Movimento per la Giustizia: la sua storia* di Armando Spataro** - prima parte
Sommario della prima parte: 1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi. - 2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con Proposta ’88.
Coerentemente con l’impostazione del Corso, cercherò, in questo intervento, di concentrarmi sulla storia del Movimento per la Giustizia (poi “Movimento per la Giustizia-Proposta’88” ed infine “Movimento per la Giustizia–Articolo 3”), limitandomi, solo quando necessario, a brevi considerazioni sull’ANM, sulle altre correnti e su fatti successivi al dicembre 2018 che conosco meno a seguito della cessazione del mio servizio per raggiunti limiti di età.
1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi
La storia dell’Associazione nazionale magistrati, fondata nel 1909 è ampiamente nota ed è stata descritta e ricostruita in molti testi, unitamente a quella delle prime correnti[1]. A tal proposito, può qui schematicamente ricordarsi che le «correnti» iniziarono a formarsi dalla fine degli anni ’50, allorché – dopo il Congresso di Napoli del 1957 e in vista delle elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale del 1958 – si formarono due schieramenti contrapposti, uno dei quali si autodenominò Terzo Potere, che – su posizioni conservatrici – si opponeva alla maggioranza dell’Associazione. Nel 1961, addirittura, un gruppo di magistrati ultraconservatori abbandonò l’Anm formando l’Unione magistrati italiani (UMI), che si estinse, però, nel 1979, rifluendo nell’Anm stessa.
Altre correnti o gruppi organizzati furono successivamente fondati:
- tra il 1962 e il 1963 Magistratura indipendente;
- nel 1964, Magistratura democratica, a opera di magistrati che fuoriuscirono da Terzo Potere;
- nel 1969, Impegno costituzionale ad opera di un’estesa frangia di magistrati di Md;
- nel 1980, Unità per la Costituzione a seguito della fusione di Impegno Costituzionale con Terzo Potere;
- nel 1988, il Movimento per la Giustizia per le ragioni e per i fini di cui parlerò appresso;
- nel 1988, Proposta ’88, ad opera di magistrati che fuoriuscirono da Magistratura Indipendente. Anche di Proposta ’88 si parlerà nel paragrafo seguente;
- nel marzo del 1999, fu per la prima volta pubblicato il “Ghibellin Fuggiasco”, un “foglio critico-informativo” di Unità per la Costituzione, curato da giovani rappresentanti di quel gruppo del distretto della Corte d’Appello di Napoli. Successivamente alcuni di quei magistrati lasciarono Unicost, realizzando attività in comune con colleghi del distretto di Salerno aderenti a “Impegno per la legalità” ed assumendo per la prima volta, nell’ottobre del 2003, la denominazione di Articolo 3. Nel corso dell’Assemblea di Roma del 13 e 14 dicembre 2008, fu formalmente ratificata – dopo un periodo di vicinanza associativa - la fusione in un unico gruppo del Movimento per la Giustizia ed Articolo 3. Se ne parlerà nel paragrafo 4;
- nel 2013, Area, per effetto di una scelta di Magistratura Democratica e del Movimento per la Giustizia, che, come appresso si dirà, non si sono sciolte e che nel 2017 hanno poi mutato la denominazione del “gruppo comune”, chiamandolo Area Democratica per la Giustizia. Se ne parlerà nel paragrafo 7;
- nel 2012, Articolo 101 (o anche “Altra Proposta” e prima ancora “Proposta B”, denominazione usata per la lista di candidati presentata in occasione delle elezioni del CDC del 2012), gruppo che duramente contesta ANM e CSM ed il cui programma si fonda su scelte che da tempo definisco inaccettabili: sorteggio “temperato” per designare i componenti del CSM, rotazione per incarichi direttivi e semidirettivi, abolizione della immunità funzionale dei membri del CSM, temporaneità effettiva degli incarichi direttivi per contrastare il cd. “carrierismo” etc.;
- il 28 febbraio 2015, data dell’Atto costitutivo e dello Statuto approvato, Autonomia & Indipendenza (prevalentemente grazie alla fuoriuscita di vari fondatori da Magistratura Indipendente), il cui principale scopo sembra essere quello della cancellazione delle correnti e della valorizzazione del sorteggio per la designazione dei rappresentanti dei magistrati, sia in seno all’ANM che nel CSM, giudicate rispettivamente associazione ed istituzione non in grado di adempiere con onore ai rispettivi compiti e doveri. Nell’aprile del 2016 un suo noto rappresentante fu nominato presidente dell’ANM, ma nel luglio del 2017 lasciò la GEC, insieme a tutti i componenti della corrente in polemica con le modalità di scelta dei magistrati per gli incarichi direttivi.
