ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[1]
di Francesco Gualtieri
Il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai dieci or sono ai sensi dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, non può ancora dirsi compiuto e continua ad essere attraversato da criticità e contraddizioni, che riguardano, in primo luogo, l’attuale sistema di assegnazione dei pazienti psichiatrici autori di reato alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (R.E.M.S.) attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi. Con la sentenza n. 22 del 2022, la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibili le questioni poste alla sua attenzione, ha tuttavia rivolto un fondamentale monito affinché vengano prontamente individuate soluzioni di carattere strutturale per le numerose problematiche, giuridiche ed organizzative, che connotano la materia. Il presente contributo, oltre a commentare i contenuti della sentenza, intende affrontare il merito delle complesse questioni oggi “sul tappeto”, a partire da una disamina delle cause che hanno determinato l’attuale situazione di stallo nel sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive nei confronti delle persone non imputabili.
Sommario: 1. Il contesto di riferimento - 2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021 - 3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili - 4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri - 5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPGP alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato - 6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva. 7. Conclusioni.
1. Il contesto di riferimento
Lo scorso 27 gennaio la Corte costituzionale ha depositato l’attesa sentenza n. 22 del 2022, concernente il giudizio di legittimità dell’art. 3-ter del decreto legge 22 dicembre 2021, n. 211, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, con il quale venivano formalmente istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cosiddette R.E.M.S.), nell’ambito del travagliato percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
La Consulta ha ritenuto di dichiarare inammissibili tutte le questioni poste alla sua attenzione ma tale dispositivo non deve trarre in inganno, collocandosi nell’ambito di una pronuncia che, pur non essendo sfociata in una decisione demolitoria, si distingue tuttavia per l’estrema chiarezza dei principi che il Giudice delle leggi ha ritenuto di riaffermare e per la severità dei moniti rivolti senz’altro al legislatore, ma anche a tutti gli altri attori istituzionali coinvolti nelle procedure giurisdizionali e amministrative di individuazione, presa in carico, cura e custodia dei pazienti psichiatrici autori di reato.
La ricostruzione della disciplina di riferimento, rinvenibile nelle premesse in fatto della sentenza in commento, consente agevolmente di notare quanto accidentato, contraddittorio e per certi versi timido sia stato il percorso riformatore che, per il suo impatto nel sistema sanzionatorio italiano, avrebbe senz’altro dovuto essere oggetto di interventi ben più ordinati ed organici.
Al riguardo, oltre a quanto puntualizzato dalla Consulta, deve anzitutto sottolinearsi come, in modo francamente anomalo, l’obiettivo del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari sia comparso ex abrupto nell’ordito normativo nazionale, in particolare nell’ambito di un decreto-legge che, in modo non del tutto coerente rispetto a quanto previsto in precedenza, introduceva il tema della soppressione degli OPG, sebbene la normativa primaria approvata pochi anni prima si fosse limitata a delineare il semplice trasferimento delle funzioni in materia di OPG dallo Stato alle Regioni[2].
Al di là di tale circostanza, ciò che maggiormente desta sorpresa – e su cui, non a caso, si sono appuntate le più decise critiche del Giudice delle leggi – è la persistente assenza di una normativa esplicita di rango ordinario concernente la gestione concreta delle REMS, con un vero e proprio “scarico” di responsabilità su fonti giuridiche secondarie, quali i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti ministeriali e gli Accordi da stipularsi in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, nella sostanziale assenza di indicazioni esplicite all’interno della cornice normativa di riferimento.
In questo contesto, il sistema delle assegnazioni dei pazienti psichiatrici alle REMS è da sempre rimasto in un limbo di ambiguità che, peraltro, tuttora persiste, determinando l’insorgere di gravi problematiche applicative e gestionali.
Tutto ciò, inoltre, si è verificato nell’ambito di un sistema riferito non già a prestazioni di carattere esclusivamente sanitario, bensì alla esecuzione di misure di sicurezza aventi una chiara natura giurisdizionale; ed ancora, la configurazione dei rapporti organizzativi tra i diversi livelli di governo si è perfezionato, in modo evidentemente approssimativo, a fronte dell’ostinato silenzio del legislatore il quale, con l’art. 3-ter, co. 3, lett. a), d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, si è limitato a prevedere la “gestione esclusivamente sanitaria” delle REMS, senza null’altro aggiungere in merito al riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni nella fondamentale materia delle assegnazioni dei pazienti destinatari di misure giudiziarie.
In questo senso, la principale disciplina di riferimento può in effetti rinvenirsi nell’Accordo del 26 febbraio 2015, stipulato in sede di Conferenza Unificata tra Governo, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e Autonomie locali, recante le “disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”[3].
La lettura di detto documento, che a tutt’oggi governa la materia, dimostra in particolare come, in seguito al lungo processo di trasferimento delle funzioni relative alle misure di sicurezza detentive in capo ai sistemi sanitari regionali, all’Amministrazione penitenziaria sia stato di fatto riservato un ruolo di spettatrice passiva di ciò che accade nel sistema delle REMS, risultando la stessa privata di eventuali poteri di intervento, sia pure in via sostitutiva o sussidiaria, onde supplire ad eventuali difetti del sistema medesimo.
Vero è, infatti, che, formalmente, l’art. 1 dell’Accordo parrebbe assegnare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il potere-dovere di effettuare le assegnazioni e i trasferimenti degli internati e degli internandi presso le singole REMS, nel rispetto del principio di territorialità di cui all’art. 3 ter, co. 3, lett. c) d.l. 211/2011 e, dunque, in ragione della residenza anagrafica degli interessati, come già precisato il 26 novembre 2009, in seno ad un precedente Accordo stipulato in sede di Conferenza Unificata[4]. Tuttavia, il medesimo articolo precisa che le assegnazioni e i trasferimenti siano disposti in base alla disponibilità di posti-letto nelle strutture e, soprattutto, attribuisce in via esclusiva alle Regioni e alle Province autonome il compito di verificare la progressiva disponibilità di posti-letto all’interno delle singole REMS, per poi comunicare tempestivamente dette disponibilità all’Amministrazione penitenziaria, affinché quest’ultima possa procedere alle assegnazioni e ai trasferimenti degli internandi e degli internati nei casi previsti dalla legge.
Ancora, deve rammentarsi come l’Accordo del 26 febbraio 2015, sia pure nelle sue premesse, abbia definito come inderogabile il limite dei 20 posti-letto da attivare in ciascuna REMS, il che, nella prassi, al presumibile fine di scongiurare qualsivoglia fenomeno di sovraffollamento, ha indotto le Regioni a palesare nei confronti dell’Autorità giudiziaria e del DAP una tendenziale rigidità nella gestione delle liste di accesso alle singole Residenze, negando sostanzialmente l’accesso degli internandi una volta raggiunto il limite massimo dei posti-letto disponibili all’interno delle strutture presenti nel territorio regionale.
Pare dunque inevitabile che, in siffatto contesto, in assenza di posti-letto effettivamente disponibili e delle conseguenti comunicazioni inoltrate dalle Regioni, il potere di assegnazione e trasferimento degli internandi e degli internati formalmente assegnato all’Amministrazione penitenziaria sia stato de facto abrogato.
2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021
È dunque questo lo scenario in cui si è innestata la questione di legittimità costituzionale definita con la sentenza in commento.
Segnatamente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli, con ordinanza dell’11 maggio 2020[5] sollevava d’ufficio la questione di legittimità costituzionale degli articoli 206 e 222 cod. pen. e 3-ter, d.l. n. 211/2011, con riguardo proprio alla sopravvenuta assegnazione alle Regioni di ogni concreta competenza in merito all’ammissione in REMS dei destinatari delle misure di sicurezza detentive.
Il remittente segnalava il potenziale contrasto di tale assetto normativo, da un lato, con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, assegna al Ministro della giustizia i compiti relativi all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e, d’altro lato, con le norme costituzionali, prime fra tutte l’articolo 25, che, prevedendo il principio della riserva di legge anche in materia di misure di sicurezza, osterebbero a norme ordinarie che consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in relazione alle REMS.
Oltre ad avere avuto l’obiettivo merito di ravvivare il dibattito sulla materia[6], disvelando expressis verbis l’esistenza di chiari problemi nell’attuale sistema di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, l’ordinanza in questione ha senz’altro sollevato perplessità sulla legittimità costituzionale dell’attuale assetto organizzativo meritevoli di approfondimento e non affatto peregrine.
Tuttavia, come correttamente evidenziato e come infine riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, è da subito apparso arduo ipotizzare che i nodi “di sistema” che attualmente affliggono le modalità di accoglienza in REMS potessero risolversi mediante l’eventuale revisione costituzionale della normativa di riferimento, senza affrontare nel merito questioni di carattere più sostanziale[7].
In tale contesto, non pare un caso che taluni commentatori abbiano da subito “sospettato” che dietro l’eventuale trasferimento in capo al Ministero della giustizia di più pregnanti competenze nella materia delle assegnazioni in REMS, tramite l’accoglimento della questione posta dal Giudice di Tivoli, si celasse il reale intento di “derubricare” le esigenze di cura dei pazienti accolti nelle Residenze in modo da privilegiare interessi di tipo più securitario. È inoltre sembrato piuttosto chiaro che il timore maggiormente diffuso in ambito sanitario fosse quello che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale potesse determinare il superamento del principio del “numero chiuso” in relazione alla disponibilità dei posti-letto in REMS[8].
In realtà, al di là del pregiudizio che parrebbe permeare una siffatta impostazione, laddove si sostiene che “solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze”[9], risulta tuttavia altrettanto chiaro che, indipendentemente dal riparto di competenze tra Amministrazione centrale e Regioni e pur non rimettendo in discussione il principio della esclusiva gestione sanitaria delle strutture, tale tipologia di gestione dovrà comunque cominciare ad essere conciliata con le peculiarità delle misure di sicurezza detentive, aventi natura pacificamente giudiziaria e che, come tali, devono essere suscettibili di pronta esecuzione.
L’estrema complessità delle questioni poste dal remittente resta comprovata dalla decisione interlocutoria che la Corte costituzionale ha ritenuto di assumere all’esito della camera di consiglio celebrata il 26 maggio 2021, adottando[10] l’ordinanza “istruttoria” n. 131, depositata il 24 giugno 2021[11].
Infatti, al fine di decidere in merito alle questioni promosse dal Giudice di Tivoli, la Consulta ha ritenuto necessario acquisire una serie di approfondite informazioni dal Ministro della giustizia, dal Ministro della salute, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e, limitatamente alla lettera m) del dispositivo, dal Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, per quanto di rispettiva competenza.
Le richieste, peraltro, non riguardavano esclusivamente i dati statistici inerenti al numero di REMS realizzate sul territorio nazionale (lett. a) del dispositivo), il numero dei pazienti inseriti nelle singole liste di attesa [(lett. b), c) e d)], con specifico riguardo per coloro che si trovassero detenuti in Istituto di pena in attesa di ricovero (lett. f), e la tipologia dei reati contestati agli internandi (lett. e), ma concernevano altresì questioni che si caratterizzano per una consistenza squisitamente politica.
Le istanze istruttorie si addentravano infatti in tutte le più spinose problematiche che connotano la formazione delle liste di attesa per l’ingresso in R.E.M.S., riguardando in particolare: l’accertamento in ordine alle difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle R.E.M.S. per i pazienti psichiatrici autori di reato (lett. g); l’esistenza di forme di coordinamento tra il Ministero della giustizia, il Ministero della salute, le aziende sanitarie locali e i Dipartimenti di salute mentale, volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei provvedimenti di applicazione, in via provvisoria o definitiva, delle misure di sicurezza detentive (lett. h); quali specifiche competenze esercitino, in particolare, il Ministro della giustizia e il Ministro della salute rispetto all’obiettivo di cui alla lettera h) (lett. i); se il ricovero nelle R.E.M.S., nonché i trattamenti sanitari conseguenti all’applicazione della libertà vigilata, rientrino nei livelli essenziali di assistenza (L.E.A.) che le Regioni sono tenute a garantire (lett. j); se sia attualmente effettuato dal Governo uno specifico monitoraggio sulla tempestiva esecuzione dei provvedimenti di applicazione delle misure di sicurezza detentive (lett. k); se sia prevista la possibilità dell’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni (lett. l); se le riscontrate difficoltà siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie, ovvero ad altre ragioni (lett. m); se siano attualmente allo studio progetti di riforma legislativa, regolamentare od organizzativa per ovviare alle predette difficoltà e rendere complessivamente più efficiente il sistema di esecuzione delle misure di sicurezza applicate nei confronti delle persone inferme di mente (lett. n).
Orbene, così sintetizzati i quesiti posti dal Giudice delle leggi, pare a chi scrive che, con l’ordinanza de qua, la Consulta abbia ritenuto di inscrivere la questione di legittimità costituzionale posta alla sua attenzione entro un quadro giuridico, fattuale e politico ben più ampio, indicando alle amministrazioni coinvolte – ed in ultima istanza al decisore politico – gli ambiti in cui gli interventi organizzativi e finanziari risultano ormai non più rinviabili, al fine di restituire efficacia ed efficienza al sistema di esecuzione delle misure di sicurezza, detentive e non.
Dalle parole della ordinanza traspare dunque la consapevolezza di quanto sopra accennato a proposito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, in quanto problematica giuridico-organizzativa che di per sé sola non ha determinato la situazione di stallo nella quale in atto versa l’apparato delle misure di sicurezza e che, in ogni caso, non può continuare ad essere impropriamente utilizzata come schermo per continuare a rinviare sine die la concreta individuazione delle soluzioni.
3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili
Queste ultime considerazioni, invero, hanno trovato piena conferma nelle motivazioni della sentenza n. 22 del 2022, da ultimo depositate.
A dispetto della declaratoria di inammissibilità delle questioni, la Corte ha con evidenza individuato dei punti fermi nella ricostruzione giuridica ed organizzativa della materia, che costituiranno un ineludibile riferimento nella integrale revisione del sistema per tutti coloro che – in tempi auspicabilmente rapidi – saranno chiamati a rendere più fluida ed organica l’applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei pazienti psichiatrici autori di reato.
In estrema sintesi, i principi affermati dalla Consulta possono così riassumersi:
- malgrado la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze sancita dal legislatore, “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”; l’assegnazione a una REMS va dunque a tutti gli effetti considerata una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una ratio profondamente diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura e di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d. l. n. 211 del 2011 (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- in quanto misura di sicurezza espressamente “limitativa della libertà personale”, l’assegnazione a una REMS merita altresì di essere tenuta distinta da ogni ordinario trattamento della salute mentale, ed in particolare dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in ragione, tra l’altro, sia dei noti presupposti penalistici, di rango sostanziale processuale, che ne legittimano l’applicazione in concreto, sia della sua schietta natura giurisdizionale, comprovata dai penetranti poteri di costante vigilanza nella fase esecutiva, pacificamente assegnati al Magistrato di Sorveglianza (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- secondo l’autorevole avviso della Corte, dunque, l’assegnazione a una REMS non può ritenersi connotata esclusivamente da una finalità di tipo terapeutico, trovando “la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente”; le due finalità sottese all’applicazione della misura di sicurezza detentiva, del resto, non rappresentano affatto un novum nel panorama interpretativo relativo all’istituto di cui si discute, come stratificatosi nei decenni secondo chiavi di letture costituzionalmente orientate; evidenzia sul punto la Corte come “le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile (sentenza n. 253 del 2003)” (punto 5.2 del “Considerato in diritto”);
- sulla base di tali premesse, la Consulta indica dunque la necessità che l’assegnazione ad una REMS, per la sua natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico, si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori; ed in questo senso, i riferimenti costituzionali pressoché obbligati, nel percorso argomentativo seguito dalla Corte, debbono individuarsi nell’art. 13 della Costituzione relativo alla salvaguardia della libertà personale, nonché negli articoli 25, terzo comma e 32, secondo comma, rispettivamente dedicati all’applicazione delle misure di sicurezza e dei trattamenti sanitari obbligatori, assoggettando entrambi gli istituti alla riserva di legge; di peculiare interesse risultano peraltro le considerazioni svolte a proposito del citato art. 25, terzo comma, reinterpretato dalla Corte secondo una logica rinforzata, in nome della quale il legislatore non può comunque limitarsi alla sola individuazione dei “casi” in cui possa applicarsi una misura di sicurezza detentiva, dovendo altresì farsi carico di delineare i “modi” con cui la misura possa restringere la libertà personale degli individui, “ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua” (punto 5.3.1 del “Considerato in diritto”);
- dato un siffatto perimetro costituzionale, la Corte annota come l’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS riveli “evidenti profili di frizione” con i principi di rango sovra-ordinario illustrati nella sentenza (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- in particolare, nel prosieguo della pronuncia si sottolinea come, attualmente, l’unica norma ordinaria che regoli la materia sia rinvenibile nello scarno art. 3-ter, d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, oltre che nelle datate norme codicistiche che, tuttavia, si limitano a regolare i “casi” in cui le misure di sicurezza detentive – ancora impropriamente denominate ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in casa di cura e custodia – possono trovare applicazione in concreto; manca, d’altro canto, una disciplina primaria dei “modi” mediante i quali dette misure, e dunque, le assegnazioni alle REMS, debbono essere eseguite, posto che, come ribadito dalla Corte, la regolamentazione puntuale dei ricoveri è stata affidata a fonti secondarie, quali i decreti ministeriali e gli Accordi intercorsi tra Amministrazioni centrali ed autonomie territoriali; ed un tale assetto, per quanto detto, non può che entrare in potenziale conflitto con il principio della riserva di legge in materia di misure di sicurezza, sancito dall’art. 25, terzo comma della Costituzione (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- a proposito degli ambiti in cui viene appunto invocato un organico intervento del legislatore, concernenti i “modi” di esecuzione delle misure in parola, la Corte segnala anzitutto l’esigenza che la norma primaria stabilisca se ed in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione; in secondo luogo, la legge ordinaria dovrà farsi carico di disciplinare “in modo chiaro e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni” (punto 5.2.3 del “Considerato in diritto”);
- è a questo punto della pronuncia che la Corte costituzionale, ben lungi dall’arrestare la propria analisi ai profili prettamente giuridici della questione, ritiene di compiere una lucida disamina su quello che definisce “grave malfunzionamento strutturale del sistema di applicazione dell’assegnazione in REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”), evidentemente non al fine di sconfinare dalle proprie prerogative istituzionali, ma onde verificare se ed in che termini una eventuale pronuncia demolitoria potesse essere idonea a garantire il risultato perseguito dal remittente, ossia la corretta allocazione in REMS per la persona sottoposta al procedimento penale nel cui alveo era stata promossa la questione di legittimità costituzionale (punto 6 del “Considerato in diritto”);
- a quest’ultimo proposito, il Giudice delle leggi prende le mosse dagli esiti della istruttoria intrapresa con la citata ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021, da cui si evince che un numero di persone almeno pari a quelle attualmente ospitate in REMS – compreso tra le 670 (secondo i calcoli effettuati dal Ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) e le 750 (secondo i calcoli del Ministero della giustizia) – si trovano allo stato in attesa di essere collocate in una REMS; la permanenza media in una lista di attesa è pari a circa dieci mesi ma in alcune Regioni i tempi di attesa possono essere ancora più lunghi; le persone in attesa di ricovero sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici di “reati assai gravi”, il più delle volte commessi contro la persona (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- ciò premesso, pur non entrando nel merito delle possibili soluzioni prospettate dalle Amministrazioni interpellate con la citata ordinanza istruttoria, la Corte non ha potuto fare a meno di rilevare la “problematicità” della situazione venutasi a creare e a consolidare nel tempo, con riguardo appunto all’esistenza di liste d’attesa per l’esecuzione di provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nei confronti di autori di reato, sul presupposto della loro pericolosità sociale; sul punto, si sottolinea opportunamente nella sentenza come “per loro natura, simili provvedimenti dovrebbero essere immediatamente eseguiti, così come destinate a essere immediatamente eseguite sono le misure cautelari previste dal codice di procedura penale che si fondano sulla necessità di prevenire rischi quale – in particolare – il pericolo di commissione di gravi reati da parte dell’imputato (art. 274, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale)”; ad autorevole avviso della Corte, del resto, l’esigenza di immediata esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali di cui si discute non corrisponde ad una sterile petizione di principio, costituendo semmai il passaggio indispensabile per dare effettività alla “tutela dell’intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare”; spiega al riguardo la Corte come “da un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9) – che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- detto che la soluzione alla problematica illustrata non potrà evidentemente risiedere nell’assegnazione in soprannumero delle persone in attesa di ricovero, la Corte invita con forza ad affrontare “senza indugio” il problema delle liste di attesa, attraverso le differenti strategie prospettate dalle competenti Amministrazioni, allo scopo di ridurre gradatamente, “sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione”; nel merito, nella sentenza si invoca in particolare di adottare ogni strategia opportuna specialmente presso le Regioni rivelatesi più indietro nell’attuazione del processo riformatore: “compreso l’esercizio degli ordinari poteri sostitutivi da parte del Governo, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost., in caso di riscontrata inadempienza di quelle Regioni che fossero venute meno al proprio dovere costituzionale di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nei confronti dei destinatari dei provvedimenti di assegnazione alle REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- da ultimo, la Corte si sofferma sulla compatibilità dell’attuale assetto organizzativo con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, affida al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia; al riguardo, nel ricomprendere pacificamente l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive nel novero dei servizi giudiziari, nella pronuncia si giudica non del tutto conforme al dettato costituzionale l’attuale apparato organizzativo delle REMS, nella parte in cui di fatto estromette proprio il Ministro della giustizia dalle attività inerenti l’applicazione in concreto delle misure di sicurezza, detentive e non (punto 5.5 del “Considerato in diritto”);
- in conclusione, nel dichiarare inammissibili le questioni poste dal remittente, il cui eventuale accoglimento sarebbe palesemente inidoneo a garantire il risultato pratico cui egli mira, la Corte evidenzia l’ “urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamnto e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi” (punto 6 del “Considerato in diritto”).
Si comprende dalla sentenza come la Corte costituzionale si sia opportunamente fatta carico di offrire una sistemazione, anzitutto teorica e conseguentemente pratica, ad una materia estremamente delicata, in relazione alla quale la perdurante tensione dal sapore ideologico tra istanze contrapposte aveva di fatto determinato negli ultimi anni, tra gli stessi operatori, una sorta di smarrimento delle direttrici giuridiche fondamentali.
Ed è proprio a tali “fondamentali” – che d’ora in avanti non potranno più essere ignorati – che si riferisce la Corte nel momento in cui riafferma la natura pienamente bifronte dell’assegnazione in REMS quale misura di sicurezza detentiva, dalla cui corretta esecuzione dipende la compiuta attuazione di diritti fondamentali concomitanti e di pari rango, consistenti, da un lato, nella doverosa tutela della posizione giuridica delle vittime di reato e, d’altro lato, nell’altrettanto doverosa cura dell’autore del reato affetto da infermità psichica.
Ed è sempre ai “fondamentali” che si rifà la Corte, allorquando rammenta la “problematicità” di un sistema di liste di attesa venutosi impropriamente ad alimentare non già in relazione a misure aventi un contenuto esclusivamente terapeutico, ma con riguardo a misure disposte dall’Autorità giudiziaria con la finalità di prevenire la commissione di reati ad opera di persone che, già avendo commesso reati, siano state giudicate socialmente pericolose.
In questo senso, allorquando equipara a chiare lettere l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive a quella delle misure cautelari personali sul piano della necessariamente immediata attuazione del relativo ordine giurisdizionale, la Consulta addita implicitamente come insostenibile un sistema che, nel silenzio della normativa di riferimento, pretenda di subordinare al lento scorrimento di liste di attesa l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali con cui sia stato disposto il ricovero in REMS. E tale insostenibilità viene evidenziata in modo ancor più netto nel momento in cui la Corte ammonisce il legislatore e gli operatori ad adottare strategie volte non già ad attenuare la consistenza di dette liste, bensì ad arrivare all’ “azzeramento” delle stesse. Siffatte valutazioni, operate dal più autorevole consesso giurisdizionale dello Stato, non sembrano ammettere né deroghe, né tantomeno soluzioni una tantum che, ove adottate in modo disorganico, potrebbero in prima battuta determinare un rapido assottigliamento degli attuali elenchi, seguito subito dopo da un altrettanto rapido e rinnovato incremento degli stessi.
È dunque verso soluzioni e strategie di carattere strutturale che la Corte sembra chiaramente indirizzare, così da portare finalmente ad effettivo compimento l’irreversibile percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai più di dieci anni or sono.
4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri
Per ciò che concerne l’individuazione in concreto delle soluzioni, non pare un caso che, nelle conclusioni della pronuncia, la Corte invochi, tra l’altro, “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure)”.
Ebbene, considerando che la sentenza in commento è pervenuta all’esito di una istruttoria volta, tra l’altro, ad accertare il numero di posti in REMS attualmente disponibili sul territorio nazionale, è lecito ipotizzare che l’appena citato monito della Corte a dotare il paese di “un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni” implichi un indiretto giudizio di insufficienza rispetto al numero di REMS attualmente funzionanti, formalmente comunicato alla Consulta in risposta all’ordinanza n. 131/2021.
Pare dunque doveroso interrogarsi sulla congruenza del quantitativo di strutture programmato nel momento in cui il percorso riformatore veniva avviato.
In tal senso, quanto verificatosi nel corso degli ultimi anni, con la formazione e l’inarrestabile incremento di consistenti liste di attesa per i ricoveri in REMS in buona parte del territorio nazionale, permette oggi di affermare che, all’indomani della riforma entrata a regime nel 2015, si sia prevista la realizzazione di un numero di REMS sostanzialmente insufficiente rispetto alle effettive esigenze di internamento derivanti dall’applicazione di misure di sicurezza detentive da parte dell’Autorità giudiziaria, applicazione che, nei fatti, è rimasta tendenzialmente costante ed allineata ai numeri antecedenti all’introduzione delle REMS ed al superamento degli OPG.
