ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nonviolenza: mi sembra una nozione stupenda. Essa è estremamente aristocratica (Gandhi, Russel …, Dostojevski …): d’origine preevangelica (orientale), come gran parte delle nozioni evangeliche, si è cristianizzata sopratutto col romanticismo nell’Ottocento, e ora si è scristianizzata, facendosi fieramente laica. Ma, si è visto nelle “Marce della Pace” di questa estate, tale sua fondamentale aristocraticità è facilmente accepibile dalle masse coscienti: non c’è contraddizione tra la sua elezione e la sua popolarità. Per questo, quelle “Marce della Pace” sono state il fenomeno politico italiano più interessante dell’anno. Una specie di riproposta, modernissima, del CLN. In esse era inclusa la svolta del XXII Congresso e la possibilità “reale” di un centro-sinistra.
La nonviolenza è l’acme ideale di una concezione razionale della realtà. Se ogni forma del pensiero ha bisogno, nell’atto pratico, di una manifestazione concreta e basata quindi sul sentimento e la persuasione, la nonviolenza è l’atteggiamento sentimentale e persuasivo di chi è totalmente fuori da ogni conformismo, di chi si è totalmente “liberato” attraverso gli strumenti della ragione e della cultura.
Pier Paolo Pasolini (Vie Nuove, 4 gennaio 1962)
Pier Paolo Pasolini e il Diritto
Il 5 marzo 2022 ricorrono 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini (Casarsa, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), intellettuale fra i più eclettici e discussi del ‘900. Poeta, scrittore, editorialista, traduttore, critico letterario, regista e drammaturgo, Pasolini ha sfidato i canoni tanto della tradizione che dell’avanguardia artistica, superando i confini fra generi letterari e fra vita privata e opera d’arte.
In un’Italia alle prese col boom economico e il passaggio alla postmodernità, Pasolini è stato uno dei più attenti osservatori e interpreti dei mutamenti sociali, politici, culturali ed economici del suo tempo. Sicché l’iter politico e culturale pasoliniano diviene paradigmatico di questa trasformazione non solo socio-economica, ma altresì antropologica, come Pasolini stesso ha intuito evocando «la scomparsa delle lucciole» in riferimento all’Italia della metà degli anni Sessanta dello scorso secolo (Il vuoto di potere in Italia, in “Corriere della Sera”, 1° febbraio 1975), distratta da una «violenta omologazione dell’industrializzazione».
A fronte dello svuotamento di potere della politica tradizionale dell’Italia del secondo dopoguerra, Pasolini ha sottolineato l’emergere di quel che definisce con sempre più convinzione il «nuovo fascismo» del consumo di massa, cifra delle società tardo-capitaliste. Una spinta centripeta si sostanzia così, secondo l’intellettuale, nella creazione di modelli omologanti elaborati dalla società del consumo, volti a ricondurre tutto ciò che è marginale e periferico verso un “nucleo” totalizzante che fornisce la base politica e culturale attraverso la quale avviene la neutralizzazione dell’originalità e delle differenze che hanno caratterizzato da sempre le culture provinciali e i dialetti (tanto cari al poeta), le borgate, le periferie. Il consumismo ha così finito per uniformare culturalmente l’Italia: si tratta perciò di una omologazione oppressiva, una completa borghesizzazione che conduce ad un vero e proprio genocidio culturale delle classi sociali subalterne e delle culture “altre”.
Contro questo nuovo ed egemonico sistema di valori l’impegno militante e politico di Pasolini è costante e irriverente, e lo scontro con il senso comune dell’uomo medio appare inevitabile, lasciando un segno tangibile nelle vicende giudiziarie dell’intellettuale.
Almeno due, pertanto, le prospettive che animano i diversi contributi che Giustizia Insieme si appresta a pubblicare in questo speciale “Pasolini e il Diritto”, per celebrare il centenario dalla nascita dello scrittore friulano.
Da una parte ci si interrogherà sul rapporto, non certo facile, dell’Autore con la macchina della giustizia italiana. Come ha avuto modo di sottolineare Stefano Rodotà (Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, oggi in La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 267 ss.), infatti, non si esagera se si afferma che Pasolini è stato l’intellettuale più processato di tutta l’Italia repubblicana: gran parte della sua produzione artistica è finita sotto la lente giudiziaria in processi in cui il ruolo della magistratura è stato spesso ideologico e personalistico. Ripensando alla vicenda giudiziaria di Pier Paolo Pasolini, invero, gli interrogativi si moltiplicano: quell’unico grande e continuo processo all’opera di Pasolini rappresenta la rottura delle convenzioni giudiziarie tradizionali. L’accertamento della verità pare cedere il passo alla violenza giudiziaria di una magistratura che si ostina a valutare con la prospettiva, omologante e conformista, dell’uomo medio. Pasolini, autore e regista, rimane per anni sotto la lente della giustizia: obiettivo è quello di “ridimensionare” un artista scomodo e scandaloso. Ma chi esce realmente vincitore da questa lotta? Chi, davvero, perde?
In un’altra prospettiva, infatti, il rapporto con la giustizia italiana ha accelerato fattivamente un’evoluzione del diritto e del costume sociale italiano, contribuendo a dare attuazione al pluralismo valoriale, al principio di laicità ed alle libertà inscritti nella Costituzione, che per troppo tempo erano rimasti lettera morta. In questo senso, invero, Pasolini ha costretto i giudici a ripensare e dare nuova linfa al “decoro”, al “buon costume”, all’“ordine pubblico” e, in definitiva, alla “dignità”, andando ben oltre il modello antropologico di uomo medio che ha conformato il diritto e la società borghese nella modernità.
Le due prospettive, quindi, ricalcano un po’ la dicotomia debito/credito che ha nel tempo hanno caratterizzato il rapporto fra il Diritto e l’intellettuale Pasolini: da un lato, infatti, il Diritto è oggi in credito con Pasolini in termini di valorizzazione delle differenze, delle identità, della laicità e delle libertà fondamentali; dall’altro il Diritto rimane in debito per la strumentalizzazione processuale fatta dell’opera di Pasolini, prima, e dell’incapacità di far chiarezza sulla sua morte, dopo.
I saggi, le interviste, le considerazioni che in queste prospettive intendono omaggiare Pier Paolo Pasolini, l’uomo e l’intellettuale, sono allora un’occasione di riflessione sul ruolo del diritto e dei suoi meccanismi performativi e “normalizzanti”.
Per tracciare un quadro completo e complesso di Pasolini verranno proposte alcune interviste, utili a meglio focalizzare il rapporto fra l’intellettuale e il suo tempo.
Con questo obiettivo Andrea Apollonio intervisterà Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini, scrittrice, intellettuale ed amica di Pasolini, autrice del recente libro “Caro Pier Paolo” (Neri Pozza, Milano, 2022).
Un primo ritratto di Pasolini ci è fornito da Umberto Apice, di cui pubblichiamo in anteprima un paragrafo del capitolo del libro "Una Musa per Temi. Diritto e processi in letteratura" dedicato al poeta friulano, Una vita piena di letteratura e processi: Pier Paolo Pasolini.
In occasione della celebrazione del 25 aprile Pierpaolo Gori, nel contributo Pasolini, l’invasore e la resistenza, illustra la riflessione sulla resistenza del poeta di Casarsa, contenuta nella sua unica tragedia, I turcs tal Friùl.
Il saggio di Luca Peloso, Lo sguardo sospeso. Aporìe pasoliniane tra normatività sociale e pratiche singolari, intende poi mettere in luce come quello fra Pasolini e l’universo del diritto sia stato un rapporto contraddittorio e non risolto.
L’iter che tracceremo del rapporto fra Pasolini e il Diritto prende le mosse dall'inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, sulla quale rifletterà Michela Petrini. Al processo a Pino Pelosi, invece, è dedicato il contributo di Giovanni Landi, Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini.
Sui processi alla produzione artistica di Pasolini, a seguire, sono dedicati i contributi di Andrea Apollonio, Il processo a Pasolini difeso dal “fascista” Alfredo De Marsico, che evidenzia l’importanza storico-giuridica del processo a “I racconti di Canterbury”, ove l’intellettuale comunista è difeso da uno dei giuristi di spicco del regime fascista, che aveva in parte collaborato ai lavori preparatori di quello stesso codice penale su cui si chiedeva la condanna di Pasolini per oscenità delle sue opere; e di Maurizio Di Masi, Pasolini e il diritto di scandalizzare l’uomo medio, che traccia un parallelismo fra l’accanimento giudiziario contro l’autore e l’opera dello stesso Pasolini, da una parte, e l’attuale rapporto fra diritto, libertà e violenza, dall’altra.
Luigi Cavallaro, poi, nelle riflessioni su Pasolini e Sciascia, metterà a confronto i due intellettuali e la loro visione critica della società, della giustizia e della verità.
Maria Federica Moscati, a seguire, contribuirà con alcune riflessioni su “Infanzia e adolescenza nell'opera di Pasolini e comparazione con il diritto”.
Il rapporto fra potere ed omologazione, peraltro, passa nelle opere letterarie e cinematografiche di Pasolini per la fisicità dei corpi e la sessualità: a ciò sarà dedicato il saggio di Mauro Balestrieri, Corpo Pasolini. Legge e desiderio nella vita del libertino.
Nella prospettiva giusfilosofica, successivamente, Mariavittoria Catanzariti si soffermerà sulla mercificazione delle identità apportata dalle nuove tecnologie informatiche, con nessi sul potere pseudo-emancipativo del progresso, tema caro a Pier Paolo Pasolini, mentre Francesco Messina rifletterà sulla “Conoscenza della realtà, domanda di sacro e memoria in Pier Paolo Pasolini”.
Barbara Castaldo, infine, nel saggio Alcune riflessioni intorno al concetto di legge nell’opera di Pier Paolo Pasolini, fornirà una lettura conclusiva, che permetterà di sciogliere i nodi del rapporto fra legge e pensiero critico di Pasolini.
Sino a novembre, peraltro, questo itinerario sarà aggiornato ed arricchito con i contributi di altri studiosi e studiose, che completeranno il percorso che Giustizia Insieme intende qui intraprendere per riscoprire i molteplici volti di Pasolini.
Un ringraziamento convinto, per concludere, va al gruppo di ricerca “Visioni del giuridico”, che ha messo al servizio della Rivista e dei lettori l’esperienza acquisita in occasione del convegno organizzato dall’Università di Perugia nell’anno 2015 dedicato a Pasolini e il diritto, così come a tutti le Autrici e gli Autori che hanno voluto e potuto condividere con noi questo insolito, ma speriamo stimolante, itinerario giuridico.