2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con “Proposta ‘88.
Voglio premettere che questo intervento conterrà varie citazioni del mio percorso professionale e associativo: me ne scuso, ma ciò inevitabilmente serve ove si voglia raccontare, come in questo caso, una storia vissuta in prima persona.
Per cominciare, ricordo che, dopo il tirocinio, avevo assunto nel settembre 1976 le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica di Milano e che dopo qualche mese di lavoro avevo iniziato ad interessarmi all’attività dell’Associazione Nazionale Magistrati: non avendo maturato alcuna opzione e volendo conoscerne la situazione, presi a frequentare, sia pure non con assiduità, le riunioni di Magistratura Democratica, di Terzo Potere, di Magistratura Indipendente (lo feci per due volte) e di Impegno Costituzionale. Ascoltavo ciò che vi si discuteva e cercavo di capire quale delle correnti sentivo più vicina al mio modo di pensare. Ero indeciso tra Magistratura Democratica ed Impegno Costituzionale ma, durante una riunione di MD, fui negativamente colpito dalle dure critiche che un collega iscritto formulò nei confronti dei magistrati che avevano accettato di condurre inchieste di terrorismo (io ero uno di loro). Solo Edmondo Bruti Liberati intervenne con forza per contestare quelle affermazioni.
Anche per questo, scelsi di iscrivermi ad Impegno Costituzionale, il cui leader indiscusso era all’epoca Adolfo Beria d’Argentine, gruppo in cui si riconoscevano alcuni miei maestri come Emilio Alessandrini, Guido Galli, Gerardo D’Ambrosio ed altri ancora. Il mio impegno personale nella corrente aumentò progressivamente tanto che divenni uno dei componenti della segreteria milanese .
Grande, però, fu la delusione allorchè nel 1980, nel corso di un’assemblea a Milano, proprio Beria d’Argentine annunciò ai presenti che gli organismi dirigenti di Impegno Costituzionale e di Terzo Potere avevano deliberato la fusione dei due gruppi, la cancellazione delle loro denominazioni e la conseguente nascita di una nuova corrente che si sarebbe chiamata Unità per la Costituzione (Unicost). Molti dei presenti (tra i quali pochissimi erano a conoscenza di quella novità) furono d’accordo su quella scelta, alcuni rimasero perplessi, mentre io – che ero rimasto assolutamente sorpreso – chiesi la parola e domandai ai dirigenti nazionali presenti come mai, vista la sua indubbia importanza, quella decisione non era stata prima sottoposta al giudizio degli iscritti (oggi si direbbe “della base”).
Non ebbi alcuna risposta per cui, prima che l’assemblea venisse dichiarata chiusa, rassegnai le mie dimissioni sia dalla carica di componente della segreteria milanese che da quella di iscritto ad Impegno Costituzionale.
Era il 1980 e per i seguenti otto anni non svolsi alcuna attività associativa, non partecipai ad alcuna riunione e votai sempre secondo preferenze nei confronti di singoli candidati da me stimati e non delle loro correnti di appartenenza.
Certo, rispetto a quella personale scelta di disinteresse associativo, ebbe un ruolo determinante anche il mio impegno professionale nel settore del terrorismo interno che davvero non mi lasciava tempo per altro.
Ma nel 1988 finirono sostanzialmente gli “anni di piombo” e – pur senza nesso causale tra i due eventi – fui tra i fondatori del Movimento per la Giustizia.