Al riguardo, in linea generale, si è sottolineato come, per lo meno a partire dal 2005, si sia registrato un netto aumento nell’applicazione delle misure di sicurezza detentive, anche per gli effetti prodotti dalla nota sentenza “Raso” emessa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione[12] (sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005), con la quale si è specificato che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale[13]. Come nel prosieguo si vedrà, peraltro, tale importante apertura in merito alla rilevanza dei “disturbi di personalità” avrebbe ricevuto negli anni successivi non poche critiche, anche a causa dei concreti effetti che si sarebbero prodotti sul sistema delle REMS, una volta entrato a regime, risultando in molti casi destinatari delle misure di sicurezza detentive soggetti affetti da patologie psichiatriche con caratteristiche tali da non poter essere adeguatamente trattate e contenute presso strutture, quali le REMS, a vocazione esclusivamente sanitaria[14].
Ad ogni modo, al di là delle motivazioni anche giuridiche da cui è derivato l’aumento del ricorso alle misure di sicurezza detentive, consta il dato per cui, a fronte di una media di circa 1.250 pazienti accolti nei vecchi OPG, per lo meno tra gli anni 2008 e 2011[15], siano stati ad oggi realizzati 652 posti-letto nelle 36 REMS attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi, a fronte dei circa 740 posti di dotazione originariamente programmata agli albori della riforma (punto 5.1 del “Ritenuto in fatto” della sentenza in commento)[16].
Con ogni probabilità, la scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli OPG[17], secondo cui il ricovero in REMS sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi O.P.G.[18]
Inoltre, sin da quanto previsto nell’ “Allegato C” del D.P.C.M. primo aprile 2008[19], si era in effetti stabilito che, in vista del transito della gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari in capo ai sistemi sanitari regionali, si procedesse “alla restituzione ad ogni Regione italiana della quota di internati in OPG di provenienza dai propri territori e dell’assunzione della responsabilità per la presa in carico”. In tale contesto normativo, una volta approvato il d.l. n. 211/2011, tra il 2012 e il 2015, si è dato impulso, d’intesa con l’Autorità giudiziaria, a numerose dimissioni dal circuito degli ospedali psichiatrici giudiziari[20], così da poter realizzare il trasferimento di un più contenuto numero di pazienti all’interno delle neonate REMS che, come detto, erano state istituite in un’ottica di accoglienza molto meno “massiva” rispetto a quanto non fosse accaduto con l’esperienza degli O.P.G.
D’altro canto, nell’ambito di siffatta operazione, come opportunamente sottolineato, non si è adeguatamente tenuto conto del tasso di nuovi ingressi, essendosi appunto parametrato il numero dei posti-letto teoricamente necessari su una media di presenze in O.P.G. anormalmente bassa, in quanto appunto proveniente da una importante campagna di dimissioni[21].
Inoltre, deve considerarsi che buona parte dei posti-letto realizzati nelle REMS sono stati inizialmente destinati all’accoglienza dei pazienti già ricoverati in OPG e ritenuti non suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, dal che è derivata una rapida saturazione delle nuove strutture con l’inevitabile creazione di liste di attesa per il perfezionamento dei ricoveri a partire già dal mese di dicembre 2015[22].
Del resto, neppure il transito dei pazienti dagli OPG alle REMS si è svolto in maniera realmente efficiente. Deve rammentarsi, al riguardo, come la realizzazione delle Residenze rientrava nella attuazione dei complessi programmi organizzativi regionali previsti dall’art. 3-ter, co. 6, d.l. n. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, attuazione che, com’è noto, non è avvenuta in tutte le Regioni secondo la medesima tempistica ed ha anzi subito in alcuni casi consistenti rallentamenti, al punto da giustificare la nomina, nel febbraio 2016, da parte del Consiglio dei Ministri, di un Commissario unico per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
I ritardi registratisi nella concretizzazione del processo riformatore hanno comportato finanche difficoltà nella allocazione degli internati in OPG alla data di formale chiusura degli stessi. Costoro, infatti, non essendo stati ritenuti suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, hanno continuato ad essere ristretti nelle strutture penitenziarie, pur dopo il primo aprile 2015, in attesa che le Residenze competenti per la loro accoglienza venissero realizzate e comunque dichiarassero la disponibilità di posto-letto; solo agli inizi del 2017, si è infine giunti alla completa dimissione degli internati dagli ospedali psichiatrici giudiziari, potendosi così procedere alle loro effettive chiusure o riconversioni[23].
In siffatto contesto, la creazione e il progressivo incremento delle liste di attesa per i ricoveri in R.E.M.S. dei vecchi internati e dei nuovi internandi avrebbe dovuto considerarsi come una disfunzione ampiamente prevedibile.
Ancora, come si vedrà meglio nel prosieguo, la previsione normativa del principio della REMS come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali, sicché, nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in REMS, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione; vi è anche da dire che, a fronte di taluni territori in cui si sono innescati meccanismi virtuosi di collaborazione tra Magistratura, Aziende sanitarie e Dipartimenti di salute mentale, nell’ambito di altre Regioni sono verosimilmente mancati adeguati canali di comunicazione tra le varie istituzioni coinvolte nella cura e nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, il che ha determinato inevitabili ripercussioni anche sulla corretta individuazione, da parte delle Autorità giudiziarie, delle misure di sicurezza più appropriate per i singoli destinatari. Analoghe problematiche, peraltro, parrebbero affiorare, sempre con livelli di gravità sensibilmente differenziati tra i singoli territori regionali, in relazione al corretto espletamento di un adeguato turn-over tra soggetti già internati in REMS che, raggiunto un buon livello di compenso psichico, potrebbero essere dimessi, e soggetti internandi che, al contrario, trovandosi talora in situazioni di maggiore gravità clinica, meriterebbero una più immediata accoglienza nelle Residenze[24].
A quest’ultimo riguardo, peraltro, non si registra un pieno accordo tra i commentatori; alcuni, infatti, più che sui difetti di coordinamento tra REMS, dipartimenti di salute mentale e strutture alternative di accoglienza, si sono espressi con toni fortemente critici sul tema della valutazione di appropriatezza del ricovero in REMS operato nei confronti di taluni dei pazienti psichiatrici autori di reato che giungono alla loro attenzione. In questo senso, si è segnalato come, in molti casi, i pazienti delle REMS si troverebbero sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, pur avendo commesso reati “tutto sommato modesti” e come, talora, le liste di attesa per l’accesso nelle Residenze sarebbero infoltite da persone che, oltre ad essere affette da disturbi psichiatrici, versano in situazioni di disagio socio-economiche che dovrebbero essere meglio trattate con risposte diverse da quella sanzionatoria di tipo penale[25].
Nello stesso contesto interpretativo si è inoltre rilevato come il problema della tendenziale scarsità dei posti-letto disponibili deriverebbe da un uso troppo disinvolto dei ricoveri in REMS di tipo provvisorio, a norma dell’art. 206, cod. pen., peraltro spesso destinati a soggetti connotati da alta e persistente pericolosità sociale e criminale e che, come tali, trarrebbero giovamento da percorsi giudiziari ordinari e non dall’applicazione di misure di sicurezza detentive[26]. Secondo tale impostazione, sarebbe dunque fondamentalmente errato auspicare un maggiore ricambio nell’accoglienza in REMS tra pazienti “compensati” e pazienti che si trovano invece in stati di acuzie, posto che le Residenze di nuova concezione non dovrebbero proprio considerarsi adatte a soggetti che mostrano più spiccati profili di pericolosità anche in ragione dello scompenso psicopatologico in cui versano.
Ad ogni modo, pur prendendosi atto delle illustrate divergenze di opinioni, e con particolare riguardo per il principio affermato dall’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, si ritiene che non sempre, nella disamina della problematica, si tengano nella dovuta considerazione i principi posti dal diritto vivente, con i quali tutti gli operatori non possono esimersi dal confrontarsi, e che però, oggi, grazie alla sentenza in commento, sono stati opportunamente ricollocati dalla Corte costituzionale al centro del dibattito pubblico.
In tal senso, in relazione ai variegati spunti problematici connessi al giudizio di “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva, dovrebbe pur sempre rammentarsi come, a prescindere dall’innesco di buone pratiche e dalla esistenza di adeguati circuiti di accoglienza alternativi alle R.E.M.S., il citato art. 3-ter, co. 4, pur indicando le Residenze come una extrema ratio, affidi comunque alla esclusiva responsabilità dell’Autorità giudiziaria la scelta non solo sull’an, ma anche sulla tipologia della misura di sicurezza da adottare in concreto; tale giudizio, peraltro, per espressa previsione normativa, deve essere parametrato alla pericolosità sociale del destinatario della misura, previo specifico accertamento da eseguirsi sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle sue “condizioni di vita individuale, familiare e sociale”, prese in considerazione dall’art. 133, co. 2, n. 4, c.p. E’ noto del resto che, trattandosi di giudizio connotato anche da una importante componente tecnica, lo stesso è di norma svolto con il supporto di consulenti e periti esperti in psichiatria investiti di fondamentali compiti ausiliari; ma è altresì noto che, per espressa previsione normativa, il giudizio in merito all’adeguatezza della misura è destinato a colorarsi anche di valutazioni giuridiche, aventi ad oggetto la gravità del reato in contestazione, dalle modalità di esecuzione dello stesso, oltre che i precedenti penali e giudiziari del soggetto interessato; ancora, un ruolo cruciale nella valutazione di “adeguatezza” circa la misura da applicare è inoltre rivestito dalla compliance che il paziente abbia dimostrato rispetto alla eventuale precedente irrogazione di misure non detentive ed in particolare dalla sussistenza di pregresse violazione delle prescrizioni che, di norma, vengono impartite con la misura gradata della libertà vigilata.
Va da sé, dunque, che non sempre le valutazioni giudiziarie potranno combaciare con le indicazioni provenienti dai servizi psichiatrici territoriali circa l’appropriatezza della misura da applicare o, eventualmente, da prorogare.
Ne consegue che, pur ipotizzandosi maggiori sforzi anche di tipo finanziario per dare concretezza al principio della R.E.M.S. quale extrema ratio, con ogni probabilità, ci si dovrà comunque continuare a confrontare con un rilevante numero di misure di sicurezza detentive che le Autorità giudiziarie riterranno di continuare ad applicare in forza di valutazioni strettamente giuridiche legate alla pericolosità sociale del paziente psichiatrico autore di reato.
Quest’ultimo dato di fatto non pare sia stato adeguatamente ponderato dai decisori pubblici e le conseguenze di tutto quanto sopra esposto non possono che risultare di rilevante gravità.
Basti pensare che, alla data del 28 ottobre 2020, risultava all’Amministrazione penitenziaria l’esistenza di 813 persone in attesa di ricovero in R.E.M.S., in quanto destinatarie di provvedimenti applicativi di misura di sicurezza detentiva, in via provvisoria o definitiva; delle persone in attesa di ricovero, 98 si trovavano ristrette in istituti penitenziari, mentre le restanti 715 si trovavano in stato di libertà con tutto ciò che intuitivamente ne consegue in termini di rischi per la sicurezza pubblica e privata, trattandosi evidentemente di soggetti infermi di mente che hanno già commesso reati ed attualmente giudicati socialmente pericolosi.
In tale contesto, deve peraltro segnalarsi che, sempre sulla base dei dati a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria, le situazioni più critiche in termini di consistenza delle liste di attesa, alla data del 28 ottobre 2020, si registravano nelle Regioni Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia e Sicilia che, da sole, assorbivano circa il 72% delle persone in attesa di ricovero. Ad ogni modo, seppure con numeri più contenuti, alla predetta data quasi tutte le Regioni italiane risultavano interessate dal fenomeno delle liste di attesa per l’ingresso in REMS.
Nell’ultimo anno la situazione si è evoluta positivamente solo con riguardo al numero complessivo delle persone che attendono il ricovero dall’interno degli istituti penitenziari, essendosi passati a 35 persone che si trovavano in tale condizione al 25 ottobre 2021 (punto 5.5 della sentenza in commento), con una evidente flessione rispetto al dato della precedente rilevazione; di scarso rilievo appare invece la diminuzione del numero complessivo delle misure di sicurezza detentive rimaste ineseguite, essendosi passati, alla data del 31 luglio 2021, secondo le rilevazioni comunicate alla Corte costituzionale, ad un totale compreso tra le circa 670 persone, secondo i calcoli del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, e le 750 persone, secondo i calcoli del Ministero della giustizia (punto 5.4 della sentenza in commento).
Né, peraltro, risulta che la difficoltà sia recente, essendosi appunto detto come, sin dalla inaugurazione delle REMS, le stesse abbiano sofferto di una carenza di posti-letto divenuta esponenziale e cronica nel corso degli anni.
Ed al riguardo, pare senz’altro utile richiamare i moniti che, già nell’aprile 2017, il Consiglio Superiore della Magistratura aveva divulgato a proposito delle criticità che, già all’epoca, affliggevano il sistema delle REMS, all’esito di un’articolata indagine conoscitiva condotta presso tutti gli uffici giudiziari italiani[27].
Né, evidentemente, come del resto sottolineato dalla stessa Corte costituzionale (punto 5.4 della sentenza in commento), può sottacersi il crescente interesse che per la materia sta manifestando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quanto meno nei confronti dei soggetti che, in attesa del ricovero in REMS si trovino ad essere ristretti in istituto di pena e, dunque, in contesti detentivi notoriamente non appropriati alla loro condizione psicopatologica.
Constano al riguardo almeno due provvedimenti cautelari emessi dalla C.E.D.U. ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte concernenti altrettanti detenuti ristretti in due diversi penitenziari, nei confronti dei quali il Giudice sovranazionale ha ordinato l’immediato ricovero in strutture idonee. Stante peraltro la peculiarità di tali provvedimenti, la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare come gli stessi possano verosimilmente costituire il “prologo” per più consistenti decisioni idonee a mettere in mora il Governo italiano per l’adozione di provvedimenti di carattere più strutturale[28].
5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPG alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato
L’introduzione di strumenti normativi ed organizzativi finalmente funzionali ad una vera e propria risistemazione della materia, da cui possano scaturire circuiti realmente virtuosi nella cura, nel trattamento ed anche nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, non è dunque più rinviabile, come da ultimo opportunamente ribadito dalla Corte costituzionale.
A distanza di quasi sette anni dall’entrata in vigore della riforma che ha sancito il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si è venuta a creare una situazione “patologica” per cui non solo è da considerarsi “superata” l’esperienza degli OPG, ma risultano di fatto non più utilmente applicabili – per lo meno in alcune realtà regionali – le norme che, a tutt’oggi, in presenza di determinati presupposti, continuano a prevedere la possibilità di sottoporre gli infermi di mente a misure di sicurezza di tipo detentivo.
L’esistenza delle liste di attesa pocanzi indicate, almeno in alcune parti del territorio nazionale, fa sì che l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva nei confronti di un infermo di mente si presenti ormai come un’opzione non più utilmente esperibile, sebbene, in concreto, nella pratica, continuino ovviamente a presentarsi svariati casi in cui, essendosi verificati i presupposti previsti dalla legge, l’adozione di tali misure risulterebbe chiaramente necessitata, tanto più in considerazione della persistente vigenza delle norme penali relative all’applicazione ed all’esecuzione delle misure di sicurezza detentive.
Tale situazione, com’è noto, produce evidenti distorsioni.
Considerando il numero dei soggetti destinatari di misura di sicurezza detentiva ed in attesa di internamento, si ravvisa il rischio che il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari si traduca non già nella individuazione di istituti di cura e custodia realmente adeguati alle necessità degli infermi di mente giudicati socialmente pericolosi, bensì in una sorta di rinuncia, da parte dei pubblici poteri, a soddisfare il dovere, loro assegnato, di sostenere e contenere i cittadini che abbiano commesso reati in uno stato di non imputabilità, derivante da un vizio totale di mente.
E questa sorta di dismissione di competenze, come detto, si è concretizzata nella formazione di liste di attesa per l’ingresso in REMS, più o meno nutrite, in tutte le Regioni italiane.
Il concetto di “lista d’attesa”, peraltro, non è affatto sconosciuto ed è anzi connaturato all’ambito sanitario, per ciò che concerne l’erogazione delle prestazioni mediche di carattere esclusivamente pubblicistico e, a distanza di oltre sei anni dall’attuazione della riforma di cui si discute, può oggi ragionevolmente affermarsi che i sistemi sanitari regionali abbiano tendenzialmente accettato il rischio che anche per i ricoveri nelle REMS si creassero per l’appunto dei tempi di attesa più o meno prolungati.
Tale scelta, tuttavia, come lucidamente sottolineato dalla Corte costituzionale, non appare compatibile con l’erogazione di prestazioni che, a differenza di ogni altro trattamento sanitario, corrispondono non solo ad una finalità di tipo terapeutico ma dipendono direttamente da un ordine impartito dall’Autorità giudiziaria, dotato per definizione di esecutorietà e, dunque, meritevole di una esecuzione che, seppur non immediata, deve senz’altro potersi effettuare in tempi ragionevoli e, soprattutto, prevedibili. Al riguardo, riprendendo sul punto le considerazioni svolte dalla Consulta, giova rammentare come proprio dalla compiuta esecuzione di tali ordini giurisdizionali dipenda la salvaguardia di irrinunciabili valori costituzionali, attinenti, da un lato, alla tutela della salute degli infermi di mente destinatari delle misure di sicurezza e, dall’altro, alla protezione dei diritti – concernenti nella maggior parte dei casi la sicurezza pubblica e l’incolumità individuale – di cui sono titolari le vittime dei reati per cui si procede.
Ne consegue che, in assenza di riforme normative con un carattere più pervasivo, la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze introdotta con il d.l. n. 211/2011 non avrebbe dovuto, né potuto, interpretarsi come produttiva di un inedito sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive, che, allo stato, e per lo meno in alcune realtà regionali, parrebbe basarsi su una sorta di impropria condivisione del potere di internamento tra Autorità giudiziarie e Autorità sanitarie locali.
Per quanto sinora detto, infatti, ben lungi dal voler espungere o ridimensionare l’istituto delle misure di sicurezza detentive, il legislatore ha semplicemente previsto forme e modalità di esecuzione delle stesse diverse e maggiormente incentrate sull’obiettivo del recupero psichiatrico dei pazienti autori di reato, senza tuttavia attribuire ai rappresentati dei sistemi sanitari regionali poteri di veto o di inibizione delle decisioni adottate dalle Autorità giudiziarie. E tali riflessioni, peraltro, paiono tanto più vere, ove si consideri quanto detto poc’anzi a proposito dell’attuale contesto normativo che, pur con l’importante novità costituita dalla positivizzazione del principio della R.E.M.S. come extrema ratio, continua stabilmente a considerare come atto giudiziario l’applicazione dell’internamento.
In questo contesto, pare piuttosto chiaro che, accanto ad una realizzazione di un numero complessivo di posti-letto in REMS evidentemente sottodimensionato rispetto alla domanda effettiva, un ruolo di peso nella formazione delle liste di attesa sia stato esercitato anche dal principio del “numero chiuso” degli accessi, introdotto peraltro, come detto, neppure per via normativa, bensì nell’ambito degli accordi intervenuti tra lo Stato e gli enti territoriali.
È bene precisare, tuttavia, anche qui rifacendosi alle considerazioni della Consulta, come, indipendentemente dalle singolari modalità con cui detto principio ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento, non pare affatto auspicabile un suo superamento, con la contestuale accettazione di rinnovate dinamiche di sovraffollamento delle REMS oggi presenti sul territorio nazionale.
Né, tanto meno, le considerazioni sin qui svolte mirano a sottrarre ai rappresentanti dei sistemi sanitari ogni potere di interlocuzione con l’Autorità giudiziaria in merito alla effettiva appropriatezza dei singoli ricoveri in REMS, oltre che della permanenza nelle Residenze dei soggetti già internati e che, a giudizio dei responsabili sanitari, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico.
Tuttavia, (e senza revocare in dubbio l’introduzione delle R.E.M.S. quali luoghi non penitenziari ove dare esecuzione alle misure di sicurezza detentive, la valorizzazione del contenuto sanitario di dette misure e la qualificazione delle stesse come extrema ratio) si ritiene che la vera attuazione della riforma passi necessariamente per un rinnovato investimento nella stessa, anche in termini finanziari[29].
Continuare a mantenere una dimensione artificiosamente contenuta del numero dei posti-letto in R.E.M.S. lascerebbe invero supporre la surrettizia finalità di indirizzare forzatamente le scelte dell’Autorità giudiziaria verso l’applicazione di misure di sicurezza di tipo non detentivo, il che, tuttavia, si presenza come un’operazione in alcun modo conforme all’attuale contesto normativo.
Il principio del “numero chiuso” degli accessi in REMS, semmai, potrà conciliarsi con i provvedimenti giurisdizionali, solo nel momento in cui tutte le Regioni saranno dotate di un numero di posti-letto effettivamente adeguato e pienamente parametrato ai requisiti tecnici individuati con il D.M. primo ottobre 2012[30]; si ritiene, infatti, che solo in tal modo l’ordinamento potrà produrre una efficace risposta, in termini di cura e contenimento, per quei pazienti psichiatrici autori di reato nei cui confronti sia ineludibile l’applicazione delle misure di sicurezza detentive al fine di fronteggiarne la pericolosità sociale, pur nella piena considerazione del principio del ricovero in R.E.M.S. quale extrema ratio.
Del resto, già l’Accordo del 26 febbraio 2015 esplicitava nelle premesse lo specifico impegno, in capo alle Regioni ed alle Province Autonome, a provvedere “ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti”.
Preso atto della situazione sin qui descritta, deve constatarsi come, almeno in talune Regioni, detta programmazione non sia stata adeguatamente effettuata.
Le risorse non dovrebbero peraltro destinarsi alla sia pur ineludibile implementazione della rete delle Residenze, ma anche al rafforzamento del complessivo sistema di cura ed accoglienza dei pazienti psichiatrici autori di reato, incentrato sui dipartimenti di salute mentale presenti sull’intero territorio nazionale.
Infatti, il principio della REMS come extrema ratio è sinora sostanzialmente rimasto lettera morta anche per la limitatezza di soluzioni alternative all’applicazione delle misure di sicurezza detentive. In questo senso, da più parti, si è anche denunciata una certa tendenza dell’Autorità giudiziaria nel ricorrere al ricovero in REMS anche in casi in cui l’applicazione di misure gradate, quali la libertà vigilata con prescrizioni, potrebbe rivelarsi sufficiente ai fini della corretta instaurazione di percorsi di cura e contenimento dei singoli pazienti. D’altro canto, si è anche rilevato come la mancata applicazione delle misure di sicurezza non detentive sia talora derivata dall’assenza di adeguate risposte operative da parte dei dipartimenti di salute mentale, specialmente per quanto concerne l’individuazione di strutture cliniche di assistenza ove prevedere l’esecuzione di progetti riabilitativi di tipo residenziale o semi-residenziale.
Ne consegue che, accanto al potenziamento della rete delle REMS, come d’altra parte segnalato anche dalla Corte costituzionale, andranno necessariamente implementati anche i servizi psichiatrici territoriali, così da poter mantenere fermo il principio del “numero chiuso” per l’accesso nelle Residenze, dotando contestualmente i Giudici competenti di misure alternative applicabili nei confronti dei pazienti connotati da pericolosità più attenuata, nonché per coloro che, già ristretti in REMS, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico. Proprio in questo modo, infatti, si favorirebbe un più accentuato turn-over tra i pazienti già accolti in REMS e quelli da accogliere, scongiurando il rischio che il fenomeno delle liste di attesa si riproduca nuovamente in futuro, anche nel momento in cui dovesse incrementarsi la dotazione di posti-letto nel territorio nazionale.
6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva
Un’altra problematica, non sempre chiaramente esplicitata e che, come sopra accennato, sembra agitarsi nel dibattito relativo al sistema delle REMS, è quella relativa all’appropriatezza di tali strutture nei confronti di talune specifiche categorie di pazienti psichiatrici autori di reato. La questione risulta peraltro in più punti affacciarsi anche nell’ambito della sentenza della Corte costituzionale in commento (si vedano, tra gli altri, i punti 5.12 del “Ritenuto in fatto” e 5.3.2 del “Considerato in diritto”).
Al riguardo, si è precisato come le Residenze, in quanto strutture votate in modo pressoché esclusivo alla recovery sanitaria dei loro ospiti, si connoterebbero per requisiti di sicurezza non particolarmente elevati e comunque adatti solo per una utenza selezionata, composta da pazienti che abbiano dimostrato un’adeguata consapevolezza di malattia e, soprattutto, una buona accettazione di percorsi terapeutici di tipo residenziale; e si è anche sottolineato, nella medesima ottica, come le REMS, proprio perché non meramente succedanee dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, dovrebbero caratterizzarsi per la predisposizione di piani terapeutici evoluti e senz’altro distinti dai vecchi principi della “contenzione” fisica degli internati[31].
Si è quindi puntualizzato come determinate categorie di soggetti, in atto stabilmente destinati alle REMS, non sarebbero in realtà clinicamente idonei per il ricovero nelle Residenze, in quanto gravemente dipendenti dalle sostanze stupefacenti, ovvero connotati da personalità violente ed anti-sociali, intolleranti alle regole, minacciosi, “tendenti a mentire”, “prevaricatori, oppositivi, aggressivi verso il personale e gli altri malati”[32]. Secondo alcuni studi, i pazienti con queste caratteristiche costituirebbero addirittura il 20-30% dell’utenza delle REMS, andando così ad alimentare numerose problematiche, sia in termini di incremento delle liste di attesa con soggetti che, da un punto di vista clinico, non sarebbero da considerarsi idonei per i percorsi di cura erogabili in REMS, sia in termini di sicurezza interna alle Residenze, nei casi in cui si sia proceduto al loro effettivo internamento[33].