Buona lettura!
La redazione
Il confine individuato negli ordinamenti democratici tra “guerra consentita” e illegittimo “sopruso bellico” e la disarmante insufficienza dell’approccio giuridico per impedire o reagire su scala internazionale a guerre classificabili nel secondo senso.
di Antonio D’Andrea
Accade che di fronte ad eventi drammatici quale quello che si svolge sotto i nostri occhi increduli e che appare di per sé inaccettabile e barbaro per tutto ciò che provoca e che viene mostrato istante per istante, in presa diretta (bombe, fumo, morte, gente che prova a scappare, cingolati che avanzano in un contesto spettrale e dai quali emergono uomini armati di tutto punto), ti venga richiesto di riflettere provando in realtà ad inquadrare l’invasione russa in atto in queste ore nel territorio ucraino, prima di tutto con la sensibilità “tecnica” che ha (o dovrebbe avere) un costituzionalista al quale non può sfuggire il richiamo che la nostra Legge Fondamentale fa, all’art.11, a proposito del ripudio della guerra quale “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ovviamente, non ai soli giuristi che si occupano di diritto internazionale e neppure ai soli operatori del diritto che fanno sempre più i conti con norme e decisioni provenienti dal diritto euro-unitario è nota, altresì, l’adesione del nostro Paese sia all’Unione Europea sia, ben prima, dal 1949, al Patto Atlantico, il che implica l’avere assunto nel tempo accordi su larga scala con altri Stati – si tratta della politica estera che si è perseguita – da cui conseguono perciò vincoli internazionali anche in tema di difesa comune. Non è tuttavia questo il momento di riflettere sull’europeismo e sull’atlantismo e ancor meno sugli indirizzi politici assunti nel tempo da coloro i quali hanno avuto la responsabilità di governare il nostro Paese, anche perché, come è noto, l’Ucraina non è uno Stato appartenente all’Unione Europea e neppure, a differenza delle Repubbliche baltiche dell’ex Unione Sovietica, fa parte della Nato, pur avendo da tempo intessuto trattative per entrarvi; il che, come è noto, per ragioni legate alla sua collocazione geografica, è stato probabilmente uno dei pretesti utilizzati per “giustificare” la “reazione” punitiva della Russia nei riguardi di quello Stato sovrano. Per quanto possa apparire, a questo punto, inutilmente astratto il contributo che può essere fornito dal costituzionalista, forse potrebbe serbare egualmente una qualche ragion d’essere se provasse ad inquadrare, con rigore argomentativo, “il fatto” che si è verificato sulla scena internazionale – l’atto di aggressione subito dall’Ucraina – all’interno delle categorie “interne” della legittimità/illegittimità di un’azione bellica promossa da uno Stato nei confronti di un altro Stato denunciando, alla fine, una reale, invincibile difficoltà, quella cioè di individuare su scala internazionale “sanzioni” diverse, ove si escluda la controffensiva bellica (in questo caso, a mio avviso, inopportuna ancorché ragionevolmente richiesta e auspicata dallo Stato aggredito, proprio per non allargare a dismisura il conflitto che, ancora una volta, interesserebbe in primo luogo l’Europa), dal tentativo di emarginazione dello Stato aggressore dalle comuni “pratiche internazionali” promuovendo, all’uopo, come si dice di voler fare, una serie di misure ritorsive di vario genere. Misure ritorsive che, tuttavia, quando sono in gioco, come nel caso della Russia, potenze mondiali possono provocare anche ricadute, più o meno rilevanti, negli stessi Paesi che assumono quella tipologia di sanzioni mettendosi in luce, senza troppi giri di parole, difficoltà anche su quel versante. Il che lascia del tutto drammaticamente irrisolto il problema dei rimedi che proprio su scala internazionale si dovrebbero utilizzare non già per radicalizzare ulteriormente il conflitto in atto ma per farlo cessare prima possibile e senza che da esso scaturiscano assetti post-bellici, a partire dall’integrità territoriale dell’Ucraina, in grado finanche di “premiare” il sopruso bellico della Russia, ma su questo francamente l’apporto del costituzionalista non credo sia neppure ipotizzabile.
Ed allora, prima di ogni altra possibile considerazione sulla vicenda bellica in atto, è bene richiamare, con riguardo all’ordinamento italiano, oltre al già citato art. 11 Cost., le altre disposizioni costituzionali che consentono di distinguere agevolmente tra “guerra offensiva” la cui legittimità è, come si evince testualmente, esclusa e “guerra difensiva” che, essendo opzione indotta dalla politica militare altrui, è viceversa considerata possibile e della cui organizzazione si occupano altre norme, tra le quali spiccano gli artt. 78 e 87, nono comma, Cost. Nel primo caso si richiede la deliberazione dell’organo parlamentare, espressione diretta della sovranità popolare, affinché possa essere legittimamente stabilito che il Paese “entra” in guerra contro qualcuno attribuendo nel contempo al Governo, nella sua veste collegiale, non tutti i poteri ipotizzabili ma solo quelli considerati “necessari” in quella circostanza; nel secondo caso si prevede l’attivazione del Presidente della Repubblica, organo non chiamato a svolgere funzioni di indirizzo politico eppure posto a capo delle Forze Armate, tenuto a formalizzare lo “stato di guerra” oggetto della decisione parlamentare e nel contempo si individua un organo collegiale ad hoc sempre presieduto dal Capo dello Stato ma disciplinato dalla legge, al quale si assegnano compiti di natura logistico-organizzativa finalizzati ad orientare l’azione delle nostre Forze Armate (delle quali si parla espressamente all’art. 52, terzo comma, Cost., richiedendo al loro interno “spirito democratico” in vista del migliore svolgimento dei delicati compiti istituzionali cui esse sovraintendono non solo in tempo di guerra). In sostanza il “pacifismo”, se si resta dentro il vigente quadro costituzionale, è presente ma non si spinge al punto di negare la necessità di fronteggiare, attraverso conseguenti azioni militari, l’integrità territoriale del nostro Stato e la sua indipendenza geopolitica. Come si può notare il concetto di “sovranità” dell’ordinamento statuale conserva ancora tutta la sua carica identificativa allorché venga messa concretamente in discussione la sua stessa esistenza, il che accade certamente qualora si subisca una aggressione armata. Gli ordinamenti democratici, pur nel tempo della tutela giurisdizionale multilivello dei diritti individuali e del contrasto alle discriminazioni (quale che sia il vincolo giuridico tra Stato e persona cui vengano conculcati i diritti fondamentali), pur nel tempo delle connessioni economiche e finanziarie indotte dalla globalizzazione, non per questo rinunciano a difendere la loro sovranità interna che resta una prerogativa cui si può, come noto, rinunciare “in condizioni di parità” (come prevede sempre l’art. 11 Cost., evocando proprio le organizzazioni internazionali) ma nel contempo rappresenta una barriera da salvaguardare e difendere di fronte all’ostilità altrui ovvero allo snaturamento dei principi supremi che la caratterizzano.
Partiamo dunque dalla riconfermata esistenza di una netta distinzione, accolta negli ordinamenti democratici a partire dal nostro, tra la promozione del principio universalistico della pace (che impegna le autorità politiche nel perseguimento di conseguenti indirizzi che vanno, in particolare nello scenario internazionale, in quella direzione) e l’uso legittimo della forza armata allo scopo, per quanto qui rileva, di difendere l’integrità territoriale dello Stato sovrano da “aggressioni esterne”. Lo Stato è presente nella scena internazionale e in essa agisce e opera, aggredisce e si difende ed è anche in quel palcoscenico che prova a far valere le proprie ragioni, indipendentemente da quali esse siano. Occorre ammettere con onestà che la Comunità internazionale da questo punto di vista si muove tuttora in ordine sparso anche se, come è noto, non sono mancate, a cavallo dei due conflitti mondiali, e non mancano anche attualmente nobili aspirazioni universalistiche che vorrebbero dare vita ad un ordine giuridico internazionale in grado di “regolamentare” le modalità con le quali gli Stati dovrebbero essere chiamati ad affrontare e a risolvere tra loro conflitti che oggi come ieri sono in grado di generare guerre con tutta la già accertata devastazione che queste comportano. Resta il fatto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) agisce e opera nel nome della fantomatica “comunità internazionale” senza che si possa prescindere dal suo assetto costitutivo che, infatti, da sempre tiene conto dell’effettivo “peso” degli Stati che ne fanno parte e che certo condizionano decisioni e interventi o, al limite, non interventi che pure andrebbero assunti e che finiscono, nella realtà, per fare i conti con gli insuperabili “veti”, espressi di volta in volta da Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. In realtà al di fuori di poche regole di natura consuetudinaria, automaticamente riconosciute e immesse nel nostro ordinamento senza alcun bisogno di esplicita ratifica (art. 10 Cost.), il diritto internazionale ha una sua derivazione pattizia: le norme che impegnano reciprocamente gli Stati, o meglio alcuni tra questi, sono frutto di accordi ispirati da intenti politici e di reciproca convenienza (si è in effetti subito ricordata l’adesione del nostro Paese alla Nato, che resta un’alleanza militare di carattere difensivo come pure l’appartenenza a quella complessa organizzazione, via via nel tempo consolidatasi, che è l’Unione Europea cui si sono cedute quote rilevanti di sovranità nazionale). Ci si potrebbe allora chiedere, quantomeno in astratto, in che misura l’essere parte di queste organizzazioni che presuppongono senz’altro per l’Italia vincoli anche di natura militare (NATO) o comunque collegabili alla difesa e sicurezza dell’Unione (PESD), consentirebbero di portare fuori dai confini nazionali le nostre Forze Armate a sostegno di una “guerra legittima” a fianco dei nostri partner. A questa domanda si potrebbe rispondere ricordando che la legittimità o meno dell’intervento armato, sempre che non avvenga in conseguenza di una determinazione dell’ONU, come pure è talvolta accaduto (il che lo renderebbe formalmente legittimo), dipende solo ed esclusivamente dalla vincolatività sul piano internazionale di accordi di reciproca assistenza militare tra Stati sovrani e che perciò non potrebbe essere considerato legittimo, in assenza di ulteriori specifici impegni assunti in via supplementare dal nostro Paese, il coinvolgimento italiano nella difesa militare di altri Stati, pur se fatti oggetto di un’aggressione da considerarsi, alla luce del nostro ordinamento interno, meritevole di una “reazione armata”.
