristi, nel mondo dell’avvocatura, pochissimi nel mondo della Magistratura sostengono che il CSM possa essere un luogo dove non ci sia rappresentanza e sia formato tramite sorteggio dei soggetti che lo compongono. Vorrebbe dire nullificare il ruolo istituzionale. Se noi pensassimo ad una Corte Costituzionale di sorteggiati, ad un Parlamento di sorteggiati o ad una Authority di sorteggiati, avremmo un esempio ben nitido del decadimento del ruolo istituzionale che verrebbe subito dal Consiglio.
Se il Consiglio deve esistere non può che essere un Consiglio che si basa sulla rappresentanza. E la rappresentanza della magistratura non può che essere aggregata attraverso la competizione elettorale democratica tra diverse associazioni di magistrati, aperta alla partecipazione anche di candidati indipendenti. Ciò è tanto necessario ed inevitabile che “Se non ci fosse l’associazionismo giudiziario perchè vietato per legge – cito un paradosso di Giuseppe Cascini, in un suo intervento recente – si passerebbe all’associazionismo segreto, perché l’associazionismo dei magistrati è insopprimibile”.
E allora che fare? Mi permetto di sollecitare l'attenzione alcune necessità.
La prima: bisogna manutenere la tenuta democratica delle nostre associazioni. Le nostre associazioni devono essere delle strutture democratiche, trasparenti e quanti in esse militano devono impegnarsi e garantire che esse non siano un simulacro che viene agito dall’esterno o dall’interno attraverso logiche opache, che non vi abbiano più accoglienza centri di potere palesi od occulti che non coincidano con le rispettive dirigenze statutarie, democraticamente elette e perciò politicamente responsabili rispetto al proprio corpo sociale.
La seconda: modificare urgentemente il sistema elettorale del CSM. Noi dobbiamo arrivare ad un sistema elettorale che garantisca due risultati: la responsabilità politica delle aggregazioni che si presentano; una possibilità reale di scelta degli elettori tra più candidati, anche all’interno di una stessa lista o di una stessa coalizione.
Altro tema di centrale importanza: le regole consigliari sono state per lungo tempo concepite ed utilizzate per rafforzare la capacità di clientela dei gruppi associativi, anziché per ridurla. Ricordiamoci quello che era fino a pochi anni fa il monopolio dell’informazione: per avere semplicemente una notizia il magistrato doveva andare col cappello in mano da qualche esponente di corrente alimentando un sistema che scambiava il faore con il consenso e contrabbandava per favore l'esercizio di un diritto. La maggior trasparenza del CSM e regole chiare costituiscono uno strumento strategico per contrastare il clientelismo.
L’ultima considerazione: non possiamo pensare che il problema si risolva indicando una, due persone, per quanto con nomi altisonanti, celebri, celeberrimi e farne i capri espiatori del sistema clientelare della Magistratura. Ci sono delle persone che hanno delle specifiche responsabilità, ma non compete a noi sul piano giudiziario e disciplinare valutarle.
C’è però una questione morale che riguarda l'intera Magistratura, e ne abbiamo avuto dimostrazione nelle ultime elezioni: l’offerta di clientela si salda ad una domanda di clientela. Se c'è chi elargisce favori e ne fa sistema di gestione del potere c'è anche chi i favori li chiede ed alimenta questo potere.
Se il corpo della Magistratura in modo ipocrita indica nelle correnti, come fossero altro da se, o in alcuni all’interno delle correnti i soli responsabili di questa situazione, non compie in modo corretto il proprio dovere deontologico ed etico.
Tutti i magistrati si devono invece interrogare circa il livello etico dei propri comportamenti e se gli stessi siano adeguati a garantire un autogoverno corrispondente alle aspettative del legislatore costituzionale.
Sul Forum si rinvia alla lettura dei precedenti contributi :Introduzione di Alfonso Amatucci al forum I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? ,
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
Introduzione al forum* di Alfonso Amatucci
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il titolo della tavola rotonda usa il mezzo lieve del quesito per affrontare un problema di straordinaria serietà. Ci si chiede in realtà, posto che l’invadenza nella gestione del CSM da parte delle correnti (per la verità, di alcune più di altre) è un dato certo, se non sia questa la prevalente funzione che esse hanno finito con l’assumere e, implicitamente, se quella funzione non sia diventata primaria per essere evaporate le ragioni che ne avevano determinato la nascita. Sicché potrebbe retoricamente domandarsi se le correnti non siano diventate intollerabilmente invadenti come strumento di gestione del potere d’apparato per essere quasi “scomparse” come centro di confronto e di elaborazione di idee. Nacquero - come è stato autorevolmente rilevato - “perché in magistratura non v’erano visioni coincidenti sulla funzione della giurisdizione e sui limiti dell’interpretazione, sulla scia di un dibattito culturale che prese le mosse dalla discussione sui limiti del giudice nel dare attuazione ai principi ed alle norme della costituzione che non avessero ancora trovato riscontro in disposizioni di legge ordinaria”.