Orbene, anche quest’ultimo aspetto del dibattito dimostra in modo obiettivo come le modalità approssimative con cui tra gli anni 2011 e 2015 è stata attuata la riforma abbiano prodotto il “terreno di coltura” ideale per fare affiorare le contraddizioni del sistema di cura e trattamento per i pazienti psichiatrici autori di reato attualmente vigente in Italia.
Pare infatti chiaro che, in assenza di una compiuta riflessione politica e giuridica in merito al sistema delle misure di sicurezza detentive ed alle norme codicistiche che individuano l’ampia platea degli infermi di mente sottoponibili alle stesse, taluni ambiziosi obiettivi sono destinati a rimanere “lettera morta”.
Ed invero, l’affermazione secondo cui le R.E.M.S. dovrebbero strutturarsi in modo diverso dai vecchi OPG, rivolgendosi ad una utenza maggiormente selezionata e che mostri una tendenziale compliance rispetto alle cure proposte, mal si concilia con una norma, quale il citato art. 3-ter, co. 4, d. l. n. 211/2011, a tenore del quale, in modo indistinto, tutte le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono da eseguirsi presso le Residenze di nuova concezione, sia pure con il caveat costituito dal principio dell’assegnazione in R.E.M.S. come extrema ratio; peraltro, proprio quest’ultima “valvola di sfogo”, in forza della quale le Autorità giudiziarie dovrebbero sempre prediligere misure di sicurezza non custodiali, neppure pare applicabile ai casi da ultimo presi in considerazione, concernenti i soggetti connotati da profili di pericolosità estremamente elevati i quali, per definizione, non possono che risultare incompatibili con un regime blandamente restrittivo, quale è quello della libertà vigilata.
È dunque coerente che taluni degli operatori che sottolineano l’inappropriatezza delle REMS per la tipologia di utenza più pericolosa, contestualmente auspichino un rinnovato ricollocamento di questi pazienti all’interno delle strutture penitenziarie, sia pure ipotizzando nello stesso tempo un congruo rafforzamento delle aree che erogano prestazioni sanitarie negli Istituti di pena[34]. Quest’ultima opzione presupporrebbe però una radicale rivisitazione della normativa che regola la materia della imputabilità, verosimilmente anche sul piano costituzionale, essendo ben noto che, allo stato, i principi e le norme dedicate agli infermi di mente autori di reato esprimano una insofferenza sia per il loro ingresso in carcere, sia, tanto più, per la loro permanenza negli ambienti inframurari[35]. Del resto, la tendenziale inappropriatezza del contesto carcerario per il trattamento delle infermità psichiatriche, per lo meno nelle loro forme più severe, è stata di recente riaffermata dalla stessa Corte costituzionale, con la nota sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 2019, n. 99[36].
Chiamato a valutare la legittimità dell’art. 47-ter, co. 1-ter, ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che il tribunale di sorveglianza, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, potesse concedere al condannato la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter, il Giudice delle leggi ha colto l’occasione per soffermarsi su varie problematiche di sistema relative al trattamento delle patologie psichiatriche all’interno degli Istituti di pena; ed al riguardo, pur non escludendo aprioristicamente che anche i penitenziari possano essere sede di aree specificamente destinate alla cura delle infermità mentali, ha comunque chiaramente riconosciuto come, per lo meno per i casi patologici connotati da maggiore gravità, debba ravvisarsi una sostanziale incompatibilità tra carcere e disturbo mentale[37].
Peraltro, l’ipotesi di ricondurre una parte dei pazienti psichiatrici autori di reato all’interno dei penitenziari, sia pure presso aree ad esclusiva gestione sanitaria, parrebbe obiettivamente contraddire il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[38], al netto delle annose problematiche che, peraltro, tutt’oggi continuano ad affliggere il sistema di tutela della salute psichica delle persone detenute, nonostante gli sforzi profusi dall’Amministrazione penitenziaria e dai sistemi sanitari regionali.
Ad ogni modo, dal 2011 ad oggi, non si è registrata l’approvazione di alcuna riforma organica né del sistema delle misure di sicurezza detentive, né, tanto meno, dei criteri che regolano l’imputabilità e ciò si è inevitabilmente ripercosso sul sistema delle REMS, nella misura in cui si è dovuto disporre il ricovero in dette strutture di tutti i pazienti psichiatrici autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere al momento del fatto e socialmente pericolosi in grado tale da meritare la misura custodiale, indipendentemente dalle specificità delle loro condizioni psicopatologiche e dalla effettiva appropriatezza del percorso di cura esperibile in REMS rispetto alle situazioni cliniche individuali.
Se dunque è questo il contesto entro cui confrontarsi, è bene però nuovamente precisare che neppure la problematica da ultimo esaminata potrà adeguatamente fronteggiarsi mantenendo artificiosamente bassi i numeri dei posti-letto disponibili in REMS, così da indurre l’Autorità giudiziaria, in modo pressoché forzato, a ricercare percorsi di cura alternativi per i pazienti affetti da patologie non correttamente trattabili nelle Residenze.
In questo senso, deve infatti ricordarsi che, a legislazione invariata, continua a mancare qualsivoglia criterio organizzativo o normativo che consenta legittimamente alla Magistratura o alle Amministrazioni sanitarie regionali di effettuare una selezione in entrata dei soggetti non imputabili attinti da misura di sicurezza detentiva, sicché gli stessi, allo stato, continuano inevitabilmente ad essere indirizzati nelle REMS prescindendo da specifiche valutazioni in merito alla loro compatibilità personologica con l’ambiente residenziale. Né, come detto, tendenzialmente, tali valutazioni riescono ad effettuarsi in modo efficace prima della emissione dei provvedimenti che dispongono l’applicazione della misura detentiva, a causa dell’assenza di offerte terapeutiche alternative alla REMS parimenti rassicuranti con riguardo alle possibilità di contenimento dei pazienti.
Dunque, il sotto-dimensionamento della rete delle Residenze presenti sul territorio nazionale, ben lungi dall’innescare meccanismi virtuosi di ricerca di soluzioni alternative, finisce semplicemente, almeno in alcune realtà regionali, per privare di adeguate forme di assistenza i pazienti psichiatrici autori di reato, determinando contestualmente la mancata esecuzione dei provvedimenti che li riguardano.
Una più efficace selezione in entrata dei pazienti da ammettere in REMS potrebbe al più prefigurarsi – ed auspicarsi – con riguardo ai soli soggetti connotati da una ridotta pericolosità sociale e, come tali, adeguatamente trattabili nel regime tipico della libertà vigilata, ma non anche in relazione ai pazienti più aggressivi che, con ogni probabilità, dovrebbero comunque continuare ad indirizzarsi verso soluzioni terapeutiche extracarcerarie ma comunque di tipo detentivo.
Reputando auspicabile non già un abbandono dell’esperienza delle REMS bensì un reale potenziamento della stessa, dovrebbe semmai rivalutarsi il tema della sicurezza interna ed esterna delle Residenze, tenendo in adeguata considerazione le problematiche gestionali che l’esperienza degli ultimi anni ha lasciato affiorare in relazione al trattamento dei soggetti più violenti e pericolosi e, dunque, ipotizzando di coniugare in modo diverso e più efficace le esigenze di cura di tutti i soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva con la domanda di sicurezza proveniente dagli operatori e dagli ospiti delle strutture connotati da profili di aggressività più attenuata.
7. Conclusioni
Com’è noto, nessuno dei progetti di riforma del sistema delle misure di sicurezza elaborati nel corso degli ultimi anni ha superato il vaglio dell’approvazione parlamentare[39]; e ciò dimostra come, da ormai troppo tempo, su alcuni nodi problematici della materia di cui si discute gli esperti non riescano a trovare una soluzione equilibrata che soddisfi in egual misura le “esigenze” della giustizia e le istanze dei sistemi sanitari dedicati al trattamento delle patologie psichiatriche.
Si è dunque tentato di illustrare le ragioni per cui si ritiene che tale compromesso difficilmente potrà mai raggiungersi, qualora si continuerà a non cogliere la specificità di una materia in cui, comunque, viene in rilievo la necessaria esecuzione di provvedimenti giurisdizionali che trovano la propria giustificazione non solo nelle doverose esigenze di cura dei pazienti psichiatrici autori di reato, ma anche nella domanda di sicurezza pubblica e privata connaturata nella collettività e chiaramente rilevante sul piano costituzionale, al pari del diritto alla salute riconosciuto ai pazienti.
Ad avviso di chi scrive, dovrà necessariamente prendersi atto del fatto che, nella materia in questione, le ontologiche competenze giudiziarie potranno senz’altro essere rimodellate, così da assicurarsi meccanismi di più ampia collaborazione con gli specialisti della salute mentale, ma non potranno continuare ad essere neutralizzate, né direttamente, né, tanto meno, indirettamente, mediante la eccessiva compressione del numero complessivo dei posti-letto in R.E.M.S., sinora verificatasi.
In questo senso, stante la molteplicità degli obiettivi perseguiti e la complessità delle problematiche accumulatesi in ragione di riforme approssimative e disorganiche, in definitiva, si ritiene che il decisore politico debba finalmente rivolgere uno sguardo attento e convinto sui pazienti psichiatrici autori di reato, con la piena consapevolezza – come opportunamente segnalato dai più attenti commentatori – che le questioni sin qui poste non potranno risolversi “a costo zero” e sulla base di clausole di invarianza finanziaria[40], ravvisandosi la necessità di investimenti che siano effettivamente proporzionati all’ambizione delle riforme che ci si proporrà di attuare.
Su questi ed altri temi ha da ultimo espresso la sua autorevole posizione anche la Corte costituzionale con la sentenza in commento e di tale posizione non potrà, evidentemente, non tenersi conto nell’immediato futuro.
[1] Il presente contributo costituisce un estratto aggiornato dell’articolo Il sistema delle R.E.M.S. Limiti, contraddizioni e prospettive di una riforma, pubblicato dallo stesso Autore in Temi di esecuzione penale (rivista della Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”), dicembre 2021.
[2] In questo senso, l’art. 3-ter, co. 1, d. l. 211/2011 fa esplicito riferimento al “termine per il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari già previsto dall’allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008 (…) e dai conseguenti accordi sanciti dalla Conferenza unificata (…)”. Il legislatore del 2011 ha dunque ritenuto di introdurre un termine perentorio per il compimento di un “percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, in realtà sino a quel momento mai indicato come obiettivo dalla normativa primaria, ma solo nell’Allegato C del D.P.C.M. primo aprile 2008, a sua volta dedicato non già al “superamento degli O.P.G.”, bensì al trasferimento delle funzioni gestionali in materia di O.P.G. al servizio sanitario nazionale, al pari di ogni altra funzione in materia di medicina penitenziaria.
[3] Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in attuazione al D.M. 1 ottobre 2012, emanato in applicazione dell’articolo 3ter, comma 2, del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 e modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n. 52, convertito in legge 30 maggio 2014, n. 81 – Rep. Atti n. 17/CU del 26/02/2015.
[4] Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, concernente la definizione di specifiche aree di collaborazione e gli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e nelle Case di Cura e Custodia (CCC) di cui all’Allegato C al D.P.C.M. 1° aprile 2008 – Rep. n. 81 – CU del 26 novembre 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 2, del 04/01/2010.
[5] Pubblicata sul sito www.dirittopenaleuomo.org, con il commento di A. Calcaterra, Misura di sicurezza con ricovero in R.E.M.S.: il ritorno al passato no!
[6] Tra i commenti, si segnala l’interessante dibattito a più voci intercorso tra M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, in Questione Giustizia, 02/06/2020; G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, in Questione Giustizia, 04/02/2021; P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, in www.sossanità.org.
[7] In questi termini, si esprime M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit.
[8] Tale evenienza è rappresentata da P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[9] K. Poneti, La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali, in www.sossanità.it.
[10] Ai sensi dell’art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[11] Segnalata in www.giurisprudenzapenale.com.
[12] Cass., Sez. Un., sent. 8 marzo 2005, n. 9163, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite.
[13] Date queste premesse, le Sezioni Unite hanno anche aggiunto che, d’altro canto, nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità".
[14] In linea generale, il tema è trattato da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Questione Giustizia, 13 maggio 2021; della stessa Autrice, sempre sul tema della tutela della salute mentale degli autori di reato, si veda altresì in questa Rivista, 17 aprile 2021, La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale.
[15] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
[16] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 1, 1 febbraio 2019, 405 ss. indica in 1.700-1.800 la media dei pazienti presenti negli OPG in epoca anteriore alla riforma.
[17] Tra le altre, può ricordarsi la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 18 luglio 2003, con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
[18] Il tema risulta ampiamente sviscerato, tra gli altri, da A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[19] Recante “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”.
[20] I dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comprovano in effetti come, in netta controtendenza rispetto alle medie annuali precedenti, si sia passati dai 1.276 pazienti ospitati in O.P.G. nel 2011 ai 689 presenti al 31 marzo 2015.
[21] In questi termini si esprime G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit.
[22] Sempre dai dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento, risulta che al 14 dicembre 2015 erano già 96 provvedimenti giurisdizionali in attesa di esecuzione. Questo numero è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni, passandosi a 265 provvedimenti in attesa di esecuzione al 31 dicembre 2016, a 457 al 28 novembre 2017, a 667 al 9 gennaio 2019, a 705 al primo aprile 2019, a 813 al 27 ottobre 2020 ed infine a 762 al 27 settembre 2021. È bene ad ogni modo rammentare che, sulla base della normativa vigente che prevede la gestione esclusivamente sanitaria delle REMS, la responsabilità istituzionale circa la corretta tenuta delle singole liste di attesa non può che ricadere sulle Autorità regionali.
[23] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
[24] In linea generale, una effettiva diversificazione delle misure sanzionatorie, quale strumento per alleggerire la pressione sulle REMS, viene invocata, tra gli altri, da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit., laddove è appunto definita “urgente” la “diversificazione delle misure sanzionatorie, in modo da rendere effettiva la natura residuale ed eccezionale delle misure custodiali”.
[25] In questi termini si esprime P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., il quale appunto segnala come, a fronte di un buon livello di turn-over attuato nelle Residenze nel periodo 31 marzo 2015-11 marzo 2019 (essendo stato dimesso il 65,1% dei complessivi 1.580 pazienti internati nel periodo in disamina), il 35% dei pazienti ospitati in REMS avrebbe commesso reati di scarso rilievo, nei cui confronti dovrebbero auspicarsi altre tipologie di intervento.
[26] Si veda, sul punto, sempre P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[27] Ci si riferisce alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, “Fasc. 37/PP/2016”, pubblicata nell’aprile del 2017, avente ad oggetto “Direttive interpretative e applicative in materia di superamento deli Ospedali psichiatrici giudiziari e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014”. Tra l’altro, nel documento si legge quanto segue:
“Per esigenze di sintesi non è possibile riportare integralmente la molteplicità di informazioni pervenute dai diversi uffici interessati, pur dovendosi dare atto che le problematiche evidenziate dalla maggior parte degli uffici attengono, principalmente, alla carenza di posti presso le nuove strutture REMS, con inevitabile formazione di liste di attesa per l’accettazione di nuovi pazienti e conseguente dilatazione dei tempi di esecuzione delle misure disposte; alla collocazione territoriale di alcune REMS, negativamente incidente sulla possibilità per le forze dell’ordine di intervenire tempestivamente nell’ipotesi in cui uno o più internati pongano in essere atti aggressivi o si diano alla fuga; all’individuazione dei soggetti deputati ad assicurare il trasferimento degli internati dalla Rems ai Presidi Sanitari Territoriali; nonché alla inadeguatezza della sorveglianza interna ed esterna alle strutture”.
[28] Tale valutazione è stata di recente espressa da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
[29] Al riguardo, M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit., evidenzia condivisibilmente quanto segue: “A ben vedere, in un mondo attento ed avveduto, il dibattito culturale intorno al tema avrebbe dovuto creare la condizione per un inevitabile e indispensabile intervento correttivo o integrativo del Legislatore (forse anche regionale) o almeno per l’impegno senza risparmio di risorse da parte della politica e delle amministrazioni regionali per il reperimento – quanto meno – di un numero di posti vagamente comparabile alle esigenze concrete, per la realizzazione di soluzioni architettoniche e immobiliari adatte alle diverse esigenze e per l’individuazione di una forza di polizia o di personale finalizzato a garantire la sicurezza interna”. Anche sul “fronte” della psichiatria, il tema della implementazione dei posti-letto in R.E.M.S. risulta preso in considerazione, per lo meno da parte di taluni esponenti; tra questi si segnala G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit. che, tra le soluzioni auspicabili per il superamento dei problemi connessi al sistema delle R.E.M.S., prospetta appunto “l’implementazione dei posti letto forensi adeguandoli agli standard europei ovvero di 1 ogni 15.000 abitanti. Non solo posti REMS, ma percorsi strutturati a gradiente di sicurezza progressivamente ridotto, come REMS attenuate fino a gruppi appartamento per chi conclude il percorso strettamente monitorate da equipe forensi. Ogni dipartimento di salute mentale dovrebbe avere delle equipe e dei percorsi dedicati con specifiche competenze forensi”.
[30] Decreto primo ottobre 2012 adottato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, venivano delineati i “requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui si applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”.
[31] Sul punto, si rinvia alle considerazioni di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[32] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[33] Le considerazioni sono di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit., il quale, a sua volta, sul punto, richiama P. Pellegrini, La chiusura degli OPG è vicina e quella delle REMS?, in www.quotidianosanità.it, 03/11/2016. Quest’ultimo Autore, nell’articolo da ultimo citato, a distanza di circa un anno e mezzo dalla entrata a regime della riforma, già ammoniva sui rischi connessi ad un uso troppo disinvolto della misura di sicurezza di sicurezza detentiva, declinata nel ricovero in REMS; segnatamente, da un lato, invitava ad introdurre metodiche volte a prevenire gli ingressi nelle Residenze, così da evitare la creazione di liste di attesa che già all’epoca contavano “circa 200” persone in attesa di internamento. E, sul punto, segnalava che, a suo avviso, “la magistratura che prima aveva remore verso la collocazione in OPG, oggi sembra non averne per il ricovero in REMS”. Ancora, esprimeva forti perplessità in merito alla possibilità di conciliare le funzioni della cura e quelle della custodia all’interno delle R.E.M.S., che, appunto, risultavano istituite in modo da rendere “fortemente presenti” le funzioni di custodia, “contrastando fino a soffocare quelle di cura”, posto che queste ultime hanno “bisogno di respiro, consenso, libertà o una prospettiva di libertà”. Il problema della sicurezza all’interno delle R.E.M.S. e della compatibilità con tali strutture di soggetti connotati da elevati tratti di pericolosità è affrontato anche da G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit., nei termini che seguono: “La ridotta capienza delle strutture al massimo 20 posti, fa sì che all’interno della stessa struttura si ritrovino utenti con necessità assistenziali completamente diverse e con livello di pericolosità completamente diversi. Quando in questi contesti capita un utente fisicamente dotato e con tratti psicopatici e antisociali per tutti, utenti e operatori, sarà un problema. Potrà serenamente minacciare operatori, personale e infrangere le poche regole di convivenza, difficilmente si ha la capacità di fermarlo. Sarà il boss della struttura inducendo una regressione totale dei processi di cura a danno di tutti. In alcuni casi, commetterà dei reati, e come è già successo, dovrà essere curato dagli stessi operatori che lo hanno denunciato, contro ogni buon senso e codice deontologico”.
[34] Ci si riferisce, tra l’altro, alla proposta di legge n. 2939, presentata l’11 marzo 2021 alla Camera dei Deputati, di iniziativa del deputato Magi, il cui testo è disponibile nel sito www.societadellaragione.it. La proposta si snoda attraverso plurime direttrici, tra le quali, anzitutto, l’eliminazione della non imputabilità e della semi-imputabilità per vizio di mente, con la conseguente abolizione delle misure di sicurezza correlate; logico presupposto di tale scelta è quello di riconoscere soggettività e responsabilità al malato di mente, anche autore di reato, valutando l’attribuzione della responsabilità, anche penale, come un atto che può rivestire anche una valenza terapeutica. Da tali premesse discende la sostanziale abolizione del sistema del doppio binario, con l’eliminazione dell’attuale divaricazione di trattamento tra soggetti capaci di intendere e di volere ed incapaci e prevedendo la soggezione alla sanzione penale anche nei confronti di questi ultimi. In tale contesto, si promuoverebbe l’introduzione di una nuova circostanza attenuante per le condizioni di svantaggio determinate da disabilità psicosociale e si delineano inoltre vari strumenti finalizzati a scongiurare l’ingresso in carcere dei soggetti affetti da patologie psichiatriche, così da indirizzarli verso misure dal più elevato contenuto terapeutico. In accordo con le sopra richiamate premesse, tuttavia, viene contemplata la possibilità che i pazienti psichiatrici autori di reato siano condannati ad espiare le pene detentive presso gli Istituti di pena ed a questo proposito si precisa nella relazione illustrativa che “all’esito di una lunga discussione, è emersa la necessità di non prevedere alcuna istituzione speciale per i detenuti con disabilità psicosociale, i quali dovranno essere curati dai dipartimenti di salute mentale, in locali ad esclusiva gestione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Infine, per quanto concerne le REMS, evidentemente non più utilizzabili quali luoghi di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, se ne propone la riconversione in “strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle aziende sanitarie locali”. Sul tema, P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., evidenzia come, a suo avviso, per le persone con alta pericolosità, a prescindere dalla presenza o meno di un disturbo mentale, “sono possibili altre impostazioni, centrate sulla limitazione della libertà personale, sulla tutela della comunità sociale, sulla costrizione che vedono precise leggi e competenze. In questa ambiti la cura psichiatrica è quella possibile, talora quasi nulla o solo sintomatica”.
[35] È noto, in questo senso, che l’ordinamento italiano riserva agli infermi di mente socialmente pericolosi un percorso di sostanziale irresponsabilità penale – sancita anzitutto dall’art. 85, cod. pen. – tuttavia contemperato dall’applicazione della misura di sicurezza detentiva del manicomio giudiziario (in seguito denominato ospedale psichiatrico giudiziario) in ciò perseguendo almeno due finalità: da un lato, quella di contenere la pericolosità sociale dei soggetti incapaci resisi autori di reati e, d’altro lato, quella di promuoverne il trattamento psichiatrico, tanto più a seguito della introduzione dei principi di rango costituzionale che impongono allo Stato di perseguire la finalità rieducativa e trattamentale nell’ambito di qualsiasi percorso di tipo sanzionatorio. Al riguardo, pur senza pretesa di esaustività, pare utile richiamare F. Mantovani, Diritto penale – parte generale, Padova, 686 ss., il quale, in merito al soggetto non imputabile, fa riferimento alla categoria generale del “delinquente irresponsabile”, sottolineando come il problema della imputabilità vada risolto non solo sulla base dell’art. 85 del codice penale, “ma alla luce del superiore principio della responsabilità personale, la quale richiede per potersi punire sia l’imputabilità sia la colpevolezza”. Ancor più incisive appaiono al riguardo le parole di F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 2000, 614, parole a cui pare utile ed opportuno affidarsi: “A nostro avviso la ragione giustificatrice dell’istituto (l’imputabilità, n.d.r.) deve reperirsi nella concezione comune della responsabilità umana. Secondo l’opinione che nell’epoca attuale è profondamente radicata nella coscienza collettiva, affinché un uomo possa essere chiamato a rispondere dei propri atti di fronte alla legge penale è necessario che sia in grado di rendersi conto del valore sociale degli stessi e non sia affetto da anomalie psichiche che gli impediscano di agire come dovrebbe: si richiede, in sostanza, che egli abbia un certo sviluppo intellettuale e sia sano di mente. La pena è una sofferenza; implica una notevole restrizione dei beni della persona e importa degli effetti che ne ledono l’onore, ripercuotendosi anche sul suo avvenire. (…). In conseguenza la reazione psico-sociale che nasce dai delitti commessi dagli individui di cui trattasi è diversa da quella che si verifica nei casi ordinari: può sorgere, bensì, allarme e, quindi, il riconoscimento della necessità di provvedimenti cautelativi nell’interesse della comunità, ma non si ha quella riprovazione morale che giustifica l’inflizione di un castigo”.
[36] V., fra gli altri, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019.
[37] Pare utile, sul punto, riportare testualmente le parole della Corte: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana”.
[38] Sul tema, è utile rinviare ai contenuti delle varie circolari emanate dall’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni e degli Accordi in materia di sanità penitenziaria stipulati in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, segnalando, tra le altre, la circolare 6 giugno 2007, n. 0181045-2007 avente ad oggetto “I detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza”, nonché l’Accordo del 19 gennaio 2012, relativo alle “Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidiario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” ed infine l’ulteriore Accordo, approvato dalla Conferenza il 27 luglio 2017, recante il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie nel sistema penitenziario per adulti”. Si rinvia altresì alle considerazioni svolte in questa Rivista, 7 luglio 2020, da F. Gianfilippi, Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
[39] Oltre al già citato disegno di legge “Magi”, e per limitarsi alle proposte più recenti, ci si riferisce ai lavori del Tavolo tematico n. 11, dedicato alle misure di sicurezza, nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale i cui documenti finali sono tuttora reperibili sul sito internet del Ministero della giustizia; alle previsioni contenute nelle lettere c) e d) del punto 16 dell’art. 1, della legge-delega 23 giugno 2017, n. 103, recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, attuata peraltro solo in parte e non nelle porzioni dedicate alle misure di sicurezza; ed infine ai lavori della “Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie”, istituita con D.M. 19.07.2017, presieduta dal Prof. Marco Pelissero, i cui elaborati finali sono rinvenibili, tra l’altro, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org. Proprio i lavori della Commissione “Pelissero” sono stati da ultimo ripresi ed esplicitamente condivisi dalla “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita con D.M. 13 settembre 2021 e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, la cui relazione finale è attualmente disponibile sul sito internet del Ministero della giustizia.