In ogni caso, preservare la democrazia all’interno degli Stati che si riconoscono nei principi del costituzionalismo occidentale passa, in primo luogo, dalle scelte che investono la responsabilità del corpo elettorale, beninteso allorché si possa esprimere liberamente (il che non è affatto detto che accada dappertutto). L’individuazione di coloro i quali vengono chiamati ad assolvere compiti di primo piano nella conduzione dello Stato – i governanti – così come la capacità di saper contrastare programmi e indirizzi incompatibili con i principi ispiratori della pacifica convivenza nello Stato e tra gli Stati, in linea con la richiamata apertura internazionalistica della nostra Costituzione democratica, è compito al quale ciascuno di noi deve attendere consapevolmente e senza sottovalutare le insidie che si porta dietro la semplicistica attrattiva per l’ “uomo forte”, “il capo” cui affidare il destino del proprio Paese tanto più quando tutto sembra problematico da gestire, secondo regole e procedure ordinarie. Ecco il pensiero che, alla fine, mi ha sollecitato lo scrivere questa nota sull’azione scellerata di cui si è reso responsabile un “capo forte” di una grande potenza mondiale (e il suo apparato di supporto) che, sia pure in forza di una formale legittimazione elettorale concretizzatasi in più occasioni, ha organizzato e avviato una brutale guerra di aggressione ben lontana dai presupposti che negli ordinamenti democratici consentirebbero, come visto, di ricorrere ad azioni militari per difendere l’integrità del territorio statuale. Almeno questo credo che si possa dire: quello che abbiamo sotto gli occhi è una guerra dettata da chiare, strumentali ragioni di espansione di uno Stato “forte” a danno di uno Stato sovrano lontano dalla sua orbita di influenza e che avrebbe voluto e vorrebbe continuare a restare tale. Tale drammatico evento dimostra peraltro come il modello democratico c.d. classico, non solo è difficilmente esportabile in altri contesti (il che lo si è verificato dopo avere fatto in più circostanze ricorso a vere e proprie missioni militari di “polizia internazionale” di dubbia legittimità, ancorché effettuate sotto “vessilli internazionali”, alle quali l’Italia non è rimasta estranea), ma persino in Europa esso appare tutt’altro che saldamente radicato.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Luigi Salvato
1. Caro Luigi, secondo Te, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
«Diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. [...]. Nella storia del pensiero morale e giuridico questa medaglia è stata guardata più dal lato dei doveri che da quello dei diritti», almeno fino a quando è maturata la transizione dal codice dei doveri al codice dei diritti, «dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti». Queste considerazioni di Norberto Bobbio sintetizzano icasticamente la relazione tra diritto e dovere, la complessità delle questioni alla stessa sottese, la preminenza del primo nella «età dei diritti», emergendo tuttavia nell’attuale fase storica l’opportunità di una riflessione sull’equilibrio tra gli stessi.
L’affermazione della priorità dei diritti rispetto ai doveri è stata imposta dall’esigenza di rovesciare il rapporto tra governanti e governati, di riguardarlo dalla parte del popolo, non del principe. L’enunciazione di ciascun diritto ha rappresentato «l’antitesi di un abuso di potere che si voleva combattere»», necessaria per garantire e realizzare «nuove libertà contro vecchi poteri», per affermare «che l'uomo ha dei diritti preesistenti alla istituzione dello Stato» (Norberto Bobbio).
A questa concezione si è accompagnato il convincimento che obiettivo dello sviluppo economico-sociale è l’espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani. Risultata vincente l’idea liberale, avremmo dovuto addirittura considerare «la possibilità che la stessa storia sia finita» (Francis Fukuyama). La storia, come sappiamo, non è finita (lo ha ammesso in questi giorni lo stesso Fukuyama nel commentare la crisi tra Russia ed Ucraina); non ha, non può avere, una fine.
L’età dei diritti è permeata da una concezione individualistica che connota anche la società, ma è dubbio che si tratti di un esito necessitato ed ineluttabile. È noto il dibattito in ordine alla relazione tra diritto e dovere, riassumibile (con sintesi estrema, con le semplificazioni e gli errori in questa insiti) nella contrapposizione tra le concezioni secondo cui «il diritto dell'uno esiste solo presupponendo il dovere dell'altro» e quella che ritiene quest’ultima insufficiente a rendere conto del modo in cui l’ordinamento considera gli individui.
Senza sottovalutare la complessità della questione, può ritenersi che la concezione individualistica sia viziata per difetto. Non coglie infatti che il diritto, la libertà, in quanto riconosciuti all’interno della società, che costituisce «un insieme in cui le varie componenti sono interdipendenti», sono legati da una stretta relazione ai doveri inerenti all’appartenenza alla società. Quando, ancora Norberto Bobbio, sottolinea che «l'enorme importanza del tema dei diritti dell'uomo dipende dal fatto che è strettamente connesso con i due problemi fondamentali del nostro tempo, la democrazia e la pace», fa emergere chiara l’impossibilità di scindere i diritti dai doveri. La considerazione dei soli diritti non basta per fondare l’etica pubblica; di ciò era convinto Giuseppe Mazzini, che osservava (nei Doveri dell’uomo): «Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione».
La crisi della società e le grandi tragedie del secolo scorso – della guerra, dei lager nazisti, delle stragi etniche, continuate anche dopo il ‘900 – hanno rafforzato la primaria esigenza di custodire la dignità dell’uomo ed i diritti fondamentali, non adeguatamente soddisfatta dagli sviluppi successivi alla loro proclamazione.
La storia ci ha consegnato una società (non soltanto quella del nostro Paese) troppo intrisa della convinzione che l’uomo sia pressoché esclusivamente soggetto di bisogni e che la sua esistenza abbia per fine il benessere individuale; quindi, una società permeata da una concezione che rischia di trasformare i cittadini in monadi isolate, disposti a sacrificare, sull’altare dell’interesse personale, legami umani e vincoli sociali, di renderli meri consumatori, spesso dimentichi che «la libertà non è mai un soffice cuscino sul quale ci si possa adagiare o dare a un godimento passivo; è sempre una sfida all’attività».
Quando l’apatia prende il posto della partecipazione attiva alla comunità, è alto il rischio di cadere «in una sorta di autoritarismo involontario. I cittadini dormono e i governanti fanno quel che vogliono» (Ralf Dahrendorf). Proprio perché l’importanza dei diritti e delle libertà è indiscussa, gli individui hanno oggi «fondato motivo per chiedersi che cosa dovrebbero fare per aiutarsi reciprocamente a tutelare o a promuovere le rispettive libertà»; per riflettere sul fatto che anche coloro i quali non sono responsabili della loro violazione, «ma che si trovano nella condizione di dare un contributo, hanno ragione per interrogarsi su ciò che dovrebbero fare». Riconoscere i diritti umani, le libertà individuali, significa «comprendere che, se una persona si trova in una posizione da cui può intervenire in modo efficace per scongiurare la violazione di un certo diritto, essa ha una buona ragione per procedere in tal senso» (Amartya Sen). Il cittadino deve essere attivo; dal cittadino va pretesa un’azione positiva, che rinviene fondamento nei doveri inerenti all’essere parte della società (più in generale, all’appartenenza all’umanità).
L’età dei diritti è stata saldamente fondata sull’esigenza di rovesciare il rapporto governanti-governati e, tuttavia, per garantirne l’attuazione, occorre altresì arginare una concezione esclusivamente individualistica con essa in antitesi; quindi, si ripropone il tradizionale interrogativo: che fare?
Individuare la soluzione è difficile; non spetta a me neppure accennarvi (non ne ho la forza e la capacità), ma sono convinto che passi anche attraverso la rivalutazione dei doveri, ricordando che Norberto Bobbio, alcuni anni dopo avere indicato nell’età dei diritti il «signum prognosticum del progresso morale dell’umanità», scrisse: «se avessi ancora qualche anno di vita, che non avrò, sarei tentato di scrivere “L’età dei doveri”».
La riflessione di Giuseppe Mazzini sui doveri resta dunque centrale, anche se deve essere attualizzata, occorrendo cogliere «il suo sentimento etico della vita come missione al servizio di grandi ideali» (sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione dell’incontro con una delegazione del Consiglio regionale della Toscana ed una rappresentanza di studenti toscani per presentare la pubblicazione su Giuseppe Mazzini "i doveri dell'uomo", 1° dicembre 2005) e la valorizzazione che egli ne fa per ripensare la complessità dell’ordinamento e ricomporre l’unione tra diritti, libertà e responsabilità, in vista della piena realizzazione di quei mirabili equilibri consegnatici dai Costituenti, nelle istituzioni democratiche e nella coscienza dei cittadini.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
Per le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda, sono attuali gli interrogativi con cui Giuseppe Mazzini (nell’introduzione ai Doveri dell’uomo), si chiedeva: se «l’idea dei diritti inerenti alla natura umana è oggimai generalmente accettata: accettata a parole e ipocritamente anche da chi cerca nel fatto, eluderla. Perché dunque la condizione del popolo non ha migliorato?»; «dove i diritti vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?».
Mazzini dà risposta a detti interrogativi individuando nei doveri lo strumento di equilibrio, elaborando una strategia cui è sotteso il convincimento che l’esclusiva rivendicazione dei diritti rischia di sostituire ai passati sistemi oppressivi altri nuovi, non meno oppressivi, basati sulla forza, che oggi appare essere soprattutto quella economica. In lui era radicato il timore che l’enfatizzazione dei diritti potesse tramutarsi in retorica, timore amplificato (per alcuni, significativi, aspetti) dalla globalizzazione, se lasciamo che questa sia dominata da una logica eminentemente mercantile. Ed in tale logica può scivolare, nonostante le migliori intenzioni possibili, anche la libertà che, quando assoluta, esclusiva e senza limiti, finisce con dare «un valore economico ad ogni bene della vita» (Cesare Salvi), innescando una spirale inflattiva che rischia di condurre ad un’incongruente normativizzazione dei desideri.
I rischi insiti in una valutazione atomistica dei diritti sono stati colti dalla Corte costituzionale, affermando: «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (tra le più recenti, sentenza n. 33 del 2021). Si impone dunque una «valutazione sistemica», imprescindibile per evitare che un diritto possa pregiudicare gli altri (per tutte, sentenza n. 25 del 2019). Il rischio di un tale esito è insito nell’apprezzamento atomistico che istituzionalmente spetta ad una Corte esclusivamente dei diritti, quale la Corte EDU, benché appaia dubbio che anche per questa sia davvero l’unico praticabile e necessitato. L’immanenza di detto rischio spiega e giustifica il successo della tecnica del bilanciamento, assurta ad una sorta di novella pietra filosofale in grado di garantire gli equilibri richiesti dallo Stato costituzionale, pur con le note difficoltà ed incertezze insite nella stessa.