Con un’eccezione, tuttavia, anzi con due, giacché fu proprio lo “strapotere” delle correnti manifestatosi in talune (mancate) nomine consiliari nel quadriennio 1986-1990 a determinare la fuoriuscita di molti magistrati (al CSM c’erano D’Ambrosio e Racheli) dalle rispettive correnti di appartenenza e poi la nascita del “Movimento per la giustizia”, che con MD ha poi costituito “Area”. Il germe del rifiuto della corrente come strumento di carriera è dunque presente in magistratura. E, tuttavia, anche ad Area s’è imputato di aver partecipato alle “spartizioni” (valga per tutte l’esempio delle nomine a pacchetto), senza le quali – è stato peraltro osservato da taluni – nessuno degli aderenti ad Area avrebbe mai, o avrebbe assai raramente, ottenuto nomine di prestigio. Sicché si sarebbe trattato di un “male necessario”, indotto dal sistema.
Sennonché, le inaudite vicende messe in luce dall’indagine della procura di Perugia impongono che si corra ai ripari. Non certo con l’apocalittico sistema del sorteggio in prima o seconda battuta per l’elezione (elezione?!) dei componenti togati del CSM, che forse addirittura aumenterebbe il peso delle correnti. Sarebbe come domandarsi – perdonate l’improprietà del paragone ma è il primo che mi viene in mente – se, essendo decaduta la forza aggregante delle ideologie che avevano caratterizzato i partiti nel secolo scorso, sarebbe bene che essi scomparissero. Ma chi lo sostenesse, non potrebbe non dire chi li sostituirebbe nel determinare la politica nazionale. E, allo stesso modo, chi pensasse che le correnti dovrebbero sparire, non potrebbe non dire in quale altro serio modo potrebbe chiedersi ai magistrati di eleggere la componente togata del CSM, che il prof. Silvestri (non l’ultimo arrivato) ritiene di indirizzo politico, se pur limitato alla materie dell’autogoverno. Non so se si miri – ma il sospetto ce l’ho – a limitare il potere delle correnti per sminuire il ruolo del CSM nell’assetto costituzionale improntato all’equilibrio tra i poteri. Sarei certo però che quello sarebbe l’effetto finale, come sempre accade quando si tende ad eliminare il peso dei corpi intermedi nella determinazione della composizione di un organo costituzionale.
Le correnti, dunque non solo possono esistere (libertà di associazione), ma non si può evitare che esistano ed è bene che ci siano, apparendo un corpo intermedio essenziale. Tutti certamente concordano nel ritenere che occorre incrementarne la funzione lato sensu culturale per recuperarne le nobili ragioni d’essere che il tempo ha corroso. Dire come fare è più complesso e comunque non potrà accadere in tempi brevi. Hic et nunc va proposto un sistema elettorale capace di portare al CSM i migliori sfruttando l’insopprimibile interesse di ogni corrente ad avere successo nelle elezioni: l’interesse è pur sempre, in ogni contesto ed a qualsiasi latitudine, il principale fattore di determinazione delle azioni.
L’ambizione del candidato o il desiderio di avvicinarsi alla spiaggia natia non è eliminabile. La tendenza di un gruppo a nominare ad un ufficio direttivo chi abbraccia lo stesso tipo di impostazione sulla funzione e la posizione della giurisdizione è scontata. Ma deve cedere il passo al rispetto delle regole, e questo dipende dal rinnovato peso che i gruppi sapranno dare alla questione morale, dalla trasparenza dell’attività consiliare e dall’abbassamento del livello di gratitudine che l’eletto nutrirà nei confronti del gruppo designante, che quasi sempre dipende dallo spessore dell’eletto: chi è eletto perché (soprattutto perché o soltanto perché) un gruppo lo ha candidato, avrà maggiori difficoltà a sottrarsi al vincolo instauratosi anche quando si trattasse del delicatissimo ambito di valutazioni discrezionali
Un’idea (nulla più che un’idea) del modo per attenuare i possibili effetti negativi di quel vincolo m’è nata pensando a quanto accaduto nelle elezioni suppletive svoltesi dopo le dimissioni conseguite alle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia. Se Area avesse presentato solo un candidato avrebbe certamente ottenuto un seggio, essendo la somma del numero dei voti singolarmente riportati da ciascun candidato di gran lunga superiore ai voti espressi per il candidato unico di ognuna delle altre correnti. Area non ha invece ottenuto alcun seggio perché l’attuale legge elettorale non contempla un momento proporzionale.