[40] In questi termini si esprime, condivisibilmente, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
Il concordato in bianco fra genesi della disciplina del “decoctor” e codice dei contratti pubblici (nota a Ad. Plen. n. 9/2021)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche - 2. Il caso in esame - 3. Evoluzione storico – normativa del diritto concorsuale italiano - 3.1 Analisi comparatistica del problema - 4. Le cause di esclusione ex art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 5. L’impatto del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sul diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici - 6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021 - 8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito - 9. Osservazioni conclusive.
1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche
Il convergere degli elementi connaturati alla struttura del concordato preventivo “in bianco” verso la possibilità della prosecuzione dell’attività aziendale comporta la necessità di intercettare le regole, processuali e sostanziali, in grado di disciplinare le modalità di partecipazione alle gare pubbliche, dovendosi ormai abbandonare la tralatizia impostazione che inquadrava i due istituti in chiave eminentemente antitetica attraverso l’interpretazione restrittiva delle norme del Codice del processo amministrativo in tema di cause di esclusione[1].
Tali rilievi costituiscono il nodo centrale del problema affrontato dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria che assume una portata di indubbia rilevanza in quanto interviene sulla nota querelle sorta in relazione al rapporto tra concordato in bianco e procedure di gara[2].
Invero, le difficoltà nel fornire soluzioni univoche alle questioni giuridiche in oggetto è possibile riscontrarle prima facie nell’attività del legislatore, che per decenni è intervenuto in materia riformulando le norme applicabili al rapporto tra i due istituti.
A fronte della complessità e della stratificazione nel tempo di detti interventi, in dottrina ed in giurisprudenza venivano, infatti, adottate soluzioni interpretative che talune volte qualificavano il concordato “in bianco” come causa di automatica esclusione delle imprese dalle procedure di evidenza pubblica; talaltre ne consentivano la partecipazione al ricorrere di specifici requisiti di legge.
Entrando in medias res, la statuizione dell’Adunanza Plenaria dirime il contrasto formatosi in materia ripercorrendo l’iter storico evolutivo della disciplina della crisi d’impresa e del codice dei contratti pubblici, prediligendo un metodo d’analisi sistematico delle relative disposizioni, anche alla luce dell’esperienza sovranazionale. Ciò, in particolare, tenuto conto del dibattito sviluppatosi fra i più autorevoli studiosi a margine della recente riforma del sistema concorsuale italiano, ove è emersa la necessità di predisporre un organico ammodernamento delle regole con l’introduzione di strumenti in grado di assicurare la conservazione dell’impresa.
Di talché, in linea con il percorso argomentativo adottato dal Supremo Collegio, il presente lavoro, prima di analizzare gli approdi cui è giunta la sentenza in commento, non potrà prescindere dalla disamina degli sviluppi storici della disciplina concordataria e dal coordinato raffronto di essa con il codice dei contratti pubblici, con particolare riguardo alle soluzioni adottate dai principali ordinamenti giuridici europei nel settore delle procedure concorsuali.
2. Il caso in esame
La vicenda da cui origina la pronuncia in commento attiene al ricorso presentato dalla società seconda classificata avverso l’aggiudicazione dell’appalto di lavori disposta in favore di un RTI, al cui interno la società mandante era coinvolta in una procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, co. 6, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare).
Al riguardo, il Tribunale Amministrativo Regionale competente disponeva l’accoglimento del ricorso principale[3]. Diversamente, il ricorso incidentale proposto dalla società mandataria del RTI aggiudicatario veniva respinto, in quanto, ai sensi dell’art. 48, co. 19 ter, c.p.a., il primo giudice riteneva infondata la pretesa di procedere alla sostituzione della mandante, giacché, si precisava, la modifica della compagine del RTI non si sarebbe potuta esperire in pendenza della procedura di gara.
A suffragio dell’accoglimento del ricorso principale, il giudice di prime cure rilevava l’illegittimità dell’aggiudicazione per violazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), nonché dell’art. 80, co. 5 bis, Codice dei contratti pubblici.
Quanto alla violazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), si chiariva che la mandante del RTI aggiudicatario, avendo proposto nelle more della procedura di gara una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, legge fallimentare, doveva essere esclusa.
Invece, la violazione dell’art. 80, co. 5 bis, c.p.a. scaturiva dal ritardo in cui era incorsa l’impresa mandataria nel comunicare alla stazione appaltante la presentazione, da parte della mandante del raggruppamento, di un’istanza ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.
Orbene, avverso la suesposta decisione interponevano appello dapprima la società mandante e, successivamente, quella mandataria del RTI aggiudicatario.
A seguito della riunione di detti gravami, la Sezione Quinta del Consiglio di Stato evidenziava la presenza di orientamenti contrastanti in materia e, per l’effetto, deferiva all’Adunanza Plenaria talune questioni giuridiche rilevanti al fine del decidere, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
In particolare, il primo quesito attiene alle conseguenze derivanti dalla presentazione, da parte di un operatore economico, di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, co. 6, l. fall., dovendosi chiarire se tale ipotesi “debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, ovvero se la presentazione di detta istanza non inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di commesse pubbliche, quanto meno nell’ipotesi in cui essa contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale”.
Il secondo quesito riguarda, invece, la qualificazione dell’atto di partecipazione alle gare pubbliche in termini di ordinaria o straordinaria attività di impresa, tenuto conto del differente regime autorizzativo applicabile.
Ulteriormente, la Sezione remittente si chiede entro quale termine debba intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della regolare partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
Infine, è stata deferita la questione se, ai sensi dell’art. 48, commi 17, 18, 19 ter, d.lgs. n. 50/2016, debba ritenersi consentita la sostituzione della mandante coinvolta in una procedura concordataria ex art. 161, co. 6, cit. “con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del RTI dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione”.
3. Evoluzione storico - normativa del diritto concorsuale italiano
Come noto, il concordato preventivo è uno strumento che consente di evitare il fallimento dell’impresa, essendo finalizzato a perseguire una pluralità di interessi, tra i quali si annoverano, come evidenziato da autorevoli autori, la conservazione del valore economico dei complessi aziendali, la salvaguardia dei rapporti commerciali e, di riflesso, la tutela dell’interesse pubblico[4].
Diversamente, l’originaria struttura della legge fallimentare del 1942 aveva quale principale paradigma il fallimento[5] che, secondo una storica impostazione, era accostato alla figura del decoctor, soggetto che fuggiva con i propri beni al fine di sottrarsi al pagamento dei debiti assunti nell’ambito dell’attività di commercio esercitata[6]. Il riferimento appare esemplificativo del disvalore, anche personale, che caratterizzava l’imprenditore fallito che aveva causato il dissesto dell’impresa, analogamente alla struttura eminentemente liquidatoria e punitiva della legislazione previgente nei confronti di tali situazioni[7].
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, invece, essendo stata accertata l’inidoneità dei tradizionali strumenti normativi a fronteggiare la generale crisi dell’economia, emergeva il ruolo delle grandi imprese nel tessuto economico nazionale, considerate quale valore autonomo da tutelare in sé mediante procedure di risanamento o recupero[8]. Sul piano normativo, quindi, seguiva l’adozione di leggi in favore degli operatori economici insolventi[9], nonché la previsione di talune modifiche alla disciplina delle procedure concorsuali[10].
Sulla base delle spinte del processo di integrazione europea e dell’emersione dei valori liberistici del mercato e della concorrenza, a partire dagli anni Novanta si rafforzavano ulteriormente gli obiettivi della valorizzazione della figura dell’impresa, quale naturale centro di produzione di risorse e ricchezza nell’ottica del miglioramento della efficienza del mercato[11].
In tal contesto, una delle principali tappe dell’evoluzione normativa delle procedure concorsuali si rinviene nelle riforme degli anni 2005-2007, con le quali il legislatore ha favorito le tecniche di conservazione delle strutture produttive dell’impresa e del loro reinserimento, ove possibile, nel settore economico[12]. In particolare, occorre richiamare il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con la l. 14 maggio 2005, n. 80[13], che ha modificato alcuni aspetti del concordato preventivo abbandonando la previgente impostazione che imponeva, ai fini dell’ammissione alla procedura, la verifica del possesso di requisiti di natura personale nonché patrimoniale[14].
Con la l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha introdotto l’istituto del concordato con continuità aziendale, di cui all’art. 186-bis l. fall[15], diviene ancora più evidente il favor legislatoris nei confronti delle procedure finalizzate al recupero dei valori aziendali[16].
Tale intervento normativo ha, inoltre, disciplinato l’istituto del c.d. concordato in bianco o con riserva ex art. 161, co. 6, l. fall., permettendo al debitore di procrastinare la presentazione della proposta concordataria di sessanta o centoventi giorni e, al tempo stesso, consentendo il compimento degli atti di ordinaria amministrazione nonché, su autorizzazione del tribunale competente, anche quelli di natura straordinaria.
Più di recente, l’istituto de quo ha subito modifiche per effetto della introduzione di diversi correttivi ad opera della l. 9 agosto 2013, n. 98[17], tra i quali si annovera, per le finalità di contrasto al fenomeno di abuso del concordato in bianco, il decreto motivato del tribunale contenente la nomina di un commissario giudiziale che, ai sensi dell’art. 161, co. 6, ultima parte, l. fall., è provvisto di ampi poteri in tema di accertamento della sussistenza delle condotte di cui all’art. 173, l. fall.
Quanto alle modifiche apportate al concordato con continuità aziendale, l’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., ai fini della partecipazione alle procedure di evidenza pubblica richiede una specifica autorizzazione del tribunale competente, acquisito il parere del commissario giudiziale, ove nominato[18].
3.1. Analisi comparatistica del problema
In ambito europeo, è stato adottato come principale modello di riferimento lo strumento statunitense della corporate reorganitation, introdotto verso la fine degli anni Settanta e disciplinato dal Chapter 11 delFederal Bankruptcy Code. Ai sensi di tale disposizione, tra gli altri, si è prevista la facoltà del debitore di attivare una procedura finalizzata alla riorganizzazione dell’impresa, anche nella fase antecedente all’insolvenza tout court, evidenziandosi quindi il favor verso la conservazione dei valori aziendali, soprattutto alla luce dell’interesse dei creditori[19]. In tal contesto, è stata inoltre introdotta la possibilità di ottenere taluni finanziamenti con il beneficio della prededuzione[20].
Il sistema normativo francese, sulla scorta degli obiettivi sanciti dal modello statunitense, ha subito importanti modifiche[21], superando la previgente concezione punitiva del fallimento (incentrata sul prevalente ricorso alla liquidazione del patrimonio del debitore) per aderire ad un approccio teso a valorizzare l’impresa e la sua conservazione nel tessuto economico. Il tutto, mediante la predisposizione di procedure di allerta e di prevenzione dell’insolvenza; nonché attraverso meccanismi in grado di conferire all’autorità giudiziaria un rilevante potere dirigistico (ad esempio, la procedura concorsuale denominata sauvagarde, paragonabile alla reorganization statunitense)[22].
Anche in Germania, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, si è innovata la disciplina della crisi d’impresa prediligendosi una concezione conservativa degli operatori economici[23] attraverso l’enucleazione di benefici per l’imprenditore in modo da incentivare una celere e tempestiva apertura della procedura concorsuale[24].
Nell’ambito dell’evoluzione del diritto europeo, assume, inoltre, un ruolo centrale la raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2014 contenente l’invito rivolto agli Stati membri ad approntare efficaci procedure preventive idonee in concreto a scongiurare l’insolvenza degli operatori economici virtuosi. Così, è stato adottato il c.d. Piano d’azione UE del 30 settembre 2015, nonché la Direttiva n. 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, quale primo strumento di armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri dell’UE in relazione alla crisi d’impresa[25].
Elementi che, come più volte anticipato, assumono un ruolo decisivo ai fini della individuazione della ratio sottesa all’istituto del concordato preventivo “in bianco”, nonché della perimetrazione dei suoi effetti sulle procedure di gara.
4. Le cause di esclusione di cui all’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei Contratti pubblici
Secondo la disciplina previgente, l’ipotesi della presentazione di una domanda di concordato preventivo era disciplinata dall’art. 38, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 163 del 2006, disposizione che è stata oggetto di dubbi interpretativi sorti sia in dottrina[26] sia in giurisprudenza, tanto da richiedere numerosi interventi del legislatore[27].
Attualmente, invece, la fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 80, co. 5, lett. b)[28], D. Lgs. n. 50/2016, che recepisce quanto sancito dall’art. 57 della direttiva 2014/24/UE in tema di riconoscimento, in capo agli Stati membri, della facoltà di qualificare come causa di esclusione dalla gara pubblica le imprese coinvolte nelle procedure concorsuali[29].
Orbene, la norma in commento contiene un elenco di situazioni che comportano l’esclusione dalle procedure di evidenza pubblica dell’operatore economico: il fallimento, la liquidazione coatta ed il concordato preventivo, anche laddove sia in corso un procedimento finalizzato a dichiarare una di tali situazioni. Il tutto, però, fermo restando quanto sancito dagli artt. 110 del Codice dei contratti pubblici, nonché dall’art. 186 - bis del r.d. 16 marzo 1942, n. 267[30].
Viene, inoltre, in rilievo l’art. 110, co. 4[31], Codice contratti pubblici, così come modificato dall’art. 2, co. 1, del d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019, che prevede l’applicazione dell’art. 186-bisl. fall. alle imprese che hanno presentato una domanda di concordato preventivo, anche “in bianco”[32]. Da ciò può, quindi, desumersi che anche in tali ipotesi gli operatori concorrenti possono partecipare alle procedure di evidenza pubblica, sempreché in possesso della prescritta autorizzazione giudiziale. In tema, il legislatore distingue l’ipotesi in cui un’impresa abbia presentato una mera domanda per l’ammissione alla procedura concordataria dalla differente ipotesi in cui essa ne abbia effettivamente ottenuto l’ammissione, ai sensi dell’art. 163 l. fall.: solo nel primo caso, infatti, viene prescritto il requisito necessario dell’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto.
Nel solco dei predetti interventi normativi, si profila interessante notare che l’art. 110 Cod. contratti pubblici non ha riprodotto il contenuto del previgente comma 3 ove si precisava che: (…) l’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato, sentita l’ANAC, possono: a) partecipare a procedure di affidamento per di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto (…)”. Le ragioni di tale scelta legislativa potrebbero rinvenirsi, come evidenziato da autorevoli autori, proprio nella difficoltà degli interpreti di coordinare armonicamente la disciplina di cui all’art. 110, co. 3, cit., rispetto al contenuto dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, nonché dell’art. 186 - bisl. fall. Questi ultimi, infatti, nel caso della intervenuta ammissione al regime della continuità aziendale non prevedono analoghi oneri autorizzativi[33].
5. L’impatto del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sulla disciplina del diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici
Preliminarmente, occorre rilevare che il nuovo impianto procedimentale di accertamento della crisi e dell’insolvenza delle imprese ha assunto un vero e proprio carattere unitario, divenendo la sede nella quale far confluire le domande od istanze riferibili all’attivazione di strumenti regolatori (aventi natura conservativa ovvero liquidatoria)[34].
Nel particolare, tra di essi il Codice annovera l’istituto del concordato con continuità aziendale di cui all’art. 84, co. 2, distinguendo l’ipotesi diretta da quella indiretta: nel primo caso, è prevista la continuazione dell’attività da parte del medesimo imprenditore istante; nel secondo caso, invece, essa si verifica mediante la cessione dell’azienda ovvero la continuazione ad opera di un soggetto differente dall’originario imprenditore[35].
Il concordato c.d. “in bianco” (previsto all’art. 161, co. 6, l. fall.), invece, è destinato a confluire nell’art. 44, Codice della crisi d’impresa, assurgendo, come sostenuto da taluni autori, a vera e propria regola del sistema concordatario[36]. La riferita disposizione, in particolare, interviene dimezzando i termini concessi al debitore per la presentazione dei documenti[37], nell’ottica evidentemente di imprimere maggiore celerità alla definizione della procedura.
Nel delineato contesto, assume un ruolo centrale l’art. 372 del nuovo Codice, che modifica alcune norme del Codice dei contratti pubblici, in particolare gli artt. 48, 80, co. 5, lett. b), nonché l’art. 110[38].
A livello testuale, è anzitutto possibile notare che viene abbandonato il previgente riferimento al termine “fallimento” quale ipotesi di esclusione dalle gare sia nell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, sia nell’art. 110, ai sensi di quanto previsto rispettivamente dall’art. 372, co. 1, lett. b) e c) cit. Quindi, le cause di esclusione debbono individuarsi nelle ipotesi di liquidazione giudiziale, di liquidazione coatta, concordato preventivo, salvo quanto sancito dall’art. 95 Codice della crisi d’impresa e dall’art. 110 Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, l’art. 372, co. 4,[39] Codice della crisi d’impresa, dispone l’applicazione dell’art. 95 alle imprese che hanno presentato una domanda per l’accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ai sensi dell’art. 40, secondo il procedimento unitario previsto nella Sezione II, Capo IV.
Con particolare riferimento alla sentenza in commento, viene in rilievo l’art. 95, rubricato “disposizioni speciali per i contratti con le pubbliche amministrazioni”, il quale si profila rilevante per quanto precisato al comma 3, nella parte in cui richiede la sussistenza del requisito dell’autorizzazione del tribunale competente ai fini della partecipazione alle procedure di gara pubbliche per le imprese che abbiano presentato domanda ex art. 40. Quale ulteriore rafforzamento del controllo sulla idoneità dell’impresa alla partecipazione alle suddette procedure di gara, il successivo comma 4 prescrive il deposito di una relazione di un professionista che comprovi la conformità al piano, ove predisposto, e la ragionevole capacità di adempimento del contratto.
Infine, l’art. 95 cpv. riconosce, in capo all’operatore economico coinvolto in una procedura concordataria che non assuma la qualità di mandataria, la facoltà di partecipare alla gara anche mediante un RTI, purché nella compagine di riferimento non vi siano ulteriori operatori coinvolti in tali situazioni.
6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b., d.lgs. n. 50/2016
Come anticipato nei precedenti paragrafi, le continue modifiche apportate dal legislatore all’art. 80, co. 5, lett., b), d.lgs. n. 50/2016, non hanno agevolato l’attività di interpretazione della relativa disciplina, specie per ciò che attiene alle conseguenze della proposizione di una domanda di concordato “in bianco” nell’ambito di una procedura di gara.
Secondo la tesi restrittiva, l’art. 80, co. 5, lett. b), dovrebbe essere interpretato nel senso di prevedere l’automatica esclusione dalla gara delle imprese che abbiano presentato una domanda di concordato in bianco.
Gli interpreti giungono a tale conclusione evidenziando, in particolare, la natura di atto di straordinaria amministrazione della fattispecie de qua, circostanza che impone di accertare la sussistenza del requisito della “urgenza” ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione da parte del Tribunale competente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall.[40] In tal senso, si suole enfatizzare la contrapposizione tra l’istituto del concordato in bianco e quello del concordato in continuità aziendale. Si sostiene che il primo, oltre a richiedere molto tempo per la relativa definizione, risulterebbe caratterizzato da una procedura “incerta”, potendo sfociare non solo nel concordato con continuità aziendale, ma anche nel concordato liquidatorio[41].
Proprio per tali ragioni, si ritiene che la proposizione di una domanda di cui all’art. 161, co. 6, l. fall., debba comportare la perdita dei requisiti di ordine generale, ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 1, co. 20, lett. o), n. 3) d.l. n. 32 del 2019), stante il riferimento espresso al concordato con continuità aziendale quale unica eccezione alla regola generale dell’esclusione[42].
Anche a seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019 all’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici[43], talune pronunce, al fine di aderire alla tesi restrittiva, valorizzano soprattutto la seconda parte della disposizione in commento, ove si richiede espressamente l’avvalimento dei requisiti di altro soggetto ai fini della partecipazione alle gare nella fase anteriore all’ammissione al concordato ex art. 163 l. fall. (anche se proposto ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.)[44].
Ciò posto, una differente impostazione ermeneutica[45] propugna una lettura in termini “estensivi” dell’art. 80, co. 5, lett. b), del codice dei contratti pubblici, ritenendo applicabile anche alle ipotesi di concordato in bianco il regime derogatorio previsto per il concordato con continuità aziendale[46]. Alla luce della ratio che contraddistingue i due istituti, si prevede, anche per il concordato in bianco, l’applicazione del principio che consente alle imprese di partecipare alle gare nelle more tra la presentazione della domanda di concordato con continuità aziendale e la successiva ammissione[47]. A detta dell’orientamento in analisi[48], le medesime conclusioni si ricavano anche dalla formulazione dell’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici (come modificato dal d.l. n. 32 del 2019), ove è previsto espressamente che la disciplina di cui all’art. 186-bis l. fall. deve applicarsi anche alle fattispecie di concordato, di cui all’art. 161, co. 6, l. fall.
Quanto alla natura giuridica dell’attività di partecipazione delle imprese alle procedure di gara, si chiarisce che essa dovrebbe essere ricondotta nella categoria degli atti di ordinaria amministrazione, essendo parte integrante della normale gestione d’impresa in quanto potenzialmente idonea a migliorarne la situazione patrimoniale tramite l’aggiudicazione delle commesse pubbliche[49]. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall., il debitore, a seguito della presentazione della relativa istanza e prima della decisione del tribunale ex art. 163, l. fall., può compiere gli atti di ordinaria amministrazione, occorrendo per quelli aventi natura straordinaria la sussistenza di due requisiti: il carattere urgente degli stessi e l’intervento di una specifica autorizzazione del tribunale competente.
Ulteriore questione problematica affrontata dagli interpreti in subiecta materia attiene alla natura ed agli effetti promananti dalla autorizzazione giudiziale de qua. Sul punto, sono state adottate soluzioni contrastanti: taluni ritengono che essa costituirebbe una condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione, potendo quindi intervenire anche in un momento successivo senza pregiudicarne la regolarità; talaltri evidenziano che, a maggior rigore, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., dovrebbe intervenire prima dell’aggiudicazione stessa[50].
7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021
La Sezione remittente, a seguito della prioritaria disamina delle correnti interpretative che si sono contrapposte nel panorama giurisprudenziale, ha lasciato intendere di preferire le conclusioni cui giungono i sostenitori della tesi estensiva, ritenendo che la presentazione di una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non dovrebbe qualificarsi come un’ipotesi di automatica causa di esclusione dalle gare.
Le argomentazioni poste alla base di tale posizione si fondano, in particolare, sulla valorizzazione della ratio sottesa agli istituti del concordato con continuità aziendale e del concordato “in bianco”, essendo preordinata a consentire alle imprese in crisi di partecipare alle gare pubbliche, in deroga al divieto previsto dall’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici. Per tal ragione, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., naturalmente prevista per il concordato con continuità aziendale (nella versione applicabile ratione temporis anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 52/2019) si ritiene applicabile anche alle domande di concordato in bianco, essendo parte della più ampia categoria del concordato tout court.
In virtù della natura di atto di accertamento dell’autorizzazione de qua, è stato, inoltre, precisato che i relativi effetti debbano retroagire “al momento in cui la valutazione si riferisce, e non già a quella in cui essa è stata formalizzata nell’atto autorizzativo”.
8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito
Il primo quesito affrontato dal Supremo Collegio concerne la qualificazione della domanda di concordato “in bianco” ex art. 161, co. 6, l. fall., in termini di causa di automatica esclusione o meno, dovendosi chiarire, nel dettaglio, la portata applicativa dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016[51].
Sul punto, si richiama in chiave critica la storica impostazione assunta dalla normativa sui contratti pubblici, in quanto tesa a valorizzare in modo prevalente l’esigenza della stazione appaltante di operare con imprese che non risultino coinvolte nelle procedure concorsuali, il tutto all’interno di un sistema normativo ispirato ai principi della esclusione obbligatoria ed automatica[52]. La critica muove dal fatto che, sul piano del diritto europeo, le direttive in tema di appalti annoverano le procedure concorsuali tra le possibili cause di esclusione ma non prescrivono l’adozione di un criterio di automatica esclusione, riconoscendo, invece, la facoltà degli Stati membri di disciplinare, in modo più o meno rigoroso, la fattispecie[53].
Quanto all’interpretazione delle norme del Codice dei contratti pubblici rilevanti nella vicenda de qua(nella versione applicabile ratione temporis), la sentenza in commento richiama la tesi restrittiva, a tenore della quale si enfatizza l’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (precedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019), nella parte in cui prevede l’operatività della causa di esclusione non solo nei confronti delle imprese in stato di fallimento, di liquidazione coatta o di concordato preventivo, ma anche rispetto agli operatori “nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”. Da tale ragionamento dovrebbe, quindi, conseguire che l’unica espressa eccezione a tale regime debba individuarsi solo nei confronti degli operatori già ammessi al concordato con continuità aziendale, anche ai sensi di quanto sancito dal previgente art. 110, co. 3.
Tuttavia, i Giudici amministrativi sostengono che tali rilievi ermeneutici mal si conciliano con la disciplina concordataria, in quanto una così ampia preclusione alla partecipazione alle gare[54]comporterebbe un’indebita limitazione dell’ambito di operatività dell’art. l’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Quest’ultima disposizione, infatti, consente espressamente la partecipazione alle gare anche nell’intervallo di tempo che intercorre tra il deposito della domanda ed il decreto di apertura della procedura, in presenza dell’autorizzazione giudiziale, acquisito il parere del commissario, se nominato[55].
Ciò posto, la sentenza in commento valorizza, invece, la portata applicativa della recente normativa del Codice dei contratti, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute in occasione dell’adozione del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
In primo luogo, dall’analisi testuale degli artt. 80, co. 5, lett. b) e 110, co. 4, modificati dal d.l. n. 32/2019, si evince expressis verbis che anche le ipotesi del concordato in bianco debbono essere disciplinate dall’art. 186 bis l. fall.
Inoltre, particolarmente rilevante si profila la posizione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione in subiecta materia, laddove precisa che l’istituto del concordato preventivo in bianco non rappresenta una procedura autonoma rispetto alla fattispecie del concordato ordinario ex art. 161 l. fall., dovendosi invece qualificare alla stregua di una delle fasi interne del medesimo[56].
