ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi note sulla sentenza n. 131 del 2022 della Corte Costituzionale
di Gabriella Luccioli
1. La sentenza n. 131 del 2022 della Corte Costituzionale costituisce l’ultima tappa di una lunga interlocuzione tra la giurisdizione ordinaria, da tempo consapevole della incostituzionalità del sistema vigente di attribuzione automatica del patronimico, la Corte delle leggi, per molti anni arroccata in posizioni di inammissibilità delle pertinenti questioni proposte, e le Corti sovranazionali (v., tra le altre, la sentenza della Corte EDU 7 gennaio 2014 nel caso Cusan e Fazzo c. Italia, la quale affermò che la scelta dello Stato italiano di attribuire ai figli il cognome paterno si basava unicamente su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e che l’ impossibilità di derogare alla regola del patronimico configurava un trattamento discriminatorio contrario al rispetto della vita familiare, in violazione dell’art.14 in combinato disposto con l’ art. 8 della Convenzione; nonché la sentenza della Corte EU 2 ottobre 2003 nel caso Garcia Avello c. Belgio, che proiettò la questione del cognome nell’ambito del diritto comunitario affermando che il rifiuto dello Stato di residenza di aggiungere al cognome paterno di due figli nati da padre spagnolo e madre belga anche quello materno integrava una discriminazione in base alla nazionalità, vietata dagli artt. 12 e 17 del Trattato UE).
Frattanto il legislatore nazionale persisteva nel suo assordante silenzio.
La pronunzia in esame trova la sua premessa logica nell’ordinanza dell’11 febbraio 2021, n. 18 con la quale la Corte Costituzionale, esaminando la questione di legittimità dell’art. 262, primo comma, c.c., nella parte in cui non consentiva ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno, proposta dal Tribunale di Bolzano, ritenne necessario sollevare dinanzi a sé la diversa e più ampia questione concernente la costituzionalità della disciplina generale di automatica attribuzione del solo cognome paterno, in quanto pregiudiziale a quella sollevata dal giudice rimettente. Per tale via la Consulta, superando gli stretti confini della questione prospettata in quel giudizio - in cui si era chiesta da parte del pubblico ministero la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina i cui genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente scelto l’attribuzione del solo cognome materno - decise di non decidere su tale questione e di impostare il problema secondo la richiamata prospettiva volta ad investire la previsione normativa di automatica attribuzione del cognome paterno, sul rilievo che la soluzione della questione specificamente sollevata non avrebbe scalfito la regola che imponeva l’acquisizione del solo cognome paterno in tutte le ipotesi di mancanza dell’accordo.
Nel discostarsi dalla soluzione riduttiva adottata con la sentenza n. 286 del 2016 - con la quale, come è noto, essa aveva dichiarato, con riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., l’incostituzionalità della norma “nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”, ed in via consequenziale della corrispondente disciplina relativa ai figli nati da genitori non coniugati e ai figli adottivi - ritenendola non più sufficiente, la Corte scelse di aprirsi ad un sindacato diretto a verificare la legittimità del principio generale che ella stessa, nelle vesti di giudice a quo, ritenne legato ad una concezione fortemente maschilista e patriarcale della famiglia e del rapporto tra i coniugi e con la prole, non rispettoso di un’effettiva parità di genere e non idoneo ad apprestare una coerente protezione all’ identità personale dei figli.
La Corte delle leggi al riguardo ravvisò un rapporto di presupposizione e di continenza tra la questione specifica sollevata dal rimettente e quella di costituzionalità della disposizione che impone l’acquisizione del solo patronimico, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, e ricordò che il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite. Quindi nella sua veste di giudice autorimettente rilevò la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale per violazione degli artt. 2, 3 e 117 , comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, attesi i profili di incoerenza di una norma che dispone l’ automatica attribuzione del patronimico all’ interno di un ordinamento ispirato ai principi di dignità e di eguaglianza sostanziale e l’ evidente lesione del principio di parità tra i genitori, posto che uno di essi non ha bisogno di alcun accordo per far prevalere il proprio cognome.
La Consulta ritenne non più procrastinabile un proprio ampio e incisivo intervento, a fronte dei ritardi del Parlamento, atteso che nel bilanciamento tra l’esigenza di garantire la legalità costituzionale e l’opportunità di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore doveva attribuirsi rilievo prevalente al primo di detti interessi, non potendo concepirsi la tutela di diritti fondamentali e inviolabili sospensivamente condizionata sine die all’intervento del legislatore: tale bilanciamento si poneva in piena continuità con quello svolto nella sentenza n. 242 del 2019 in materia di suicidio assistito.
E se pure in questa occasione la Corte Costituzionale non fece precedere la propria decisione dal rinvio dell’udienza per offrire al legislatore la possibilità di esercitare le proprie prerogative, il risultato fu sostanzialmente analogo, in quanto con l’autorimessione essa non chiuse il giudizio, ma avvertì il Parlamento che in mancanza di un suo tempestivo intervento avrebbe affrontato nel merito la questione da se stessa sollevata.
2. Con la recente sentenza n. 131 del 2022 la Corte Costituzionale ha segnato un passaggio fondamentale nel cammino delle donne verso la parità, in quanto ha rimosso una delle più gravi violazioni di detto principio ancora ravvisabili nel nostro ordinamento. L’aver posto al centro della decisione il principio di eguaglianza giuridica e morale tra uomo e donna e tra coniugi e l’aver riconosciuto rilievo paritario ad entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell’identità personale del figlio, quale aspetto essenziale della sua dignità, rende evidente la totale coerenza della decisione con i principi costituzionali ed il suo pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona.
La pronuncia in esame si fa apprezzare per l’ampio respiro della sua impostazione e per la nettezza delle posizioni assunte nel ravvisare la disciplina del cognome come punto di confluenza tra il diritto alla pienezza identitaria del figlio e il principio di eguaglianza dei genitori e nell’affermare che sono proprio le modalità con le quali il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori, mentre la selezione della sola linea parentale paterna oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre, sino a rendere invisibile la sua figura.
Sostenere con un linguaggio così fermo ed esplicito che l’automatismo del patronimico reca il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio, ed evidenziare che tale automatismo non trova alcuna giustificazione né nell’ art. 3 Cost. né nel coordinamento tra principio di eguaglianza e finalità di salvaguardia dell’unità familiare di cui all’ art. 29, secondo comma, Cost. vuol dire avallare acquisizioni da tempo maturate nella coscienza collettiva e nella elaborazione del pensiero delle donne.
Affermare che a fronte dell’evoluzione dell’ordinamento non è più tollerabile il lascito di una visione discriminatoria che attraverso il cognome si riflette sull’identità della persona vuol dire distaccarsi in modo radicale da quelle pronunce del passato che si erano arroccate su una superficiale posizione di inammissibilità della questione. Diversa è la prospettiva politica, diversa l’aderenza ai principi costituzionali, diversa la cultura, diversa la sensibilità, diverso il linguaggio del Collegio. E a tale diversità di impostazione ha di certo contribuito il venir meno dell’antico e abusato limite delle rime obbligate.
Nell’affrontare la questione pregiudiziale di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c. sollevata nell’ordinanza di autorimessione la Consulta ha correttamente rilevato che a fronte di una disciplina che garantisce il patronimico la madre è posta in una situazione di asimmetria e debolezza, tale da inficiare la possibilità di un valido accordo, in quanto senza eguaglianza mancano le condizioni logiche e assiologiche dell’accordo: ne deriva che il vizio di legittimità costituzionale riscontrato inficia ab imis anche l’ elemento costitutivo dell’intervento additivo invocato dal Tribunale di Bolzano.
Ne deriva altresì che la disposizione censurata deve essere immediatamente sostituita - a fronte del persistente silenzio del legislatore - con una regola attributiva del cognome di entrambi i genitori, salvo loro diverso accordo, tenuto conto che è proprio il doppio cognome che trasferisce sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori e al tempo stesso costituisce il riconoscimento più immediato e diretto del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali.
3. Ferma la piena condivisione della parte demolitoria della decisione e delle ragioni che la sorreggono, alcune perplessità devono essere evidenziate in relazione alla seconda parte della motivazione, diretta a prospettare linee ricostruttive del sistema.
Non può invero essere sottaciuto che dalla sentenza in esame deriveranno, prima dell’ineludibile intervento del legislatore, seri problemi applicativi, determinati dal molto che essa dice e dal molto che non dice, in un intreccio complicato di pieni e di vuoti difficile da dipanare, problemi resi ancor più impellenti dall’immediata operatività delle regole in essa espresse, dal giorno successivo alla pubblicazione.
Va al riguardo osservato che nell’impostazione della sentenza il “fare salvo” l’accordo delle parti per l’attribuzione di uno solo dei cognomi, una volta reso legittimo detto accordo dal riequilibrio delle posizioni di partenza per effetto della ripristinata legalità costituzionale, vuol dire non già disciplinare un’ipotesi residuale rispetto alla regola generale del doppio cognome, come da taluno si sostiene, ma introdurre nel sistema un elemento volontaristico che fa attribuire a detto eventuale accordo un valore assorbente rispetto all’alternativa del doppio cognome: se è vero infatti che l’esistenza di un accordo, non surrogabile in via giudiziale, è imprescindibile per poter attribuire un solo cognome, è altrettanto vero, per converso, che l’ attribuzione del doppio cognome postula l’insussistenza di un accordo siffatto. Non è qui in discussione la controversa questione dell’ammissibilità o inammissibilità della prova negativa circa l’esistenza di un fatto (nella specie l’intesa tra le parti), ma si pone il problema della configurabilità di un meccanismo, di un luogo e di uno spazio temporale che consentano all’ ufficiale dello stato civile di accertare se un accordo, di per sé impeditivo dell’attribuzione del doppio cognome, sia intervenuto tra i genitori.
È pertanto evidente la necessità e l’urgenza di delineare uno strumento che consenta di riscontrare con immediatezza l’esistenza di un’intesa siffatta, ostativa al conferimento di entrambi i cognomi.
Il problema appare facilmente risolubile nel caso di figli nati fuori del matrimonio, atteso che la previsione del riconoscimento contemporaneo di entrambi i genitori che sta a base della disciplina di cui alla seconda parte del primo comma dell’art. 262 c.c. implica che entrambi abbiano in quella sede la possibilità di esprimere congiuntamente l’opzione per l’una o per l’altra soluzione, ed anche, ove optino per il doppio cognome, di manifestare l’accordo sull’ordine di preferenza. In questo senso appare invero orientata la Corte Costituzionale, lì dove dispone che l’accordo deve avvenire al momento del riconoscimento.
Anche l’ipotesi di adozione, sia che si tratti di adozione di figli maggiorenni che di figli minori, non sembra prospettare particolari difficoltà sul piano applicativo, atteso che la sentenza in esame si dà carico di precisare che l’accordo deve essere raggiunto nel procedimento di adozione. Sarà chiaramente compito del legislatore precisare il momento e le modalità della relativa esternazione nell’ambito di detto procedimento.
La soluzione si profila meno semplice ove si tratti di figli nati nel matrimonio, atteso che nel caso di filiazione matrimoniale l’ attribuzione dello stato di figlio non ha carattere volontario o giudiziale, ma è di tipo normativo, in quanto l’esistenza di un vincolo formale che lega in modo stabile la coppia, quale è il rapporto di coniugio, da cui deriva tra l’altro l’obbligo reciproco di fedeltà, consente di prevedere modalità di accertamento pressoché automatiche, conseguenti all’ adempimento di alcuni obblighi anagrafici: va al riguardo considerato che ai sensi dell’art. 236 c.c. l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile costituisce il titolo dello stato di figlio e che detto atto si forma, ai sensi degli artt. 29 e 30 del d.p.r. n. 396 del 2000, sulla base della dichiarazione di nascita resa da uno dei genitori o da un loro procuratore speciale o, in mancanza, dal medico o dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto; inoltre l’ufficiale dello stato civile registra nell’atto di nascita come genitori i due componenti della coppia coniugata risultanti dalla dichiarazione, tenuto conto, quanto alla madre, del principio che identifica la madre in colei che ha partorito e, quanto al padre, della presunzione legale di paternità di cui all’ art. 231 c.c.