La premessa della nascita del gruppo fu costituita da uno «storico» documento che alcuni magistrati allora “militanti” in UNICOST diffusero all’inizio del 1988 per manifestare il proprio disagio per la gestione di quel gruppo e dell’ANM, caratterizzata dalla regola della lottizzazione correntizia. Casualmente quel manifesto fu stampato su carta verde (perché il tipografo sotto casa di Mario Almerighi, ove fu stampato, disponeva in quel momento solo di carta di quel colore), da cui il nome di «Verdi» che, all’inizio, venne usato per designare, anche con qualche punta spregiativa, quel gruppo di persone che intendevano impegnarsi per riaffermare il metodo del dibattito aperto e tra le quali vi erano Mario Almerighi, Pierpaolo Casadei Monti, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Luciano Gerardis, Ubaldo Nannucci, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky, Pasquale D’Ascola. Ci fu, anzi, qualche “avversario” che li definiva “meloni”, verdi fuori e rossi dentro.
Va doverosamente ricordato però che il primo storico documento “verde” risale al 1982 e faceva riferimento ad una tempestosa riunione del comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione successiva alle elezioni del CDC ed allo straordinario successo elettorale della candidatura di un magistrato che, nella funzione precedentemente rivestita di componente del CSM, era stato protagonista di una interferenza presso la Procura Generale di Milano in relazione ad una nota indagine dell’epoca. MD chiese di non affidare la presidenza dell’ANM a quel magistrato, pur essendo stato nettamente il più votato tra i candidati, e soltanto i “verdi” (Tamburino, Zagrebelsky, Di Nicola, Sciacchitano, Almerighi, Condorelli, Anna Creazzo), appoggiando quella richiesta, impedirono il formarsi di una unanimità a sostegno della candidatura alla Presidenza ANM di quel magistrato plurivotato che dovette così rinunciare all’incarico. A quella riunione dei “verdi” altre ne seguirono, sempre più partecipate. I magistrati prima citati ed altri ancora furono protagonisti di numerose mobilitazioni e “battaglie”: indimenticabile la resistenza al Pres.te Cossiga in occasione del suo primo conflitto del 1985 con il CSM, riguardante la formazione dell’odg e le prerogative dei Pubblici Ministeri. I magistrati del gruppo dei “verdi” erano in gran parte tutti provenienti da Impegno Costituzionale, contrari alla fusione – che volevano far annullare - con Terzo Potere che, come si è detto, aveva dato luogo ad Unità per la Costituzione.
Così nacquero dunque i “verdi”[2] che quindi, dopo essere stati minoranza dissenziente in Unicost per circa 6 anni densi di avvenimenti e fatiche, furono determinanti per la fondazione del Movimento nel 1988.
Tornando, dunque, al manifesto del 1988, esso rappresentò l’atto di nascita di un nuovo metodo di confronto e di quello che sarebbe stato il Movimento per la Giustizia. Il Movimento, infatti, nacque nell’aprile del 1988 nell’ambito dell’Associazione Magistrati, grazie alla citata iniziativa dei “verdi” e di altri magistrati. Quella del Movimento – come ha scritto Giovanni Tamburino - fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti.
L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti “depositavano” i loro deliberati interni.
Il nuovo gruppo decise non a caso di denominarsi “Movimento per la Giustizia”, poiché si voleva in tal modo mettere in evidenza la scelta di aprirsi agli interventi di qualsiasi componente del mondo dei giuristi, escludendo ogni rischio di autoreferenzialità.
Per questa ragione lo statuto consente tuttora la formale iscrizione di avvocati e professori: non furono molti, però, gli appartenenti a tali categorie professionali che si iscrissero al gruppo…e forse noi stessi abbiamo spinto poco in tale direzione.
L’evento che contribuì in modo decisivo a determinare la fondazione del Movimento per la Giustizia fu la mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, dopo che Antonino Caponnetto era stato trasferito ad analoghe funzioni al Tribunale di Firenze. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche (secondo cui la maggiore anzianità, purchè senza demerito, doveva essere il criterio prevalente nella nomina dei magistrati per incarichi direttivi e semidirettivi), quando non di mero potere, prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia: il 19 gennaio 1988, 16 consiglieri (tra cui 2 di MD) votarono per Antonino Meli (che vinse), 10 (tra cui Vito D’Ambrosio, Pietro Calogero che erano allora iscritti ad Unità per la Costituzione, nonché Stefano Racheli che era iscritto a Magistratura Indipendente e Gian Carlo Caselli di MD) per Falcone e 5 si astennero.
Tornerò più avanti sulla vicenda Falcone.
Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali che furono i fondatori del gruppo.