Anche Mazzini era attento a detto equilibrio, da lui ricercato volgendo lo sguardo ai doveri, ma non verso i governanti, bensì verso la verità ed il bene comune. Egli avverte infatti gli «operai Italiani, fratelli miei», che «la conoscenza […] dei diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole» e appunto per questo precisa: «non chiedo che rinunziate a questi diritti: dico soltanto che non sono se non una conseguenza dei doveri adempiti». In tal modo egli pone in luce l’insufficienza (oggi profetica) di un’attenzione focalizzata pressoché esclusivamente sui «miglioramenti materiali» ed elabora la teoria della «solidarietà dei doveri».
È dunque identificabile un profilo comune ed uno di diversità con l’attuale tecnica del bilanciamento. Nell’operazione di bilanciamento rinvenibile nella teorica mazziniana l’accento tonico ricade sui doveri; in quella della Corte costituzionale verte essenzialmente sui «valori», essendo altresì note le posizioni di chi, autorevolmente, ritiene che «[i]l bilanciamento è sempre tra i diritti fondamentali» (Gaetano Silvestri). Nondimeno, in coerenza con l’espressa previsione nella Carta fondamentale non soltanto dei diritti, ma anche dei doveri e con la considerazione che «tutti gli esseri umani […] sono egualmente dotati di dignità e di diritti “inalienabili”, cioè indisponibili, oltre che gravati di doveri sociali» (Valerio Onida), dalla giurisprudenza costituzionale emergono precisi segnali (che ragioni di spazio impongono di enunciare in modo assiomatico) nel senso della necessità del confronto (e bilanciamento) dei diritti anche con i doveri.
Può convenirsi con l’affermazione secondo cui non è pensabile che «l’interesse collettivo possa travolgere la sfera della tutela soggettiva» (Beniamino Caravita di Torritto), ma ciò non impedisce che occorra adeguatamente considerare l’esigenza di valorizzare nell’operazione di bilanciamento i doveri. E questi sono, nella dimensione costituzionale, ma già nel pensiero di Mazzini, quelli che si hanno nei confronti della società, prima ancora dell’umanità. Se così è, occorre chiedersi – lo dico problematicamente, per dare corpo ad un interrogativo – se non occorra più attentamente valorizzarli nell’operare il richiamato bilanciamento, per realizzare un ragionevole equilibrio negli ambiti (esemplificativamente, con riguardo ad alcuni di più stringente attualità) della tutela della salute (dando quindi il giusto rilievo al dovere di concorrere alla salute pubblica), del diritto penitenziario (interrogandosi sulla possibilità di ritenere che i doveri verso la società giustifichino la pretesa di una positiva dimostrazione della recisione dei legami con il mondo della criminalità e l’impossibilità del loro ripristino), del diritto alla privacy (che oggi richiede, come accenno di seguito, l’attenzione soprattutto ai doveri che gravano coloro che acquisiscono, specie per ragioni economiche, una massa smisurata di informazioni).
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Te la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Ai piani sui quali si svolgono e trovano attuazione i diritti ed i doveri si è accennato nella risposta alla domanda che precede; in quella alla prima domanda si è fatto riferimento alla relazione tra gli stessi. Colgo dunque in questa domanda soprattutto il tema dell’effettività dei diritti, inscindibilmente legata alla loro tutela; al riguardo basta ricordare la nota affermazione secondo cui «non è utile proclamare diritti se non c’è chi è in grado di difenderli» (Thomas Hobbes) della quale (come accenno nella risposta alla sesta domanda) è possibile rinvenire un riferimento nel pensiero di Mazzini, allorché pone in luce l’essenzialità della giurisdizione ai fini della tutela delle libertà.
La questione della tutela dei diritti si è complicata a seguito della globalizzazione e del mutamento della concezione della sovranità dello Stato seguita alla trasformazione del diritto internazionale (divenuto anche il diritto degli individui) ed alla realizzazione dell’ordinamento multilivello. Queste trasformazioni hanno condotto all’istituzione di corti internazionali, cui gli individui possono rivolgersi per conseguire forme di tutela dei loro diritti fondamentali (Alessandro Pizzorusso), risultando in tal modo garantita l’effettività dei diritti anche mediante l’accesso diretto del singolo alle stesse.
In Mazzini, per ragioni intuitive e per quanto si dirà nel rispondere alla settima domanda, è arduo trovare un accenno espresso alla possibilità di ricorrere, per la tutela delle libertà, a tribunali diversi da quelli dello Stato di appartenenza. La domanda fa tuttavia trasparire la questione, sopra accennata, del rischio della saturazione degli ordinamenti giuridici (con continue richieste di tutela iperindividualistiche) e del riconoscimento di nuovi diritti che, siccome non fondati su istanze stabili e universali, potrebbero risultare irragionevoli, refrattari a qualunque bilanciamento e frutto, come detto, di una logica mercantile che può condurre alla accennata «normativizzazione dei desideri».
Le questioni in campo sono quelle complesse, ampiamente indagate, che richiedono di stabilire: come distinguere tra pretese fondate e meri desideri; a chi spetti il riconoscimento dei diritti; dell’equilibrio tra potere legislativo e giudiziario, per evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali» (tendenza di cui ha dato conto Marta Cartabia), con il rischio (paventato da Francesco Gazzoni) di soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti.
A tali questioni può essere data risposta (almeno in parte) mediante un’accorta valutazione dei doveri, ricostruendo la trama che li lega ai diritti.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una
componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Te questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a Tuo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
La risposta a questa domanda – in particolare, al secondo dei due, densi, quesiti nei quali si articola – potrebbe essere affidata alle parole del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «è importante che soprattutto i giovani riscoprano il pensiero di Mazzini, leggano e studino le sue opere perché esse ci aiutano a comprendere il significato autentico dei valori posti a fondamento della nostra Costituzione repubblicana».
Quando Mazzini scrive: «l’origine dei vostri Doveri sta in Dio. La definizione dei vostri Doveri sta nella sua Legge», svolge una considerazione che, depurata del profilo religioso del suo pensiero, pone in luce una fonte trascendente dei doveri ed una finalità degli stessi che ne evita la valenza di strumento oppressivo e li rende anzi argine contro lo svuotamento del contenuto dei diritti ed una deriva marcatamente individualistica che può metterli in crisi.
I doveri, come declinati da Mazzini, danno contenuto alla cittadinanza quale «conquista quotidiana che richiede un dare e un avere […] adesione consapevole a una comunità intessuta di affetti, e non solo di interessi […] compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante primario è la solidarietà dei doveri, su rinnovate basi culturali e politiche» (Edoardo Crisafulli). I richiami alla coscienza come ad «un lume che le rompa d’intorno la tenebra, d’una norma che ne verifichi e diriga gli istinti» fissano quale finalità dell’agire il conseguimento di un alto interesse generale, che è quello della Umanità. Egli indica infatti «il nostro primo dovere» nel «concorrere a che l’Umanità salga prontamente quel grado di miglioramento e di educazione, al quale Dio e i tempi l’hanno preparata».
Il riferimento ad un’entità sovrannaturale è frutto della concezione religiosa che impronta il suo pensiero. Nondimeno, è possibile offrirne una lettura laica ed attuale, soprattutto perché Mazzini osserva che la Legge deve essere «scoperta» «linea per linea»; ciò è possibile «quanto più s’accumula l’esperienza educatrice delle generazioni, quanto più cresce in ampiezza e in intensità l’associazione fra le razze, fra i popoli, fra gli individui», nel convincimento che «i primi doveri […] sono verso l’Umanità».
I doveri, nella ricostruzione di Mazzini, sono finalizzati ad evitare che ogni uomo, concentrato esclusivamente nel soddisfacimento dei propri desideri e nella tutela dei propri diritti, possa diventare «quasi estraneo al destino di tutti gli altri». Permettono quindi di scongiurare il rischio – posto in luce anche da altri pensatori e che oggi appare particolarmente forte – del rifluire dell’uomo in una dimensione in cui «i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso» (Alexis De Tocqueville).
In definitiva, i doveri, nel pensiero mazziniano, costituiscono strumenti necessari a proiettare l’uomo «in una dimensione comunitaria che lo costringe a fare i conti con l’alterità e con interessi sovrastanti la propria egoistica ed edonistica individualità» (Paolo Grossi).
I richiami alla circostanza che «i più importanti doveri sono positivi» («Non basta il non fare: bisogna fare», «Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli») radicano la c.d. «solidarietà dei doveri» e l’etica della responsabilità, stella polare che deve guidare il cammino dei cittadini.
Per queste considerazioni traspare il legame del pensiero di Mazzini con alcuni dei valori consacrati nella Costituzione, specie laddove questa contiene precisi richiami ai doveri, tema che non ha attirato lo stesso interesse dei diritti, anche per l’asimmetria che ha caratterizzato l’età dei diritti.
L’art. 2 Cost. recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E’ chiaro e preciso il richiamo ai doveri, giustificato, nel corso dei lavori della Costituente, con la considerazione che «poiché l'uomo è “animale sociale” e non può essere giuridicamente considerato se non in quanto tale, ai diritti naturali fanno riscontro, nell'articolo, i correlativi doveri, senza il rispetto dei quali non è possibile l'umana convivenza; e anche questi doveri non sono soltanto quelli specificati nei successivi articoli della Costituzione; sono doveri naturali, al pari dei diritti (rispetto della vita altrui, della libertà di movimento altrui, dell'onore altrui, ecc., ecc.)». Emerge evidente la relazione con il pensiero di Mazzini, frutto della concezione dell’uomo quale «animale sociale», perciò necessariamente calato in una dimensione collettiva e cooperativistica e, appunto per questo, espressamente richiamato dal Presidente della Commissione dei settantacinque (Meuccio Ruini), il quale mise in luce tale matrice ed il legame tra diritti e doveri. Legame che «certo non si traduce in una corrispondenza biunivoca tra situazioni giuridiche soggettive attive e passive», ma «è più complesso e trova ragion d’essere nella funzionalità dei doveri costituzionali alla sopravvivenza di un ordinamento orientato all’affermazione e al mantenimento delle condizioni di sviluppo della persona umana, della quale i diritti di libertà risultano indefettibili declinazioni» (Alessandro Morelli).