In questo quadro di riferimento la sentenza della Corte Costituzionale non offre alcuna indicazione sulle modalità di manifestazione dell’accordo di attribuzione di un solo cognome, limitandosi a precisare che esso deve intervenire alla nascita. Resta pertanto completamente da definire il percorso che dovrà essere compiuto per provare e riscontrare l’eventuale esistenza di un accordo siffatto, così come resta irrisolto il quesito se l’esercizio di un diritto fondamentale della persona, che costituisce anche espressione della responsabilità genitoriale, quale è quello relativo alla scelta del cognome per il figlio, possa trovare espressione nella semplice sottoscrizione di un modulo predisposto, da esibire (ma che può anche dolosamente o colposamente non essere esibito) dal soggetto dichiarante al momento della dichiarazione di nascita, o non esiga specifiche formalità idonee a garantire la conoscenza e l’autenticità del documento. Spetta al legislatore valutare se la soluzione di tali problemi non richieda anche un intervento modificativo dell’ordinamento dello stato civile.
Non meno complessa è la questione dell’ordine dei due cognomi da attribuire in mancanza di accordo per un solo cognome. La Corte Costituzionale ha escluso la praticabilità di soluzioni ispirate a criteri oggettivi e predeterminati, come l’ordine alfabetico, ed ha demandato la relativa scelta alla volontà delle parti, come unica soluzione ritenuta idonea a riflettere il principio di parità, prospettando altresì la necessità di un intervento del giudice in forme semplificate per dirimere l’eventuale disaccordo e richiamando al riguardo gli att. 316, secondo e terzo comma, 337 ter, terzo comma, 337 quater, terzo comma, 337 octies c.c. Ciò vuol dire che per l’ attribuzione del doppio cognome non è sufficiente la mancanza di un accordo in favore di un solo cognome, ma è anche necessario in positivo un accordo sull’ordine da conferire ai due cognomi. In sua mancanza, la richiamata necessità che sia il giudice a decidere comporta che nelle more del procedimento il minore resti privo di cognome.
Anche in relazione a tale ipotesi si delinea pertanto l’esigenza di configurare - in relazione ai figli nati nel matrimonio - un sistema, un luogo e uno spazio temporale che si inseriscano nel procedimento sopra delineato e consentano di verificare l’esistenza di una concorde volontà delle parti sull’ordine dei cognomi, così da rendere possibile l’immediata attribuzione di essi.
La Corte infine sollecita un intervento del legislatore, definito impellente, sia al fine di evitare meccanismi moltiplicatori del cognome, nel succedersi delle generazioni, che risulterebbero lesivi della funzione identitaria che gli è propria, sia a tutela dell’interesse del figlio a non vedersi attribuire un cognome diverso rispetto a quello dei fratelli e delle sorelle, eventualmente prevedendo che le scelte compiute per il primo figlio siano vincolanti anche per i successivi. A tale riguardo potrebbe essere opportuno dettare una disciplina specifica per l’ipotesi in cui esista già un primo figlio il quale in forza della normativa pregressa abbia ricevuto il cognome paterno.
Un intervento su tali profili è ovviamente auspicabile, ed anzi indifferibile, ma non è certo sufficiente. Le osservazioni innanzi svolte evidenziano infatti la necessità che il legislatore delinei una disciplina armonica della materia che non solo colmi le non poche lacune emergenti dalla coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale ed elimini le disfunzioni che essa è destinata a produrre (in particolare prevedendo sistemi più agili e più rapidi per dirimere il disaccordo sull’ordine dei cognomi), ma ridefinisca in modo organico il sistema ispirandosi al principio di parità tra i genitori ed al rispetto del diritto del figlio alla propria completa identità, che sono a fondamento della decisione della Consulta.
Importanti spunti potranno essere offerti dagli ordinamenti di molti Stati europei ed extraeuropei che con meccanismi diversi da tempo garantiscono una effettiva parità dei genitori nella scelta del cognome da assegnare ai figli, nonché dalle sollecitazioni delle diverse convenzioni internazionali volte a garantire la parità di genere, oltre che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di quella del Lussemburgo e dalle Raccomandazioni del Consiglio d’ Europa.
Come appare evidente, qui non è in discussione la volontà politica di affrontare un tema delicato e complesso, ma è in gioco la capacità del Parlamento di assumere le proprie responsabilità.
La cedevole tutela dell’identità del figlio nelle nuove regole di attribuzione del cognome
di Michele Sesta
A distanza di qualche anno dalla sentenza n. 286/2016[1] e dopo numerosi interventi succedutisi nel tempo[2], la Corte costituzionale si è nuovamente pronunciata in merito alle regole di attribuzione del cognome ai figli con la sentenza n. 131/2022, che ha avuto ampia risonanza anche mediatica. Come noto, nel sistema tradizionale, ancorché in mancanza di un’espressa disposizione di legge, al figlio nato in costanza di matrimonio veniva imposto il cognome del padre, secondo una norma desumibile dal sistema, frutto della radicata tradizione sociale per cui la famiglia fondata sul matrimonio debba avere un unico cognome[3]. Nella motivazione della sentenza di cui trattasi tale regola viene compiutamente ricostruita, muovendo dal richiamo all’art. 143 c.c. nella formulazione precedente la Riforma del diritto di famiglia del 1975, alla cui stregua la moglie doveva assumere, in linea di principio[4], il cognome del marito, che quindi diventava automaticamente cognome della famiglia. Regola speculare era espressamente dettata per l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio, riconosciuto contestualmente da entrambi i genitori (art. 262 c.c.).
Più volte sollecitata sul punto, con la richiamata sentenza n. 286/2016 la Corte costituzionale - nel solco di una decisione della Corte di Strasburgo che aveva riscontrato la violazione degli articoli 14 e 8 CEDU della norma italiana di attribuzione del solo patronimico[5] - ne affermò il contrasto con gli artt. 2 e 29 Cost., dichiarando l’illegittimità costituzionale della medesima e così consentendo ai coniugi, di comune accordo, di aggiungere il cognome materno a quello del padre. Nella medesima decisione la Consulta, ancorché adita in riferimento al caso di figlio nato nel matrimonio, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell'art. 262, comma 1, ultimo periodo, c.c., nella parte in cui prevedeva l'assunzione esclusiva del cognome paterno nell'ipotesi di riconoscimento contestuale effettuato da entrambi i genitori e non consentiva, neppure in caso di accordo tra loro, l’aggiunta di quello materno.
Sebbene di enorme rilievo, quella decisione della Corte, condizionando l’aggiunta del cognome materno alla comune volontà dei genitori, coniugati o no, aveva condotto ad un assetto non del tutto compiuto, dato che, in mancanza di accordo - e dunque in sostanza a fronte del mero rifiuto del padre di aggiungere il cognome materno -, il figlio acquisiva tout court il patronimico. Inoltre, la statuizione della Corte non consentiva ai genitori di determinare l’ordine dei cognomi e neppure di attribuire al figlio il solo cognome materno.
In breve, dopo la richiamata sentenza n. 286/2016, in caso di accordo tra i genitori, il figlio - nato o meno nel matrimonio - assumeva il cognome di entrambi, anteponendo quello del padre a quello della madre, mentre in mancanza di accordo egli assumeva il cognome paterno.
In questo quadro il Tribunale di Bolzano[6] ha nuovamente sollevato q.l.c., con riguardo agli artt. 2, 3, 11 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU e agli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’art. 262, comma 1, c.c. nella parte in cui – in caso di riconoscimento contemporaneo – non consentiva ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio il solo cognome materno. Nel corso del giudizio instauratosi avanti alla Corte, la medesima, con ordinanza n. 18 -25/2021[7] ha sollevato innanzi a sé q.l.c. dell’art. 262, comma 1, c.c., con riferimento alle norme sopra richiamate, nella parte in cui, in caso di riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, imponeva, in mancanza di diverso accordo, l’attribuzione alla nascita del cognome paterno anziché di quelli di entrambi.
Nella sentenza n. 131/2022, la Corte osserva come, a fronte delle due questioni citate, debba evidenziarsi l’intreccio, nella disciplina del cognome, tra il diritto all’identità personale del figlio e il principio di eguaglianza tra genitori, rilevando che la selezione della sola linea parentale paterna “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre” (punto 10.1. della motivazione), cosicché l’automatismo imposto dalla richiamata disposizione reca con sé “il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sulla identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (ibidem).
La ratio della decisione è dunque dichiaratamente duplice: tutelare l’identità giuridica e sociale del figlio ed attuare il principio di eguaglianza tra i genitori.
La sentenza conclude affermando che, non avendo il legislatore provveduto, spetti alla Corte rendere “effettiva la legalità costituzionale”, con la conseguenza che l’art. 262, comma 1, c.c. - che a fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio attribuisce automaticamente, salvo diverso accordo, il cognome del padre “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre” - è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, di guisa che “il cognome del figlio deve comporsi con il cognome dei genitori, salvo loro diverso accordo”, in base al quale può essere attribuito al figlio sia il solo cognome paterno che solo quello materno. Nella sostanza, la norma è stata rovesciata: prima, in mancanza di accordo veniva attribuito il solo cognome paterno, adesso, quello di entrambi, mentre l’accordo consente ora l’attribuzione dell’uno o dell’altro cognome.
L’intervento del Giudice delle Leggi si spinge oltre, in quanto dichiara l’illegittimità costituzionale anche della norma che disciplina l’attribuzione del cognome del figlio nato nel matrimonio e di quelle ad essa collegate, in parte già modificate e in parte vigenti, (punto 14 della motivazione), che pure non era oggetto della fattispecie sottopostagli. Conclude, infatti, la Corte che la norma sull’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima nella parte in cui dispone l’attribuzione del cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, di attribuire il cognome di uno di loro soltanto.
In conclusione, in forza della sentenza n. 131/2022, il doppio cognome è divenuto la regola, ma cede in presenza della comune volontà dei genitori, cui è consentito liberamente attribuire al figlio il cognome dell’uno o dell’altro nell’ordine da loro scelto. Precisa la sentenza che, in mancanza di accordo tra i genitori circa l’ordine dei cognomi, debba intervenire il giudice. La norma di riferimento è dunque quella dell’art. 316 c.c., alla cui stregua in caso di contrasto il giudice suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare e, se il contrasto permane, attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che nel singolo caso appare il più idoneo a realizzare l’interesse del figlio. Merita menzionare che la bozza di decreto attuativo della delega contenuta nell’art. 1 della legge 26 novembre 2021, comma 23, lett. ii) prevede la modifica dell’art. 316 c.c., disponendo che in caso di contrasto tra genitori il giudice assuma direttamente la decisione. Il che accentua l’intrinseca inevitabile discrezionalità di quella scelta.
Sul piano pratico ciò potrà anche tradursi in un ritardo nella formazione dell’atto di nascita del figlio, sia esso matrimoniale o non matrimoniale, poiché non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa darvi corso fino a quando il giudice non si sia pronunciato al riguardo.
La Corte precisa altresì che nel caso in cui il conflitto tra i genitori concerna l’attribuzione di uno solo dei loro cognomi, il mancato accordo non sia surrogabile in via giudiziale, cosicché devono attribuirsi i cognomi di entrambi i genitori nell’ordine dagli stessi deciso; soluzione certamente condivisibile che, sul piano pratico, riconduce alla fattispecie sopra lumeggiata.
Da ultimo, considerato che la Corte ha precisato che l’accoglimento della q.l.c. riguarda esclusivamente le ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, in mancanza di una disciplina legislativa pare possa accadere che si realizzi una discordanza tra il cognome dei figli nati precedentemente alla sentenza e quelli nati successivamente, cosicché fratelli e sorelle germani potrebbero avere cognomi diversi.
A fondamento della decisione, che porta a compimento il superamento della regola millenaria di attribuzione del cognome del padre, definita non senza asprezza “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”[8], la Corte in primis pone dunque l’esigenza di tutelare l’identità giuridica e personale del figlio: il cognome, infatti, collegando l’individuo alla formazione sociale “che lo accoglie tramite lo status filiationis”, deve “radicarsi nell’identità familiare” (punto 9 della motivazione).