In ordine alfabetico ne vengono elencati i nomi, collocando in un primo gruppo coloro che sottoscrissero il 16.4.1988 un documento di dimissioni da Unicost, (custodito nell’archivio del Movimento, il cui incipit è il seguente: “I sottoscritti, avendo constatato l’impossibilità di proseguire ulteriormente la propria azione – come gruppo e come singoli – all’interno di Unità per la Costituzione, nel promuovere con altri colleghi un movimento aperto alla partecipazione di tutti i magistrati, comunicano di rassegnare le proprie dimissioni dalla corrente di Unità per la Costituzione”): Leonardo Agueci, Mario Almerighi, Fausto Angelucci, Rodolfo Attinà, Walter Basilone, Angelo Bozza, Pietro Calogero, Nino Condorelli, Mario Conte, Anna Creazzo, Vito D’Ambrosio, Luigi De Ficchy, Luigi De Liguori, Enrico Di Nicola, Massimo Fabiani, Giovanni Falcone, Olindo Ferrone, Giuseppe Fici, Francesco Garofalo, Pina Geremia, Mario Giarrusso, Anna Introini, Franco Ionta, Ferdinando Licata, Onofrio Lo Re, Gabriella Luccioli, Sergio Materia, Maria Monteleone, Mario Morisani, Domenico Nataloni, Angelo Palladino, Federico Palomba, Vittorio Paraggio, Ippolisto Parziale, Antonio Petrella, Carlo Peyron, Franco Providenti, Nicla Restivo, Ciro Riviezzo, Giuseppe Sajeva, Roberto Sciacchitano, Matia Teresa Saragnano, Armando Spataro, Giovannantonio Tabasso, Franco Testa, Raffaele Tito, Andrea Vardaro, Guido Viola;
Altri fondatori del Movimento, in gran parte anch’essi dimissionari da Unicost, furono: Ernesto Aghina, Giuseppe Ayala, Maria Teresa Cameli, Rosario Cantelmo, Domenico Carcano, Pierpaolo Casadei Monti, Aldo Celentano, Angelo Costanzo, Gerardo D’Ambrosio, Michele Del Gaudio, Marco Di Napoli, Matteo Frasca, Mario Fresa, Luciano Gerardis, Francantonio Granero, Pietro Grasso, Giovanni Kessler, Sergio Lari, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Antonella Magaraggia, Sergio Materia, Gianni Melillo, Alfredo Morvillo, Francesca Morvillo, Ubaldo Nannucci, Nello Nappi, Gioacchino Natoli, Guido Papalia, Roberto Parziale, Piervalerio Reinotti, Franco Roberti, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky ed altri ancora.
Questo il manifesto fondativo che approvammo all’unanimità il 17 aprile 1988, al termine di una indimenticabile assemblea svoltasi nell’Hotel Salus di Roma, in piazza Indipendenza, a cento metri circa dal CSM:
Sono stato a lungo indeciso se inserire l’intero “manifesto fondativo” in questo documento: “forse è troppo lungo” - mi dicevo – ma, letto e riletto, mi è parso pensato e scritto oggi! Allora valeva la pena di inserirlo qui .
Il documento, infatti, oltre a tracciare le linee d’azione lungo cui il Movimento si è mosso nei decenni successivi, dava corpo ad una seria presa di distanza dalle deviazioni correntizie che già allora si manifestavano. Vorrei essere chiaro: a prescindere dalla mia esperienza personale non sono mai stato tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Questo tema sarà appresso approfondito (par. “9.a” e 9”b”), ma non si può negare che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni, anche prima dell’esplodere del “caso – Palamara”: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Ciò è avvenuto spesso – ed è la deviazione più eclatante – per le nomine dei dirigenti degli uffici, ma anche per i trasferimenti in Cassazione o in altri uffici ambiti, per le designazioni dei relatori nei corsi di aggiornamento professionale e così via. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm, i quali non celano, a loro volta, vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica.