Ne discendono due corollari:
- se un gruppo organizzato vuole ottenere seggi, deve esso stesso (e non gli elettori) compiere delle scelte preventive; se non lo fa, quand’anche non lo faccia per nobili ragioni, soccombe;
- è del tutto irragionevole che un gruppo che dagli elettori ottenga più voti degli altri non abbia rappresentanti o che ne abbia in numero inferiore.
Sono discrasie che esaltano, e non diminuiscono, il potere delle correnti intese come organizzazioni capaci di fare eleggere candidati. Lo esaltano perché quasi tutto dipende dalla designazione, anche di chi, essendo di Trento, è del tutto sconosciuto a Caltanissetta, o viceversa. Con la conseguenza che gli elettori molto spesso non potranno che esprimersi per “fedeltà” e non per stima; e, ancora, che ne risulterà aumentato il livello di gratitudine dell’eletto per il gruppo che lo ha candidato.
Quegli effetti sarebbero fortemente attenuati se, con opportune previsioni per conseguire la parità di genere e con unica votazione ed unica preferenza in tanti collegi quanti sono i distretti di Corte d’appello, venissero eletti, previa ripartizione dei seggi tra liste concorrenti in misura proporzionale ai voti riportati su base nazionale, coloro che avessero riportato il miglior quoziente tra voti espressi e voti ottenuti. L’interesse delle correnti ad ottenere molti voti su base nazionale (che determinerebbe il numero dei seggi assegnati) le indurrebbe a candidare in ogni collegio i magistrati più stimati, attesa anche l’incertezza su quelli destinati ad ottenere il miglior quoziente in ogni distretto, anche se di contenute dimensioni. E si darebbe corpo all’idea che quanto più elevato è il prestigio di un magistrato, tanto minore è la sua “dipendenza” da orientamenti non fondati su ragioni cristalline.
Ma m’è stato affidato il compito di moderare il dibattito e dunque cedo la parola agli autorevolissimi interventori, scusandomi in anticipo se dopo solo 10 minuti dovrò avvertirli del limite di tempo a ciascun assegnato.
*seguiranno i contributi Le correnti un male necessario? di Carlo Guarnieri, I mali del Csm di Giorgio Spangher, I mali del CSM: invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
I mali del CSM di Giorgio Spangher*
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il Consiglio Superiore della Magistratura è un luogo dove si esercita una funzione e/o un potere. Come ogni luogo dove si esercita una funzione e/o un potere sottostà alle regole della funzione e/o del potere: chi è chiamato a svolgerle cerca di esercitarle nella “visione” personale o del gruppo di appartenenza cercando di prevalere sull’altro o sugli altri che anch’essi vogliono svolgere personalmente o nel gruppo di appartenenza la loro funzione e/o il potere.
È possibile che singoli o gruppi trovino dei compromessi, dei componimenti, delle mediazioni, ma tendenzialmente l’uno o l’altro, un gruppo o un altro cercherà di prevalere.
Come detto il Consiglio Superiore della Magistratura non si sottrae, forse non può sottrarsi a questa logica delle funzioni e del potere, non costituendo un ostacolo – in termini assoluti – la materia sulla quale la funzione e/o il potere si esercita (l’autorevolezza della Magistratura, la sua indipendenza).
Poiché il potere del singolo, inevitabilmente, è debole nascono i gruppi e nel contesto del Consiglio Superiore, le correnti che, certamente, hanno come substrato un elemento culturale ideologico, legato alla visione ed alla missione della giurisdizione, ma che da questo elemento di fondo, che permane, si strutturano anche come centro di “potere” con cui esercitare la funzione e/o il potere.
Peraltro, l’aggregazione che senza voler assumere connotazioni spregiative, continueremo a chiamare correnti, sono il volano per ulteriori manifestazioni di potere: le elezioni dell’Associazione Nazionale Magistrati, le nomine al direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, gli incarichi direttivi, le nomine agli organismi europei, le varie designazioni del c.d. fuori ruolo, e via a seguire.