Enunciato tale condivisibile assunto, la Corte evidenzia poi come la necessità di modificare le regole di attribuzione del cognome valga anche a rimuovere la vigente disparità di trattamento tra i genitori, che non trova alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost. né nell’art. 29, comma 2, Cost., alla cui stregua “Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. È, infatti, afferma la Corte, “proprio l’eguaglianza che garantisce l’unità familiare e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo” (punto 10[9]). Una consimile affermazione, indubbiamente suggestiva, a ben vedere, giunge ad attuare un singolare capovolgimento del tenore letterale dell’art 29, comma 2, Cost., nel quale i limiti all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sono enunciati dal Costituente esclusivamente e proprio a garanzia dell’unità familiare, che sembra quindi rappresentare il valore oggetto di prioritaria considerazione[10]; secondo quella visione, infatti, l’incondizionata affermazione della regola dell’eguaglianza - poi realizzata dalla Riforma del ‘75[11] - avrebbe potuto favorire la crisi della coppia e quindi ledere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, solennemente riconosciuti dal primo comma dell’art. 29 Cost.[12].
Ad avviso di chi scrive, riguardata nel suo insieme, la sentenza, che pure porta meritoriamente a compimento il lungo percorso di adeguamento della disciplina dell’attribuzione del cognome ai principi costituzionali, non sembra aver realizzato un soddisfacente contemperamento delle due rationes che ne costituiscono il fondamento, cioè il diritto del figlio all’identità familiare e la piena attuazione del principio di eguaglianza dei genitori, che ne ha in concreto amplificato le prerogative sino a farle risultare preponderanti e capaci di rendere cedevole l’interesse del figlio, che pure si vuole preminente (punto 15.1.).
A bene vedere, infatti, in forza della regola enunciata dalla sentenza, i genitori sono riconosciuti arbitri della decisione di imporre al figlio il cognome di entrambi oppure quello dell’uno o dell’altro, senza che - in tale ultima ipotesi - sia previsto alcun tipo di apprezzamento e di sindacato dell’interesse del minore, che passivamente subisce una scelta comportante la perdita del cognome di uno dei rami familiari. Tenuto conto che l’interesse del figlio – in questo caso addirittura riguardante la propria identità personale e familiare - assume per principio generale carattere superiore[13], non ci dovrebbe essere spazio per una siffatta deroga di natura potestativa in capo ai genitori alla regola dell’attribuzione di entrambi i cognomi. Tale deroga, ancorché ispirata all’attuazione dell’eguaglianza tra i genitori, nella sua assolutezza può condurre infatti al non condivisibile sacrificio della identità del figlio, elidendo il suo diritto di veder valorizzato il legame con entrambi i rami parentali: in primis con il genitore il cui cognome non sia scelto, ma anche con i relativi ascendenti e collaterali ed altresì con eventuali fratelli consanguinei o uterini, ciò ancor più alla luce della sempre più ampia diffusione di famiglie ricomposte, in cui cioè, a seguito della disgregazione della coppia genitoriale e/o della formazione di nuove famiglie da parte di uno o entrambi i genitori, il figlio venga inserito nell’ambito della famiglia del genitore il cui cognome non sia stato attribuito; si verifica in tal caso una frattura, senz’altro in linea di principio non conforme all’interesse del minore, tra il vissuto familiare e l’appartenenza alla gens che il cognome per sua stessa funzione manifesta[14].
Il passaggio della sentenza (punto 12) che, nell’esaminare la censura sollevata dal Tribunale di Bolzano – in sé fondata – , afferma che i genitori possano dar luogo a un accordo il cui contenuto “resta circoscritto al cognome di uno dei due genitori e incarna la loro stessa volontà di essere rappresentati entrambi, nel rapporto con il figlio, dal cognome di uno di loro soltanto”, e che detto accordo vale a “compendiare in un unico cognome il segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete dei interessi del figlio” non è persuasivo. Non può infatti bastare la volontà, cioè l’interna intenzione comune dei genitori, perché quell’unico cognome, all’esterno, li rappresenti entrambi nel rapporto col figlio, che vede così “oscurato” il rapporto genitoriale col genitore recessivo.
In questo quadro, pare a chi scrive che la deroga all’attribuzione del doppio cognome avrebbe dovuto essere consentita solo eccezionalmente, in presenza di situazioni sindacabili dal giudice nell’interesse del minore, eventualmente rappresentato da un curatore speciale.
È quello che in fondo la sentenza dà per scontato, allorché spiega che “ l’accordo può guardare in proiezione futura alla funzione identitaria che svolge il cognome per il figlio e può tener conto di preesistenti profili correlati allo status filiationis quale legame con i fratelli o sorelle, che portano il cognome di uno solo dei suoi genitori. Potrebbe trattarsi del cognome del padre, come di quello della madre, che potrebbe aver riconosciuto i precedenti figli prima del padre. Nè può trascurarsi l’eventualità che i genitori - nell’interesse del figlio – condividano la scelta di trasmettere il cognome del solo genitore che abbia già altri figli, dando così prioritario risalto al rapporto tra fratelli e sorelle”. L’esemplificazione è condivisibile, ma resta il fatto che il potere di scelta che è stato attribuito dalla sentenza ai genitori non è finalizzato in alcun modo, né è sindacabile da alcuno e, quindi, può essere esercitato anche in difetto di una giusta e ragionevole causa. Infatti, tale scelta, non è sottoposta ad alcun vaglio, né ex ante – dato che il ricorso al giudice ai sensi dell’art. 316 c.c. è ammesso in caso di disaccordo tra i genitori, ma non nel caso in cui essi concordino nell’attribuire il cognome di uno solo di essi -, né ex post, tenuto conto che non è ravvisabile neppure astrattamente l’intervento del giudice ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., in relazione alla scelta del cognome effettuata dai genitori in forza della statuizione della Corte costituzionale.
Un ulteriore aspetto meritevole di essere segnalato è come all’esito della decisione, salvo correttivi che il legislatore potrà introdurre, qualora i genitori coniugati scelgano il cognome materno, esso non sia in grado di fungere quale segno identificativo di tutti i membri del nucleo familiare. Se è vero che fino ad ora, pur con gli aggiustamenti nel frattempo introdotti, alla base dell’attribuzione del cognome maritale stava la sua attitudine a contraddistinguere l’insieme dei familiari – visto che la moglie, che una volta lo assumeva, oggi lo aggiunge al proprio e che i figli necessariamente lo acquistavano - è altrettanto vero che laddove i genitori scelgano il cognome della moglie scende l’oblio su quello del padre e quindi sulla sua appartenenza alla famiglia, tenuto conto che al marito non è consentito scegliere il cognome della moglie, come invece è previsto nell’unione civile (art. 1, comma 10, l. 76/2016).
C’è dunque spazio, forse anche sotto tali riguardi, per gli interventi del legislatore, che la stessa Corte invita ad attuare con urgenza (punto 15 della motivazione).
[1] Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286, in Fam. e dir., 2017, 213, con nota di Al Mureden.
[2] Cfr. Corte cost. 11 febbraio 1988, n. 176, in Dir. fam. pers., 1988, 670; Corte cost., 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, 1576; Corte cost. 16 febbraio 2006, n. 61, in Familia, 2006, 931, con nota di Bugetti. In dottrina, ex plurimis, De Cicco, Cognome e principi costituzionali, in Sesta e Cuffaro (a cura di), persona, famiglia e successioni, Napoli, 2005, 209 ss; Gatto, Cognome del figlio riconosciuto, in M. Bianca (a cura di), Filiazione, Milano, 2014, p. 34; Bugetti, sub Art. 262 c.c., in Riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. Dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità, in Comm. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2020, 245 ss.
[3] Ex multis, Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, in Comm. dir. it. fam., diretto da Schlesinger, Milano, 1990, 113; Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1983, 114.
[4] Cfr. Cass. 13 luglio 1961, n. 1692, in Foro it., 1961, I, 1065, la quale aveva riconosciuto come la moglie potesse mantenere il proprio cognome, aggiungendolo a quello del marito, se opportuno o necessario per motivi di lavoro o notorietà.
[5] Corte EDU, 7 gennaio 2014, n. 77/07, Cusan e Fazio contro Italia, in Giur. It., 2014, 2670.
[6] Trib. Bolzano, 17 ottobre 2019, n. 78 (est. Laus), in Banca dati One Legale
[7] In banca dati De Jure.
[8] L’espressione si legge già in Corte cost. n. 61/2006, cit.
[9] Richiamando la sentenza Corte cost. n. 286/2016, cit., e ancor prima la sentenza n. 133/1970.
[10] Sesta, sub Art. 29 Cost., in Sesta (a cura di), Codice della famiglia, III ed., Milano, 2015, spec. P. 83 ss.
[11] Cfr. art 143 e 145 c.c. ora in fase di riscrittura ad opera del legislatore delegato.
[12] Si veda ora per una suggestiva rilettura della norma, R. Bin, L'interpretazione della costituzione in conformità delle leggi. il caso della famiglia, in Fam. e dir., 2022, 514 ss.
[13] Sul punto ex plurimis, M. De Masi, L'interesse del minore. Il principio e la clausola generale, Napoli, 2020, 39 ss.;
sia consentito rimandare anche a Sesta, La prospettiva paidocentrica quale fil rouge dell'attuale disciplina giuridica della famiglia, in Fam. e dir., 2021, p. 763 ss., ove indicazioni bibliografiche.
[14] Su questi profili Al Mureden, L'attribuzione del cognome tra parità dei genitori e identità personale del figlio, in Fam. e dir., 2016, 213 ss.
Diritto dell’Unione europea e articolo 111 co. 8 Cost. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata*
di Enrico Zampetti
Sommario: 1. Premessa. - 2. Sul principio di autonomia procedurale tra effettività ed equivalenza. - 3. Sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura. - 4. Osservazioni conclusive. Sulle attuali criticità dell’articolo 111 co. 8 Cost.
1. Premessa.
I fatti alla base del caso Randstad sono ormai ampiamente noti e non serve ripercorrerli in dettaglio. In estrema sintesi, la vicenda origina dall’impugnazione proposta da una società, in qualità di concorrente ad una gara pubblica, per l’annullamento del provvedimento di esclusione adottato nei suoi confronti e della procedura nel suo complesso. A seguito del rigetto dell’impugnazione da parte del giudice di primo grado, che aveva giudicato legittima tanto l’esclusione quanto la gara nel suo complesso, il Consiglio di Stato confermava la legittimità del provvedimento di esclusione ma dichiarava il difetto di legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura, assumendo che, in ragione della sua legittima esclusione, la società fosse priva “non solo del titolo a partecipare alla gara, ma anche della legittimazione a contestarne gli esiti sotto altri profili, giacché diviene portatrice di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico de settore che non ha partecipato alla gara”[i].
La società ricorreva in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, co. 8, Cost., contestando la decisione del Consiglio di Stato per avere erroneamente dichiarato inammissibile l’impugnazione avverso la gara nel suo complesso, in violazione del diritto dell’Unione europea e, in particolare, del diritto ad un ricorso effettivo così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.
Senonchè, la Corte di Cassazione rilevava come, allo stato, l’ammissibilità del ricorso fosse ostacolata da una “prassi interpretativa nazionale”, da ultimo esplicitata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, in forza della quale la violazione del diritto eurounitario non sarebbe riconducibile a un motivo di giurisdizione, ma integrerebbe una semplice violazione di legge, o comunque un ordinario error in iudicando, come tale non censurabile attraverso il ricorso per Cassazione di cui all’articolo 111, co.8, Cost. Conseguentemente, riteneva di sottoporre in via pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue le seguenti questioni, che possono così sintetizzarsi[ii]:
i) se il diritto dell’Unione osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., così come da ultimo interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, esclude la proponibilità del ricorso per Cassazione per contestare sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con il diritto dell’Unione[iii];
ii) se il diritto dell’Unione osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., esclude la proponibilità del ricorso in Cassazione per contestare le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano immotivatamente omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia[iv];
iii) se il diritto dell’Unione, anche alla luce di specifici precedenti della Corte di giustizia[v], osti a una prassi giurisprudenziale nazionale che, come quella applicata dall’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, nega la legittimazione del concorrente escluso a contestare gli esiti della gara, sebbene l’esclusione non risulti definitivamente accertata e l’eventuale accoglimento dell’impugnazione possa determinare l’indizione di una nuova procedura.