Poste tali premesse, la sentenza in commento fornisce risposta al primo quesito, precisando che la proposizione di una domanda di concordato in “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non configura una causa di automatica esclusione dalle procedure di gara e, per l’effetto, essa non appare idonea, in via generale ed astratta, a precluderne la partecipazione.
A suffragio di tale impostazione, si richiama la ratio dell’istituto del concordato “in bianco”, da individuarsi nella esigenza (predicata, come anticipato, anche a livello transnazionale) di fornire all’impresa una maggiore tutela mediante l’anticipazione degli effetti “conservativi”, specie ove il debitore decida poi di accedere al concordato con continuità aziendale. Circostanza rinvenibile anche nella relazione ministeriale all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ove si enfatizza la stretta correlazione esistente tra l’istituto del concordato con riserva e le attività in grado di rafforzare gli obiettivi di prosecuzione della vita aziendale, tra le quali si annovera la partecipazione alle gare per l’aggiudicazione di commesse pubbliche[57].
Inoltre, il Supremo Collegio precisa che la riferita impostazione ermeneutica discende, in particolare, dall’art. 110, co. 4, d.lgs. n. 50/2016 e dall’art. 186 bis, co. 4, l. fall., il quale impone alle imprese che hanno presentato domanda ex art. 161 l. fall. di dotarsi di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare. I Giudici aggiungono, al riguardo, che l’impresa deve richiedere detto provvedimento senza indugio, nel rispetto dei principi della buona fede oggettiva. Del pari, anche la circostanza relativa alla presentazione dell’istanza ex art. 161, co. 6, l. fall., deve essere prontamente comunicata alla Stazione appaltante che, in caso di condotte reticenti, è tenuta ad effettuare una valutazione delle relative conseguenze ai sensi dell’art. 80, co. 5. lett. c - bis, non già della lett. f -bis[58].
Ciò chiarito, la seconda questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria riguarda, invece, la qualificazione della partecipazione di un’impresa alle procedure di gara per l’aggiudicazione degli appalti pubblici in termini di ordinaria ovvero di straordinaria attività.
Si precisa che l’interrogativo non necessiterebbe di ulteriori chiarimenti, tenuto conto del fatto che è in ogni caso richiesto l’intervento dell’autorizzazione giudiziale, di cui all’art. 186-bis, co. 4, l. fall., ciò anche a prescindere dal carattere ordinario o straordinario attribuibile all’attività in questione.
Peraltro, ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie nell’una o nell’altra categoria, i Giudici amministrativi sostengono che occorre valutare gli elementi del caso concreto, non essendo possibile pervenire, in termini astratti, ad una definizione aprioristica.
Il terzo quesito di diritto concerne, invece, l’individuazione del termine entro il quale deve intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della legittima partecipazione alla procedura di evidenza pubblica.
Il Collegio sostiene che non occorre fare riferimento all’autorizzazione ex art. 163, l. fall., per la quale la prassi richiede tempi incompatibili con l’esigenza di celerità nella definizione delle procedure di gara; dovendosi, al contrario, tenere in considerazione l’autorizzazione alla partecipazione alle gare di cui all’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Conclusione, quest’ultima, che si ricava direttamente dalla riferita disposizione, tenuto conto che il legislatore qualifica il provvedimento giudiziale de quo come una condizione necessaria e sufficiente per la partecipazione delle imprese alle gare, dovendo intervenire prima dell’adozione da parte della P.A. dell’atto di aggiudicazione, quale momento conclusivo della fase dell’evidenza pubblica[59].
Si evidenzia, inoltre, che la tardiva autorizzazione rappresenta una circostanza valutabile discrezionalmente dalla Stazione appaltante in base alle peculiarità del caso di specie (in termini di efficacia integrativa) sempreché essa intervenga prima della stipula del contratto oggetto dell’affidamento pubblico. Nel caso di specie, quindi, si devolve alla Sezione remittente la valutazione delle conseguenze derivanti dal ritardo nell’acquisizione dell’autorizzazione da parte dell’impresa concorrente.
In via generale, i Giudici amministrativi sanciscono, poi, che nell’ipotesi in cui il tribunale non dovesse ammettere l’impresa istante alla procedura concordataria debbono applicarsi le norme relative ai casi di sopravvenienza del fallimento, ai sensi degli artt. 110 e 48 del Codice dei contratti pubblici.
Infine, viene in rilievo il quesito relativo all’interpretazione dell’art. 48, commi 17, 18 e 19 ter d.lgs. n. 50 del 2016, dovendosi chiarire se debbano essere interpretati nel senso di consentire la sostituzione, nel corso di una gara, di un’impresa mandante coinvolta nella procedura ex art. 161, co. 6, l. fall., con altro operatore estraneo alla procedura competitiva ovvero se, diversamente, occorra procedersi alla estromissione della mandante stessa[60].
Sul punto, il Collegio richiama l’art. 48, co. 19 ter, che estende l’operatività anche alla fase della gara delle modifiche soggettive di cui ai commi 17 e 18, che, invece, consentivano di derogare al principio della immodificabilità della composizione soggettiva di un RTI solo nella fase dell’esecuzione.
Al fine di individuare la portata applicativa di tale deroga, si è richiamata l’interpretazione “funzionale” offerta dalla stessa Adunanza Plenaria (anteriormente all’entrata in vigore del presente codice) in relazione al principio della immodificabilità della composizione soggettiva, consentendosi alle imprese di operare modifiche soggettive solo in riduzione, non anche mediante l’aggiunta di operatori esterni al raggruppamento.
I Giudici procedono poi a rilevare come, nel diritto dell’Unione europea, la stessa attività di “sostituzione” ovvero di aggiunta di nuovi operatori nell’ambito dei raggruppamenti rappresentano delle ipotesi ritenute in grado di ledere i principi di parità di trattamento e di trasparenza, essendo quindi previste solo in fase di esecuzione del contratto e con riferimento a “modifiche strutturali dovute, ad esempio, a riorganizzazioni puramente interne, incorporazioni, fusioni ed acquisizioni oppure insolvenza”[61].
Sulla base di tali rilievi, l’Adunanza Plenaria ha quindi concluso nel senso di ritenere che l’art. 48, specie il comma 19 ter, d.lgs. n. 50 del 2016, debba essere interpretato in modo conforme ai principi dell’Unione europea di parità di trattamento e di concorrenza, dovendosi escludere “la sostituzione esterna per la figura della mandante, come anche logicamente per quella della mandataria”. Di contro, potrebbero ammettersi esclusivamente le modifiche soggettive del RTI “c.d. per sottrazione ovvero per riduzione”.
9. Osservazioni conclusive
Come evidenziato nel corso dei precedenti paragrafi, l’Adunanza Plenaria è intervenuta a dirimere definitivamente il contrasto sorto in relazione agli effetti derivanti dalla presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., nell’ambito di una procedura di gara[62].
L’opzione ermeneutica propugnata dal Collegio si inserisce in un momento cruciale del diritto fallimentare, collocandosi a ridosso dell’entrata in vigore della riforma del diritto concorsuale italiano, come visto, caratterizzata da una radicale modifica della concezione della figura del “decoctor” nell’impianto codicistico[63].
Già nel corso del dibattito formatosi in occasione dell’adozione della nuova Riforma, sono stati gli stessi studiosi della materia concorsuale a rilevare l’inadeguatezza ed inefficienza della concezione “sanzionatoria” del fallimento, quale strumento finalizzato ad estromettere dal mercato le imprese inefficienti mediante un procedimento liquidatorio inteso in senso darwiniano[64]. All’uopo, si è, infatti, ritenuto preferibile individuare strumenti alternativi, in grado di consentire il superamento della crisi delle imprese nell’ottica della conservazione dei valori aziendali e della prosecuzione dell’attività imprenditoriale, facilitando il cosiddetto fresch start.
Nel solco di tali rilievi e superando le aporie interpretative sorte sull’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, il Supremo Collegio ha chiarito che la presentazione di una domanda di concordato “in bianco” non debba costituire una causa di automatica esclusione dell’impresa dalle procedure di evidenza pubblica per perdita dei requisiti di partecipazione, in tal modo rievocando quanto propugnato dai sostenitori della tesi cosiddetta “estensiva”. In particolare, ciò si è ricavato dalla circostanza che nemmeno la normativa dell’Unione europea impone un obbligo per gli Stati membri di adottare un criterio di automatica esclusione degli operatori coinvolti nelle procedure concorsuali, al contrario riconoscendo la facoltà di adottare anche soluzioni di minor rigore.
A sostegno delle riferite conclusioni, i Giudici hanno richiamato la formulazione del combinato disposto degli artt. 80, co. 5, lett. b) cit., 110, co. 4, così come modificati dal d.l. n. 32 del 2019, dai quali emerge che le ipotesi di concordato “in bianco” debbono essere disciplinate dall’art. 186 – bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, essendo quindi richiesto l’intervento di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare[65].
Condivisibilmente la pronuncia in esame individua in detto provvedimento lo strumento atto a garantire una equilibrata composizione sia degli interessi alla certezza e celerità nella definizione delle procedure di gara sia della esigenza dell’imprenditore di continuare, ove possibile, l’attività aziendale con l’aggiudicazione di commesse pubbliche. Altresì, viene precisato come detta autorizzazione debba intervenire in un momento anteriore all’emanazione del provvedimento di aggiudicazione, senza che risulti necessaria, in questa fase, l’ammissione alla continuità aziendale. Sembrerebbe, inoltre, potersi desumere che il termine previsto per l’intervento dell’autorizzazione ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., non abbia una portata inderogabile ed assoluta, essendo riconosciuto, nel singolo caso concreto, un margine di discrezionalità in capo alla P.A. quanto all’eventuale efficacia integrativa o sanante da attribuire all’autorizzazione tardivamente intercorsa.
Di talché, gli approdi cui è giunta l’Adunanza Plenaria, con ben tre pronunce rese nella medesima data sul tema delle procedure concorsuali[66], sembra prefigurare l’avvio di un modello di indagine interpretativo orientato verso una concezione dinamica dei criteri di solvibilità delle imprese. Ciò prima facie testimonia come il giudice nazionale, valorizzando il principio del favor partecipationis alla luce degli interventi normativi più recenti, abbia attinto da fonti ispirate a tecniche di controllo e garanzia delle procedure di evidenza pubblica che non si traducano in automatismi preclusivi alla partecipazione degli operatori economici.
[1] Per approfondimenti in tema di cause di esclusione, cfr. R. Greco, L’evoluzione normativa delle “cause di esclusione”, in Trattato sui contratti pubblici, vol. II, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, 2019, 756 ss.
[2] Cfr. anche Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 10; nonché, nella medesima data, Ad. Plen. n. 11.
[3] A fronte dei quattro profili di censure dedotti dalla società ricorrente, il Tar Emilia Romagna, Bologna, con sentenza n. 76/2020, riteneva fondati i primi due motivi ed assorbiva i restanti.
[4] Cfr. A. Petteruti, Presupposti per l’ammissione alla procedura, in Il nuovo concordato preventivo, a cura di A. Caiafa, A. Salvi, Pisa, 2016, 17 ss.
[5] Accanto all’istituto del fallimento, e con l’intento di ridurne laddove possibile l’applicazione, la legge del 1942 inseriva anche ulteriori procedure: la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione controllata ed il concordato preventivo.
[6] Per i profili storici, cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017, 37 ss.; N. Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commercialità”, Milano, 2012, 9 ss,; G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013, 27 ss.; U. Santarelli, per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1965; C. Pecorella, U. Gualazzini, VOCE Fallimento (storia), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 220 ss.; G.B. Portale, Dalla pietra del vituperio alle nuove concezioni del fallimento, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Marzio, P. Macario, Milano, 2010, 3 ss.
[7] Cfr., R. Rossi, Insolvenza, crisi d’impresa e risanamento. Caratteri sistematici e funzionali del presupposto oggettivo dell’amministrazione straordinaria, Milano, 2003, 34 ss.; A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, Vol. 21, fasc. 3, 512 ss.
[8] Cfr., A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2021, 27 ss.
[9] Cfr., F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 38 ss.
[10] In particolare, ci si riferisce alla introduzione di talune modifiche alla disciplina dell’amministrazione controllata, la cui durata veniva estesa; nonché alla previsione di una nuova procedura concorsuale, denominata amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito dalla l. 3 aprile 1979, n. 95 e successive modifiche).
[11] Cfr., G. Ferri, L’impresa, oggi, in Mass. Giur. lav., 1978, 428 ss.; C. Angelici, Diritto commerciale, I, Bari, 2009, 11 ss.; F. Corsi, Crisi, insolvenza, reversibilità, temporanea difficoltà, risanamento: un nodo irrisolto?, in Fallimento, 2000, 948 ss.; S. Pacchi Pesucci, Dalla meritevolezza dell’imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale, Milano, 1989, 40, 202 ss.; V. Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, Napoli, 2006, 52, 257; T. Ascarelli, Il dialogo dell’impresa e della società nella dottrina italiana dopo la nuova codificazione, in Riv. soc., 1959, 409 ss.; F. Galgano, Le teorie dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, II, Padova, 1978, 1 ss.
[12] Cfr., F. D’Alessandro, la crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, 329 ss.; G.B. Portale, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive (con postille sulla disciplina della società di capitali), in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, 368 ss.; A. Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur. comm., 1980, I, 559 ss.; L. Farenga, La riforma del diritto fallimentare in Italia: una nuova visione del mercato, in Riv. dir. comm., 2008, I, 251 SS.; M. Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio, F. Macario, Milano, 2010, 359 ss.
[13] Con tale intervento, quindi, emerge uno spostamento dell’angolo prospettico dalla figura personale dell’imprenditore a quella dell’impresa, come valore meritevole di tutela nell’ottica del miglioramento del comparto economico di riferimento e, quindi, della concorrenza del mercato inteso in senso più ampio.
[14] Per approfondimenti sul tema, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 388 ss.
[15] Tale disposizione, in particolare, prevede che il debitore deve dare atto, nel piano concordatario, della prosecuzione dell’attività di impresa ovvero, in alternativa, deve prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda.
[16] In tema, taluni autori osservano come tale obiettivo risulti valorizzato mediante una disciplina incentivante, ai sensi degli artt. 182 – quinquies e 186 – bis l. fall., nonché dalla previsione di cui all’art. 182 – sexies l. fall., ove si prevede la disapplicazione degli artt. 2446, co. 2 e 3, 2447, 2482 – bis, co. 4, 5, 6, 2482 – ter, 2484, n. 4) e 2545 – duodecies, c.c., sulla riduzione o perdita del capitale. In tema, vedasi, in particolare: F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 49; C. Cavallini, Dalla crisi alla conservazione dell’impresa nelle ultime riforme fallimentari: uno sguardo d’insieme tra novità della legge e statuizioni della Suprema Corte, in Riv. soc., 2013, 762 ss.; C. Cincotti, F. Nieddu Arrica, La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, I, 1238 ss.; S. Ambrosini, I finanziamenti bancari alle imprese in crisi dopo la riforma del 2012, in Dir. fall., 2012, I, 469 ss.
[17] Significative, al riguardo, le modifiche all’art. 161, co. 6, l. fall., ove è prevista l’indicazione dell’elenco nominativo dei creditori e dei relativi crediti nella proposta presentata dal debitore; nonché all’art. 161, co. 7, l. fall., in tema di parere del commissario sugli atti urgenti di straordinaria amministrazione.
[18] Per approfondimenti, cfr. P. Montalenti, Il diritto concorsuale tra passato e futuro, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2018, 11 ss.; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Tratt. dir. comm., diretto da G. Cottino, Padova, 2008; V. Calandra Buonaura, Concordato preventivo, in Enc. dir. – Annali, vol. II, tomo II, Milano, 2008; A. Jorio, La parabola del concordato preventivo: dieci anni di riforme e controriforme, in Giur. comm., 2016, I, 15 ss.; D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, II, 331ss.; S. Fortunato, Il commissario giudiziale nel concordato con riserva, in Giur. comm., 2015, I, 995 ss.; P.F. Censoni, Gli effetti sostanziali del concordato preventivo dopo la riforma del diritto fallimentare, in Giur. comm., vol. 33, fasc. 5, 2006, I, 765 ss.; G. Fauceglia, Disciplina concorsuale e art. 110 Codice degli appalti pubblici, in Dir. fall., 2017, I, 463 ss.
[19] Per approfondimenti sugli interessi che vengono in rilievo, cfr. V. Finch, The Measures of Insolvency Law, in 17 Oxford J. Leg. St., 1997, 227 ss.; R. Goode, Principles of Corporate Insolvency Law, IV ed., London, 2011, 75 ss.; E. Warren, J.L. Westbrook, Contracting Out of Bankruptcy: An Empirical Intervention, in 118 Harv. L. Rev., 2005, 1197 ss.
[20] Cfr., ex plurimis, G.G. Triantis, Theory of the Regulation of Debtor-in-Possession Financing, in 46 Vand. L. Rev., 1993. Nella letteratura italiana, cfr. F. Accettella, I finanziamenti alle imprese in regime di (pre)concordato dopo la legge n. 132/2015, in Dir. fall., 2016, I, 50 ss.
[21] Quanto alla evoluzione normativa in Francia, vengono in rilievo, in particolare, la l. n. 85-98 del 25 gennaio 1985, sulle procedure di redressement e liquidation judiciaires des entreprises; la l. n. 84-148 del 1 marzo 1984, sulle procedure di alert e prevenzione dell’insolvenza; la l. n. 2005-845 del 26 luglio 2005; il décret del 28 dicembre 2005; nonché le modifiche apportate dalla ordonnance n. 2008-1345, dalla l. n. 2012-346 del 12 marzo 2012 e dalla l. n. 2015-990 del 6 agosto 2015.
[22] In tema, cfr. C. Sant-Alary-Houin, Droit des entreprises en difficulté, 10 ed., Issy-lesMoulineaux Cedex, 2016, 15 ss.; F. Pérochon, R. Bonhomme, Entreprises en difficulté. Instruments de crédit et de paiement, 8 ed., Paris, 2009, 1 ss., A. Jorio, Legislazione francese, Raccomandazione della Commissione europea, e alcune riflessioni sul diritto interno, in Fallimento, 2015, 1070 ss.; L. Panzani, L’insolvenza in Europa: sguardo d’insieme, in Fallimento, 2015, 1013 ss.; M.-J. Campana, La prevenzione della crisi delle imprese. L’esperienza francese, in La legislazione concorsuale in Europa. Esperienze a confronto, a cura di S. Bonfatti, G. Falcone, Milano, 2004, 233 ss.
[23] Cfr. W. Uhlenbruck, Vom Konkurs zum ESUG – Betriebsfortführung als Sanierungsentscheidung, in Betriebsfortührung in Restrukturierung und Insolvenz, Hrsg. Mönning, 3. Aufl., Köln, 2016, 3 ss., 9 ss. Rn. 9 ss., 24 Rn. 46; S. Eickes, Zum Grundsatz des Unternehmensfortführung in der Insolvenz, Wiesbaden, 2014, 1 ss., 62; H. EidenmÜller, Die Restrukturierungsempfehlung der EU-Kommission und das deutsche Restrukturierungsrecht, in KTS, 2014, 401 ss., 416 ss. Nella letteratura italiana, vedasi, tra gli altri, L. Guglielmucci, La legge tedesca sull’insolvenza (Insolvenzordnung) del 5 ottobre 1994, Milano, 2000.
[24] Per approfondimenti sul punto, cfr. K. Schmidt, in Die GmbH in Krise, Sanierung und Insolvenz, Hrsg. K. Schmidt, W. Uhlenbruck, 4. Aufl., Köln, 2009, 421 Rn. 5.32, 427 s. Rn. 5.41.
[25] Cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Saggi di diritto commerciale, Milano, 2017, 36 ss.; A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 36 ss.
[26] Per approfondimenti, cfr. R. Greco, Requisiti di ordine generale, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 756 ss.; S.S. Scoca, Contratti pubblici: l’effettività della tutela tra formalismo e sostanzialismo, un Giur. it., 2015, n. 3, 699 ss.; F. Pignatiello, Le novità in tema di cause di esclusione, in Il correttivo al codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d.lgs. 19 aprile 2017 n. 56, a cura di M.A. Sandulli, M. Lipari e F. Cardarelli, Milano, 2017, 2017 ss.; D. Villa, La selezione degli offerenti, in Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, diretto da F. Caringella, P. Mantini e M. Giustiniani, Roma, 2016, 273 ss.; C.E. Gallo, Le prescrizioni a pena di esclusione alla luce dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, in Foro amm.-Cds, 2011, n. 12, 3733 ss.; S. Foà, Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, inUrb. App., 2014, n. 11, 1147; V. Capuzza, I requisiti di ordine generale (Commento all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006), in Codice commentato degli appalti pubblici, a cura di A. Cancrini, C. Franchini e S. Vinti, Torino, 2014, 236; G. PESCE, Requisiti di partecipazione, accesso alle gare pubbliche e riflessi sulla tutela della concorrenza tra le imprese (artt. 34 – 52), in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di M. Clarich, Torino, 2010, 300 ss.
[27] Tra gli interventi più significativi si possono citare il d.l. n. 70 del 2011, nonché il d.l. 24 giugno del 2014, n. 90, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 114.
[28] Si evidenzia che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore della nuova formulazione della disposizione dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022. Conseguentemente, il nuovo testo dell’art. 80, co. 5, lett. b), reciterà: “l’operatore economico sia stato sottoposto a liquidazione giudiziale o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto dall’art. 95 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155 e dall’art. 110”.
[29] Cfr. V. Di Iorio, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 823 ss.
[30] In dottrina, per approfondimenti, v. F. Aperio Bella, Requisiti di ordine generale, in Manuale di diritto amministrativo, IV, I contratti pubblici, a cura di F. Caringella e M. Giustiniani, Roma, 2014, par. 2 (Fallimento e procedure concorsuali), 507 ss.; G. Bergonzini, I requisiti di partecipazione agli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di R. Villata, M. Bertolissi, V. Domenichelli e G. Sala, Padova, 2014, 310; S. Ambrosini, La sorte dei contratti in corso di esecuzione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, a cura di F. Vassalli, F.P. Luiso e E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, 2014, 123 ss.
[31] Ai sensi del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 del nuovo testo dell’art. 110, co. 4, Codice dei Contratti pubblici, che avrà il seguente tenore: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 40 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, si applica l’art. 95 del medesimo codice. Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[32] In tema, cfr. R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, n. 4.
[33] Cfr., V. DI IORIO, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, Milano, 2019, 829 ss.
[34] Per alcune osservazioni critiche circa la parziale attuazione della “logica unificatrice” che connotata la riforma, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 65 ss.
[35] Cfr. V. Calandra Buonaura, Il nuovo concordato preventivo, in La riforma delle procedure concorsuali, in ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2021, 171 ss., ove è evidenziato come l’innovato impianto normativo risulti finalizzato a valorizzare “l’oggettiva conservazione dell’efficienza dell’organismo produttivo a prescindere dal mantenimento della gestione e della titolarità dell’azienda in capo al debitore”.
[36] Cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 404.
[37] L’art. 44, co. 1, lett. a), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, prevede un termine compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, fino a ulteriori sessanta giorni.
[38] Come anticipato nel precedente paragrafo, le nuove formulazioni di tali norme entreranno in vigore a partire dal 16 maggio 2022, non già dal 1 settembre 2021, per effetto della proroga introdotta dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (con l’art. 389, co. 1), come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147.
[39] Tale disposizione prevede, al secondo periodo, che: “Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[40] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984; Tar Piemonte, Torino, Sez. II, 7 marzo 2019, n. 260; Tar Lazio, Roma, sez. II – ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[41] I sostenitori della tesi restrittiva richiamano anche i rilievi effettuati dalla Corte di Giustizia sull’interpretazione dell’art. 45, par. 2, c. 1, lett. b), Direttiva 2004/18/CE.
[42] Tale orientamento richiedeva, in particolare, la intervenuta ammissione giudiziale alla procedura del concordato con continuità aziendale, non ritenendo sufficiente la semplice proposizione della domanda da parte dell’operatore economico.
[43] Ai sensi dell’art. 110, co. 4, primo periodo, è sancito che: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 161, anche ai sensi del sesto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, si applica l’art. 186 – bis del predetto regio decreto.
[44] Cfr., ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. II ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[45] Per approfondimenti giurisprudenziali sulla tesi estensiva, cfr., ex multis, Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328; Cons. St., Sez. III, 20 marzo 2018, n. 1772; Tar Lazio, Sez. III quater, 19 settembre 2019, n. 11143; Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 30 dicembre 2015, n. 2877; Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 426, in dejure.it.
[46] Ci si riferisce, in particolare, alla formulazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019, che ha espunto il previgente riferimento all’ipotesi del “concordato con continuità aziendale.
[47] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 835 ss.
[48] Per approfondimenti sulla tesi estensiva, cfr. S. Francario, Autorizzazione alla continuità aziendale sopravvenuta in corso di gara, in l’Amministrativista.it, 26 febbraio 2021.
[49] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 2963.
[50] Cfr. Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328.
[51] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 11.
[52] Cfr., tra gli altri, l’art. 15 della l. 57/1962.
[53] Cfr., tra le altre, Direttiva 71/305/CEE del Consiglio del 26 luglio 1971, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici; nonché, più di recente, la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento e del Consiglio del 26 febbraio 2014, che abroga la direttiva 2004/18/CE.
[54] Laddove la preclusione debba riferirsi sia alle imprese coinvolte nella procedura di concordato in bianco sia a quelle in attesa dell’ammissione al concordato preventivo ex art. 161, l. fall.
[55] Cfr. Determinazione Anac n. 5 del 8 aprile 2015, ai sensi della quale l’utilizzo, da parte del legislatore, della forma ipotetica “se nominato” nell’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., risulterebbe esemplificativo della riferibilità della norma anche alle ipotesi del concordato c.d. in bianco, giacché il concordato preventivo ordinario richiede necessariamente la nomina del commissario giudiziale.