Il dovere di solidarietà sociale era dunque immanente al pensiero mazziniano; basta considerare, per avere riguardo a profili, per così dire, concreti, la proposta che egli avanzò di una riforma tributaria ispirata alla tassazione del superfluo, tramite l’intervento legislativo dello Stato, in grado di assicurare «ricompense» proporzionate al lavoro e di garantire l’occupazione anche con una politica di lavori pubblici. È sufficiente tale accenno per evidenziare alcune ragioni di attualità della sua concezione della società. In una fase storica in cui sembra ineluttabile il primato del mercato (perché locus naturalis, mentre è un locus artificialis, Natalino Irti) ed il c.d. «orientamento naturalistico dell’economia», quindi una concezione dalla quale traspare «il volto più sincero dell’economicismo [che] è nell’anti-politica e nell’anti-ideologia» (Natalino Irti), occorre riflettere sulla attualità di una frase di Luigi Einaudi, ricordata dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro («l’economia è ancella della politica»), per garantire che i diritti non siano ridotti a mera proclamazione.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Te oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Dopo gli eventi storici del febbraio 1834, Mazzini impresse un carattere marcatamente religioso al suo pensiero politico, giungendo a ritenere sterile e dannosa una politica non intimamente connessa ad un principio religioso. La religione in Mazzini, ha scritto Maurizio Viroli, non costituisce però «un sistema di dogmi o di verità scritte in questo o quel libro sacro bensì un principio che spinge gli uomini a trovare nuove forme politiche e sociali, il concetto che innalza l’individuo, lo purifica dell’egoismo e lo rende capace di agire nella storia per realizzare un fine morale». Dunque, il «Dio che Mazzini addita al popolo quale ente supremo che orienta le sorti del mondo è “un termine […] a cui può aderire qualunque coscienza di credente”»; è «un principio di giustizia (o di amore) che guida la storia», nel rifiuto dell’immutabilità del dogma, di una religione cristallizzata in una rivelazione fissata per l’eternità e della «pretesa della gerarchia ecclesiastica della interpretazione della rivelazione divina» (Massimo Scioscioli).
Si tratta di conclusioni che emergono chiare quando Mazzini scrive: «noi vogliamo Associazione: come ottenerla sicura se non da fratelli che credano negli stessi principi regolatori, che s’uniscano nella stessa fede, che giurino nello stesso nome?», rimarcando che «vogliano formare Nazione: come riescervi, se non credendo in uno scopo comune, in un dovere comune?» e sottolineando di credere «nell’Umanità sola interprete della legge di Dio sulla terra».
Il riferimento è dunque ad un principio di giustizia, che può essere depurato dal richiamo ad un determinato credo. Tanto, soprattutto laddove egli, attribuendo il compito di individuarlo all’intera Umanità piuttosto che alle gerarchie clericali, permette di fare riferimento ad una religione civile, anziché ad un dato credo. Lo status di cittadino non è poi correlato ad una determinata religione, tenuto conto della declinazione da lui offerta delle libertà. Tra queste include infatti la «libertà di credenza religiosa», sottolineando: «Nessuno ha diritto […] di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose; nessuno fuorché la grande pacifica voce dell’Umanità ha diritto di frapporsi fra Dio e la vostra coscienza».
Per questi profili, il suo pensiero conserva elementi di modernità e costituisce ancora un valido insegnamento. La sua concezione permette infatti di definirlo apostolo di una religione laica, ispirata all’etica della responsabilità, soprattutto quando ammonisce che non v'è «patria senza un diritto uniforme» e non v'è patria «dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze», finalizzando i doveri e l’impegno di ciascuno per il conseguimento di uno scopo di coesione sociale, al fine di garantire il rispetto dei diritti di tutti.
Qui si esauriscono tuttavia gli elementi di modernità del pensiero di Mazzini e la possibilità di rinvenire un collegamento con i valori costituzionali, specie quello di solidarietà.
È difficile negare che il fortissimo sentimento religioso che permea la sua visione è, in larga misura, dissonante rispetto al carattere laico del nostro ordinamento costituzionale. Il distacco si rivela forte quando egli pone in guardia i lettori da quanti affermano che «la politica è una cosa, la religione un’altra. Non le confondete», ammonendoli: «Di quei che così vi parlano […] non amano Dio», per aggiungere, qualche pagina dopo, «possono dirvi cosa che non sia di Dio? Nulla è di Cesare, se non in quanto è conforme alla legge divina. Cesare, ossia il potere temporale, il governo civile non è che il mandatario, l’esecutore, quanto le sue forze e i tempi concedono, del disegno di Dio: dove tradisce il mandato è vostro, non diremo diritto, ma dovere, mutarlo».
Emblematica in tal senso è, infine, l’affermazione «Dio v’ha dato la vita; Dio v’ha dunque dato la legge. Dio è l’unico Legislatore della Razza umana. La sua legge è l’unica alla quale voi dobbiate ubbidire». Si tratta di considerazioni marcatamente orientate che connotano la sua teoria di un «fortissimo contenuto religioso che ne costituiva l’originalità ma, in qualche misura, anche il limite e, per l’identità da lui postulata tra religione e politica, rischiava di farne qualcosa di simile a una teocrazia» (Giuseppe Monsagrati), al punto che Karl Marx si spinse a definirlo «il nuovo Maometto».
Salve le pur importanti considerazioni iniziali, in relazione al profilo in esame appare complicato negare il distacco dell’idea di Mazzini della nostra Costituzione, benché l’osservanza dei valori fondamentali (di matrice e contenuto diverso) costituisca la fonte ed il limite che tutti (anche il legislatore, nello Stato costituzionale) sono tenuti ad osservare e dei quali va pretesa l’osservanza, ma nel nostro ordinamento con modalità ed azioni ovviamente diverse da quelle da lui prefigurate.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Te, come può concretizzarsi questa riflessione?
Nella frase riportata nella domanda si annida l’attualità più profonda del suo pensiero, la concezione della c.d. solidarietà dei doveri e della stretta relazione che li avvince ai diritti, delle quali si è detto in precedenza. Alle considerazioni già svolte va aggiunto che nella premessa dell’Atto di fratellanza della Giovine Europa (1834) egli esplicita il convincimento secondo cui «ad ogni uomo, e ad ogni popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’umanità». La sottolineatura della finalità dell’adempimento dei doveri può essere letta come un preciso richiamo alla necessità di una cittadinanza attiva, cui ho accennato.
La cittadinanza è una conquista quotidiana, che richiede un dare e un avere; è una adesione consapevole a una comunità intessuta di valori, non solo di interessi; è una compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante è anche la solidarietà dei doveri.
Conservano perdurante attualità non poche esortazioni mazziniane, quali: «avete il dovere d'educarvi per quanto è in voi, e diritto a che la società alla quale appartenete non v'impedisca nella vostra opera educatrice, v'aiuti in essa e vi supplisca quando i mezzi d'educazione vi manchino. La vostra libertà, i vostri diritti, la vostra emancipazione da condizioni sociali ingiuste, la missione che ciascun di voi deve compiere qui sulla terra, dipendono dal grado di educazione che vi è dato raggiungere»; «senza educazione voi non potete scegliere giustamente fra il bene e il male; non potete acquistar coscienza dei vostri diritti; non potete ottenere quella partecipazione nella vita politica senza la quale non riuscirete ad emanciparvi; non potete definire a voi stessi la vostra missione. L'educazione è il pane delle anime vostre».
I richiami non implicano, peraltro, un preciso legame sinallagmatico tra i diritti ed i doveri. La sua concezione è, inoltre, incentrata nell’enfatizzare quello dell’educazione, della conoscenza quale fattore imprescindibile di un giusto progresso, all’interno di una precisa gradazione dei doveri.
I «primi doveri», egli scrive, «sono verso l’Umanità» - che specifica essere «un corpo solo» - in quanto «siete uomini: cioè creature ragionevoli, socievoli, e capaci, per mezzo unicamente dell’associazione, d’un progresso a cui nessuno può assegnar limiti». Mazzini si rivela dunque predicatore di un civismo di sicura attualità, come lo è la sottolineatura che «la legge deve esprimere l’aspirazione generale, promuovere l’utile di tutti».
Moderna ed attuale, per alcuni profili, è altresì la concezione della legge. Nell’affermazione che «il semplice voto d’una maggioranza non costituisce sovranità se avversi evidentemente alle norme morali supreme, o chiuda deliberatamente la via al Progresso futuro» sono rinvenibili le radici del costituzionalismo moderno, quale ordinamento capace di porre al riparo le minoranze dallo strapotere delle maggioranze parlamentari, che condussero alle immani tragedie della prima parte del secolo scorso.
La declinazione delle libertà (della libertà personale, di locomozione, di credenza religiosa, «d’opinioni su tutte cose», «d’esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero», di «libertà d’associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero altrui», di «libertà di traffico»), dell’essere il lavoro «sacro: nessuno ha diritto di vietarlo», riassume ed anticipa le istanze che costituiscono il nucleo essenziale dei diritti di libertà, quali consacrate nella Costituzione.
Si tratta, peraltro, di una declinazione che non si esaurisce in mera proclamazione. Ad essa si accompagna infatti la precisa indicazione dei diritti che scaturiscono dalle libertà e dei rimedi imprescindibili per garantirne l’effettività.
Egli sottolinea: «nessuno ha diritto, in nome della Società, d’imprigionarvi o sottomettervi a restrizioni o invigilamento, senza dirvi il perché, senza dirvelo col minore indugio possibile, senza condurvi sollecitamente davanti al potere giudiziario del paese»; «Nessuno ha diritto di persecuzione, d’intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose»; «La stampa dev’essere illimitatamente libera: i diritti dell’intelletto sono inviolabili, ed ogni censura preventiva è tirannide; la Società può, come tutte le altre colpe, punire soltanto le colpe di stampa, la predicazione del delitto, l’insegnamento dichiaratamente immorale: la punizione in virtù d’un giudizio solenne è conseguenza della responsabilità umana, mentre ogni intervento anteriore è negazione della libertà».