Con la decisione 21 dicembre 2021, causa C-497/20[vi], la Corte di giustizia ha definito la prima e la terza questione posta dall’ordinanza della Cassazione, senza rispondere alla seconda in quanto ritenuta irrilevante ai fini della controversia. La sentenza, da un lato, ha escluso l’incompatibilità con il diritto dell’Unione dell’articolo 111 co. 8 Cost, così come interpretato dalla Corte costituzionale; dall’altro, ha stigmatizzato la violazione del diritto eurounitario perpetrata dal Consiglio di Stato per avere il giudice italiano negato al concorrente escluso la legittimazione ad impugnare gli esiti complessivi della procedura.
La pronuncia ha da subito suscitato un particolare interesse.
In primo luogo, perché tocca il tema generale dell’effettività della tutela giurisdizionale, con particolare riferimento alle ipotesi in cui la pronuncia del giudice nazionale violi il diritto eurounitario. In secondo luogo, perché riguarda da vicino il nostro assetto costituzionale imperniato su di un modello giurisdizionale dualista, che vede le decisioni del giudice ordinario soggette al ricorso in Cassazione per violazione di legge e quelle del giudice amministrativo ricorribili in Cassazione soltanto per “motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111 co. 8 Cost.). In terzo luogo, perché, nella specifica materia dei contratti pubblici, rimarca la distanza tra la giurisprudenza amministrativa e quella europea sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura di gara.
Nei paragrafi seguenti verranno più a fondo esaminate le argomentazioni con le quali la Corte di giustizia ha risposto alle questioni sollevate dalla Cassazione. Conclusivamente, saranno segnalate alcune criticità attualmente poste dall’articolo 111 co. 8 Cost, ulteriori rispetto a quelle prospettate nell’ordinanza di rimessione.
2. Sul principio di autonomia procedurale tra effettività ed equivalenza.
Con riferimento alla prima questione, la Corte di giustizia osserva che, in forza del “principio dell’autonomia procedurale”, spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro “stabilire le modalità processuali” dei rimedi giurisdizionali atti a garantire il “diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva”. Più esattamente, afferma che, in linea di principio, il diritto dell’Unione “non osta a che gli Stati membri limitino o subordinino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione”, a condizione che “siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza”. Sotto questo profilo – sottolinea la Corte - la disciplina processuale italiana non si porrebbe in contrasto né con il principio di equivalenza né con il principio di effettività. Il principio di equivalenza sarebbe rispettato dall’esperibilità del ricorso per motivi di giurisdizione sia quando sono in rilievo situazioni giuridiche protette dal diritto eurounitario sia quando sono in rilievo situazioni giuridiche protette dal diritto interno[vii]. Quanto al principio di effettività, il diritto dell’Unione “non produce l’effetto di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno”, salvo che “dalla struttura dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione”. Poiché il sistema processuale italiano garantisce l’accesso a un giudice indipendente e imparziale (anche) a tutela delle situazioni giuridiche riconosciute dalla normativa europea, la Corte conclude che “una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall’organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all’articolo 47 della stessa”.
Una risposta al quesito in questi termini non sorprende ed era anzi prevedibile, considerato che, con riferimento alle questioni processuali, il principio di autonomia procedurale viene spesso invocato sul presupposto che in materia l’Unione europea non abbia una specifica competenza[viii]. In quest’ambito, l’unico limite imposto dal diritto dell’Unione è il rispetto dei principi di effettività ed equivalenza, nel senso già precisato che le discipline processuali nazionali non devono creare discriminazioni per la tutela delle situazioni giuridiche tutelate dal diritto eurounitario e devono garantire l’accesso a un giudice imparziale, in conformità all’articolo 47 della Carta di Nizza[ix]. Se la normativa interna rispetta questi principi, lo Sato membro è libero di disciplinare il proprio sistema processuale senza ostacoli derivanti dal diritto dell’Unione. Del resto, la garanzia sancita nell’articolo 47 della Carta, così come anche rimarcato nelle conclusioni dell’Avvocato generale[x], “non impone un doppio grado di giudizio”, ma si limita a garantire il diritto di accesso “soltanto a un giudice”. Di conseguenza, se la disciplina dello Stato membro garantisce l’accesso a un giudice, conferendo a tale giudice la competenza a esaminare il merito della controversia, i principi di tutela giurisdizionale sanciti dall’articolo 47 della Carta di Nizza e dalla Direttiva 89/665 non possono ritenersi violati, proprio in quanto non “impongono un ulteriore grado di giudizio per porre rimedio a un’applicazione erronea di dette norme da parte del giudice di appello”[xi].
Nel descritto quadro di riferimento, la ritenuta compatibilità con il diritto dell’Unione dei limiti al ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato è pienamente condivisibile. Sebbene la limitazione ai motivi inerenti alla giurisdizione impedisca di per sé di contestare in Cassazione una decisione del Consiglio di Stato adottata in violazione del diritto dell’Unione, non si ravvisa in ciò alcuna incompatibilità con il principio di effettività, proprio in quanto il diritto italiano garantisce pacificamente l’accesso a un giudice imparziale per l’esame nel merito della controversia[xii].
Va ancora evidenziato che, coerentemente con l’invocato principio di autonomia procedurale, la Corte non si preoccupa di chiarire se il contrasto rilevato dia luogo a un motivo di giurisdizione deducibile con il ricorso in cassazione o se, invece, integri un errore di giudizio estraneo al campo di applicazione del rimedio[xiii]. Una volta escluso che l’articolo 111 co. 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, presenti aspetti d’incompatibilità con il diritto eurounitario, diventa, infatti, irrilevante ogni più accurata indagine sui presupposti del ricorso previsto dalla citata norma costituzionale. Piuttosto, alla Corte interessa rimarcare che, quando le istanze giurisdizionali previste dal diritto nazionale non consentono più di eliminare la violazione inferta al diritto eurounitario, il rimedio debba essere individuato “nell’obbligo, per ogni giudice amministrativo dello Stato membro interessato, compreso lo stesso supremo giudice amministrativo, di disapplicare tale giurisprudenza non conforme al diritto dell’Unione” e, in caso di inosservanza di un tale obbligo, “nella possibilità per la Commissione europea di proporre un ricorso per inadempimento contro tale Stato membro” (fermo restando che i singoli lesi nel diritto a un ricorso effettivo possono pur sempre “far valere la responsabilità di tale Stato membro, purché siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza di un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subìto dal soggetto leso”). Si ribadisce così che il primato del diritto eurounitario può realizzarsi attraverso strumenti che lasciano impregiudicato il principio di autonomia procedurale.
Per altro verso, il richiamo al principio di autonomia procedurale ha levato la Corte di giustizia dall’imbarazzo di sindacare un assetto processuale sancito direttamente a livello costituzionale. Se, in ipotesi, anche le norme costituzionali degli Stati membri possono rivelare delle incompatibilità con il diritto dell’Unione, prospettare un’interpretazione di tale diritto in contrasto con le norme costituzionali degli Stati membri potrebbe risvegliare il tema dei controlimiti, rivelando una netta contrapposizione tra diritto nazionale e diritto eurounitario non facile da gestire[xiv]. Non è questa la sede per affrontare più a fondo il problema e verificare se effettivamente l’assetto costituzionale in esame possa integrare un controlimite rispetto al diritto dell’Unione. Resta il fatto che l’aver risolto la questione in base al principio di autonomia procedurale impedisce anche solo di ipotizzare un problema di controlimiti, scongiurando opportunamente qualsiasi eventuale scontro tra Corte di giustizia e Corte costituzionale.
3. Sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura.
Nel rispondere al primo quesito la Corte affronta anche la questione della legittimazione ad agire del concorrente escluso, stigmatizzando il contrasto della decisione del Consiglio di Stato con il diritto dell’Unione, per avere il giudice italiano negato al concorrente escluso la legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura.
In base agli articoli 1 e 2 bis della Direttiva ricorsi[xv], la giurisprudenza della Corte di giustizia assume che la legittimazione a contestare gli esiti della gara spetti ai concorrenti esclusi la cui esclusione non sia “definitiva” e non debba, invece, riconoscersi ai concorrenti la cui esclusione sia “definitiva”, ossia quando sia stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o quando non possa più essere oggetto di una procedura di ricorso. Secondo la Corte, il concetto di definitività implica che l’accertamento sulla legittimità dell’esclusione sia ormai incontestabile ovvero provvisto dell’efficacia tipica del giudicato[xvi]. Solo in questi casi il concorrente escluso sarebbe privo della legittimazione a contestare gli esiti della gara; diversamente, quando manchi il definitivo accertamento sulla legittimità dell’esclusione, la legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura non potrebbe negarsi.
Dal punto di vista delle situazioni giuridiche, il riconoscimento della legittimazione in capo al concorrente escluso mira a tutelare il suo interesse strumentale alla ripetizione della gara, considerato che l’eventuale accoglimento del ricorso, se pur inidoneo a garantire l’utilità finale rappresentata dall’aggiudicazione, avrebbe pur sempre come effetto la rinnovazione della gara, rivelando in ciò il concreto interesse a coltivare l’impugnazione. Del resto, la stessa attenzione per una tutela piena ed effettiva che ricomprenda in sé l’interesse strumentale è alla base della giurisprudenza della Corte Ue sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, secondo la quale il ricorso principale deve essere esaminato anche quando sia accolto il ricorso incidentale, sul presupposto che l’eventuale annullamento dell’aggiudicazione potrebbe indurre la stazione appaltante a rinnovare la procedura[xvii].
In conformità alla sua giurisprudenza, la Corte ritiene, dunque, che il difetto di legittimazione pronunciato dal Consiglio di Stato violi il diritto a un ricorso effettivo, osservando che sia al momento di proposizione del ricorso al giudice di primo grado, sia al momento della decisione del ricorso da parte di tale giudice, l’esclusione non poteva ritenersi definitiva in quanto non precedentemente “ritenuta legittima da quest’ultimo giudice o da qualsiasi altro organo di ricorso indipendente”. L’inciso non brilla per chiarezza perché non sembra tenere adeguatamente in conto che anche il Consiglio di Stato, e non solo il Tar adito in primo grado, aveva giudicato legittima l’esclusione. Tuttavia, ciò che la Corte intende affermare è che, al momento in cui è stata instaurata e decisa per la prima volta l’impugnazione, non esisteva alcun accertamento definitivo e irretrattabile sulla legittimità dell’esclusione. Sicché, rifiutando di esaminare nel merito la domanda volta all’annullamento dell’aggiudicazione, il Consiglio di Stato avrebbe negato tutela ad una situazione giuridica protetta dal diritto eurounitario, quale appunto l’interesse strumentale alla rinnovazione della gara[xviii].
Senonché, secondo una diversa ricostruzione emersa principalmente in dottrina[xix], un’interpretazione della direttiva ricorsi più aderente alla sua formulazione letterale escluderebbe di ricollegare la definitività dell’esclusone al passaggio in giudicato della decisione che ne accerti la legittimità[xx]. Piuttosto, ad integrare il concetto di definitività, sarebbe sufficiente una decisione amministrativa o giurisdizionale che abbia riconosciuto la legittimità dell’esclusione. In questa prospettiva, la decisione del Consiglio di Stato apparirebbe corretta, in quanto, a prescindere dalla formazione del giudicato, il difetto di legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura verrebbe a colpire un concorrente “definitivamente” escluso in virtù di un provvedimento giudicato due volte legittimo, sia dal giudice di primo grado che dal giudice di appello[xxi].
Tra le due la ricostruzione preferibile appare quella avallata dalla Corte di giustizia, poiché il prospettato ampliamento della legittimazione ad agire garantisce piena tutela ad una situazione giuridica strumentale che, a differenza di quanto ritenuto dal Consiglio di Stato, non sembra potersi sottrarre all’ordinaria protezione riservata all’interesse legittimo. Sotto questo profilo, il paventato rischio che, nel seguire la giurisprudenza europea, il processo amministrativo venga ad assumere una connotazione marcatamente oggettiva deve essere probabilmente ridimensionato, considerato che l’interesse strumentale è pur sempre riferibile a un soggetto che originariamente ha partecipato alla procedura e che, in quanto operatore economico in un determinato settore, aspira a partecipare alle gare pubbliche di quel settore.