Il Movimento per la Giustizia, sin dai suoi primi passi, intese porre all’attenzione della magistratura associata tali deviazioni che già allora si manifestavano, denunciando la cd. “questione morale” e proponendo strumenti di contrasto che sarebbero stati in breve da tutti i magistrati condivisi, almeno a parole: estraneità rispetto a qualsiasi aspettativa della politica, necessità di efficienza e trasparenza nella gestione degli uffici giudiziari (il termine “giustizia partecipata”, ormai diventato di uso comune, fu coniato proprio in un convegno del Movimento), controlli di professionalità tali da valorizzare, specie rispetto al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, la specializzazione professionale dei magistrati nei diversi settori della loro attività. Temi urgenti e difficili che ci fecero guadagnare l’appellativo irridente di «moralisti ed aziendalisti» e che le correnti tradizionali, tutte, seppure in misura diversa e per ragioni diverse, avevano trascurato, condizionate da meccanismi che ne impedivano la discussione senza reticenze.
Era fuori di dubbio la nostra vicinanza, sul piano della condivisione dei principi su cui deve reggersi la giurisdizione, alla corrente di Magistratura democratica. Personalmente, ne apprezzavo la capacità di produzione culturale e l’organizzazione interna. Ma eravamo abbastanza critici rispetto a una compattezza ideologica così forte da conferirle una sorta di forma-partito. D’altro canto, penso che i colleghi di MD, pur apprezzando molte nostre posizioni, ci considerassero affetti da ricorrenti sintomi di qualunquismo. Solo con il tempo, abbiamo superato, credo in modo sincero, quelle reciproche diffidenze.
Il primo congresso nazionale del Movimento per la Giustizia si svolse a Milano nel novembre del 1988: le posizioni del gruppo erano diventate, in gran parte e in tempi relativamente brevi, oggetto di ampia conoscenza all’interno della magistratura, nonostante le iniziali fortissime resistenze ed i tentativi, in seguito attuati persino con una precipitosa manipolazione della legge elettorale relativa al C.S.M. del 1990 (si veda appresso su questo punto), di tenerci fuori dal C.S.M. stesso e conseguentemente di farci a breve scomparire dalla scena della magistratura associata. Di quel convegno in tanti ricordiamo uno storico intervento di Giovanni Falcone che venne pubblicato su La Repubblica del 9 novembre e che dovrebbe oggi essere ripubblicato. Iniziava così: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato impiegato…Basta con un’Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il CSM”.
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, il Movimento fu oggetto di interesse da parte di molti giovani magistrati “innamorati” della Costituzione che vedevano in tanti modi violentata. Fuor di metafora il Movimento per questi neo magistrati fu la naturale scelta di associazionismo perché costituito da persone che non badavano a sé medesimi, che non parlavano di carriera e di posti, bensì di come inverare la Costituzione e di come servirla al meglio: insomma furono in tanti a scommettere il meglio delle proprie energie sulla scelta “movimentista”, sia pure con fortune alterne.
Alla fine degli anni ‘80, il Movimento iniziò un percorso di comune impegno associativo insieme al gruppo di Proposta ’88, che, nato da una scissione all’interno di Magistratura indipendente per ragioni in qualche modo simili a quelle che avevano indotto i “verdi” a lasciare Unicost, era guidato da Stefano Racheli, Alfonso Amatucci ed altri colleghi. Ad un certo punto, dopo un intenso confronto ed iniziative comuni, i due gruppi decisero di fondersi adottando inizialmente la denominazione “Movimento per la Giustizia – Proposta ‘88”, mutata poco dopo, più semplicemente, in “Movimento per la Giustizia”. La fusione fu seguita in particolare da un primo comitato paritetico provvisorio di cui facevano parte – per il Movimento - Mario Almerighi, Leo Agueci, Gianni Kessler e Ippolisto Parziale. Il conseguente apparentamento elettorale diede ottimi risultati in occasione del rinnovo del CSM nel 1990, di cui parlerò appresso.
Intanto, in un crescendo di impegno diffuso, il Movimento aveva per la prima volta pubblicato un proprio periodico autofinanziato, Impegno per la Giustizia, ovviamente in cartaceo verde. Il primo numero fu quello dell’ottobre/dicembre 1989[3], stampato presso una tipografia romana. Il primo direttore fu Roberto Sciacchitano. Stampa, pubblicazione e diffusione del periodico, come tutte le attività del Movimento ancora oggi, furono autofinanziate[4].