Mi è sembrato opportuno riportare tali affermazioni, perché anticipano e riassumono il nucleo fondamentale delle garanzie costituzionali, individuando nella giurisdizione l’essenziale fattore di garanzia e tutela, sino ad anticipare, per alcuni profili, i principi del giusto processo. Di sicura attualità è altresì il riferimento al contenuto della libertà di stampa e di opinione, ma anche ai doveri alle stesse correlati, che inducono ad una riflessione con riguardo al nuovo fenomeno dei social network ed al diritto alla privacy che, per essere tutelato, richiede un rafforzamento dei doveri di non intrusione e di rispetto delle sfere soggettive individuali (specie da parte dei soggetti titolari di un potere economico immane, gestori dei cc.dd. Big data).
La relazione tra diritto e dovere di libertà («voi avete dunque diritto alla Libertà e dovere di conquistarla») è, infine, preciso sprone verso la cittadinanza attiva, che fonda il «dovere di educazione», quale libertà che permette di ripigliare i diritti. L’evocazione del dovere come legge di vita civile non comporta una rinuncia ai diritti, ma è ammonimento ad essere cittadini attivi, per non divenire meri consumatori.
In definitiva, la declinazione dei doveri operata da Mazzini, ponendo al centro il dovere di amare l’umanità, di superare gli interessi particolari, personali, nell’interesse generale e, quindi, di servire il bene comune costituisce presidio che concorre a difendere «la dignità della natura umana […] violata dalla menzogna e dalla tirannide». Ed il suo ammonimento deve costituire un imperativo non soltanto per i cittadini, quali persone fisiche, ma per tutti i soggetti dell’ordinamento, anche per le organizzazioni collettive – in special modo lucrative – in quanto non possono pretendere di instaurare un nuovo ordine basato solo sul profitto.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritieni dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
La domanda evoca in me ricordi dell’infanzia e mi sollecita una risposta da dare con il cuore piuttosto che con la ragione. Ho frequentato le scuole elementari nei primi, lontanissimi, anni sessanta del secolo scorso, in cui il c.d. ‘sussidiario elementare’, nella parte dedicata alla storia, prestava rilevante attenzione al Risorgimento, celebrato ogni anno in un’apposita giornata (nella quale apponevamo sul grembiulino una coccarda tricolore). Una delle figure centrali era infatti quella di Giuseppe Mazzini; fu così che in me si radicò il convincimento, essenzialmente emotivo, che quel signore barbuto raffigurato nel mio libro era appunto uno dei Padri dell’Italia.
Al di là dei ricordi della memoria, è certo che la Patria è centrale nella concezione di Mazzini. Si tratta tuttavia di una concezione ben lontana da quella (distorta) che impronta i movimenti che enfatizzano antistoriche (ovviamente, esecrabili) divisioni tra gli Stati, separati da rigidi, invalicabili, confini al cui interno ciascuno è sovrano e non dovrebbe rendere conto a nessun altro. Soltanto un misunderstanding può far rinvenire nel suo pensiero gli elementi dei più rozzi nazionalismi del secolo scorso (e di quello attuale), frutto invece di una manipolazione che fece «del mazzinianesimo ciò che non era mai stato: il viatico a una politica di potenza e di affermazione della nazionalità italiana nello scontro con le altre nazioni d’Europa» (Giuseppe Monsagrati).
Giuseppe Mazzini è stato sicuramente uno dei Padri dell’unità d’Italia, ma egli vedeva in tale unità il passaggio fondamentale verso la realizzazione dell’unità europea attraverso l’affratellamento di tutti i popoli europei nel segno della democrazia. Ancora una volta, è sufficiente ricordare le parole di due Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi (lo «onoriamo come uno tra i Padri più nobili e lungimiranti della nostra Patria, l'Italia repubblicana, una, indivisibile e democratica», ma anche «dell’Europa unita») e Antonio Segni (il quale, nel discorso di insediamento, in un tempo vicino alla nascita della Comunità europea, ricordò: «Questa unità fondamentale dell’Europa fu intuizione ed aspirazione di uno dei più grandi spiriti del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini»).
La Patria, per Mazzini, costituiva dunque strumento per l’integrazione dei popoli e per la difesa dei diritti inviolabili dell’uomo. Al centro della sua costruzione vi è infatti essenzialmente la «associazione», da lui additata quale «dovere e diritto per voi» e che, in alcuni passaggi, si distacca altresì dalla nozione di Patria nazionale.
Egli, infatti, scrisse: «Taluni a limitarne il diritto fra i cittadini, vi diranno che l’associazione è lo Stato, la Nazione: che voi ne siete e dovete esserne tutti membri; e che quindi ogni associazione parziale tra voi è o avversa allo Stato o superflua. Ma lo Stato, la Nazione non rappresentano se non l’associazione dei cittadini in quelle cose, in quelle tendenze che sono comuni a tutti gli uomini che ne sono parte».
Si tratta di considerazioni che pongono al centro della sua visione «l’associazione», quale «metodo dell’avvenire». Sottolineando che questa deve essere «progressiva», «non contraria alle verità conquistate per sempre dal consenso universale dell’Umanità», «pacifica», «deve rispettare in altrui i diritti che sgorgano dalle condizioni essenziali dell’umana natura», egli ne delinea i caratteri che, in larga misura, sono quelli che connotano le moderne organizzazioni di cooperazione tra gli Stati.
Una dimensione sovranazionale del suo progetto ed il carattere aperto dell’associazione sono altresì precisamente fissati quando scrive (nell’Atto di fratellanza della Giovine Europa) che «La riunione delle Congreghe Nazionali, o dei delegati d’ogni Congrega costituirà la Congrega della Giovine Europa. Gli individui che compongono le tre associazioni sono fratelli. Ognuno di essi adempirà coll’altro ai doveri di fratellanza» (punto 5), sottolineando che «Qualunque popolo vorrà partecipare ai diritti ed ai doveri della fratellanza stabilita fra i tre popoli collegati in quest’atto, aderirà formalmente all’atto medesimo, firmandolo per mezzo della propria Congrega Nazionale» (punto 8).
L’universalità della sua visione è stata puntualmente rimarcata, ricordando che nei suoi scritti politici e nelle sue lettere «è impossibile trovare quei giudizi sprezzanti per i popoli non europei o quelle giustificazioni dei massacri compiuti da talune potenze europee». Al riguardo, è stato ricordato che il Pandit Nehru, nel 1933, dal carcere additò alla figlia Giuseppe Mazzini quale esempio da seguire (Massimo Scioscioli), che pone in luce un’anticipazione dei tempi addirittura straordinaria, se si pensa che le sue riflessioni erano svolte in un tempo dominato dalle politiche colonialiste degli Stati europei. La sua esortazione, ricordata dal Presidente Ciampi, «ad essere apostoli della Fratellanza delle Nazioni e dell'unità del genere umano» («In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall'errore, dall'ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, SIETE TUTTI FRATELLI») è di sicura attualità in questi giorni in cui sull’Europa soffiano nuovamente tragici venti di guerra.
Il valore e la grandezza dell’insegnamento europeo di Giuseppe Mazzini non stanno, tuttavia, nella concezione, sostanzialmente vaga, della sua Europa, e neppure nella convinzione (che non ebbe) di una unità sovranazionale, benché avesse sottolineato che cercava di «verificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d’Europa». L’europeismo di Mazzini, è stato convincentemente osservato, derivava dal profondo concetto dell’unità della cultura europea, «nello spirito, nell’anima morale di tutta la sua attività, interamente volta a mostrare – e a vivere una tale convinzione – che la democrazia, la libertà, la difesa della dignità dell’uomo sono solidali a livello europeo, o sono destinate a perire» (Andrea Chiti-Batelli), nell’intuizione (puntualmente segnalata da Pasquale Costanzo) della necessità di «equilibrare le differenze che separano un mercato da un altro». Per questa concezione, «non c’è contraddizione alcuna fra amore della propria città e regione, amor di patria, amore d’Europa» (sono parole del Presidente Ciampi nel Messaggio di fine anno agli italiani del 31 dicembre 2000), se solo si considera che lo stesso motto dell’Unione europea («Uniti nella diversità»), secondo la spiegazione ufficiale offerta nel sito web della stessa, «sta ad indicare come, attraverso l'UE, gli europei siano riusciti ad operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente».
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni Ti suscita questa affermazione, da giurista e da magistrato?
I Doveri dell’uomo sono espressamente dedicati agli operai italiani ed il pensiero politico di Mazzini è strettamente connesso con l’interesse per la questione sociale. Egli tentò infatti di coinvolgere l’intero popolo in un’iniziativa rivoluzionaria volta ad un «miglioramento delle classi più numerose e più povere», spronandolo all’azione e chiarendo i diritti e i vantaggi che avrebbe potuto trarre dal nuovo assetto sociale, nel convincimento che i cittadini potevano essere chiamati a sacrificare la vita e la quiete soltanto «proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale e materiale comune a tutti, di educazione fraterna senza eccezione».
Giuseppe Mazzini si batté per l’aumento dei salari e per la riduzione della giornata lavorativa; auspicò forme speciali di credito per gli operai, per agevolare l’accesso alla proprietà dei mezzi di produzione; la sola forma di proprietà da lui accettata fu quella proveniente dal lavoro, che doveva deve essere resa accessibile al maggior numero di cittadini: «Non bisogna abolire la proprietà, perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla» (così scrive nei Doveri dell’uomo).
Per Mazzini, la soluzione più efficace alla questione operaia poteva derivare soltanto dal fermento rinnovatore rappresentato dall’associazione e dalla sua definizione in senso cooperativistico; appunto per questo, assunse grande rilievo l’impegno politico verso le «classi operose», che avrebbe dovuto tradursi in uno sforzo organizzativo per la creazione di società di mutuo soccorso e per la loro politicizzazione in senso democratico.
Il programma operaio di Mazzini restava, comunque, essenzialmente focalizzato su «una progressiva elevazione morale e culturale della classe operaia» (Nello Rosselli), in coerenza con il suo complessivo pensiero, scarsamente attento agli aspetti economici (particolarmente polemica la considerazione di Giuseppe Garibaldi secondo cui Mazzini non aveva esperienza delle reali condizioni del popolo, non avendolo mai conosciuto da vicino) e che fu alla base delle aspre, note, polemiche con Marx e Bakunin.
È dunque sufficiente ricordare che alcuni hanno ritenuto che le sue considerazioni sulla questione sociale ed operaia prefiguravano in realtà un mero «libro dei sogni» (Enrico Galavotti); altri hanno invece rinvenuto nel suo pensiero le radici del «modello forse impropriamente definito “socialdemocratico”» che, con diverse varianti, ha guidato lo sviluppo delle economie dei paesi europei (Massimo Scioscioli), emergendo, in ogni caso, l’attualità di una perdurante riflessione sul suo pensiero.