In ogni caso, il contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di giustizia testimonia la perdurante attualità di una riflessione sulle situazioni giuridiche soggettive e sulla consistenza degli interessi che ne sono oggetto. Rapportata al diritto interno, la riflessione non può, però, adagiarsi sulla dicotomia interesse legittimo/interesse di fatto, ma deve adeguatamente misurarsi con le concezioni strumentali e finali dell’interesse legittimo[xxii].
4. Osservazioni conclusive. Sulle attuali criticità dell’articolo 111 co. 8 Cost.
La sentenza della Corte di giustizia induce ad alcune osservazioni conclusive sull’assetto giurisdizionale sancito dalla nostra Costituzione, che proprio nell’articolo 111 co. 8 rinviene una delle norme più significative e problematiche.
Va sottolineato che la questione posta dall’articolo 111 co. 8 Cost. è ben più ampia e generale di quella prospettata dalla Cassazione nell’ordinanza di rinvio alla Corte di giustizia. Nella sua portata più generale, infatti, la questione si sostanzia nel diverso trattamento processuale riservato a tutte le decisioni del Consiglio di Stato che, a differenza di quelle del giudice ordinario, possono essere impugnate in Cassazione solo per motivi di giurisdizione ma non per violazione di legge. Si tratta, dunque, di una questione che tocca il complesso delle decisioni assunte dal Consiglio di Stato, non soltanto quelle contrastanti con il diritto dell’Unione, ma anche quelle pronunciate in violazione del diritto nazionale. Solo in questa più ampia prospettiva possono adeguatamente cogliersi le attuali criticità poste dalla norma costituzionale, ulteriori e diverse rispetto a quelle indicate dalla Corte di Cassazione.
Una prima criticità riguarda direttamente l’articolo 111 co. 8 Cost, laddove prevede una disciplina del ricorso in Cassazione diversa da quella riservata alle sentenze del giudice ordinario. È noto, al riguardo, che il differente trattamento processuale riflette il modello giurisdizionale dualistico sancito nella nostra Costituzione, ripartito tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa[xxiii]. Nell’originario contesto costituzionale, il modello veniva giustificato con ragioni di continuità con il sistema, ovvero in funzione della diversa natura delle situazioni giuridiche devolute all’una o all’altra giurisdizione, ovvero ancora in base alle differenti tipologie di tutela rispettivamente dispensabili dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario. Pertanto, nell’ambito di un siffatto sistema dualistico, non appariva incoerente sottrarre le decisioni del Consiglio di Stato al controllo di legittimità previsto per le sentenze del giudice ordinario, dal momento che in tal modo la funzione nomofilattica della Cassazione avrebbe investito la sola giurisdizione ordinaria, così da porre le condizioni per lo sviluppo di un’autonoma nomofilachia della giurisdizione amministrativa rapportata alla specificità delle controversie sugli interessi legittimi.
Il quadro originario ha, però, subito dei progressivi mutamenti. L’interesse legittimo ha cambiato profondamente fisionomia; la tutela dispensabile dal giudice amministrativo non è più solo quella costitutiva di annullamento ma anche quella risarcitoria o più in generale di condanna; nonostante la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, il giudice amministrativo mantiene una significativa cognizione sui diritti soggettivi, considerato il progressivo aumento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva; il giudice amministrativo dispone degli stessi poteri e mezzi istruttori del giudice ordinario. Pur non eliminandola, una tale evoluzione riduce di molto l’originaria distanza tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, poiché tanto il giudice amministrativo quanto il giudice ordinario possono decidere sui diritti con gli stessi poteri e tanto l’uno quanto l’altro sono spesso chiamati ad applicare le stesse norme, come accade nelle controversie risarcitorie rispettivamente attribuite all’una o all’altra giurisdizione. Ciò non di meno, a causa del differente regime costituzionale del ricorso in Cassazione, la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa conservano ciascuna una propria e autonoma nomofilachia. Il regime differenziato rivela così la carenza di una funzione nomofilattica unitaria, anche quando le controversie devolute alle rispettive giurisdizioni abbiano ad oggetto la medesima situazione giuridica di diritto soggettivo e richiedano l’applicazione della medesima disciplina. A fronte di questo stato di cose, talvolta, è stata evocata la violazione del principio di uguaglianza o di certezza del diritto, nel convincimento che solo una funzione nomofilattica unitaria possa garantire quella uniforme interpretazione del diritto altrimenti compromessa[xxiv]. Se, concettualmente, una funzione nomofilattica unitaria presuppone una giurisdizione unica, l’obiettivo di un’uniforme interpretazione del diritto può raggiungersi anche per altra via. Al di là dell’eventualità di estendere, almeno in alcuni casi, il ricorso in cassazione per violazione di legge alle decisioni del Consiglio di Stato[xxv], varie, infatti, sono le proposte per ovviare all’impasse: istituire una giurisdizione unitaria con sezioni specializzate applicate alle controversie di diritto amministrativo[xxvi]; inserire, in determinate ipotesi, una quota di magistrati amministrativi nel collegio delle sezioni unite della Corte di cassazione[xxvii]; coltivare spazi di confronto ed elaborazioni comuni tra consiglieri della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato[xxviii]. Si tratta di aspetti estremamente complessi e non soltanto perché alcune delle soluzioni prospettate implicano una modifica costituzionale. Ma anche perché un ipotetico superamento della doppia nomofilachia, pur se avvenga con l’introduzione di una giurisdizione unica, deve comunque confrontarsi con l’esigenza di preservare una funzione giurisdizionale centrata sui rapporti tra privato e pubblica amministrazione, capace di adattarsi alle diverse dinamiche che ancora distinguono il diritto amministrativo dal diritto comune[xxix]. Di certo una questione così rilevante non può compiutamente risolversi a Costituzione vigente, né coinvolgendo il diritto dell’Unione su profili processuali interni e di rilevanza costituzionale.
Una seconda criticità non riguarda direttamente l’articolo 118 co. 8 Cost, ma le sue possibili implicazioni nelle concrete dinamiche del sistema di giustizia amministrativa. Tralasciando la questione della nomofilachia, il differente regime processuale del ricorso in Cassazione di per sé non pregiudica la pienezza ed effettività della tutela. Se, infatti, la previsione costituzionale del ricorso per violazione di legge garantisce che tutte le decisioni del giudice ordinario siano sottoposte ad un successivo controllo giurisdizionale, ugualmente, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, la previsione costituzionale di “organi di giustizia amministrativa di primo grado” garantisce che le decisioni di tali organi siano sempre sottoposte al successivo controllo giurisdizionale del Consiglio di Stato[xxx]. In altri termini, il differente regime del ricorso in Cassazione non scalfisce quel generale principio d’impugnabilità pervasivo dell’ordinamento giuridico che richiede di sottoporre la decisione del primo giudice almeno ad un successivo controllo giurisdizionale.
Ciò, tuttavia, non toglie che, in alcune specifiche ipotesi, proprio il differente regime del ricorso in Cassazione possa far sì che una decisione di merito del giudice amministrativo sia di fatto sottratta a un successivo controllo giurisdizionale. Si considerino i casi in cui il Consiglio di Stato, sulla base di una giurisprudenza ormai pacifica che interpreta restrittivamente le cause di rimessione al primo giudice, decida per la prima volta nel merito la lite dopo aver riformato la decisione di primo grado che abbia omesso di pronunciarsi su una o più domande o che abbia erroneamente dichiarato il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile[xxxi]. In queste ipotesi, la mancata previsione del ricorso in Cassazione per violazione di legge impedisce, infatti, alla decisione del Consiglio di Stato che per la prima volta abbia deciso nel merito la lite di essere sottoposta ad un successivo controllo giurisdizionale, poiché un ipotetico ricorso in Cassazione resterebbe necessariamente circoscritto ai profili giurisdizionali. Verrebbe così a determinarsi una violazione del principio d’impugnabilità che, nella giurisdizione amministrativa, si realizza compiutamente attraverso la garanzia costituzionale del doppio grado di giudizio[xxxii]. In realtà, il discorso non è così semplice e lineare, perché, secondo la prevalente giurisprudenza, la decisione di merito assunta dal Consiglio di Stato in riforma di un’erronea sentenza di rito non violerebbe affatto il principio del doppio grado, sul presupposto che tale principio si esaurirebbe nella pura e semplice possibilità di appellare la decisione di primo grado, quale che ne sia il contenuto se di rito o di merito[xxxiii]. Ove, invece, si ritenga che il doppio grado richieda un secondo controllo giurisdizionale necessariamente esteso ai contenuti di merito delle pronunce giurisdizionali, i soli idonei a definire la lite con l’efficacia del giudicato sostanziale, il fatto che la decisione di merito resa per la prima volta dal giudice di appello resti sottratta ad un successivo controllo giurisdizionale, che non sia quello limitato ai profili di giurisdizione, rivela delle indubbie criticità rispetto alla garanzia del diritto di azione nel cui ambito è inquadrabile il principio del doppio grado. Volendo accogliere questa accezione “forte” del doppio grado, la questione si risolverebbe agevolmente attraverso un’interpretazione meno restrittiva della disciplina sulla rimessione e più aderente a una concezione evolutiva del diritto di azione[xxxiv], tale da ricondurre all’ipotesi generale di “lesione del diritto di difesa”[xxxv] anche i casi di omessa pronuncia o di erronea chiusura in rito[xxxvi].
Dalle considerazioni esposte emerge, dunque, che le attuali criticità poste dall’articolo 111 co.8 Cost. investono aspetti centrali del nostro sistema giurisdizionale e non si esauriscono in quelle segnalate dalla Cassazione. Tali criticità devono essere affrontate e superate all’interno del nostro ordinamento, attraverso le opportune o necessarie modifiche alla Costituzione, ovvero mediante interpretazioni della legge processuale meno restrittive e più attente all’evoluzione delle garanzie costituzionali. Viceversa, anche per le ragioni desumibili dalla decisione sul caso Randstad, le rilevate criticità non possono essere affrontate e superate affidandosi esclusivamente al diritto dell’Unione.
*Il presente contributo è destinato al volume Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2021, a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, in corso di pubblicazione.
[i] Cons. St., sez. III, 7 agosto 2019 n. 5606, in www.giustizia-amministrativa.it.
[ii] Ci si riferisce, più esattamente, all’ordinanza della Corte di cassazione, sez. un.,18 settembre 2020 n. 19598; sull’ordinanza e le sue implicazioni, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 30 novembre 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co.8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia, in Giustizia Insieme, 11 dicembre 2020; Id., L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it, (2021); F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustizia Insieme, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi.it, n. 34/2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Giustizia Insieme, 7 ottobre 2020; A. Travi, I motivi inerenti alla giurisdizione e il diritto dell’Unione europea in una recente ordinanza delle sezioni unite, in Foro it., 11/2020, parte I, 2415 ss.; A. Carbone, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue e rapporti tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1/2021, 65 ss; A. Carratta, a cura di, Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. Un. n. 19598/2020, Roma, 2021; R. Bin, È scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 18 novembre 2020; R. Baratta, Le pregiudiziali Randstad sull’incensurabilità per cassazione della violazione di norme europee imputabile al giudice amministrativo, in Eurojus 1/2021, 167 ss.; all’ordinanza della Cassazione è dedicato il fascicolo n. 1 del 2021 della Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario; in una prospettiva più ampia, che inquadra l’ordinanza nell’attuale struttura pluralistica del sistema giurisdizionale designato dalla Costituzione, F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021, anche in Questione giustizia, 1/2021, 133 ss.
[iii] Più esattamente, le norme europee invocate dalla Corte di cassazione a sostegno della prima questione pregiudiziale sono gli artt. 4 par. 3 e 19, par. 1 TUE; artt. 2, parr. 1 e 2, 267 TFUE; art. 47 della Carta dei diritti fondamentali.