[56] Cfr. Cass., Sez. I, n. 14713/2019; Cass., Sez. I, n. 7117/2020.
[57] La relazione illustrativa all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sottolinea l’importanza di adottare un criterio interpretativo del concordato in bianco che si ponga in linea con la ratio dell’istituto, consentendo la partecipazione alle procedure di affidamento alle imprese istanti. In tal senso, si è precisato che:“ Lo scopo è quello di evitare che paradossalmente, tale domanda, da strumento di tutela per l’imprenditore, diventa un ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale”.
[58] Cfr. Ad. Plen., n. 16/2020.
[59] In tal senso, cfr. Cons. St., sez. V, n. 1328 del 2020; Delibera Anac n. 362 del 2020.
[60] Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 27 maggio 2021, n. 10.
[61] Cfr. Art. 72, Considerando n. 110, Direttiva n. 24/2014/UE.
[62] Per approfondimenti, cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, Milano, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 834 ss.
[63] Per quel che interessa ai fini della presente trattazione, occorre dare atto di quanto sancito dal D.Lgs. n. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147, ove all’art. 389, co. 1, ha recentemente previsto la proroga dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 dell’entrata in vigore delle norme contenute nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, specie con riferimento a quelle che incidono sulla portata applicativa degli artt. 48; 80, co. 5, lett. b); 110 D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
[64] Cfr. R. Rordordf, Le linee della riforma, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, Atti del convegno, Courmayeur, 23-24 settembre 2016, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Giuffrè, Milano, 2018, 177 ss.
[65] Quanto alle modifiche del D.lgs. n. 50/2016, cfr. le modifiche apportate dall’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
[66] Cfr. Ad. Plen. nn. 9, 10 e 11 del 27 maggio 2021.
Dilemmi vecchi e nuovi dell’espropriazione presso terzi, in cui sia parte un’amministrazione pubblica
di Pasquale Pucciariello*
Sommario: 1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione - 2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali - 3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo.
1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione
Con l’art. 1, comma 29 della legge 26 novembre 2021, n. 206 (recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”), il legislatore ha novellato l’art. 26-bis, comma 1, del codice di procedura civile prevedendo che le parole: «il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede» siano sostituite dalle seguenti: «il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
L’articolo 26-bis del c.p.c. – introdotto dall’art. 19, comma 1, lett. b), D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 – originariamente prevedeva che, «salvo quanto disposto dalle leggi speciali», fosse il luogo della residenza del terzo debitore (o domicilio, o dimora o sede) a determinare la competenza per l’espropriazione forzata di crediti “pubblici”[1]. Non è fuor di luogo ricordare che la dizione originaria dell’articolo 26-bis corrispondeva al criterio di competenza vigente per tutte le espropriazioni presso terzi, a mente dell’articolo 26 c.p.c. nel testo anteriore alla novella del 2014. A mente invece del secondo comma dell’art. 26-bis, la regola ordinaria per crediti non statali individua il criterio di collegamento nel luogo in cui il debitore ha la residenza (o domicilio, dimora o sede).
Un primo tema da indagare è quello della tenuta del coordinamento tra disposizioni.
L’articolo 26-bis c.p.c. si apriva (e si apre ancora) nel seguente modo: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’articolo 413, quinto comma”. Se i numeri ordinali non hanno subito una modifica legislativa (a noi ignota), il quinto comma dell’articolo 413 c.p.c. è quello che recita “Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto”. Dunque un rinvio a una norma che prescrive un altro criterio di competenza per crediti di lavoro[2] e che, lungi dall’individuare specifiche pubbliche amministrazioni, è talmente generico da rendere il rinvio stesso del tutto tautologico: esso letteralmente non può che riferirsi all’art. 1, comma 2 del d.lgs. 165/2001[3]. La Corte di Cassazione, dal suo canto, sembra aver avvalorato tale interpretazione con l’ordinanza 8172 del 4 aprile 2018, che è particolarmente importante in quanto ha altresì affermato che la salvezza delle leggi speciali, richiamata dall’articolo 26-bis c.p.c., deve intendersi riferita anche all’art. 1 bis della l. n. 720 del 1984 “nel senso che con esso si sia voluto far riferimento a detta previsione, sia in quanto individuatrice nel cassiere o tesoriere del soggetto (“debitor debitoris”) che deve pagare per conto delle P.A., cui detta norma si applica, sia in quanto individuatrice del luogo del pagamento in quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra P.A. ed il cassiere o tesoriere; sicché tale luogo si deve considerare in via esclusiva come il foro dell’espropriazione presso terzi di crediti a carico di tali pubbliche amministrazioni, restando esclusa, per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede.”. Dunque, nei fatti, la Corte di Cassazione con detta ordinanza ha individuato per le amministrazioni di cui alla suddetta legge (che non concerne il servizio di tesoreria svolto per conto dello Stato), un criterio di competenza strettamente legato alla competenza territoriale che discenda dal luogo di quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra la P.A. e il cassiere o tesoriere. Dal momento che regole non dissimili sul luogo del pagamento sussistono anche per le amministrazioni dello Stato il cui servizio di tesoreria è svolto istituzionalmente dalla Banca d’Italia, appare gioco forza che il medesimo principio non possa non trovare applicazione ai pagamenti a valere sul bilancio dello Stato[4].
La previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 26-bis nel testo anteriore alla novella del 2021, come interpretato dalla Suprema Corte, infatti, fa chiaramente il paio con le regole disciplinanti la competenza amministrativa per i pagamenti effettuati dalle tesorerie dello Stato, di cui al D.M. 29.5.2007, che disegna il sistema di Tesoreria attraverso l’articolazione di Tesorerie provinciali (art. 4), le quali hanno il compito tra l’altro della “e) effettuazione, sulla base dei titoli di spesa pervenuti dagli uffici competenti, dei pagamenti a carico del bilancio dello Stato” nonché di “o) ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato”.
Le regole relative al luogo dell’adempimento, infatti, laddove debitrice sia l’amministrazione dello Stato sono il frutto di una combinazione di disposizioni: in primis, l’art. 54 del r.d. 2440/1923, il quale dispone che “Il pagamento delle spese dello Stato si effettua, secondo le disposizioni di cui ai successivi articoli: a) con assegni a favore dei creditori, tratti sull’istituto bancario incaricato del servizio di tesoreria;”; poi sulla base dell’art. 278, co. 1 lett. d) del r.d. 827/1924, il quale dispone che il pagamento delle spese iscritte in bilancio viene ordinato “mediante ordinativi sulle tesorerie dello Stato”. Il luogo dell’adempimento è dunque quello della tesoreria della circoscrizione in cui è compresa la residenza del creditore e questo è già sufficiente, giusta la clausola di salvezza delle leggi speciali contenuta nell’articolo 26-bis, a costituire criterio di collegamento che determina la competenza giurisdizionale nel Tribunale del luogo ove ha sede la tesoreria competente (che è poi quella competente in relazione alla residenza del creditore).
Sennonché l’accentramento con funzioni di controllo della spesa pubblica del servizio di tesoreria dello Stato[5] e, contestualmente, l’intento di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione, sotto l’apparente veste di un innocuo recepimento dei risultati interpretativi della Corte di Cassazione, in realtà finisce per scardinare i punti fermi che sembravano essere raggiunti.
Infatti, per un verso il riferimento al Tribunale del distretto di Corte di appello ove ha la sede l’Avvocatura dello Stato fa sorgere il dubbio che il criterio di competenza sia da riferirsi alle sole esecuzioni contro amministrazioni dello Stato: il dubbio si giustifica con il fatto che, diversamente opinando, apparirebbe ben poco razionale che il Tribunale competente per l’esecuzione contro un’amministrazione che non si avvale del patrocinio erariale venga individuato con riferimento alla sede dell’Avvocatura dello Stato[6]; per altro verso, in ogni caso viene meno – almeno per le espropriazioni presso terzi – il disegno originario del legislatore (descritto sin dall’art. 7 del r.d. 1611/1933) in cui si prevedeva che le cause di esecuzione forzata non fossero assoggettate al c.d. foro erariale, cioè quel foro individuato in base al distretto di Corte d’appello, sede di Avvocatura, cui apparteneva il Tribunale competente per la causa secondo le regole ordinarie (art. 25 c.p.c.).
Ma anche a voler ritenere che la disposizione sia rivolta solo alle amministrazioni dello Stato, ci si avvede che lo scopo di concentrazione e semplificazione è più apparente che reale. Infatti, mentre il sistema originario dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. prevedeva quale criterio di competenza per i debiti pubblici la residenza del terzo e quindi sembrava semplificare gli oneri incombenti su quest’ultimo (che non doveva essere gravato, non essendo egli parte del processo), con il nuovo testo dell’art. 26-bis il fatto che l’amministrazione sia debitrice diventa – bensì – criterio di collegamento di una specifica regola attributiva di competenza, ma, senza una ragionevole spiegazione, le esigenze di concentrazione che stanno alla base della regola del foro erariale cessano di avere rilievo allorché l’amministrazione sia soltanto terza. Pare quindi che il debitore esecutato sia trattato con maggior favore del debitor debitoris, pur essendo quest’ultimo estraneo alla lite: quando il terzo è un’amministrazione si applica il secondo comma dell’art. 26-bis c.p.c. che individua il criterio di collegamento nella residenza del debitore.
Inoltre, se si adotta un’interpretazione “ibrida” che faccia salvo il riferimento all’art. 413, comma 5, c.p.c. (inteso come riferito a tutte le amministrazioni pubbliche) allora tale foro erariale esecutivo troverebbe applicazione anche per amministrazioni, difese dall’Avvocatura dello Stato, ma in forza del c.d. regime dell’autorizzazione di cui all’art. 43 del r.d. 1611/1933[7], cui – notoriamente – non si applicano tutta una serie di disposizioni (tra cui il foro erariale per le cause di cognizione) proprie del c.d. patrocinio organico[8]. Con l’ulteriore paradosso per cui tale foro si applica in sede esecutiva, ma non in sede di cognizione.
La disciplina quindi sembra abbastanza confusa e il sistema che ne è venuto fuori è tutt’altro che chiaro: anzi palesa non pochi elementi di stridore con il fondamento costituzionale dei criteri di competenza, i quali dovrebbero essere espressione di un giudice “naturale” ai sensi dell’art. 25 Cost. Il tutto condito dalla costruzione di un doppio regime della individuazione del giudice competente per le esecuzioni nei confronti delle Amministrazioni dello Stato: quello delle esecuzioni mobiliari e immobiliari – che seguono le regole ordinarie di competenza (e dunque l’art. 26 c.p.c.) – e quello dell’espropriazione presso terzi (ma solo se la P.A. è debitrice e non anche se è terza), che segue le regole dell’art. 26-bis, comma 1, ossia la residenza del creditore.
2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali
Il criterio di competenza individuato sul domicilio del creditore, peraltro, crea non pochi problemi in relazione all’operatività del riparto di competenze interno al servizio di tesoreria svolto dalla Banca d’Italia.
La portata del problema si coglie se si pone attenzione alle modalità di funzionamento del servizio di tesoreria. Per quanto riguarda il servizio di tesoreria dello Stato, affidato alla Banca d’Italia che lo esercita tramite la Tesoreria centrale e le Tesorerie provinciali ai sensi della legge di affidamento n. 104/91 e delle relative convenzioni stipulate con il Ministero dell’economia e delle finanze, il d.m. 29 maggio 2007, emesso dal Ministero dell’economia e delle finanze, nella versione attualmente vigente prevede che: a) spetta alla tesoreria provinciale il “ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato e trasmissione di tali atti, a seconda dei casi, in originale o in copia, all'Avvocatura dello Stato o alle amministrazioni interessate;” (art. 4, co. 1, lett. p); b) che (art. 167, comma 1) “Ciascuna Tesoreria rende la dichiarazione di quantità con le modalità previste dal Codice di procedura civile esclusivamente con riguardo ai conti accesi presso la stessa, ai titoli di spesa e ai cespiti giacenti presso la medesima; c) (art. 167, co. 2) “La dichiarazione di terzo deve contenere tutte le indicazioni prescritte dall'articolo 547 del Codice di procedura civile, nonché l'esatta descrizione dei titoli di spesa o disponibilità di tesoreria colpite (specie, data, numero, creditore, importo, bilancio di esercizio, capitolo). Deve altresì specificare i pignoramenti ed i sequestri precedentemente eseguiti presso la medesima Tesoreria in danno del medesimo soggetto debitore”.
Allorché l’amministrazione sia debitrice esecutata, l’art. 165, co. 4, delle IST prevede che la Tesoreria vincola le eventuali disponibilità del debitore esecutato nella misura stabilita dalla legge e rende la conseguente dichiarazione di terzo. Ove non esistano ovvero siano insufficienti le disponibilità dell'Amministrazione centrale esecutata, la Tesoreria vincola le disponibilità eventualmente esistenti delle Amministrazioni periferiche da essa dipendenti. La regola di cui al sopra richiamato articolo 167, tuttavia, viene intesa come espressione del principio, costantemente applicato, in base al quale un pignoramento notificato a una Tesoreria non è ritenuto idoneo a far sorgere un obbligo di accantonamento in capo al restante sistema. Questa regola determina un primo rilevantissimo problema di conflitto tra principi: infatti, se lo Stato è persona giuridica unitaria, sia pur a “legittimazioni frazionate”, l’obbligo di pagamento del suo tesoriere (la Banca d’Italia, soggetto non meno unitario), sia che la PA sia debitrice o soltanto terza pignorata, viene frazionato in base alla disponibilità di tesoreria.
Il che – oltre ad apparire una regola decisamente anacronistica se si tiene conto delle potenzialità che la digitalizzazione delle operazioni contabili potrebbe apportare in termini di certezza e velocità – porta a interrogarsi su almeno due aspetti. Anzitutto, sulle conseguenze in tema di effetti sostanziali del pignoramento. Infatti, costituisce regola consolidata quella per cui l’obbligo di custodia da parte del terzo sorge con la notificazione del pignoramento e che gli atti di pagamento o dispositivi effettuati dopo del credito sono inefficaci a far data dalla notificazione dell’atto di pignoramento[9]. Ne consegue uno scollamento tra la realtà delle disponibilità complessive dell’amministrazione pignorata (direttamente dipendenti dalle disponibilità discendenti dal bilancio dello Stato), e le disponibilità di cassa della singola tesoreria che risiede nel luogo dove ha sede il Tribunale competente. Il problema che si manifesta inevitabilmente è dato dalla possibilità di insorgenza di pagamenti successivi, inopponibili al creditore procedente. Se, infatti, l’Amministrazione è debitrice esecutata, è chiaro che il criterio di competenza costituito dalla residenza del creditore (che radica anche la competenza della tesoreria per il pagamento) finisce per far operare il limite alla dichiarazione di quantità di cui al menzionato art. 167 IST, rendendo non peregrina l’eventualità che vi sia anche solo un pignoramento presso un altro tribunale, nei confronti della medesima amministrazione e afferente lo stesso capitolo di bilancio, che si conclude più rapidamente del precedente con un’ordinanza di assegnazione delle somme iscritte. Sotto altro profilo, la disposizione dell’articolo 26-bis impedisce di inseguire tutte le disponibilità sulle tesorerie dislocate sul territorio nazionale, dal momento che il criterio di competenza non è più la sede del terzo, ma il domicilio del creditore.
Dunque, mentre l’art. 167 IST è stato scritto allorché la competenza per il pignoramento presso terzi era data dal luogo di residenza del terzo, l’azione combinata della giurisprudenza e del legislatore che hanno spinto per l’individuazione del criterio del domicilio del creditore legato alla sezione di tesoreria (sfociata nella novella all’art. 26-bis), hanno finito per vincolare le possibilità di soddisfacimento del credito alle disponibilità non del bilancio dello Stato (e dunque del debitore esecutato) ma alle disponibilità della singola tesoreria. Con buona pace della disposizione dell’art. 2740 c.c., il quale prevede che la responsabilità è dell’intero patrimonio del debitore e non della “dotazione” della tesoreria che gestisce il singolo rapporto di credito.
Ulteriore aspetto che contribuisce a tratteggiare più vistosamente lo “gnommero” è costituito dalle vicende circolatorie del credito[10]. La cessione del credito, infatti, determina un mutamento soggettivo del rapporto, facendo sicuramente venir meno l’originario collegamento rispetto al quale si era determinata la tesoreria competente per il pagamento e quindi il luogo dell’adempimento.
Sembra legittimo chiedersi se il carattere esclusivo della competenza territoriale ex art. 26-bis possa determinare l’applicazione del foro legato alla tesoreria provinciale che ha preso in carico il rapporto originario. In linea generale, la giurisprudenza che si è occupata dei riflessi della cessione del credito sulla competenza territoriale ha affermato che la clausola attributiva della competenza territoriale esclusiva è opponibile dal debitore ceduto al cessionario del credito nascente dal contratto in cui detta clausola sia inserita, alla stregua di ogni altra eccezione opponibile all'originario creditore; essa pertanto prevarrebbe sul criterio di radicamento territoriale riferito al domicilio del cessionario quale luogo di adempimento dell'obbligazione pecuniaria[11]. Tuttavia, sul punto dovrebbe tenersi conto altresì di quanto previsto dall’articolo 1182, comma 3 del codice civile a mente del quale le obbligazioni liquide ed esigibili devono adempiersi al domicilio che ha il creditore alla scadenza[12], a meno di non ritenere che ci si trovi di fronte ad una competenza speciale stabilita dalla legge con conseguente applicazione del principio di diritto per cui il credito ceduto si trasferisce con tutte le sue caratteristiche, ivi compresa l'eventuale competenza speciale stabilita dalla legge per le controversie che lo abbiano ad oggetto (fattispecie decisa da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 1118 del 26/01/2012, concernente controversie in materia di lavoro, e seguita di recente da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15229 del 01/06/2021).
3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo
L’articolo 1, comma 32 della legge 26 novembre 2021, n. 206 ha altresì previsto che “il creditore, entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l'avviso notificato nel fascicolo dell'esecuzione. La mancata notifica dell'avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell'esecuzione determina l'inefficacia del pignoramento.
Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l'inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l'avviso. In ogni caso, ove la notifica dell'avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell'udienza indicata nell'atto di pignoramento”.
Il tutto al dichiarato fine di completare il disposto dell’art. 164-ter disp. att. c.p.c.[13] introducendo la sanzione del mancato adempimento dell’onere di iscrizione a ruolo e dunque altresì al fine di agevolare il terzo nello svincolarsi dall’obbligo di non disporre delle cose o delle somme di cui è debitore.
Tra i problemi che l’introduzione dell’onere di iscrizione a ruolo aveva suscitato si segnalava[14] il paradosso della necessità che il debitore esecutato il quale voglia proporre opposizione all’esecuzione debba prima curare l’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva (ai sensi dell’art. 159-ter disp. att. c.p.c., rimasto invariato), iscrizione che – comunque – resta soggetta all’ulteriore attività di integrazione documentale di cui è onerato il creditore procedente (art. 159-ter, disp. att. c.p.c., ultimo periodo), a pena di inefficacia. La conseguenza, come è stato da più parti rilevato, è che l’iscrizione a ruolo effettuata dal debitore per poter proporre opposizione ex art. 615, secondo comma, c.p.c., conduca alla pendenza di un’opposizione a un’esecuzione che, a sua volta, potrebbe comunque non esistere in quanto il creditore non completa la fattispecie di cui all’art. 159-ter disp. att. c.p.c.).
La disposizione introdotta dall’art. 1, comma 32 non si è curata di provare a razionalizzare il farraginoso meccanismo. E anzi, non si è nemmeno preoccupata di chiarire come operi la suddetta inefficacia: nulla viene detto sull’automatismo della stessa o sulla necessità di un provvedimento del giudice. Il tutto con buona pace delle intenzioni semplificatorie e di liberazione di debitore e terzo dagli obblighi discendenti dal pignoramento.
*Avvocato dello Stato.
[1] Il nuovo testo dell’articolo 26-bis c.p.c. così dispone: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall'articolo 413, quinto comma, per l'espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”.
[2] Facendo così sorgere il dubbio in qualcuno che si trattasse di un rinvio diretto a disciplinare la competenza per le esecuzioni aventi ad oggetto i crediti di lavoro: v. Passannante, in Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2018, sub art. 26-bis. L’opinione più diffusa pare, invece, nel senso che l’art. 26-bis intendesse riferirsi a tutte le ipotesi in cui sia debitrice esecutata una p.a., indipendentemente dalla natura del credito azionato: Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in www.judicium.it, 2015, p. 9; Tedoldi, Le novità in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014, in Corr. Giur., 2015, 3, 390 ss. Tale interpretazione, almeno sul piano letterale, appare condivisibile: infatti la disposizione dell’art. 26bis appare chiara nel richiamare le amministrazioni individuate dall’art. 413 comma 5 cpc e non il criterio di collegamento per individuare la competenza del giudice del lavoro.
[3] Il quale recita: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI.”. Dunque con chiaro riferimento alla nozione di amministrazione in senso formale ricomprendente sia amministrazioni statali che no.
[4] È quanto in sostanza ritenuto di recente da Trib. Roma, 18 marzo 2021, richiamata da Pacilli, La competenza per territorio nel pignoramento presso terzi quando il debitore esecutato sia un’amministrazione dello Stato, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2021, p. 1358 ss. e spec. nota 4.
[5] V. il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 19 agosto 2021, in G.U. Serie Generale n. 225 del 20-09-2021 che ha come presupposto il progetto di riforma organizzativa del servizio di tesoreria statale svolto dalla Banca d'Italia, avente l'obiettivo di creare un unico punto di interlocuzione con l'utenza istituzionale, migliorare l'efficienza dei processi e ridurre i rischi operativi, anche grazie all'accentramento delle competenze specialistiche.
[6] Cioè né in base a un criterio di collegamento con l’Amministrazione debitrice (si immagini un ente pubblico che ha sede in un comune, anche capoluogo di provincia, in cui non vi sia una Corte d’appello e, dunque, nemmeno un’Avvocatura distrettuale) né con il luogo in cui si trova il terzo tesoriere tenuto al pagamento (che non è più menzionato come criterio di collegamento), né con la sede dell’Amministrazione debitrice.
[7] È il caso delle Agenzie fiscali.
[8] Sulla natura e caratteristiche del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, v. Bruni, A. – Palatiello, G., La difesa dello Stato nel processo, Torino, 2011, passim.
[9] Cfr. in termini, Cass. 9.3.2011, n. 5529, a mente della quale “il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa, che si perfeziona non con la sola notificazione dell'atto introduttivo, ma con la dichiarazione del terzo circa l'entità del credito, con la sentenza di accertamento dell'obbligo del terzo di cui all'art. 549 cod. proc. civ..
Ne consegue che il credito pignorato può venire individuato e determinato nel suo preciso ammontare in data molto successiva a quella della notificazione dell'atto (Cass. civ. Sez. 3^, 9 dicembre 1992 n. 13021, Cass. civ. Sez. 3^, 27 gennaio 2009 n. 1949), senza che perciò lo si possa considerare sorto dopo il pignoramento, poichè l'indisponibilità delle somme dovute dal terzo pignorato al debitore e l'inefficacia dei fatti estintivi si producono fin dalla data della notificazione, ai sensi dell'art. 543 cod. proc. civ. (Cass. Civ. Sez. 3^, 18 gennaio 2000 n. 496; Cass. Civ. n. 1949/2009”
[10] Sul tema v. Capponi, Disorientamenti sul controllo preliminare della competenza nell’esecuzione forzata (in difesa dei giudici dell’esecuzione), in www.giustiziainsieme.it.
[11] Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 28490 del 29/11/2017, Rv. 647177 – 01; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 29261 del 28/12/2011, ma contra Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12396 del 24/06/2020 la quale afferma “In caso di cessione del contratto di concessione per effetto di alienazione di ramo d'azienda, la clausola derogatoria della competenza territoriale - che individua il foro esclusivamente competente nel luogo dove ha sede il concedente al momento dell'introduzione del giudizio - deve intendersi riferita alla diversa sede legale del contraente subentrato, trattandosi di rinvio mobile finalizzato alla conservazione dell'originario equilibrio negoziale”
[12] Con conseguente ulteriore distinzione tra cessione intervenuta prima o dopo la scadenza del debito. La disposizione è ritenuta applicabile dalla giurisprudenza anche in tema di cessione del credito: v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 2591 del 07/02/2006.
[13] Sulla cui introduzione v. Pilloni, l'iscrizione a ruolo nel processo esecutivo e l'inefficacia del pignoramento effettuato in violazione della relativa disciplina: le novità introdotte nel c.p.c. e nelle disposizioni di attuazione, in Nuove leggi civili commentate¸ 2015, 3, 481. Detta disposizione prevede che a seguito della mancata iscrizione a ruolo del pignoramento, che determina inefficacia del pignoramento, il creditore dia notizia al debitore del mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo, prevedendo altresì che gli obblighi di terzo e debitore cessano quando la nota non è stata depositata nei termini. Appare evidente, tuttavia, che tale disciplina onera debitore e terzo di verificare il rispetto del termine, se il creditore non provvede a darne notizia: e comunque nulla dice sulle modalità con cui dell’inefficacia si prenda atto.
[14] Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, VI ed., Torino, 2020 p. 227 ss.
Il principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a CdS Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione. – 3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo. – 4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento. – 5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito. – 6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria. – 7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito. – 8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
1. Il caso di specie.
Con l’ordinanza in commento[1] la Sezione Quarta del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza Plenaria la questione relativa al c.d. principio di consumazione del potere di impugnazione, domandandosi se esso trovi applicazione nel processo amministrativo e, nel caso, quale sia il suo perimetro applicativo.
Il caso di specie origina dalla reiterazione della notifica di un atto di appello da parte dell’amministrazione soccombente in primo grado[2]. Più precisamente, la sentenza di primo grado veniva impugnata con un primo atto di appello notificato (in data 23 dicembre 2020) ma mai depositato, a cui poi seguiva un secondo atto di appello notificato (in data 19 gennaio) e questa volta depositato (in data 29 gennaio 2021)[3].