I Doveri dell’uomo, espressamente dedicati, come detto, agli operai, hanno altresì quale destinatario la donna e si inquadrano, storicamente, in un’epoca in cui vedevano la luce i primi giornali a questa dedicati. La concezione della Repubblica di Mazzini è focalizzata sull’idea di uno Stato non più basato sui privilegi di nascita, di censo, di sesso, il cui principio cardine è il suffragio universale, esteso perciò anche alla donna.
Già solo tale notazione vale ad evidenziare la modernità di Mazzini anche in relazione alla situazione della donna, soprattutto se si tiene conto di quella esistente al suo tempo.
Accanto a tale sicura modernità si accompagnano però considerazioni chiaramente datate, soprattutto con riguardo alla famiglia, in relazione alla quale (nel capitolo dedicato ai doveri verso la stessa) egli ripropone una risalente (all’epoca, radicata e tradizionale) visione che vede la donna essenzialmente quale «Angelo della Famiglia» e che, in nuce, contiene il germe di una concezione oppressiva, fortunatamente superata dall’evoluzione successiva, a tutti nota alla quale non è dunque necessario accennare.
Non poche sono tuttavia le riflessioni – alcune di sicura attualità ed ancora oggi condivisibili – con le quali sottolinea l’esigenza di realizzare un’eguaglianza effettiva di genere. Anziché attardarsi nell’esegesi del suo pensiero, è sufficiente ricordare che egli scrive: «Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione»; «cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi quell’apparente [l’enfasi è di Mazzini] inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione». «Non esiste disuguaglianza fra l’uno e l’altra»; «abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica».
La profonda religiosità di cui è intriso non gli impedì, inoltre, di scrivere: «La Bibbia mosaica ha detto: Dio creò l’uomo e dall’uomo la donna; ma la vostra Bibbia, la Bibbia dell’avvenire dirà: Dio creò l’Umanità manifestata nella donna e nell’uomo».
Si tratta infatti di considerazioni univocamente espressive del convincimento più profondo dell’eguaglianza di genere, la cui realizzazione esige che si dia corso al dovere di tutti di praticarla.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Tuo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La domanda è assai interessante, ma con sincerità devo dire che è arduo rinvenire un collegamento con il pensiero di Mazzini e, quindi, suggerisce riflessioni sul significato della riforma costituzionale, che è opportuno restino riservate ai costituzionalisti coinvolti in questa iniziativa – in particolare, ad Antonio Ruggeri ed Alessandro Morelli –, i quali, diversamente da me (sicuramente più di me), hanno titoli e sapienza per svolgerle. Dunque, ritengo senz’altro più proficuo ed utile (per me e per tutti i lettori), leggere le loro considerazioni.
Ucraina 24-02-2022, “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma” di Tommaso Manzon
Queste brevi riflessioni su quanto sta accadendo al momento in Ucraina vogliono essere fatte secondo lo spirito di una celebre citazione di Hegel: “la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero”. Qualunque altra cosa quest’ affermazione significhi, essa indica che il pensare è prima di tutto un pensiero del presente, un meditare con intensità su ciò che accade; qualunque altra cosa la filosofia possa essere è sicuramente almeno questa cosa qui, poiché ogni pensare è fatto qui e ora, in un presente e sul presente. Questo significa che se fatta bene, la filosofia ci consente di comprendere con maggiore chiarezza il nostro tempo ed è così in grado di equipaggiarci meglio per poterlo navigare. Quindi seguire l’indicazione di Hegel non significa fare della filosofia un passatempo che si nutre della notizia del giorno. Piuttosto, significa pensare sul nostro tempo come parte del nostro continuo tentativo di orientarci al suo interno.
Stiamo quindi sul fatto presente che ci s’impone di dover pensare: la Russia ha dichiarato guerra all’Ucraina. Vorrei cominciare citando una tra le tante voci ufficiali che oggi si sono espresse, Larysa Gerasko, ambasciatrice ucraina in Irlanda, la quale durante un’intervista ha espresso la sua incredulità per il fatto che un’invasione come questa possa accadere ancora oggi nel XXI secolo. Di fronte a queste parole bisogna farsi una domanda: il nostro tempo è veramente così diverso dal passato? Per quanto mi riguarda non riesco a trovare nessun motivo a favore di una risposta positiva. Eppure, si sentono abbondare affermazioni basate su una mentalità di questo tipo. “Ma come, ancora la guerra?” si chiede un intero coro di voci, come se questa fosse ormai una cosa relegata ai libri di storia come le locomotive a vapore. Mi sembra che questa visione delle cose non faccia i conti con un fatto, ossia che la differenza tra pace e guerra è essenzialmente una questione di gradi. In altri termini, dovremmo pensare alla pace non come una condizione assolutamente diversa dalla guerra, ma semplicemente come all’assenza di conflitto. Questo significa che per quanto un periodo di pace possa protrarsi nel tempo gli elementi della guerra sono sempre presenti in potenza: è sufficiente che le componenti sociali in pace tra loro si agitino al punto di causare un conflitto; dove ci sono delle persone è in linea di principio possibile che quelle persone a un certo punto litighino.
Ci tengo a sottolineare che non scrivo queste cose per fare sfoggio di un vano cinismo da quattro soldi; che nell’universo imperversi una “guerra intestina” (Dionigi l’Areopagita) e che pertanto il potenziale di un maggior conflitto tra gli esseri umani sia sempre in linea di principio a disposizione, è un fatto basilare dell’esistenza che colora la vita di un tono tragico. Questo non è qualcosa di cui gioire in alcun modo, e che discutere con un disincanto vissuto è solo indice di superficialità intellettuale. Se mi concentro su quest’aspetto della condizione umana è perché ritengo che molti di noi, incluse diverse voci pubbliche, sembrano essersene dimenticati. Quindi “sì, ancora la guerra” bisogna purtroppo rispondere al coro dei perplessi, degli scandalizzati, dei sorpresi e degli sconsolati. Una guerra che, anche se restringiamo il campo alla nostra area geografica, non ci ha mai abbandonato completamente. Del resto, per citare fatti noti a tutti, l’Ucraina è in uno stato di conflitto sin dal 2014 e se risaliamo più indietro troviamo le crisi balcaniche. Poi abbiamo effettivamente un lungo iato fino all’ultimo conflitto mondiale, ma anche questo giudizio si potrebbe complicare se allargassimo la visuale a fenomeni di conflitto sociale che non chiamiamo guerra ma che ne riportano alcuni tratti distintivi (per esempio, pensiamo al terrorismo).
Certo la guerra tra Russia ed Ucraina è per noi diversa da altri eventi analoghi perché ci riguarda più da vicino. Non tanto da un punto di vista geografico, in fondo l’Ucraina è più distante dall’Italia del Kosovo e della Libia, ma perché ci sentiamo chiamati in causa come cittadini europei e come parte di uno stato membro della NATO. Del resto, è stato detto esplicitamente da entrambe le parti: quello che è in discussione in questo scontro va ben oltre le mire della Russia sul suo vicino occidentale e ha a che fare con assetti di potere continentali e intercontinentali. Inoltre, la Russia è la Russia, un colosso sotto tutti i punti di vista, una “nazione apocalittica” (Jacob Taubes) che rievoca memorie culturali vicine e distanti. Questa volta quindi siamo inevitabilmente chiamati in causa nel nostro modo di vivere, nel nostro assetto politico ed ideologico in un grado che probabilmente non si verificava sin dalle grandi crisi della Guerra Fredda. Vedremo in che modo nei prossimi giorni si svilupperà il coinvolgimento del nostro paese in queste vicende ma è un fatto che noi come Italia e come Unione Europea ci siamo – già da tempo – schierati. Ma chi o cosa ci chiama in causa? La risposta è evidente da sé, perché in una guerra ciò che ti chiama in causa è il nemico. In questo caso il nemico è la Russia come nazione che assume per noi soprattutto il volto del suo leader, Vladimir Putin. Sebbene sia chiaro che non si può risolvere un intero popolo e le sue azioni in quelle del suo esponente più noto, rimane il fatto che il suo è lo sguardo che ci si rivolge attraverso le trasmissioni televisive e in rete, e sono soprattutto i suoi comunicati che ci comunicano le intenzioni ufficiali della nazione a noi nemica.
Putin ci chiama in causa in un modo molto specifico che, al netto della propaganda, bisogna cercare di ascoltare con attenzione. Carl Schmitt, essendo appena sopravvissuto ai processi di Norimberga, ebbe modo di scrivere che “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma”. Ebbene, quale domanda, quali domande prendono forma in Vladimir Putin? In un articolo molto discusso pubblicato il 12 luglio del 2021, Putin affermava che il popolo russo ed ucraino erano in realtà due parti di un singolo intero, diviso nel corso di una storia politica avversa. Lasciando da parte l’ovvia funzionalità di una tale ricostruzione al fine di giustificare quanto è avvenuto in seguito, vorrei concentrarmi su di una frase tratta da quel testo. In esso infatti troviamo una citazione di Oleg il Profeta, membro della dinastia dei rurikidi, Principe di Kiev tra l’VIII e il IX secolo DC e fondatore del regno dei Rus di Kiev. Disse Oleg in riferimento alla sua capitale: “che [Kiev] sia la madre di tutte le città russe”. Nello stesso testo, Putin ricorda anche il battesimo del principe Vladimir avvenuto nel 988 nel Chersoneso. Primo principe di Kiev e di Novgorod ad abbracciare la fede cristiana, discendente di Oleg e antenato degli Zar, Vladimir contestualmente al suo battesimo sposò Anna, figlia dell’imperatore bizantino Basilio II. Di ritorno a Kiev fece piazza pulita dei monumenti pagani e condusse il suo popolo nel Dnepr per un battesimo di massa. Questa è la storia di cui Putin afferma di essere erede e che intende affermare con le sue azioni.