[iv] Le norme europee invocate a sostegno di questa seconda questione sono le stesse richiamate a proposito della prima questione (v. nota precedente).
[v] Il riferimento è a Corte di giustizia Ue, 4 luglio 2013, c. 100/12, in Foro it., 2014, IV, 395 con nota di A. Travi; Corte giustizia UE, 5 aprile 2016, C- 689/13, in Foro it., 2016, IV, 324 con nota di G. Sigismondi, Ricorso incidentale escludente: l’ultimo orientamento della Corte di giustizia porta all’emersione di un contrasto più profondo; Corte giustizia Ue, 5 settembre 2019, C – 333/18, Lombardi, in Foro it., 2020, IV, 55, con nota di E. Zampetti.
[vi] Sulla sentenza della Corte di giustizia Ue, F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Ialia spa, in Federalismi.it, 9 febbraio 2022; intervista di R. Conti a F. Francario, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte giust., G.S., 21 dicembre 2021 – causa C-497/20, Randstad Ialia?, in Giustizia Insieme, 18 gennaio 2022; intervista di R. CONTI a G. Montedoro, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 18 gennaio 2022; intervista di R. Conti a P. Biavati, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 21 gennaio 2022; intervista di R. Conti a R. Rordorf, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 31 gennaio 2022; intervista di R. Conti a E. Cannizzaro, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 22 febbraio 2022; M. Mazzamuto, Il dopo randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in Giustizia Insieme, 16 marzo 2022; P. Biavati, Brevi osservazioni sul caso Randstad Italia, in Questione giustizia, 9 marzo 2022; in una prospettiva più ampia, che prende in specifica considerazione anche la sentenza in esame della Corte di giustizia, M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, in Giustizia Insieme, 21 aprile 2022.
[vii] Per quanto riguarda il rispetto del principio di equivalenza, la Corte sottolinea che, alla luce degli elementi forniti nell’ordinanza di rinvio, “l’articolo 111, ottavo comma della Costituzione, come interpretato nella sentenza n. 6/2018, limita con le medesime modalità, la competenza della Corte suprema di cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati su disposizioni di diritto nazionale o su disposizioni di diritto dell’Unione” e che, di conseguenza, “una siffatta norma di diritto interno non violi il principio di equivalenza”.
[viii] Cfr., ad esempio, Corte di giustizia Ue, 17 marzo 2016, C-161/15, Abdelhafid Bensada Benallal, la quale afferma che “in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilirle, in forza del principio di autonomia procedurale, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività)”.
[ix] Come noto, l’articolo 47 della Carta di Nizza stabilisce che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”. Il successivo articolo 52 prevede che “eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà” e che ”nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Dal suo canto, l’articolo 1, par. 3 della Direttiva Cee 21 dicembre 1989, n. 89/665/Cee, sancisce che “gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”; in argomento, si veda, in particolare, F. Aperio Bella, Tra procedimento e processo. Contributo allo studio delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 2017, 279 ss., nonché S. Tranquilli, Una rivoluzione che parte dall’effettività della tutela giurisdizionale. Imparzialità e indipendenza del giudice secondo i Giudici di Lussemburgo, in Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2019, a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, Roma, 2020, 31 ss.
[x] Così le conclusioni dell’Avvocato generale nella causa c-497/20 originata dal rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione con la citata ordinanza n. 19598 del 2020, cit.; per un sintetico inquadramento delle conclusioni dell’Avvocato generale, E. Zampetti, Le conclusioni dell’Avvocato generale sulle questioni pregiudiziali poste dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 13 settembre 2021.
[xi] Così sempre le conclusioni dell’Avvocato generale.
[xii] Più esattamente, la Corte rileva che, sebbene “spetti al giudice del rinvio verificare se nell’ordinamento giuridico italiano esista, in linea di principio, un siffatto rimedio giurisdizionale nel settore dell’aggiudicazione degli appalti pubblici” (ossia un rimedio che consenta di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione), nessun elemento menzionato nell’ordinanza di rimessione o nelle successive osservazioni presentate al giudicante “induce a ritenere a priori che il diritto processuale italiano abbia, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, in tale settore del diritto amministrativo, dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione”.
[xiii] All’indomani dell’ordinanza di rimessione una parte della dottrina ha rilevato che la questione posta alla Corte di giustizia Ue avrebbe potuto essere pacificamente risolta dalla stessa Corte di cassazione, alla stregua di una questione di giurisdizione sindacabile ai sensi dell’articolo 111 co. 8 Cost. Più esattamente, si argomenta che, nella misura in cui ha dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione l’impugnazione del concorrente escluso avverso il provvedimento di aggiudicazione, il Consiglio di Stato abbia di fatto negato tutela giurisdizionale all’interesse strumentale alla ripetizione della gara, opponendo un vero e proprio rifiuto di giurisdizione nei confronti di una situazione giuridica pacificamente tutelata dal diritto eurounitario. Tale ricostruzione è stata sostenuta, in particolare, da F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Ialia spa, cit., 7 ss., il quale rileva che non vi sarebbe “necessità di ridisegnare i contorni dell’eccesso di potere giurisdizionale, né di reinvestire la Corte costituzionale della questione, dal momento che la sentenza 6/2018 non ha certo espunto dal novero dei motivi di giurisdizione la figura del rifiuto di giurisdizione, ma ha solo chiarito che tale figura non può essere dilatata oltre i limiti tradizionalmente noti. Pertanto, una sentenza che continuasse a negare in termini assoluti l’interesse strumentale alla ripetizione della gara ben potrebbe e dovrebbe essere cassata dalle Sezioni Unite per rifiuto di giurisdizione” (sul punto, si veda sempre F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), cit.). Al di là di quella che può ritenersi l’esatta perimetrazione dell’eccesso di potere giurisdizionale, il rifiuto di giurisdizione viene, infatti, tradizionalmente inquadrato nei motivi inerenti alla giurisdizione che possono essere dedotti con il ricorso ex articolo 111 co.8 Cost. In tal senso si è recentemente espressa la citata decisione n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, la quale, oltre che ai casi di sconfinamento, riferisce l’eccesso di potere giudiziario anche alle ipotesi in cui il Consiglio di Stato o la Corte dei conti neghino la propria giurisdizione “sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento)”. Da qui, secondo la ricostruzione in esame, l’inquadramento della decisione del Consiglio di Stato in un’ipotesi di rifiuto di giurisdizione avrebbe consentito alla Corte di cassazione di decidere l’impugnazione senza rivolgersi preliminarmente alla Corte di giustizia Ue. Da un’altra prospettiva, si ritiene, invece, che il difetto di legittimazione pronunciato dal Consiglio di Stato sia inquadrabile in un error in iudicando e non in un motivo di giurisdizione (nemmeno sub specie di rifiuto di giurisdizione). In questi termini, M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto, cit., par.3: “da parte nostra si condivide pienamente l’idea che si tratti di error in iudicando, poiché attinente al merito, così del resto già sostenuto dall’antica dottrina (così ad es. Federico Cammeo; v. M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.) e così come del resto si ricava da ciò che normalmente fa la giurisprudenza civile quando, anche nel caso che ricorra invero un interesse di fatto, rigetta un’azione perché il diritto vantato non sussiste, pronunciandosi cioè sul merito e non dichiarando il difetto di giurisdizione”. Va da sé che, nel caso di specie, un ipotetico error in iudicando potrebbe anche investire le regole sulla legittimazione ad agire, ove si assuma che il Consiglio di Stato abbia negato tutela all’interesse strumentale non perché lo ritenga sottratto in assoluto alla sua cognizione giurisdizionale, ma perché reputi il concorrente legittimamente escluso carente della legittimazione ad azionarlo; in generale sul tema, anche con specifico riferimento alla tormentata vicenda dell’eccesso di potere giurisdizionale con tutte le sue evoluzioni (o involuzioni) giurisprudenziali, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, cit., 119 ss; in un contesto più ampio, anche oltre il caso Randstad, la questione è affrontata da M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, cit., par. 4.
[xiv] Sul tema, si veda G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione”, cit., par. 4, il quale, in una riflessione sviluppata anteriormente alla pronuncia della Corte di giustizia, non escludeva un’ipotetica attivazione dei controlimiti, nel caso in cui la Corte di giustizia avesse rilevato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione dell’assetto processuale interno, e in particolare dell’articolo 111 co. 8 Cost.
[xv] Al riguardo viene in rilievo il combinato disposto degli articoli 1 e 2 bis della Direttiva ricorsi nella parte in cui prevedono, rispettivamente, che gli Stati membri debbano rendere accessibili le procedure di ricorso a “chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione” e che “gli offerenti sono considerati “interessati se non sono già stati definitivamente esclusi”, laddove s’intende esclusione definitiva quella che “è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente” ovvero quella che “non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”.
[xvi] Corte di giustizia Ue., 21 dicembre 2016, C -355/15, Bietergemainschaft Technische Gebäudebetreuung und Caverion Österreich, secondo cui “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”. Sebbene la decisione non chiarisca esattamente quando l’esclusione debba considerarsi definitiva, nel caso di specie l’esclusione adottata nei confronti del concorrente era stata confermata da una decisione giurisdizionale passata in giudicato prima che il giudice investito del ricorso avverso l’aggiudicazione di quella stessa procedura decidesse. Da questa circostanza si evince che le conclusioni della Corte di giustizia nella citata sentenza sono assunte sul presupposto che la definitività dell’esclusione è correlata al passaggio in giudicato della decisione che ne accerti la legittimità. In tal senso si è del resto chiaramente espressa la sentenza della Corte di giustizia Ue, 11 maggio 2017, C – 131/16, Archus e Gama. Nel ribadire il principio per cui “all’offerente che ha proposto ricorso deve essere riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario che può portare, se del caso, alla constatazione dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare”, la decisione ha tenuto a precisare che la diversa conclusione assunta nella citata sentenza del 21 dicembre 2016 non sconfessa il principio affermato, considerato che, in quel caso, l’esclusione dell’offerente era “stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto statuisse, in modo tale che detto offerente doveva essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione”. Nel che viene espressamente confermato che, per la Corte di giustizia, l’esclusione è definitiva quando l’accertamento della sua legittimità abbia acquisto l’autorità della cosa giudicata.
[xvii] Si fa riferimento alle note decisioni della Corte di giustizia Ue, 4 luglio 2013, c. 100/12, cit. 395; Corte giustizia UE, 5 aprile 2016, C- 689/13, cit., 324; Corte giustizia Ue, 5 settembre 2019, C – 333/18, Lombardi, cit., 55. Tuttavia, le fattispecie coinvolte in queste decisioni sono parzialmente diverse da quella in rilievo nel caso Randstad, considerato che, nelle prime, l’esclusione del concorrente è l’effetto dell’accoglimento del ricorso incidentale, mentre, nella seconda, l’esclusione del concorrente è adottata direttamente dalla stazione appaltante (sul punto, cfr. Corte di giustizia Ue, 21 dicembre 2016, cit., paragrafi 30-33).
[xviii] Da qui la conclusione della Corte secondo la quale “la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Valle d’Aosta da parte del Consiglio di Stato, che ha dichiarato irricevibile la parte del ricorso della Randstad con cui quest’ultima contestava l’aggiudicazione dell’appalto al raggruppamento Synergie-Umana, è incompatibile con il diritto a un ricorso effettivo garantito dall’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, di quest’ultima”.
[xix] Si vedano i rilievi di R. Villata, La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo qual figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., n. 2/2018, 325 ss. anche in Id., Scritti in tema di questioni di giurisdizione, Milano, 2019, 121 ss.
[xx] Come si è già ricordato, ai sensi dell’articolo 2 bis della direttiva ricorsi (21 dicembre 1989 n. 89/665/Cee), l’esclusione si intende definitiva quando “è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente” o quando “non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”. Secondo la ricostruzione esaminata, la definitività dell’esclusione non sarebbe testualmente correlata al passaggio in giudicato della decisione giurisdizionale che abbia accertato la legittimità della medesima esclusione.