Del resto, in caso di nomine a grappolo o a pacchetto, si assiste ad una distribuzione delle stesse secondo la logica della proporzione della rappresentanza consiliare.
Si peccherebbe di onestà intellettuale ove si mancasse di sottolineare che anche le componenti laiche – i membri di nomina parlamentare – si strutturano ai gruppi, come del resto emerge dalla stessa distribuzione degli otto seggi che effettua il Parlamento (cinque alla maggioranza, tre all’opposizione) seppure i loro obiettivi siano diversi, ancorché tesi a favorire le opzioni culturali e politiche della magistratura, ritenute in qualche modo più contigue: il c.d. collateralismo.
Le componenti laiche, se sono coinvolte nelle scelte ideologiche e di distribuzione degli incarichi, restano estranee alla distribuzione delle posizioni di supporto del Consiglio (magistrati, segretari) e molto spesso alle logiche della sezione disciplinare e di quella definibile paradisciplinare.
Per cogliere il senso dell’organizzazione correntizia basta sottolineare come l’operazione di “reclutamento” inizi dalla formazione iniziale, dai gruppi di lavoro ed il proselitismo continui nelle sedi di assegnazione.
Per capire ancora meglio quanto si è detto basterà sottolineare come qualsiasi magistrato che abbia una pratica di un certo rilievo, per sé, davanti il Consiglio Superiore della Magistratura, sarà inevitabilmente portato ad interrogarsi sulla composizione della Commissione competente e sugli eventuali appoggi del suo competitor.
Il senso del proselitismo si alimenta attraverso i dibattiti nel plenum dove la loro prolissità è giustificata dall’esigenza di trasmettere ai magistrati l’impegno profuso dal gruppo di appartenenza (o che si vuole avvicinare) a testimonianza dell’impegno a tutela del candidato. Lo stesso discorso vale per il gruppo che si opponga alla decisione maggioritaria.
Il dato trova ulteriori conferme nella proliferazione, da parte di ogni gruppo, delle mailing-list, con le quali si cerca di spostare gli equilibri del potere a proprio vantaggio.
A conferma della logica dei gruppi, si sottolinea che i voti in dissenso sono rari, in quanto le questioni conflittuali vengono affrontate all’interno delle correnti, spesso con ritardi e paralisi dell’attività consiliare, che riprenderà quando un punto di equilibrio sarà stato raggiunto.
Ancora, posso riportare per esperienza personale, come il Consiglio usi con elasticità i criteri che stanno alla base delle scelte soggettive: la prima pratica che ho affrontato riguardava la nomina di un giudice minorile: doveva prevalere il criterio della specializzazione o quello della rotazione delle esperienze? Prevalse il primo criterio. Ho chiuso l’esperienza consiliare sempre su un caso di nomina di un giudice minorile; è prevalso l’altro criterio. Prevaleva la scelta della maggioranza legata al nome del candidato.
Quanto ai rapporti con la politica, questi si collocano su piani diversi. Il laico cerca la legittimazione da parte dei suoi referenti per il successivo sviluppo di carriera nelle istituzioni.
A volte il magistrato interessato ad una pratica cerca l’interlocuzione mediata con il politico del territorio, ma a volte non ha difficoltà a ricercare la condivisione con il componente laico.
I magistrati cercano e intrattengono interlocuzioni soprattutto in relazione a possibile posizioni istituzionali fuori ruolo.
Fermo restando che ogni consiliatura fa storia, a sé, non potendosi escludere che i laici agiscano in ordine sparso, ovvero come gruppo, superando le differenze e divergenze politiche, in modo più o meno compatto, cioè, scomponibile, le ultime vicende evidenziano, per un verso, l’emergere di figure individuali di magistrati connotate da una forte visibilità mediatica e, per un altro, la frantumazione delle correnti, di gruppi correntizi soggettivamente riconducibili ad una leadership personale.
A parte vanno considerate le frammentazioni interne, spesso prodromiche di scissione, e di protagonismi più o meno isolati e contingenti.
Resta consolidato che stante un corpus di magistrati numericamente non elevato, la capacità di controllo delle appartenenze, anche in sede distrettuale, non presenta particolari difficoltà di controllo, con conseguente scarsa incidenza sui sistemi elettorali che si volessero introdurre.
* Sul Forum si rinvia alla lettura dei precedenti contributi :Introduzione di Alfonso Amatucci al forum I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? e FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? Le correnti: un male necessario? di Carlo Guarnieri
Seguirà I mali del CSM: invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
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