Ovviamente, non è tutto così semplice. In primo luogo, le cose da un punto di vista storico sono più complicate di come Putin ce le vuole propagandare; in secondo luogo, sappiamo bene che a motivi di ordine ideale si uniscono sempre altri elementi dettati dal calcolo strategico, economico o dal semplice timore di avere gli eserciti Nato alle porte. Tolto però tutto ciò, le vicende riportate qui sopra ci danno il quadro di riferimento all’interno del quale Putin e la cultura che egli rappresenta vede le proprie azioni e concepisce la propria missione. Sicuramente quest’impostazione non rappresenta tutta la cultura russa, né l’unico modo di declinare la storia di questo paese; ma per ora la cultura di Putin è chiaramente l’opzione egemone in Russia ed è quella che detta il corso degli eventi. Ed è comunque innegabile, al netto di tutto, che esiste un filo che parte dai re di Roma, passa per Costantino il Grande e Giustiniano, si mischia con un altro filo che si muove da Oleg e dalla dinastia dei rurikidi e che arriva oggi a Vladimir Putin – passando per i Romanov e l’URSS. Il punto di arrivo è la già plurisecolare idea di Mosca come terza Roma, e della Russia come baluardo della civiltà cristiana in lotta contro la degenerazione dei paesi occidentali con cui pure condivide un’affinità culturale di fondo. Putin questo lo ha visto fin da ragazzo nella sua San Pietroburgo: città che sintetizza in versione ciclopica l’architettura olandese e veneta insieme a motivi imperiali romani; città che venne costruita ad occidente come una nuova capitale in un luogo dove prima non vi era nulla – e con un grande costo di vite umane – per volontà di uno Zar modernizzatore e filo-occidentale che però fu nemico e invasore dei suoi vicini ad ovest; città sui quali elementi architettonici esteri troneggia la più grande chiesa dell’ortodossia che, con la sua russissima pianta quadrata, è dedicata a Sant’Isacco, protettore dei Romanov.
Non più tardi dell’ora di pranzo di oggi (24/02/2022) ho ascoltato un frammento di un intervento del nostro primo ministro e poi di Putin stesso. La cosa che mi ha colpito è che per un Mario Draghi che batte su come la Russia abbia infranto le regole internazionali, vi sia un Putin che dichiara di agire secondo le regole stabilite dalle Nazioni Unite e dal diritto russo; non solo, la motivazione dietro l’invasione sarebbe quella di “smilitarizzare e de-nazificare” l’Ucraina. Ora, credo che si possa affermare con certezza che Putin non creda veramente alle sue parole quando parla di un’aggressione Ucraina sulle repubbliche separatiste, o quando dipinge questo paese come un covo di neonazisti. Se però ancora una volta cerchiamo di aggirare la propaganda e affianchiamo queste parole a quelle di Draghi (e di Biden, e degli altri leader europei) recuperando quanto detto sulla storia russa, allora appare chiaramente qual è la domanda che il nemico Putin fa prendere forma di fronte a noi. Perché il nemico Putin non solo afferma che quello che egli sta facendo si può comprendere come l’atto più recente di una missione storica e in definitiva sacra; egli afferma anche che le regole e l’etica sono dalla sua parte e che noi non solo siamo nel torto, ma che non siamo mai riusciti ad emergere dagli errori del passato (punto espresso attraverso il travestimento del fantomatico neonazismo degli ucraini). Io credo che Putin abbia torto su ognuno di questi punti; credo però anche che non ci troviamo di fronte né ad un folle (cosa che è stata detta, ma che è irresponsabile dire), né di fronte a un individuo puramente cinico e calcolatore; credo che ciascuno di questi punti evochi un problema serio, una domanda che va discussa.
La linea che emerge da Roma e che arriva a Putin non è sola ma corre in parallelo ad altre linee, una delle quali porta a noi e all’attuale assetto sociale delle nazioni dell’Unione Europea e dei paesi all’interno della sua area d’influenza; la domanda che emerge con Putin è se noi siamo in grado di fare fronte a questa sfida storica, di dimostrare che la storia che ha condotto fino a noi è meglio situata nel mondo della sua e che ha veramente il giusto dalla sua parte. Non possiamo rispondere affermativamente a questa domanda con troppa fretta; dobbiamo resistere al riflesso di scattare con un altisonante “sì!” solo perché a scuola ci hanno spiegato che l’arco del progresso storico porta a noi e che prima o poi tutti finiranno per assomigliarci. Questa è la stessa forma di favola che ci fa stupire che la Russia nel XXI secolo possa ancora spedire i propri carri armati in Ucraina. Questa è una domanda a cui potremo rispondere affermativamente solo sulla base di quello che succederà nei prossimi giorni e se saremo o meno capaci di attraversare questo conflitto con saggezza.
Nel frattempo, che Dio protegga il popolo ucraino e che ci dia presto una pace duratura.
Referendum e art. 274, comma 1, lett. c, c.p.p.: meglio un intervento del Parlamento
di Giorgio Spangher
Se c’è una parte della Costituzione che è in qualche modo datata è sicuramente – seppure parzialmente – quella dove sono regolati i diritti e doveri dei cittadini, ed in questo contesto, quella dei rapporti civili, che risentono profondamente dell’impianto ordinamentale e di quello processuale dell’epoca in cui fu redatta.
Soffermandosi sul tema della libertà personale, in relazione alla specificità del tema qui affrontato il riferimento va ad alcuni profili dell’art. 13 Cost.
In primo luogo, lo stesso riferimento alla libertà appare riduttivo dovendosi ormai fare il più ampio riferimento “alle libertà” in quanto capaci di coprire più ampi spazi rispetto a quella più strettamente personale.
In secondo luogo, va evidenziato il superato riferimento all’autorità giudiziaria quale soggetto garante della libertà e legittimato alla riduzione della libertà. Invero, il riferimento era riconducibile alla struttura ordinamentale, che accumunava giudici e pubblici ministeri, capaci di funzioni spesso fungibili, oggi largamente superate nel nuovo modello processuale che vede una titolare dell’iniziativa tesa alla restrizione delle libertà, l’altra titolare del potere decisorio.
Nel contesto del modello processuale del 1930 e di quello costituzionale del 1948, la restrizione della libertà prima della condanna prevedeva, come risulta dal comma quinto dell’art. 13 Cost., la carcerazione preventiva di cui il legislatore doveva fissare solo i termini di durata massima. Era evidente, in un sistema inquisitorio nel quale, dopo l’archiviazione, già iniziava il processo (morte del reo; art. 150 c.p. e morte dell’indagato/imputato: art. 69 c.p.p.) che potesse esserci l’anticipazione della restrizione (preventiva) della libertà con la misura del carcere (unica misura prevista). Il provvedimento era obbligatorio o facoltativo (a discrezionalità vincolata) disposto – come detto – dal p.m. e dal giudice istruttore, in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza.
Addirittura anticipata rispetto alla riforma processuale (l. n. 330 del 1988), la disciplina della libertà personale prima della condanna nel nuovo processo risulta modificata radicalmente e subisce progressivamente assestamenti in senso garantista che ne modificano gli assetti: essendo peraltro questi elementi noti, non richiedono particolari notazioni ed approfondimenti.
Il riferimento si indirizza alle correzioni delle distorsioni del c.d. rito ambrosiano, all’anticipazione ed estensione delle garanzie difensive, alla rimodulazione dei presupposti delle esigenze cautelari, al rafforzamento della disciplina del riesame, attuate progressivamente con le ll. n. 332 del 1995 e n. 47 del 2015.
Nel nuovo modello trovano così collocazione le esigenze cautelari, superando quel “vuoto dei fini”, dell’art. 13 Cost., giustificato dalla funzione anticipatrice della condanna, cui si è fatto cenno. Con la l. n. 517 del 1955 per la cattura facoltativa si faceva riferimento alle qualità morali della persona e alle circostanze del fatto.
Si recupera a tal fine quanto la Corte costituzionale ebbe a sottolineare in alcune pronunce così da divenire oggetto delle modifiche di cui all’art. 254, comma 2, introdotto dalla l. n. 532 del 1982, con l’art. 4.
Va sottolineato, del resto, che per effetto della direttiva n. 59 della l. delega, in qualche modo, le misure cautelari si sarebbero dovute applicare dopo l’esercizio dell’azione penale, il che giustifica gli originali riferimenti dell’art. 274 c.p.p. (sintomatico il riferimento non chiaro al pericolo di fuga dell’”imputato”: dalla pena, dalla prova o dal processo).
Ricalibrata la lett. a dell’art. 274 c.p.p., con il rafforzamento (attualità e concretezza, nonché con l’esclusione di implicazioni della mancata collaborazione, con tempi determinati della durata della misura), anche dell’invalidità motivazionale, già presente nell’ordinanza ex art. 292 c.p.p., la dottrina (almeno una parte di essa) non ha mancato di evidenziare la precarietà di quanto previsto dalla lett. c dell’art. 274 c.p.p., sotto il profilo della presunzione di innocenza.
Invero, la condizione di un soggetto gravemente indiziato di delitto si sostanzia a fini cautelari nel pericolo attuale e concreto di reiterazione di “delitti” (la lett. c contiene l’unico riferimento del codice alle parole “criminalità organizzata”).
Il dato risulta deducibile dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla pericolosità del soggetto desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti, senza che i citati elementi possano essere desunti esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede. L’inserimento di quest’ultima precisazione (l. n. 47 del 2015, pure alla lett. b dell’art. 274 c.p.p.) è stato previsto anche in considerazione del fatto che questo si innesta nella ricostruzione che ne prospetta il pubblico ministero, seppur con il controllo del giudice, peraltro sulla base del solo materiale d’accusa, spesso frutto della informativa di p.g.
L’elemento della criticità, nella prospettiva indicata, è quello relativo all’ampia categoria dei “reati della stessa specie”.
Anche se i presupposti soggettivi e fattuali del pericolo, pur discutibili, sono precisati, anche se le situazioni di esclusione sono delineate, anche se l’ambito della quantità e qualità delle misure da applicare sono definite (in coerenza con il sistema ex art. 280 c.p.p., pur con l’eccentricità dell’unica presenza espressa del finanziamento illecito ai partiti politici), resta una certa fluidità del concetto di reato della stessa specie, definito dalla giurisprudenza non solo in termini di offensività al medesimo bene giuridico, ma anche di identità della natura in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive ma soprattutto resta la sua estraneità alla dimensione endoprocessuale del pericolo sotteso alla cautela, in favore di una valutazione prospettica di possibili comportamenti tesi alla protezione (anticipata) della collettività rispetto ad una premessa (ancora da verificare) di una prognosi non certa. Sotto questo profilo, si giustifica la riferita tensione con l’art. 27, comma 2, Cost. senza considerare ulteriormente che l’art. 5, comma 1, lett. c della Cedu fissa in termini più stringenti (motivi fondati per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato) il presupposto di operatività della cautela.
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