[xxi] Del resto, la decisione in esame del Consiglio di Stato recepisce le conclusioni della sentenza dell’Adunanza Plenaria 7 aprile 2011, n. 4, in Foro it., 2011, III, 306, con nota di G. Sigismondi, secondo la quale “la mera partecipazione (di fatto) alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso”, posto che “la situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva”; pertanto, “non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui impugnazione sia stata respinta”. Come è agevole constatare, la decisione dell’Adunanza Plenaria non collega la definitività dell’esclusione al passaggio in giudicato della decisione, ma al solo fatto che l’impugnazione avverso l’esclusione sia stata respinta, ossia alla circostanza manifestatasi nel caso in esame, laddove i motivi d’impugnazione proposti dall’operatore economico avverso l’esclusione sono stati respinti sia dal giudice di primo grado che dal giudice di appello; sulle condizioni dell’azione nella materia dei contratti pubblici, si veda, recentemente, D. Capotorto, Le condizioni dell’azione nel contenzioso amministrativo in materia di appalti: “l’interesse meramente potenziale” nuovo paradigma dell’ordinamento processuale?, in Dir. proc. amm., 3/2020, 665 ss.
[xxii] Sul punto, F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), cit., par. 5, il quale, rievocando l’Ebbene, ch’ei si rassegni di Pasquale Stanislao Mancini, pone chiaramente la seguente alternativa: “ecco, siamo praticamente tornati innanzi al medesimo bivio, perché anche oggi si tratta di stabilire se il cittadino debba rassegnarsi o se sia giusto e doveroso tutelare l’interesse strumentale al corretto esercizio del potere; ovvero se l’interesse legittimo debba irrigidirsi sul carattere di una situazione finale o possa o debba sfruttare l’elasticità propria di una situazione strumentale”. Sulla concezione strumentale dell’interesse legittimo, si rinvia per tutti a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, spec. 410 ss.; sulla concezione finale dell’interesse legittimo, G. Greco, Dal dilemma del diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale – interesse finale, in Dir. proc. amm., 3/2014, 479 ss.; di recente, sul tema generale delle situazioni giuridiche soggettive, M. Trimarchi, Decisione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, in R. Ursi – M. Renna (a cura di), La decisione amministrativa, Napoli, 2021, 131 ss; A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[xxiii] Sul tema, di recente, M. Clarich, Il dualismo giurisdizionale nel sistema della giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., 2/2021, 215 ss.
[xxiv] Si veda, ad esempio, A. TRAVI, Unità della giurisdizione e costituzione, in E. Fabiani – A. Tartaglia Polcini (a cura di), Sull’unità della giurisdizione in ricordo di Franco Cipriani, Napoli, 2011, 72, il quale evidenzia la difficoltà di accettare che “disposizioni identiche (o disposizioni diverse, riconducibili però a principi o a contesti identici) vengano interpretate ed applicate in modo diverso solo perché parte in causa è un’amministrazione”, rilevando che “nella situazione attuale mi pare evidente una violazione grave dei un principio basilare dell’ordinamento costituzionale, ossia del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.”; F. Bile, Intorno all’unità della giurisdizione, in Foro it., 4/2011, 95, osserva che “la limitazione del ricorso in Cassazione per violazione di legge alla sola giurisdizione ordinaria e la correlativa sua esclusione per quella amministrativa potrebbero oggettivamente risolversi nella mancanza di una sede istituzionale per comporre eventuali contrasti fra giudici ordinari e giudici ammnistrativi nell’interpretazione delle stesse norme, pur se relative (come si è detto) a diritti fondamentali. Si restringerebbe così l’esercizio effettivo del potere di nomofilachia e si porrebbe in pericolo il bene essenziale della certezza del diritto, cioè il principio supremo dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge proclamato dall’art. 3 della Carta”.
[xxv] Ci si riferisce, ad esempio, ai casi in cui le decisioni del Consiglio di Stato vertano su diritti soggettivi; sul punto, M. Clarich, Il dualismo giurisdizionale nel sistema della giustizia amministrativa, cit., 223, evidenzia la difficoltà di raggiungere il risultato attraverso un’interpretazione estensiva dell’articolo 111 co.8 Cost.: “appare del resto arduo, a Costituzione invaiata, imboccare la via di interpretare l’art. 111, comma 8, nel senso di ammettere il ricorso in Cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato per violazione di legge almeno limitatamente ai casi nei quali esse si pronuncino sui diritti soggettivi”.
[xxvi] A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia, 1/2021, 27, il quale sottolinea che “il superamento della pluralità delle giurisdizioni è possibile solo in un quadro di reale specializzazione del giudice ordinario, come d’altra parte esiste in altri paesi europei”; in ogni caso, l’evocazione della giurisdizione unica investe profili generali e non resta circoscritto all’esigenza di una nomofilachia unitaria: sul tema, C. Marzuoli - A. Orsi Battaglini, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione ?, in Dir. pubbl., 1997, 895 ss.; A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello stato di diritto, cit., 33 ss.; A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, in E. Fabiani - A. Tartaglia Polcini (a cura di), Sull’unità della giurisdizione in ricordo di Franco Cipriani, cit., 89 ss.; L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Questione giustizia, 3/2015, 106 ss.
[xxvii] R. Rordorf, Il ragno e la tela: note a margine di uno scritto di Scoditti e Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni, in Questione giustizia, 1/2021, 82 ss., spec. 85.
[xxviii] A. Cosentino, Qualche riflessione su pluralità delle giurisdizioni e nomofilachia, in Questione e giustizia, 1/2021, 96 ss., spec. 100-101.
[xxix] La mancata valorizzazione della specificità della giurisdizione amministrativa è criticata, tra gli altri, da M. A. Sandulli,La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione e giustizia n. 1/2021, 38 ss. Più esattamente, l’A. osserva che il giudice amministrativo deve mantenere la sua peculiarità, “che è e deve restare quella di impedire che gli atti amministrativi ingiustamente lesivi di posizioni giuridicamente tutelate producano effetti – evidentemente pregiudizievoli anche per l’interesse generale alla “buona amministrazione” – e non deve cedere alle spinte verso una progressiva assimilazione al giudice ordinario (che è invece giudice della controversia), che, inevitabilmente, pongono il problema della ragionevolezza e della proporzionalità di una sostanziale duplicazione della stessa funzione”. Proprio al fine di valorizzare la specificità della giurisdizione amministrativa, senza che a ciò possa opporsi un’ingiustificata duplicazione della funzione giurisdizionale (ordinaria e amministrativa), l’A. non esclude che vada forse “ripensata anche l’attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria, ipotizzando magari una mera partecipazione del relatore della sentenza al collegio giudicante ordinario”; F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, cit., par.4, nel valorizzare la specificità della giurisdizione amministrativa, evidenzia come l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento dei danni non debba mai allontanare il giudice amministrativo dalla sua “mission istituzionale (e costituzionale)”, che è quella di assicurare “giustizia nell’amministrazione”. L’A. ritiene prioritario evitare qualsiasi tendenza volta ad una progressiva sostituzione della tutela risarcitoria alla tutela di annullamento, rilevando che “la patrimonializzazione dell’interesse legittimo ha senso, là dove sia possibile, se vale a concentrare la tutela risarcitoria innanzi a un unico giudice, non se diventa un pretesto per fornire un surrogato e, soprattutto, per abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità e se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo”. Conclusivamente, l’A. evidenzia che il diritto amministrativo e il suo giudice debbano necessariamente conservare la loro specialità “perché forme e modi della cura e della protezione sostanziale degli interessi pubblici ubbidiscono a principi fondamentali differenti rispetto a quelli propri della cura e della protezione degli interessi privati, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello giustiziale, non mutuabili dal sistema di diritto privato”.
[xxx] Il riferimento è all’articolo 125 Cost., ai sensi del quale “nella regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica”.
[xxxi] Il riferimento alle decisioni dell’Adunanza Plenaria, 30 luglio 2018 nn. 10 e 11, nonché 28 settembre 2018 n. 15, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo queste decisioni, il giudice di appello che riformi un’erronea decisione in rito (che, cioè, abbia erroneamente dichiarato inammissibile, improcedibile o irricevibile il ricorso) sarebbe tenuto a decidere nel merito la controversia senza dover rinviare la causa al primo giudice. Ugualmente, il giudice di appello che riformi una decisione che abbia erroneamente omesso di pronunciarsi su una o più domande sarebbe tenuto a decidere sulla domanda dimenticata senza dover rinviare la causa al primo giudice. La Plenaria giunge a queste conclusioni sul presupposto che l’articolo 105 c.p.a. non preveda espressamente tra le cause di rimessione al primo giudice i casi di omessa pronuncia o di erronea decisione in rito e che tali casi non possano essere ricondotti alla causa di rimessione rappresentata dalla “lesione del diritto di difesa”.
[xxxii] Sul principio del doppio grado nel processo amministrativo, si veda, da ultimo, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli esiti del giudizio di appello, Napoli, 2020, 41 ss.; tra la dottrina che si è occupata del principio del doppio grado, si veda, in particolare, G. Serges, Il principio del doppio grado di giurisdizione nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1993 e F. Sorrentino, Il doppio grado di giudizio nel giudizio amministrativo, in Scritti in onore di Alberto Predieri, II, Milano, 1996, 1387 ss.
[xxxiii] Secondo le decisioni dell’Adunanza Plenaria, nn. 10 e 11 del 2018, cit., il fatto che il giudice di appello decida il merito della controversia quando riformi l’erronea sentenza di rito non determinerebbe alcuna violazione del principio del doppio grado, poiché tale principio non implicherebbe che “il merito debba essere sempre esaminato in ciascun grado, conformemente alla natura devolutiva del mezzo d’appello”, sicchè il giudice di appello sarebbe comunque chiamato ad un nuovo esame dell’intera controversia, senza che rilevi in contrario la circostanza che il primo giudice, sia pure erroneamente, non abbia pronunciato anche sul merito.
[xxxiv] In quest’ottica, la garanzia costituzionale del diritto di difesa deve intendersi a tutela di una pronuncia di merito, nel senso che tende ad assicurare che le domande proposte in giudizio siano esaminate dal giudice per addivenire a una soluzione della lite nei suoi aspetti sostanziali. Di conseguenza, se il giudice di primo grado, per un suo errore, non decide nel merito la lite, tale errore rivelerebbe una violazione del diritto di difesa perché impedisce di ottenere una pronuncia di merito; conseguentemente, il giudice di appello deve rinviare la causa al primo giudice e ciò anche al fine di garantire la piena realizzazione del doppio grado di giudizio.
[xxxv] Come noto, l’articolo 105 c.p.a. prevede che “il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”.
[xxxvi] Per questi aspetti, anche in relazione alla concezione “forte” del principio del doppio grado nella giurisdizione amministrativa, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli esiti del giudizio di appello, cit.,183 ss.
Il Cognome della Madre - Giustizia Insieme sulla Sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale. Editoriale
1. Il lettore non giurista che, incuriosito dalle notizie di stampa sulla sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale sul cognome materno (Presidente Amato, estensore Navarretta), cercasse l’articolo di legge che stabiliva in via generale l’attribuzione del cognome paterno ai figli, scoprirebbe con sorpresa che tale norma, così come la immagina, non esiste in alcun testo di legge italiano. Eppure, nessuno ha mai dubitato che, in Italia - salve le limitate deroghe formalizzate, queste sì, negli articoli del codice civile che disciplinano il riconoscimento operato in successione dai genitori - il figlio nato da una madre e da un padre assuma, di regola, il cognome del padre.
Per giungere al risultato di cui tutti abbiamo letto nelle scorse settimane - e di cui sentiremo parlare ancora a lungo - la Consulta, infatti, dopo la dichiarazione di illegittimità del primo comma dell’art. 262 c.c., relativo all’attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio, avvalendosi del meccanismo estensivo previsto dall’art. 27 della legge costituzionale n. 87 dell’11 marzo 1953 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma “desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.
Paradossalmente, dunque, la regola del patronimico era tanto imprescindibile nel sistema italiano da non avere neppure bisogno di essere tradotta in norma scritta, pur costituendo il sostrato necessario ma implicito delle altre norme citate, relative alla attribuzione del cognome ai figli non matrimoniali ed ai figli adottivi.