Proprio tra il 1989 e l’inizio del 1990, il Movimento si trovò di fronte al problema che storicamente si presenta per gruppi o movimenti che, nati per fungere da stimolo per le istituzioni di riferimento, devono a un certo punto decidere se andare avanti limitandosi a criticarle e a dare suggerimenti dall’esterno o se concorrere a renderle più trasparenti ed efficienti dell’interno.
Partecipare o no alle elezioni del 1990 per il rinnovo del Csm, dunque, fu l’interrogativo che il Movimento affrontò in un importante congresso nazionale a Milano. Vladimiro Zagrebelsky, io ed altri eravamo contrari. L’assemblea decise diversamente ed ebbe ragione, nonostante il varo in extremis della citata legge elettorale che, introducendo un quorum altissimo di consensi (9%) per accedere all’assegnazione dei posti con metodo proporzionale, intendeva dichiaratamente colpire il nostro neonato gruppo «eretico», impedendone l’accesso al Csm. Ma il Movimento, ormai corpo unico con Proposta ’88, riportò un successo inaspettato, specie tra i giovani magistrati, raggiungendo il 14% circa dei consensi e portando nel Csm ben tre suoi candidati (Alfonso Amatucci, Nino Condorelli e Luigi Fenizia) anche se tra gli eletti non vi fu Giovanni Falcone che, dopo la nascita del gruppo, vi si era dedicato con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano. Aveva accettato di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse ben “speso” nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò in tal modo la falsità dell’assunto secondo cui chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, acquistando notorietà e però rischiando la pelle, diventa per ciò solo popolare e amato da tutti e fa più facilmente carriera. Lo aveva teorizzato, come si sa, Leonardo Sciascia: «I lettori, comunque, prendano atto» – scriveva Sciascia chiudendo il suo celebre attacco ai «professionisti dell’antimafia», pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 – «che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Si riferiva in quel caso alla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala che il Csm aveva deliberato pochi mesi prima, preferendolo a magistrati con maggiore anzianità ma minor esperienza nel campo delle indagini sulla criminalità mafiosa.
Tornando a Falcone, a quella piccola grande delusione egli reagì con il sorriso ironico e con il distacco proprio dei siciliani colti, fatalisti, abituati a vivere alla giornata e a non meravigliarsi di nulla. Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza. Ne voglio spiegare le ragioni che rimandano anch’esse alla visione della giustizia del nostro gruppo.
Era accaduto che alla vigilia del varo della Direzione nazionale antimafia – e subito dopo – altre discussioni divisero noi magistrati: riguardavano appunto Giovanni Falcone. Non posso dire di avere lavorato con lui nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992, anche lavorando intensamente insieme nel Movimento per la Giustizia, fin quasi alla sua morte.
Ciononostante, in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici: una situazione simile, cioè, a quella che Paolo Borsellino aveva denunciato pubblicamente nel luglio del 1988. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quanto infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «.. .capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA) e delle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) e anche in questo caso patì qualche critica per la sua originaria impostazione. Il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente alcune critiche e preoccupazioni : alla luce delle competenze che si volevano attribuire alla DNA, in particolare, era forte il rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sua sostanziale dipendenza dall’esecutivo. Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli.
Si trattava di critiche, dunque, che nulla avevano a che fare con altre posizioni inaccettabili, come quelle leggibili in una retriva circolare del CSM del 1993 che definiva le DDA come potenziali incrostazioni e centri di potere. Per cambiare quella circolare il Movimento si impegnò in nome della necessità della specializzazione dei saperi.
Ma altre critiche, più personali, piovvero addosso a Falcone quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato più volte l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma quelle discussioni finirono forse con il raffreddare i rapporti di Giovanni con il Movimento, pur se quei dubbi non avevano in alcun modo intaccato la nostra stima ed i nostri sentimenti nei suoi confronti.
Comunque, prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Tornando al Movimento ed alla mia esperienza professionale e di “militante”, rammento che il gruppo mi chiese la disponibilità a candidarmi per il rinnovo del CSM nel 1994, ma rifiutai per gli assorbenti impegni di lavoro nella Procura di Milano. Quelle elezioni fecero registrare un nostro successo ancora maggiore di quello del 1990 e i nostri rappresentanti in seno al Csm passarono da tre a quattro. Mi impegnai in campagna elettorale accompagnando presso i Tribunali della Lombardia il nostro candidato di spicco, Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e studioso di eccezionale livello, eletto insieme a Sergio Lari, Saverio Mannino e Paolo Fiore.