L’appellato nelle sue difese eccepisce preliminarmente l’irricevibilità (o comunque l’improcedibilità) del proposto appello in considerazione dell’asserito tardivo deposito del ricorso. Secondo detta eccezione, ai fini della verifica della ritualità dell’impugnazione, sarebbe necessario mettere in relazione, ai sensi degli artt. 94 e 45 c.p.a., la prima notifica dell’atto di appello con il deposito presso la Segreteria del giudice adito, senza che possa in alcun modo riconoscersi effetto alla successiva e volontaria rinnovazione della notificazione effettuata dalla parte. In caso contrario, la ripetizione della notificazione – pur se avvenuta entro il termine previsto dalla legge per proporre l’appello – avrebbe l’unico scopo di eludere il termine perentorio previsto per il deposito, il quale non potrebbe che decorrere dalla prima notificazione andata a buon fine.
Secondo l’impostazione dell’appellato una siffatta interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di consumazione del potere di impugnazione, applicato sia dalla giurisprudenza civile che da quella amministrativa.
2.- Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione.
Il principio di consumazione del potere di impugnazione è quel principio secondo il quale, tendenzialmente, la presentazione di un mezzo di gravame preclude la possibilità di proporne un altro (identico o ampliativo) al di fuori di alcune tassative ipotesi[4].
Il disposto del principio di consumazione è desumibile dagli articoli 358 e 387 c.p.c. i quali, rispettivamente per il giudizio di appello e per il giudizio in Cassazione, escludono la possibilità di reiterare il gravame dichiarato inammissibile o improcedibile anche se non sia ancora decorso il termine per la sua proposizione[5]. Quindi, da un’analisi letterale delle citate disposizioni, si evince che solo l’impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non può essere riproposta, non rimanendo preclusa una sua reiterazione negli altri casi, sempreché non sia ancora scaduto il termine decadenziale per l’esercizio del potere di impugnazione.
La Sezione rimettente, nell’ordinanza in commento, ricostruisce quali sono le coordinate interpretative enucleate dalla Corte di cassazione relativamente all’applicazione di detto principio, le quali si possono sintetizzare nei seguenti punti cardine: a) perché si verifichi la consumazione è necessario che la seconda impugnazione sia della stessa specie della prima; b) la seconda impugnazione può basarsi anche su motivi diversi dalla prima; c) la riproponibilità della seconda impugnazione deve essere limitata ai soli casi in cui la medesima verta sugli stessi motivi della prima con l’esclusione della possibilità di integrare o dedurre nuovi motivi; d) l’ammissibilità della seconda impugnazione deve essere subordinata all’esistenza di un vizio formale o sostanziale della prima che sia idoneo a decretarne l’irricevibilità ovvero l’improcedibilità e che, dunque, possa essere conseguentemente emendato; e) anche qualora la sentenza non sia stata oggetto di notificazione, la possibilità di riproporre l’impugnazione è ancorata, in ogni caso, al termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, la quale è idonea a determinare la conoscenza legale del provvedimento medesimo[6].
In alcuni casi, però, la giurisprudenza (insieme a parte della dottrina) è arrivata anche ad estendere ulteriormente i confini di detto principio, escludendo che la parte soccombente, dopo aver proposto l’impugnazione, possa successivamente integrarla con la proposizione di ulteriori motivi entro il termine previsto per l’impugnazione[7].
3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo.
La Sezione rimettente evidenzia come nel processo amministrativo il principio di consumazione del potere di impugnazione abbia da tempo trovato applicazione e come sia operante anche attualmente[8].
La giurisprudenza amministrativa ha interpretato detto principio sin da subito in senso ampliativo, non consentendo la proposizione da parte del medesimo soggetto di appelli successivi al primo anche indipendentemente dall’inammissibilità o dall’improcedibilità del precedente atto. Secondo la giurisprudenza amministrativa, cioè, il diritto di impugnazione di una sentenza sfavorevole si consuma con il suo valido esercizio, per cui l’avvenuta proposizione del gravame preclude la possibilità di dedurre successivamente ulteriori motivi di impugnazione, anche qualora il termine decadenziale non sia ancora scaduto[9].
Il principio di consumazione del potere di impugnazione, infatti, va coordinato con il principio del divieto di frazionamento dell’impugnazione, secondo il quale la parte non può presentare diverse impugnazioni, pur nella pendenza del termine, dovendo concentrare tutte le sue censure nel primo atto di gravame. Una limitata eccezione a tali principi è prevista nel solo caso in cui il primo atto di impugnazione sia stato proposto in modo irrituale e ad esso segua un secondo atto diretto a sostituire il precedente viziato, nel rispetto dei termini perentori previsti dalla normativa e antecedentemente alla dichiarazione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione[10].
Come ci ricorda la Sezione rimettente, però, nel codice del processo amministrativo è prevista un anche una deroga a questo divieto con riguardo alla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello qualora una parte venga successivamente a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati[11].
Non è questa la sede per effettuare una valutazione critica del citato principio di consumazione così come applicato dalla giurisprudenza civile e amministrativa[12]. In tale breve commento si proverà esclusivamente ad enucleare quali sono i nodi che l’Adunanza Plenaria avrà il compito di sciogliere e che, come si avrà modo di illustrare, vanno anche al di là della mera applicazione del principio di consumazione, riguardando alcuni aspetti inerenti alla corretta instaurazione del rapporto processuale.
4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento.
Il deferimento all’Adunanza Plenaria viene motivato dal riscontro di un contrasto giurisprudenziale nell’applicazione del suddetto principio di consumazione. Più precisamente, la Sezione Quarta si interroga in merito alla necessità che la duplicazione dell’impugnazione debba essere motivata dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto di appello idonei a condurre ad una sua declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità.
I due poli del rilevato contrasto giurisprudenziale vengono individuati: da un lato nella giurisprudenza della Sezione rimettente che ammetterebbe la possibilità di riproporre la stessa impugnazione solo per emendare un vizio dell’appello presentato (rectius notificato), sostituendo un atto valido ad uno invalido[13]; dall’altro nella diversa impostazione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana secondo la quale sarebbe ammessa la reiterazione dell’impugnazione anche a prescindere dal fatto che la prima presentata sia viziata, purché la seconda sia proposta entro il termine decadenziale e antecedentemente ad una pronuncia giudiziale in rito sulla stessa[14].
Oltre alla fattispecie sulla quale è chiamata a pronunciarsi, la Sezione Quarta richiama anche un proprio precedente nell’ambito del quale l’amministrazione appellante aveva notificato tre atti di appello avverso la medesima sentenza depositando, però, solamente il terzo atto notificato. Il Collegio, in quell’occasione, ha giudicato inammissibili tutti e tre gli atti di appello notificati: i primi due in quanto mai effettivamente depositati ai sensi dell’art. 94 c.p.a., mentre il terzo in applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione, rilevando che la (terza) notifica non fosse stata effettuata per sanare alcun vizio delle precedenti impugnazioni (rectius notifiche dell’atto di appello)[15].
A ben vedere, però, il caso deciso dal C.G.A.R.S. riguarda una fattispecie diversa da quelle considerate dalla Sezione Quarta, nelle quali a più atti di notifica è seguito (in entrambi i casi) un solo deposito.
Nel caso esaminato dal Giudice siciliano, infatti, la sentenza di primo grado è stata appellata per due volte dalla medesima parte con due autonomi ricorsi che, depositati entrambi nei termini di cui all’art. 94 c.p.a., hanno dato vita a due autonome iscrizioni nel registro di Segreteria. Il C.G.A.R.S., dopo aver preso atto che la parte si era determinata a questo comportamento processuale senza evidenziare le ragioni di tale duplicazione, ha riunito le due impugnazioni proposte (perché aventi identico contenuto) e le ha accolte entrambe, riformando la sentenza impugnata[16].
Al Collegio, nell’ordinanza di rimessione in commento, non sfugge la circostanza che nel citato caso deciso dal C.G.A.R.S. entrambe le impugnazioni sono state ritualmente (notificate e) depositate, ma pur in presenza di questa rilevante distinzione fattuale, qualifica tale decisione del Giudice siciliano come idonea ad aprire una riflessione sul contenuto e sui limiti applicativi del principio di consumazione.
5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito.
Evidenziato detto contrasto, la Sezione Quarta effettua alcune considerazioni propedeutiche all’enucleazione dei quesiti da deferire all’Adunanza Plenaria.
La riflessione del Collegio parte dal dato testuale delle disposizioni prevedenti il principio di consumazione (i citati artt. 358 e 387 c.p.c) che fanno discendere l’effetto consumativo non dalla mera proposizione del primo gravame, ma dalla decisione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione. Alla luce di tale interpretazione letterale viene evidenziato come, rispetto al diritto di agire in giudizio tutelato dall’art. 24 cost., sarebbe coerente sostenere che non sia la prima impugnazione, ma la decisione su di essa, ad impedire la riproposizione dell’impugnazione medesima[17]. Infatti, le disposizioni che escludono, limitano o introducono condizioni più restrittive per l’esercizio dei diritti (anche in sede processuale) di per sé andrebbero interpretate in senso restrittivo e, comunque, col divieto di applicazione analogica, a maggior ragione nei casi come questo in cui il principio in questione non è sancito in maniera espressa dalla legge ma è perimetrato, quanto al suo contenuto e ai suoi limiti di estensione, dall’esegesi giurisprudenziale.
Da tali riflessioni sembrerebbe che la Sezione rimettente, melius re perpensa, stia rimeditando il proprio orientamento precedente che era, invece, propenso ad un’ampia (e forse eccessiva) applicazione del principio di consumazione.
Un ulteriore elemento di riflessione evidenziato dalla Sezione in questa direzione è costituito dal richiamo all’art. 96 c.p.a. che regola nel processo amministrativo le diverse impugnazioni avverso una medesima sentenza. Infatti, se è vero che tale articolo è fisiologicamente destinato a regolare la riunione delle impugnazioni proposte dalle diverse parti avverso un’unica pronuncia, lo stesso potrebbe essere anche letto come una conferma dell’ammissibilità di più impugnazioni di una stessa parte avverso una medesima sentenza, in assenza di un esplicito divieto in tal senso[18].
Infine, l’ultima questione su cui si sofferma la Sezione rimettente riguarda la corretta interpretazione da dare all’art. 45, comma 1, c.p.a. secondo il quale l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella Segreteria del giudice dell’atto soggetto a preventiva notificazione entro il termine decadenziale di trenta giorni. Secondo il Collegio, a tal proposito va chiarito se la rinnovazione della notificazione, eseguita entro il termine e anteriormente alla declaratoria giudiziale di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, si possa qualificare come elusiva, poiché comporta lo spostamento in avanti del termine perentorio di deposito del ricorso rispetto alla prima notificazione non andata a buon fine; ovvero se, trattandosi di notificazione valida rispetto al termine di impugnazione, non sia ravvisabile il suddetto effetto elusivo e il termine di deposito vada calcolato dall’ultima notificazione. Detta questione interpretativa ha un’importanza dirimente nel caso di specie ove, a differenza del citato precedente del C.G.A.R.S., vi è stato un solo deposito del gravame effettuato entro il termine decadenziale calcolato rispetto alla seconda notifica effettuata dall’appellante.
Ad ogni modo, nonostante queste riflessioni sembrerebbero preludere ad un cambio di rotta nella giurisprudenza della Sezione Quarta in merito alla precedente applicazione piuttosto estensiva del principio di consumazione, il Collegio decide di non provvedere in autonomia ad un proprio revirement, preferendo investire l’Adunanza Plenaria della questione (rectius delle questioni).
6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria.
La Sezione Quarta deferisce all’Adunanza Plenaria quattro distinti quesiti: i primi tre direttamente concernenti l’applicazione del principio di consumazione, mentre il quarto attinente alle tempistiche del deposito dell’atto presso la Segreteria del Giudice in presenza di più notifiche dell’atto medesimo. Quest’ultimo quesito, come si avrà modo di argomentare, costituisce una problematica distinta dall’applicazione del succitato principio (pur se ad esso strettamente collegata), il quale presuppone l’effettiva instaurazione di plurime impugnazioni avverso la medesima pronuncia giudiziale.
Procedendo con ordine, individuiamo quali sono i quattro quesiti che vengono deferiti all’Adunanza Plenaria[19].
Col primo quesito viene richiesto genericamente se il principio di consumazione dei mezzi di impugnazione debba essere applicato nell’ambito del processo amministrativo e, in caso affermativo, entro quali limiti. Tale genericità viene bilanciata dai successivi due quesiti che si appalesano maggiormente specifici, andando a toccare le due questioni più dibattute relativamente a detto principio nell’ambito del processo amministrativo.
Col secondo quesito, infatti, viene posto il problema se ad una parte processuale sia consentito rinnovare la notificazione al solo scopo di emendare i vizi dell’atto oppure se il rinnovo in questione sia consentito anche a prescindere dall’eliminazione di un vizio e senza altra apparente ragione. Questo è il tema della reiterabilità del medesimo atto già presentato quando la riproposizione non sia finalizzata all’emenda di vizi formali, ma sia dovuta ad altre motivazioni.
Col terzo quesito, invece, viene indagato se alla medesima parte processuale sia consentito presentare nuovi motivi di impugnazione al di là dei casi normativamente previsti per la proposizione di motivi aggiunti. Si tratta, sostanzialmente, della questione del divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, divieto in base al quale l’impugnativa avverso un provvedimento giurisdizionale dovrebbe essere esercitata unitariamente (accludendo tutti i motivi di gravame) e non essere frazionata in diversi atti, pur se tutti tempestivi rispetto al termine decadenziale per l’impugnazione[20].
Col quarto quesito, infine, si pone l’interrogativo su quale sia la corretta interpretazione da dare al combinato disposto degli artt. 94 e 45, comma 1 c.p.a.[21]. Più precisamente, il dubbio interpretativo riguarda i limiti in cui un’impugnativa, notificata una prima volta, possa essere oggetto di ulteriori notifiche, ovviamente entro i termini decadenziali per la proposizione dell’azione e prima di una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità della stessa. Ci si domanda, cioè, se una successiva notificazione possa essere effettuata solo per emendare vizi dell’atto, della sua notifica o del suo deposito, ovvero se, al contrario, sia possibile per la medesima parte rinnovare la notificazione per altri motivi, prescindendo dalla suddetta emenda.
I primi tre quesiti, come anticipato, riguardano propriamente il perimetro applicativo del principio di consumazione e del collegato divieto di frazionamento dell’impugnativa. Il quarto motivo, invece, riguarda la rilevante tematica del corretto perfezionamento dell’iter notificatorio nel processo amministrativo e rappresenta una questione preliminare all’applicazione di detto principio al caso di specie.
Quindi, si può affermare che il principio di consumazione del potere di impugnazione costituisce il “perno” su cui ruota l’intera ordinanza di rimessione, ma rappresenta anche l’occasione per il deferimento all’Adunanza Plenaria di questioni processuali ulteriori, strettamente collegate a tale principio, le quali attengono alla corretta instaurazione del processo amministrativo e ai limiti temporali entro i quali essa debba perfezionarsi[22].
7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito.
Analizzati i quesiti formulati dalla Sezione rimettente, pare opportuno tornare a soffermarsi sulla vicenda dalla quale essi originano, al fine di enucleare una distinzione preliminare. La Sezione, nel trattare la consumazione del potere di impugnazione, si riferisce genericamente alle impugnazioni “proposte” quando in verità, nel caso di specie, l’impugnazione “compiutamente proposta” (ossia quella notificata e depositata) è soltanto una (la seconda).
Nel processo amministrativo, infatti, la sola notificazione del ricorso non basta a radicare la pendenza del giudizio amministrativo[23]. Si dubita, pertanto, di poter parlare di vera e propria consumazione di un potere di impugnazione quando detto potere non sia stato compiutamente esercitato, non essendosi ancora instaurato un vero e proprio giudizio.
La Sezione rimettente, pur dimostrando di tenere in considerazione la circostanza che «nel caso all’esame la prima impugnazione difetta del deposito dell’atto» e il fatto che «l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella segreteria del giudice del ricorso e degli atti soggetti a preventiva notificazione», non enuclea compiutamente la differenza tra la consumazione del potere di impugnazione compiutamente esercitato attraverso un atto notificato e depositato (che si potrebbe definire come “consumazione propria”), dalla preclusione del potere di (ri)notificare un atto per il sol fatto di averne già notificato un altro in precedenza (che si potrebbe definire come “consumazione impropria”).
La tematica, che costituisce l’oggetto del quarto quesito, consiste nello stabilire se sia (o meno) legittimo anticipare una sorta di effetto consumativo del potere di impugnazione già al momento della notifica dell’atto, ossia, se sia possibile considerare una prima notifica ostativa ad una seconda (successiva ma) nel rispetto del termine decadenziale.
Nell’ordinanza viene attribuita alla reiterazione della notifica un possibile effetto elusivo nei confronti del termine decadenziale previsto per il deposito dell’atto. Ma a ben vedere pare quantomeno dubbio il configurarsi di tale effetto elusivo: se la legge consente alla parte di esperire un’impugnazione entro dei termini decadenziali, un’eventuale elusione dovrebbe comportare l’aggiramento (rectius il superamento) di detti termini che, nel caso di specie, non sussiste[24].
Quindi, pare opportuno distinguere due diverse situazioni: la concorrenza di due impugnazioni ritualmente presentate (notificate e depositate) e la concorrenza di due atti di notifica di una medesima impugnazione che risulti depositata una sola volta. Sarebbe auspicabile che l’Adunanza Plenaria distinguesse le due ipotesi nell’interrogarsi sui limiti di applicazione del principio di consumazione, verificando se possa parlarsi di consumazione anche solo con riferimento alla notifica di un ricorso (la c.d. consumazione impropria) o se, per esserci consumazione del potere di impugnazione, ci voglia per forza anche il deposito dello stesso (c.d. consumazione propria).
8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
È fuori di dubbio che l’applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo sia un argomento denso di problematiche applicative. Accanto alla vexata quaestio relativa ai presupposti in presenza dei quali opera il c.d. effetto consumativo, si aggiunge anche l’ulteriore problematica connessa alla possibile reiterazione della notifica dell’atto, di particolare rilevanza nel processo amministrativo in cui la pendenza del rapporto processuale si radica con la c.d. vocatio judicis e, quindi, con il deposito del ricorso[25].
Sull’interpretazione dei limiti applicativi del principio di consumazione si concorda con le riflessioni della Sezione rimettente, le quali sembrano suggerire un ripensamento della sua precedente interpretazione estensiva del principio di consumazione. Comprimere la libertà di presentare un’impugnazione entro un limite temporale antecedente a quello imposto dalla legge, oltre a porsi in contrasto con la disciplina positiva dei termini decadenziali, costituisce un possibile vulnus all’art. 24 cost., prevedente la garanzia di ciascuno di poter agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
Sarà compito dell’Adunanza Plenaria, nel caso in cui decidesse di accogliere tale impostazione maggiormente garantista del diritto all’azione, specificare se tale possibilità di reiterazione debba spingersi sino ad ammettere anche la proposizione di nuovi motivi di gravame, comportando in tal modo pure un ripensamento in merito al divieto di frazionamento delle impugnazioni. Sul punto un chiarimento dell’Adunanza Plenaria sarà quantomai opportuno, visto che la giurisprudenza amministrativa ha spesso fatto proprio anche questo divieto[26].
Ammettere la possibilità di frazionare le impugnazioni, inoltre, potrebbe destare qualche incertezza sul calcolo del termine per la proposizione dell’appello incidentale. Visto il tenore letterale dell’art. 96, comma 3 c.p.a., pare prudenzialmente opportuno far decorrere il termine per proporre l’appello incidentale dalla “prima notificazione” tra quelle ricevute, anche se dette notifiche provengano dallo stesso soggetto appellante[27].
Con riferimento alla questione della notifica dell’atto di appello non depositato, invece, non si ritiene che si possa parlare di consumazione vera e propria. La consumazione del potere di impugnazione in senso proprio, infatti, si realizza quando il mezzo di gravame viene depositato, perché la litispendenza nel processo amministrativo si realizza solo al momento del deposito (telematico) dell’atto notificato presso la Segreteria del Giudice adito. Ciò non toglie che sarà l’Adunanza Plenaria, investita dello specifico quesito, a fugare i dubbi sollevati sia sul possibile effetto elusivo di una doppia notifica ai fini di ottenere uno spostamento in avanti del termine per il deposito del ricorso, sia sulla possibile configurazione di una sorta di effetto consumativo anticipato antecedentemente alla formale instaurazione di un giudizio di impugnazione.
Quindi, non resta che attendere il pronunciamento dell’Adunanza Plenaria per definire con maggiore precisione il perimetro applicativo del principio di consumazione del potere di impugnazione, anche con riguardo ad una possibile anticipazione di effetti lato sensu consumativi già al momento della notificazione dell’atto; pronunciamento che, auspicabilmente, fornirà pure alcuni opportuni chiarimenti nell’identificare le regole di corretta instaurazione del giudizio di impugnazione e del regolare svolgimento dell’iter notificatorio del suo atto introduttivo.
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[1] Cons. St., Sez. IV, ordinanza, 25 ottobre 2021, n. 7138, riportata in calce alla nota .
[2] La sentenza impugnata è T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 24 luglio 2020, n. 8693, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Giova precisare che la seconda notifica dell’atto di appello (19 gennaio) è stata effettuata tempestivamente rispetto al termine per l’impugnativa della sentenza di primo grado e che il deposito (29 gennaio) è avvenuto tempestivamente rispetto alla seconda notifica (19 gennaio), ma non rispetto alla prima (23 dicembre). Inoltre, si consideri che la seconda notifica (19 gennaio), proposta mentre ancora pendeva il termine per impugnare, è stata effettuata in data anteriore rispetto al termine per il deposito dell’appello calcolato in base della prima notifica (22 gennaio 2021).
[4] Sul principio di consumazione delle impugnazioni vedasi il lavoro monografico di S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, Napoli, 2011, a cui si rinvia per un approfondimento del tema e per i riferimenti bibliografici in esso contenuti.
[5] Si riporta il testo delle due citate disposizioni: art. 358 c.p.c. (Non riproponibilità di appello dichiarato inammissibile o improcedibile) «L’appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge»; art. 387 c.p.c. (Non riproponibilità del ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile) «Il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge».
[6] Per i riferimenti giurisprudenziali si rinvia al paragrafo n. 13 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene citata copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione a supporto di questa impostazione interpretativa.
[7] S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit. p. 9. In tal senso vedasi pure G. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2010, II, p. 323. Tra le sentenze della Corte di cassazione secondo le quali non sarebbe possibile presentare motivi aggiunti che integrino o modifichino quelli originariamente proposti né, a maggior ragione, proporre una nuova impugnazione che possa sostituirsi alla prima validamente proposta, si segnalano ex multis: Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016, n. 9993, in Guida al diritto, 2016, 36, p. 79 ss.; Cass. civ., Sez. lav., 31 maggio 2010, n. 13257, in Giust. civ. Mass., 2010, 5; Cass. civ., SS. UU., 10 marzo 2005, n. 5207, in Giust. civ. Mass., 2005, 3.
[8] Tra le più coeve sentenze citate vedasi Cons. St., Sez. V, 19 aprile 1991, n. 606, in Foro Amm., 1991, p. 1134. Tra le sentenze del corrente anno, invece, vengono citate Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266 e C.G.A.R.S., 8 luglio 2021, n. 654, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it, tra le quali la Sezione rimettente rileva il contrasto da cui origina l’ordinanza di rimessione in commento.
[9] Cons. St., Sez. IV, 14 settembre 2004, n. 5915, in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] L’art. 10 c.p.a. prevede la regola generale del divieto di nuovi motivi e di nuovi mezzi di prova in appello, temperato dalla facoltà per la parte di proporre motivi aggiunti nel caso in cui vi sia una sopravvenienza documentale da cui si evincano vizi relativi agli atti impugnati. Sulla tematica dei motivi aggiunti in appello si segnalano: G. MIGNONE, Motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; M.P. VIPIANA, Motivi aggiunti e doppio grado nel processo amministrativo in una recente decisione dell’Adunanza Plenaria, in Dir. proc. amm., 1998, p. 91 ss.; S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Milano, 2011, p. 259 ss.
[12] Sul punto si rinvia a S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit., in particolare a p. 311 e seguenti dove vengono condensate le considerazioni critiche sull’applicazione di detto principio che non pare condivisibile «nella misura in cui ammette soltanto la proposizione di una seconda impugnazione in sostituzione della prima, allo scopo di emendare, ove possibile, i vizi da cui quest’ultima sia affetta. È evidente che questa lettura non solo penalizza l’impugnante che ha validamente esercitato il proprio potere, ma, per di più, non tiene in debito conto il fatto che il vizio che inficia l’impugnazione possa essere successivo alla sua proposizione, come accade nel caso di improcedibilità, e che quindi non riguardi l’esercizio (in sé perfettamente valido) del potere di impugnazione».
[13] Oltre al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione in commento, viene anche citato un altro precedente conforme della stessa Sezione, costituito dalla sentenza Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266, cit.
[14] C.G.A.R.S., Sez. giur., 8 luglio 2021, n. 654, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Per usare le parole del Collegio (paragrafo n. 17 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.) «la ratio – che giustificherebbe (pendente il termine per l’appello e in assenza di una declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità) la possibilità per la medesima parte di riproporre la stessa impugnazione – sarebbe quella di emendare un vizio, sostituendo un atto valido ad uno invalido».
[16] Il Collegio evidenzia che «Il Consiglio di giustizia amministrativa non ha dichiarato sic et simpliciter inammissibile la seconda impugnazione, sebbene identica e ripetitiva rispetto alla prima, e senza la benché minima efficacia sanante o sostitutiva di vizi della prima» (paragrafo 22 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[17] In tal senso pare andare anche Cons. St., Sez. VI, 24 luglio 2017, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Va, di poi, evidenziato che la giurisprudenza della Sezione (Cons. Stato;VI, 6-12-2013, n. 5861) ha chiarito che la consumazione del potere di impugnare, giusta l’art. 358 del codice di procedura civile, applicabile al procedimento amministrativo, presuppone necessariamente l’intervenuta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo gravame, potendo altrimenti essere proposto un secondo atto di appello».
[18] Prescindendo dalla disciplina delle impugnazioni incidentali, per quel che interessa in tal sede, si rammenta che l’art. 96, comma 1 c.p.a. prevede che «Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo», mentre il comma 6 della medesima disposizione stabilisce che «In caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilità delle altre».
[19] I quattro quesiti vengono elencati alle lettere a), b), c), d) del paragrafo 24 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[20] Ovviamente, in entrambe le succitate ipotesi di cui al secondo e al terzo quesito, la conditio sine qua non è costituita dal fatto che sia ancora pendente il termine per impugnare e che, medio tempore, non sia intervenuta una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione.
[21] Secondo l’art. 45, comma 1 c.p.a. «Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell'atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario...».
[22] A tal proposito si richiama il paragrafo n. 12 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene precisato che «La Sezione ritiene di dovere deferire all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla corretta interpretazione delle disposizioni e dei principi che regolano le impugnazioni, tra cui quello della cd. consumazione del relativo potere», a comprova del fatto che la questione relativa al potere di consumazione è solo una delle problematiche su cui l’Adunanza Plenaria dovrà fornire i propri chiarimenti.
[23] Cons. St., Ad. Plen., 28 luglio 1980, n. 35, in Foro it., 1980, III, p. 532 ss. In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «nel processo amministrativo i due momenti della notificazione e del deposito del ricorso hanno caratteristiche e fini diversi: il primo rivela soltanto la volontà di agire in giudizio e costituisce il preliminare atto dell’introduzione del processo; il secondo invece concretamente realizza la presa di contatto tra il ricorrente e l’organo di giurisdizione che deve pronunciare sul processo e postula la partecipazione pure delle controparti al giudizio. Pertanto i suoi effetti, correlati alla consegna dell’originale del ricorso notificato alla segreteria del Giudice adito, non possono retroagire alla fase precedente, che è stata meramente introduttiva e prodromica all’istaurazione del processo. Quindi, nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR».
[24] Infatti, la parte che potendo legittimamente attendere fino all’ultimo giorno per provvedere alla notifica vi provveda anticipatamente e poi, per qualsiasi altro motivo ulteriore all’emenda di eventuali vizi, decida di ripetere la notifica “riprendendosi” la facoltà di effettuarla sino al termine previsto dalla legge (e, conseguentemente, di effettuare il deposito entro il termine collegato alla notifica), non pare francamente commettere alcuna violazione o elusione della disciplina dei termini.
[25] Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, cit., ci ricorda che «nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR. L’individuazione della pendenza del rapporto processuale, in altri termini, mentre nei giudizi che iniziano con citazione va fissata nel momento della notificazione di essa (vocatio in jus), in quelli, come nel caso in esame, introdotti con ricorso si ha nel momento del relativo deposito (vocatio judicis, cfr. Cons. St., VI, 25 maggio 2006 n. 3129; id., IV, 8 gennaio 2013 n. 40)».
[26] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, cit., prevede che «il divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, sotteso al principio di consumazione delle impugnazioni sancito dagli artt. 358 e 387 c.p.c. (che connota qualsiasi processo retto, come anche quello amministrativo, dal principio della domanda e da quello dispositivo), impedisce alla parte che abbia proposto un primo gravame di proporne un secondo, pur quando siano ancora pendenti i relativi termini».
[27] L’art. 96, comma 3 c.p.a. prevede che «L’impugnazione incidentale di cui all’articolo 333 del codice di procedura civile può essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione».
L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. Chiarezza definitoria e concettuale - 2. Le situazioni “arate” e... - 3. ...gli orientamenti in via di consolidamento - 4. I profili controversi.
1. Chiarezza definitoria e concettuale
Di fronte alla nuova formula di definizione del processo, appare necessario distinguere anche formalmente, oltre che sostanzialmente, le tre situazioni attorno alle quali spesso ruota il dibattito, evitando di cambiarne la letteralità, con il rischio di inquinarne gli effetti, anche perché nel pronunciarle il giudice deve precisarne i presupposti nel dispositivo (artt. 529 e 531 c.p.p.).
L’estinzione del reato opera solo in primo grado; l’improcedibilità per mancanza di querela, o di altra condizione di procedibilità, opera in ogni stato e grado; l’improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione opera solo nel giudizio di impugnazione dopo la sentenza di primo grado e d’appello. Quindi, netta distinzione, evitando sovrapposizioni tra le ipotesi di improcedibilità, e tra l’improcedibilità (a volte definita prescrizione processuale o cronologica) e l’estinzione del reato per prescrizione.
In questa prospettiva, due punti sembrano anche da considerare ulteriormente significativi: la differenza tra prescrizione sostanziale e improcedibilità, stante almeno la previsione differenziata dell’art. 578, comma 1 bis, c.p.p., altrimenti non giustificabile; la diversità anche con le altre situazioni di improcedibilità in relazione all’esercizio dell’azione penale, nel caso dell’art. 344 bis c.p.p., invece, regolarmente esercitata.
Per queste ragioni trova piena giustificazione la tesi per la quale l’art. 344 bis c.p.p. non opera in relazione alle impugnazioni ex art. 428 c.p.p. della sentenza di non luogo di cui all’art. 425 c.p.p., alle impugnazioni per i soli interessi civili, alle impugnazioni cautelari ed a quelle straordinarie.
2. Le situazioni “arate” e...
Il confronto di opinioni sulla decisione di improcedibilità dell’art. 344 bis c.p.p. introdotta dalla l. n. 134 del 2021 sta registrando alcune convergenze su alcuni profili della relativa disciplina, pur non mancando, naturalmente, i dissensi, anche autorevoli e motivati.
La prima questione – che invero sembrava definita, riguarda gli effetti della declaratoria di improcedibilità sulle decisioni oggetto di impugnazione.
Secondo un convincimento solidamente diffuso si affermava che la sentenza di improcedibilità, conseguente all’impugnazione, supera la decisione emessa nel grado precedente.
In particolare, si ritiene che con la declaratoria di improcedibilità, non c’è né condanna né proscioglimento; sono assorbite le precedenti decisioni sia di condanna, sia di assoluzione; si caducano le misure cautelari personali (anche quelle a tutela della vittima) e quelle reali; l’imputato perde il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; vengono meno i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi nonché le decisioni di confisca; non c’è nessuna decisione sul querelante; la sentenza non ha autorità di giudicato in sede civile o disciplinare; si prospettano questioni sul valore probatorio del materiale in un altro procedimento; in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena viene meno il giudicato sulla responsabilità; forse l’imputato può avvalersi della legge Pinto.
La conclusione proposta non esclude la presenza di alcune questioni “aperte”.
Fra queste non possono non segnalarsi – mancando a differenza della estinzione del reato ogni indicazione sul punto – le possibili implicazioni sulla responsabilità delle persone giuridiche ex l. n. 231 del 2001; le patologiche implicazioni ex art. 604, comma 6, c.p.p., di una errata decisione di prescrizione in primo grado, stante l’impossibilità di dichiarare l’estinzione del reato, eventualmente maturato, nel giudizio di appello; la fissazione del termine in caso di sviluppo dell’impugnazione della decisione di inammissibilità; l’indicazione del termine massimo in caso di plurimi annullamenti con rinvio e quello in caso di conversione in appello, il valore delle prove assunte nel procedimento di cui al gravame.
Recentemente si è affermato che l’art. 344 bis c.p.p. costituisce una causa di inammissibilità sopravvenuta con effetti soltanto nel grado in cui si è verificato l’esaurimento del tempo per il relativo giudizio, lasciando sopravvivere la sentenza impugnata, sia essa di condanna, sia essa di proscioglimento.
La tesi, che non trova nessun riferimento testuale, è contraddetta in primo luogo dagli effetti che essa determinerebbe.
Il dato non solo è smentito, come riconosciuto pure da chi avanza questa tesi, anche se ipotizza un suo superamento in attuazione della delega (art. 1, comma 13, lett. d, l. n. 134 del 2021), da quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, c.p.p. (di nuovo conio), ma soprattutto dalle ricadute negative della “conservazione” della sentenza impugnata.
Si sostiene, infatti, che in caso di proscioglimento questa opererebbe a favore dell’imputato, senza conferire verosimilmente al p.m. nessun potere negativo o interdittivo, come nel caso in cui la decisione fosse viziata da nullità ovvero fosse basata su prove inutilizzabili (che, conseguentemente, diverrebbe irrevocabile).
Nel caso della condanna, si afferma che all’imputato sarebbe consentito il diritto di rinuncia alla improcedibilità rectius, la richiesta di prosecuzione del processo (art. 344 bis, comma 7, c.p.p.).
I riferiti effetti della declaratoria di improcedibilità hanno prospettato il problema della possibilità di riavviare il percorso processuale per il medesimo fatto.
Dopo aver chiarito quale rapporto possa prospettarsi con la possibilità che il decorso della prescrizione sia o meno cessato con la sentenza in primo grado (ex art. 161 bis c.p.), una volta sopravvenuta la declaratoria di improcedibilità è necessario interrogarsi sull’operatività di quanto previsto dall’art. 649 c.p.p. ove è disciplinato il divieto di un secondo giudizio (ne bis in idem).
Fatta salva la possibilità di una diversa qualificazione del fatto (da ritenersi ipotesi remota), le situazioni derogatorie di cui all’art. 649 c.p.p., riferite a quanto previsto dall’eccezione di cui all’art. 345 c.p.p., non sembrano attagliarsi al caso qui considerato che, pertanto, sembrano suggerire che non sia possibile avviare un nuovo procedimento.
La soluzione interpretativa proposta prospetta anche non poche questioni legate alle sue implicazioni sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Invero, in termini estremamente pregnanti, la previsione prospetta una questione sotto il profilo del possibile contrasto con l’art. 101 Cost. in relazione al pregiudizio per l’esercizio della funzione giurisdizionale che è pregiudicata dal decorso del tempo massimo delle fasi di impugnazione, con conseguente pregiudizio sia delle iniziative dell’accusa sia delle aspettative difensive.
In altri termini, si tratta di riflessi indiretti sugli artt. 112 e 24 Cost.
Il dato ha ricadute anche in relazione all’effettività della giurisdizione di cui all’art. 47 del Trattato dell’Unione europea, nonché dell’art. 6 della Cedu.
Si sono prospettate anche violazioni dirette con il principio di obbligatorietà dell’azione penale; invero, la richiesta del pubblico ministero di una decisione sull’ipotesi accusatoria risulterebbe preclusa dalla decisione di improcedibilità.
Il dato non è convincente, considerato che a differenza delle situazioni di mancanza di una condizione di procedibilità, dove difetta l’elemento dell’esercizio dell’azione penale, nel caso di specie l’azione è stata validamente esercitata.
La disciplina dell’art. 344 bis c.p.p. prospetta, tuttavia, ulteriori possibili questioni di incostituzionalità. Il primo dato è ricollegabile alla irrazionabilità delle cadenze cronologiche dei possibili percorsi processuali (es.: in primo grado otto anni; due anni in appello e uno in cassazione: perfettamente legittimo, ed un anno in primo grado, tre anni di appello con declaratoria di improcedibilità).
Inoltre, non possono non essere segnalate, da un lato, la forte criticità del conferimento al giudice di determinare con la sua iniziativa (seppur impugnabile) la durata o meno del processo (impugnabile in caso di sua determinazione ed esclusa in caso di rigetto di una parte che l’abbia richiesto), dall’altro, la irragionevolezza della diversa durata delle fattispecie criminose non tutte pienamente giustificate, nonché la possibilità (escluse le ipotesi per i reati puniti con l’ergastolo, dichiarate non improcedibili) di proroghe illimitate.
L’incostituzionalità del sistema integrato (art. 161 bis c.p. e art. 344 bis c.p.p.) aprirebbe la strada ad altre soluzioni, fra le quali si segnalano quella del parallelo decorso dall’inizio dei due orologi, cioè, delle due procedure “estintive” ovvero quella di trasformare la durata ragionevole delle fasi di impugnazioni, prima dei tempi assolutamente irragionevoli, in situazioni suscettibili di risarcimenti (per il prosciolto o riduzioni di pena (per i condannati).
3. ...gli orientamenti in via di consolidamento
Sin dalla introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. si è prospettata la questione della sua possibile applicazione retroattiva, cioè della sua operatività anche ai procedimenti relativi ai reati commessi prima del 1° gennaio 2021.
Si sono confrontate sul punto le opinioni sulla natura della sentenza, prospettandosi le varie opzioni in relazione al fatto che si possa trattare di norma sostanziale, processuale, ovvero processuale con effetti sostanziali.
L’impostazione – come è emerso anche dai primi orientamenti giurisprudenziali - appare non correttamente impostata.
Invero, con la riforma il legislatore ha predisposto un sistema integrato tra la prescrizione (sostanziale) ex art. 161 bis c.p. operante in primo grado e l’improcedibilità dell’azione ex art. 344 bis c.p.p. operante in grado d’impugnazione. Invero, il suo smembramento con recupero dell’improcedibilità anche nel grado precedente affiancherebbe questa ipotesi di definibilità del processo con quella che vedrebbe contestualmente correre il tempo della prescrizione che risulta regolata dalle leggi antecedenti la riforma della l. n. 3 del 2019.
In altri termini, ci si troverebbe in una situazione di palese incompatibilità, anche in considerazione della ragione posta a fondamento della riforma, cioè, quella di definire tempi adeguati al giudizio di impugnazione, per effetto della sospensione del decorso della prescrizione, con il timore di processi di gravame non governati da definizioni in tempi adeguati.
Va, del resto, sottolineato, come i riferimenti costituzionali spesso evocati (C. cost. n. 32 del 2020 e C. cost. n. 183 del 2021) a supporto della tesi contraria, arrivavano dalla mancanza di una disciplina transitoria che, invece, la riforma esplicitamente indica (1.1.2020) e che appare razionalmente motivata (l’operatività della l. n. 3 del 2019).
Una questione di costituzionalità sull’operatività dell’art. 344 bis c.p.p. in relazione a reati antecedenti al 1° gennaio 2021, potrebbe prospettarsi sotto un diverso profilo.
Il riferimento potrebbe indirizzarsi a quella situazione per la quale siano proposte nello stesso giorno, per la stessa fattispecie di reato un appello per un fatto antecedente il 1° gennaio 2021 ed un appello per la stessa fattispecie di reato commesso successivamente al 1° gennaio 2021, con disparità di trattamento, operando solo per quest’ultimo il tempo massimo di definizione del giudizio (mentre per il primo varrebbe la prescrizione).
Al profilo qui considerato vanno collegate anche le questioni relative al regime transitorio regolato dai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della cit. l. n. 134.
Com’è noto, il comma 3 dell’art. 2 cit., dopo aver previsto che la nuova disciplina operi per i reati commessi successivamente al 1° gennaio 2021, stabilisce al comma 4 dello stesso art. 2 che nel caso in cui gli atti siano già pervenuti al momento dell’entrata in vigore della legge (19 ottobre 2021) decorrono i termini di cui all’art. 2, comma 1 e 2, cioè quelli ordinari, mentre tempi più lunghi sono previsti nel caso in cui gli atti, sempre per i reati successivi al 1° gennaio 2021, pervengano entro il 31 dicembre 2024.
Si è prospettata una lettura sistematica dei commi 4 e 5 cit. che non trova giustificazione stante la sua ragionevolezza, che sembrerebbe escludere anche la possibilità di prorogare i termini che dall’entrata in vigore della legge sono già in corso.
La previsione, oltre la sua chiara letteralità, appare pienamente giustificata dal fatto che nella prima ipotesi non appare necessario l’arrivo degli atti (già presenti) per i quali la decisione può quindi seguire i termini fisiologici.
Nonostante alcune diverse opinioni non pare suscettibile di operare il cpv. dell’art. 129 c.p.p., in mancanza di adeguata copertura normativa.
Va sottolineato che in questo caso il problema non sembra prospettarsi in caso di reati puniti con l’ergastolo, nonché per i reati che consentono numerose proroghe (fatta salva l’ipotesi in cui le proroghe non vengano disposte).
Negli altri casi è evidente la mancanza di una previsione sul punto, non potendo essere applicata analogicamente quella del cpv. dell’art. 129 c.p.p. (comunque ancora operate solo in primo grado) e comunque confliggente con i poteri del giudice del gravame.
Non sarebbe possibile, come si tenta di sostenere, far leva sul mantenimento della sentenza di prima istanza, da porre in comparazione con quella di improcedibilità, né in caso di doppio conforme, ipotizzando la rinuncia all’improcedibilità, invero, definita dal comma 7 dell’art. 344 bis c.p.p. come richiesta di “prosecuzione del procedimento” (quindi precedente la dichiarazione della sentenza che non verrebbe pronunciata).
Nel primo caso di ipotizza che la sentenza di primo grado o d’appello, pur se invalida manterrebbe efficacia; nel secondo andrebbero considerati, dalla difesa, gli esiti del ricorso del pubblico ministero e comunque del giudizio di impugnazione.
Si consideri che si applicherebbe l’intero ventaglio delle ipotesi di cui al cpv. dell’art. 129 c.p.p., non tutte del tutto favorevoli, seppur di proscioglimento.
Va sottolineato che “l’apertura” all’operatività del cpv dell’art. 129 c.p.p. apre la strada a non secondari effetti collaterali, anche a prescindere dalla conseguente chiara prevalenza della inammissibilità sulla improcedibilità.
Invero, appare chiaro che, di fronte a questa possibilità, si aprirebbe la strada per l’impugnabilità della declaratoria di improcedibilità (certamente possibile per la mancanza dei presupposti della sua pronuncia) anche per il difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione del cpv. dell’art. 129 c.p.p., ovvero per una formula migliorativa della precedente.
Inoltre il riconoscimento di un potere decisorio in favor significherebbe al contrario una decisione implicitamente negativa per l’imputato.
4. I profili controversi
Il profilo attualmente più controverso riguarda il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione proposta e la decisione di improcedibilità. Si tratta di un aspetto teorico, dai risvolti significativamente pratici; l’improcedibilità - come detto – travolge le decisioni impugnate; l’inammissibilità, le fa diventare irrevocabili ed esecutive (con i limiti, di cui si dirà, della impugnabilità).
Va sottolineato che non essendo possibile dichiarare la prescrizione in fase di impugnazione anche in Cassazione, non trova più alcun riferimento tutta la giurisprudenza delle Sezioni unite sul rapporto tra inammissibilità e prescrizione.
Conseguentemente, il tema – in relazione alla improcedibilità – va riconsiderato, a parte la considerazione che la questione non si pone nei casi di proroghe illimitate nel tempo (salvo il caso in cui le proroghe non siano disposte) o nel caso di reati puniti con l’ergastolo, stante la mancata applicabilità dell’art. 344 bis c.p.p.
La questione si prospetta nel caso in cui il giudice deve dichiarare l’improcedibilità, essendo scaduti i tempi del giudizio a fronte di una impugnazione inammissibile, ancorché qualche problema – come si dirà – potrebbe porsi anche nel caso in cui l’inammissibilità sia pronunciata prima della scadenza dei termini, la relativa decisione venga impugnata, con effetti decisori diversificati (rigetto/accoglimento).
A tempi brevi – nel regime transitorio – la questione potrebbe essere agevolmente superata nei fatti, sicuramente ai sensi del comma 5 dell’art. 2 l. n. 134 del 2021, stante gli ampi tempi di smaltimento, ma anche nel caso del comma 4, se pur solo in cassazione, in sede di esame preliminare di ammissibilità, ovvero con meccanismi organizzativi tesi ad escludere il superamento dei tempi.
Tuttavia, restando la questione comunque prospettabile, è necessario indicare una possibile soluzione al problema, in ordine al quale tuttavia, un punto fermo, alla luce dell’art. 648 c.p.p. può dirsi raggiunto in relazione all’impugnazione proposta fuori termine: il giudicato non permette una declaratoria di improcedibilità.
Fermo restando, per le riferite diversità strutturali, le differenze con estinzione del reato per prescrizione e della conseguente inapplicabilità della giurisprudenza delle Sezioni Unite che ha progressivamente regolato il relativo rapporto con l’inammissibilità, facendo prevalere quest’ultima, fatta salva l’ipotesi della pena illegale, così definita dalla Corte costituzionale, le tesi contrapposte possano essere così delineate.
La soluzione che fa prevalere l’improcedibilità sull’inammissibilità considera che il decorso del tempo delinei lo spazio decisorio del giudice, esaurito il quale non gli residuerebbe nessun potere deliberativo (anche l’art 578,comma 1 bis, c.p.p. si configurerebbe solo per una mera trasmissione degli atti). Confermerebbe questo dato l’irrilevanza dell’atto di impugnazione al quale non si fa alcun riferimento nell’art. 344 bis c.p.p.
Questo dato è vero e si evidenzia nel caso in cui l’atto di gravame pervenga sia prima, sia dopo il tempo astrattamente previsto dal legislatore per il decorso del tempo massimo per la sua “definizione”.
Se nel primo caso, il giudice dovrebbe poter decidere anche anticipatamente, fermo il limite massimo, ove non ritenesse di attendere, escludendosi la possibilità di scorporare quel periodo, nel caso dell’arrivo tardivo, potrebbero determinarsi le condizioni per la proroga del tempo massimo, se non già scaduto.
In ogni caso, a prescindere da questi elementi, pur significativi, non può negarsi che il tempo per la “definizione”, rileva solo se c’è un atto di gravame da valutare; diversamente, esso opera inutilmente. In altri termini, senza un atto di impugnazione, quel tempo non rileva: scorre inutilmente e non ci sarà nessuna declaratoria di improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. e nessuna decisione intermedia.
Invero, il riferimento alla “definizione” del giudizio, nonché al “giudizio di impugnazione” (complessità, per numero delle parti, delle imputazioni e delle questioni), ed anche agli sviluppi processuali dell’impugnazione, figura in molte previsioni dell’art. 344 bis c.p.p..
Ci sono, invero, molti elementi che, seppur ai fini del tempo a disposizione del giudice dei gravami, fanno riferimento all’atto di impugnazione.
La sentenza non impugnata o tardivamente impugnata diventerà definitiva ed il trascorrere di quel tempo sarà stato irrilevante.
È per effetto della presenza nel processo dell’atto di impugnazione che rilevano quei tempi che il legislatore ha fissato per la definizione del giudizio di gravame entro l’arco temporale che intercorre fra quello di cui al comma 3 dell’art. 344 bis c.p.p. ed il giorno antecedente per la definizione: in questo spazio temporale il giudice ha pienezza di poteri (merito e inammissibilità), eccettuata la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione.
Diversamente si devono considerare gli effetti di una impugnazione che sia stata proposta e che abbia investito il giudice dell’impugnazione e che abbia visto decorrere i tempi assegnati per la sua definizione. Problema che non si pone con riferimento ai reati che non consentono l’improcedibilità. Invero, l’inammissibilità dell’atto costituisce un prima, rispetto alla declaratoria temporale che precluderebbe il suo stesso decorso. Il tempo della decisione fissato dal legislatore nella prospettiva di un atto di gravame sarebbe condizionato dall’atto proposto in relazione al quale ha fissato il tempo della definizione, con la conseguenza di valutarne anche la validità.
Il discorso, anche alla luce della diversa opinione, forse potrebbe essere considerato nella prospettiva dei poteri che il decorso del tempo conserva al giudice. Sembra doversi riconoscere al giudice, anche a termini scaduti, alcuni poteri non esauritisi con il passare del tempo assegnatogli.
Al di là di quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, (ed inoperatività dell’art. 622 c.p.p.), non può escludersi che il giudice debba valutare la qualificazione del fatto in relazione al tempo massimo a sua disposizione.
Va sottolineato che nel caso in cui si acceda alla tesi della prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella di improcedibilità questa ultima decisione se non condivisa sarà suscettibile di impugnazione, come per l’ipotesi opposta sarà gravata la sentenza di improcedibilità che non abbia dichiarato l’inammissibilità.
Il discorso si salda con le situazioni nelle quali la declaratoria di inammissibilità dichiarata entro i termini ordinari, sia impugnata.
Con riferimento all’appello, in caso di ricorso contro la decisione, in caso di rigetto, la decisione diventerebbe definitiva (art. 648 c.p.p.), in caso di accoglimento da parte del Supremo Collegio, bisognerebbe vedere se il giudice d’appello sia in tempo per decidere, altrimenti si riprospetta, salva la possibilità di ritenere i termini sospesi, proprio il tema del rapporto tra inammissibilità e improcedibilità.
Non può escludersi che sia la Cassazione, nel contesto di un ricorso ammissibile a riconoscere (d’ufficio o su istanza di parte) l’inammissibilità dell’appello, non dichiarata in precedenza (in via ordinaria, cioè, entro i termini) con conseguente definizione del processo.
Il tema prospetta risvolti diversi in caso di inammissibilità dichiarata dal Supremo Collegio, anche in questo caso considerando le ipotesi di un ricorso con possibile declaratoria di accoglimento o di rigetto.
Al riguardo, è necessario considerare quanto previsto dall’art. 610, comma 5 bis, c.p.p.
Invero, se la Cassazione decide entro il termine massimo, si prospettano due ipotesi: la prima vede la questione definita; la seconda riguarda l’operatività dell’art. 610 c.p.p. e l’esito di un eventuale ricorso, di rigetto o di accoglimento, riproponendosi le soluzioni già indicate.
Il tema riguarda, pertanto, le ipotesi delle possibili declaratorie esauriti i tempi massimi che, tuttavia, sono definite nei contenuti decisi dal Supremo Collegio, non essendo le sue decisioni ordinariamente impugnabili.
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