Fu proprio Zagrebelsky, unitamente a Stefano Racheli, a chiedermi di candidarmi nel 1998. Questa volta accettai. Negli anni precedenti, a causa dell’impegno nel settore Antimafia, mi ero anche dimesso dal ruolo di segretario nazionale del Movimento, appena tre mesi dopo esservi stato designato dall’assemblea del gruppo. Avevo sbagliato a pensare di poter esercitare quella funzione in presenza di un impegno professionale così assorbente, sulla cui priorità non ho mai avuto alcun dubbio. Ma nel 1998, avevo ormai esaurito tutti i principali dibattimenti di mafia, potevo sentirmi in pace con la mia coscienza professionale, ero decisamente motivato per un impegno nell’organo di autogoverno e, soprattutto, mi spingeva l’affetto dei tanti colleghi che mi chiedevano di fare quella scelta. In tanti mi accompagnarono in campagna elettorale, presso le sedi giudiziarie della Lombardia, del Trentino, della Toscana, della Sardegna e della Calabria che costituivano il mio collegio elettorale. La «campagna elettorale» fu coinvolgente e ricca di entusiasmo: tanti volti di giovani colleghi che non conoscevo – e le loro attese – mi incoraggiarono facendomi comprendere che il Movimento per la Giustizia era ormai ben radicato nel territorio nazionale. Il successo fu confortante e, soprattutto, era evidente che non eravamo in alcun modo considerati un gruppo elitario da sostenere per ottenere qualcosa in cambio: a dieci anni dalla fondazione del gruppo, come ha scritto Giovanni Tamburino, potevano ormai contare sull’apporto ed i contributi di chi non aveva partecipato a quella fase iniziale, ma si era a noi avvicinato condividendo i nostri programmi e le nostre conseguenti condotte associative, istituzionali e professionali.
Con me, furono eletti altri due “storici” colleghi del Movimento per la Giustizia: Ippolisto Parziale, giudice a Roma ed uno dei maggiori protagonisti della “messa in opera” organizzativa del gruppo, e Gioacchino Natoli, sostituto procuratore della Repubblica a Palermo ove aveva speso molti dei suoi anni di lavoro accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: erano stati per lui i fratelli e maestri che per me erano stati Guido Galli ed Emilio Alessandrini.
Il 31 luglio del 1998, al Quirinale, prestammo giuramento quali componenti eletti del Consiglio superiore della magistratura, stringendo la mano di Oscar Luigi Scalfaro, uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani, che era stato magistrato prima di entrare in Parlamento.
Molti magistrati, specie negli ultimi anni, sostengono che l’approdo al Csm costituisca il punto d’arrivo al termine di una carriera associativa a ciò finalizzata. E si dolgono se chi ha svolto attività associativa a livello dirigenziale o è stato componente del Csm transiti poi tra i magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia o altri ministeri. Insomma, viene denunciata l’esistenza di una sorta di carriera parallela o alternativa rispetto a quella di chi passa i giorni seduto alle scrivanie di uffici, spesso in condizioni di estrema difficoltà. Talvolta è possibile individuare un fondo di verità in queste impietose valutazioni, ma si scivola nel qualunquismo, a mio avviso, se accuse di questo tipo vengono formulate in modo immotivato e indistinto. Penso, infatti, che le esperienze di molti magistrati possano risultare proficue anche in incarichi ministeriali se si conservano, come spesso ho detto, le caratteristiche di indipendenza e autonomia proprie della nostra professione. Ma penso anche che la vita associativa possa assumere un significato alto ove non comporti disattenzione verso i propri doveri professionali e sia ispirata non da logiche particolaristiche, bensì dai valori e dagli scopi che furono condivisi da quei magistrati che il 13 giugno del 1909 fondarono, a Milano, l’Associazione generale tra i magistrati italiani (Agmi, come allora si chiamava).
Rivendico con un certo orgoglio - e forse con una dose di ingenuità - le ragioni che hanno indotto magistrati appartenenti al Movimento per la Giustizia (e certamente non solo loro) a candidarsi per ruoli elettivi come quelli di componenti del Csm o degli organi direttivi dell’ANM : lo hanno fatto – mi auguro e credo – pensando al CSM e all’Associazione quali organi capaci di difendere la dignità e l’indipendenza assoluta dei magistrati, ma contemporaneamente attenti alla tutela dei diritti dei cittadini. Credo che il Movimento per la Giustizia non abbia mai pensato all’ANM come l’organo di rappresentanza di una «corporazione» o come un «sindacato delle toghe», una definizione, come ha detto giustamente Giuseppe Berruti, componente del Csm nel quadriennio 2006-2010, che è già un modo per intaccarne l’autorevolezza.
Ricordo molte cose belle ed interessanti della mia esperienza al CSM da cui molto ho appreso, ma c’è un episodio che non dimenticherò: vivevamo il difficile periodo in cui Ministro della Giustizia era Roberto Castelli che l’l marzo del 2002 fece una rapida apparizione a Salerno, dove era in corso il XXVI Congresso nazionale dell’Anm su Tempi e qualità della giustizia. Castelli arrivò nell’affollato salone e prese posto in prima fila, giusto pochi minuti prima che prendesse la parola Nello Rossi, il collega consigliere di Magistratura democratica che, con la sua consueta capacità oratoria e con puntualità di argomenti, ebbe modo di elencare al ministro le ragioni di delusione e preoccupazione della magistratura italiana. Castelli parlò subito dopo di lui, suscitando con le sue parole accentuati mormorii e proteste. Immediatamente dopo, mentre come membro del CSM mi accingevo anche io a salire sul palco per il mio intervento, lasciò la sua poltrona in prima fila e abbandonò i lavori congressuali. Il fatto non mi sconvolse più di tanto ed anzi acuì la mia vis oratoria. Parlai, così, rivolto a quella poltrona vuota in prima fila, quasi si trattasse di un preordinato colpo di teatro: «Prendo atto, preliminarmente, che il ministro della Giustizia, appena terminato il suo intervento, sta abbandonando il convegno: è il suo modo di mostrarsi disposto al dialogo, interventi ‘mordi e fuggi’, senza attribuire alcun rilievo alle opinioni altrui. Parlerò, dunque, alla sua poltrona vuota, pregando i presenti di non occuparla». Dopo avere elencato i guasti prodotti dalle leggi varate in quei mesi, ricordai le critiche che piovevano addosso all’Italia da ogni parte d’Europa e, sempre fissando la sua sedia vuota, chiesi al ministro se pensasse davvero che l’Europa fosse popolata di toghe rosse e di nemici dell’Italia. «State portando il paese verso l’oscurantismo giudiziario», conclusi.... Il Ministro non c’era, ma forse sapeva quale era la posizione del Movimento che in quell’occasione esposi in nome dell’intera magistratura.
*Prima parte della Relazione tenuta al corso - “Storia della magistratura e dell’Associazionismo” per la SSM a Scandicci 3/5 ottobre 2022 nella Quarta sessione: “Le Correnti dell’ANM dai programmi ai segni della crisi: una prospettiva storica”. La seconda e la terza parte saranno pubblicate nei prossimo giorni.
**Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) - è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
[1] Va qui citato “Cento anni di Associazione magistrati”, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara (Ipsoa, Milano 2009), distribuito dall’Anm in occasione del centenario della sua fondazione, celebrato a Roma, alla presenza del capo dello Stato e di altre alte autorità, il 25 giugno del 2009. Nel libro, vi è anche descritta la storia delle correnti dell’Associazione, in buona parte analizzata anche nell’intervento di Giovanni Mammone (1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de «La Magistratura»).
[2] Nel sito web del Movimento per la Giustizia, si può leggere comunque uno storico volantino scritto tra il 1984 ed il 1988, cioè nel periodo in cui il gruppo allora dei "Verdi" era ancora nella corrente di Unità per la Costituzione, che cercava di cambiare dall'interno. Vi si possono rinvenire le linee-guida di un'idea della giustizia – fatta propria dal Movimento - che ancora oggi appassiona perché spinge ad esaminarne i problemi nell'ottica e nell’interesse del cittadino, non del magistrato.
[3] Autorizzazione del Tribunale di Roma del 7 giugno 1989.
[4] Attualmente la “quota sociale” versata dagli iscritti ammonta a 12,00 euro mensili (144,00 euro annuali).