Questa pervasiva immanenza della tacita regola è stata, peraltro, ad un tempo ragione, e conseguenza, della sua percezione non tanto come una scelta normativa, ma come una sorta di preesistente “fatto” naturale, con il corollario di essere necessariamente sottratta, in quanto tale, al dovere di coerenza con i principi costituzionali che grava su tutte le norme positive.
È per questo che la decisione della Corte si inscrive, a buon diritto, tra quelle che - mutuando il titolo da una serie di podcast realizzati dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale - sono destinate a “cambiare la vita” dei cittadini italiani.
Neppure il Tribunale di Bolzano, autorità remittente, aveva infatti osato chiedere quello che la Corte ha poi realizzato: la questione sollevata innanzi alla Consulta aveva ad oggetto esclusivamente l’incostituzionalità del secondo periodo dell’art. 262 c. 1 c.c., norma applicabile al caso specifico sottoposto all’esame del giudice.
La Corte, invece, ha sollevato innanzi a sé la questione di costituzionalità delle ulteriori norme poi censurate ed ha alzato lo sguardo, o lo ha spinto oltre, e attraverso, la specifica norma sfidata di incostituzionalità, “smascherando” l’irrinunciabile scelta valoriale che rimaneva sullo sfondo, tanto scontata quanto ingiustificabile, una volta identificata come tale, per il sorprendente - oggi che è stato portato alla luce - stridente contrasto con i fondamentali principi di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale e, per il tramite dell’art. 117 primo comma, con gli artt. 8 e 14 CEDU, in ragione della escludente discriminazione ai danni della madre e della lesione della integrità della identità familiare del figlio che provoca.
Una discriminazione, ed una dimidiazione del patrimonio identitario costituito dal cognome - il nome che si aggiunge al nome proprio per definire l’appartenenza sociale - che la sentenza n. 131 porta alla luce con tanta lucidità e chiarezza da mostrarne in modo irrevocabile la natura oggettivamente odiosa.
Facendo un ulteriore passo, peraltro, si potrebbe in futuro ipotizzare anche di ridiscutere la compatibilità di un sistema che identifica pubblicamente l’individuo con il riferimento alla sua ascendenza familiare con gli emergenti diritti alla riservatezza; il cognome può, infatti, assumere un indubbio potere condizionante, che chi lo porta non ha scelto. Ciò rende possibile ipotizzare un conflitto tra identità familiare e sociale designate dal cognome e identità autoattribuita, tantopiù in un momento storico in cui anche l’identità di genere registrata alla nascita è oggetto di rinegoziazione in casi meno residuali che in passato. Si vedrà se tale questione, che non sembra essersi posta fin quando il cognome è stato soltanto quello paterno, emergerà ora che il cognome legale riporta entrambe le ascendenze.
2. Per la portata della decisione, Giustizia Insieme ha scelto di dedicare alla sentenza n. 131 una intera giornata di pubblicazioni, offrendo ai lettori i contributi di analisi di tre Autrici ed Autori illuminati, che hanno affrontato con il rigore, la visione e la passione che gli sono propri le molte questioni che la Corte pone al lettore, all’interprete e, da subito, al legislatore.
Ciascuno dei contributi, complementari ma del tutto autonomi, affronta ed esamina la sentenza da un diverso punto di vista: Gabriella Luccioli ricostruisce il percorso delle decisioni che hanno, pezzo per pezzo, eroso il muro oggi abbattuto dalla sentenza n. 131, evidenziandone l’importanza rivoluzionaria e ricordando i pilastri valoriali sui quali si fonda. Michele Sesta, dopo un inquadramento delle disposizioni in tema di cognome del figlio incise dalla sentenza commentata, si spinge oltre rilevando ulteriori profili discriminatori tuttora non rimossi; Mirzia Bianca, ricordate le tradizioni in materia di matronimico e patronimico di alcuni paesi europei a noi culturalmente più affini, accende un faro sul ruolo della Corte costituzionale quale organo deputato al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, in particolare in materia di diritto di famiglia, secondo l'applicazione del principio di effettività. Tutti gli Autori, infine, rivolgono un richiamo pressante al legislatore perché si occupi, urgentemente, in modo organico della materia, tantopiù in ragione della immediata applicabilità del nuovo regime emerso a seguito della pronuncia in commento.
Offriamo ai lettori questi contributi perché siamo convinti che il percorso di consapevolezza e di riflessione, non soltanto giuridica, che la sentenza della Corte ha innescato, sarà tanto più fruttuoso quanto più condiviso. E, infine, una nota: come hanno ricordato alcuni dei nostri Autori, oltre ad essere una sentenza storica, per tutte le ragioni che abbiamo sommariamente indicato, la sentenza n. 131 è bella, bella e intensa, ariosa e appassionante.
La abbiamo attesa tanto tempo, adesso godiamocela.
L’estate del 1982, gli anni ’80 ed emozioni non da poco
di Andrea Venegoni
Già poco meno di due anni fa, la scomparsa di Maradona mi aveva suscitato una serie di riflessioni – che peraltro avevo tenuto per me senza rendere pubbliche – seppure partendo dal presupposto (che oggi posso confessare sperando davvero di non compromettere i rapporti con i tanti collegi e amici napoletani) che io appartenevo a quel partito, forse visto con gli occhi di oggi un po' troppo perbenista e moralista, secondo il quale sarà stato pure il miglior calciatore di tutti i tempi, però aveva quel modo di fare, anche nelle interviste a bordo campo o in quello che si sapeva sulla sua vita fuori dal campo, che me lo rendeva certamente poco simpatico.
Giudicando da quanto vedevo in tv, preferivo di gran lunga lo stile e la classe di Platini, la sua eleganza, la sua “r” francese simil-aristocratica, su una faccia che sembrava non gliene importasse nulla di nulla e guardasse tutti dall'alto, il suo (per me) secondo gol più bello della storia del calcio, Juventus - Argentinos Juniors, finale di coppa Intercontinentale dell'8 dicembre 1985, che però, piccolo particolare, fu annullato e non entrò mai negli annali, e ho ancora impressa negli occhi la sua reazione ironica, sdraiato sul prato su un fianco, con il braccio destro piegato a sorreggere la testa, con un sorrisetto verso l'arbitro che diceva tutto, con un distacco come se il gol fosse stato annullato a qualcun altro e lui fosse stato uno spettatore che passava di lì per caso.
Però, quando Maradona se ne andò, sentii di avere perso un altro di quei pezzi, chiamateli simboli, miti o come volete, che avevano accompagnato la mia vita da giovane. E mi sono sentito un po' più solo.
Per noi, nati intorno alla metà degli anni '60, e che quindi non abbiamo vissuto consapevolmente quel decennio, gli anni '80 sono stati i nostri anni '60.
Sarà che eravamo giovani, ma li ricordo come anni di spensieratezza, forse perché si usciva dal periodo del terrorismo, delle tensioni sociali degli anni '70, e, per chi aveva 14-15 anni, il decennio che iniziava rappresentava davvero l'apertura alla vita.
È vero, i primissimi anni del decennio erano stati ancora turbolenti, in Italia e nel mondo: il terrorismo imperversava ancora in Italia, la mafia stava diventando stragista e nel 1980 c'era stata la morte violenta di John Lennon, ma noi i Beatles non li avevamo vissuti in prima persona; per i ragazzi di allora, invece, si apriva comunque una stagione di leggerezza che ha segnato la nostra adolescenza.
Adesso, bisognava vivere, e tra l'ennesima festa in casa, sperando di poter trovare la mia Vic del “Tempo delle mele” alla quale posare sulle orecchie la cuffietta con una melodia a cui non si poteva dire di no, le sciate sulle piste di Courmayeur e Cervinia e l'eterna competizione tra Pirmin Zurbriggen e Marc Girardelli (oggi qualcuno se li ricorda?), lo sprint di Mennea a Mosca ‘80, il calcio inglese alle primissime apparizioni sulle tv locali, lo sconosciuto Aston Villa che vince la Coppa dei Campioni, avevamo una carica ed un entusiasmo che ancora oggi, quarant’anni dopo, riesce a farci sentire sempre vivi.
In questo, si inserì nel 1982, ultima estate prima della maturità al liceo “Vittorino da Feltre” dei Padri Barnabiti, la vittoria al Mondiale di Spagna. La serata dell’11 luglio la ricordo come fosse ieri. Il rigore sbagliato di Cabrini, sul quale, secondo me, in quel momento si abbattè una sorta di benefico processo di rimozione collettiva, tra gli azzurri ma anche nei milioni di italiani allo stadio e davanti alla tv, che voleva spingere la squadra comunque verso la vittoria; il guizzo di Paolo Rossi, l’urlo epico di Tardelli e l’ultimo gol di Spillo che, come suo stile, esultò come se avesse segnato in una partita di scapoli-ammogliati su un campetto di periferia.
Gli anni ‘80, gli anni della nostra giovinezza, si aprivano, quindi, con una grandissima emozione per tutta l’Italia, e di questo bisogna essere grati per sempre ai giocatori ed ai tecnici di quella squadra.
Quello è stato davvero il decennio nel quale ci siamo formati, in cui abbiamo gettato le basi per diventare quello che siamo oggi; per questo, il Mundial dell’82, ma anche – allargando l’orizzonte - Michael Jackson, il Live Aid da Wembley, il coro di We are the World, Boris Becker che vince Wimbledon partendo dalle qualificazioni, le prime gare di Ayrton Senna e i duelli con Prost, sono stati come dei compagni di viaggio con i quali siamo cresciuti, ci hanno dato delle emozioni sul cui ricordo - parlo per me -, ancora oggi si può fare leva per superare i momenti di tristezza o difficoltà.
Ingenuità da ragazzi, si dirà. Forse è vero.
Peraltro, devo riconoscere che anche Maradona, e non solo la vittoria del 1982, è stato parte di questo processo collettivo. Tra i tanti ricordi del decennio, infatti, non riesco a dimenticare la diretta di Argentina – Inghilterra del 22 giugno 1986. Il primo gol, la “mano de Dios”, ed il secondo, il “gol del secolo”, li ho ancora vivi nella mia mente nel momento in cui si verificavano, inconsapevole, in quell'attimo, che stavo assistendo a qualcosa che sarebbe entrato nel mito del piccolo/grande mondo del pallone e oltre.
Certo, quel giorno non avevo più 14-15 anni, ne avevo quasi ventuno e, ormai all'Università, ero nel periodo della preparazione dell'esame di procedura penale, ovviamente “vecchio rito” sul mitico Cordero, che avrei dato da lì a pochi giorni, ai primi di luglio.
La partita la vidi nel salottino della casa dove – dopo mille giri per l'Europa ed il mondo - vivo ancora oggi e dove ho lo stesso studio di trentasei anni fa. Nella poltrona accanto, mia mamma, che sapeva appassionarsi al calcio come a tutte le cose belle della vita, e che, a partire dallo stesso anno in cui se ne andò Maradona, non la avrebbe occupata più, lasciandomela, vuota, tra i pensieri che riaffiorano e le dolci malinconie del tempo andato.
Davanti alla tv, quella sera, si viveva un momento che sarebbe entrato nella memoria di molti, condito dalla rivalità per la guerra delle Falkland/Malvinas, la tradizione di due nazioni insegnanti di football, lo scenario maestoso dello stadio Azteca di Città del Messico.
Ci gustammo la partita in una calda sera di estate da tenere già le finestre aperte di notte, un'estate a metà degli anni '80, mentre le note di “True Blue”, il nuovo album di Madonna, iniziavano a conquistare le radio italiane e risuonavano dalle autoradio delle macchine che si fermavano al rosso sotto le finestre della casa.
La palla roteava veloce su quel prato verde, liscio, che dalla tv sembrava tosato alla perfezione.
La partita era tesa, io non mi staccavo dal televisore, pensando che ogni passaggio, ogni tiro, ogni errore, potesse essere quello decisivo, mentre i giocatori, per il gran caldo (a Città del Messico era mezzogiorno o giù di là), dovevano rinfrescarsi spesso a bordo campo.
Poi, nell'equilibrio generale, i due lampi.
Ripensando oggi a quelle serate del 1982 e del 1986 davvero magiche, sentimenti contrastanti mi assalgono. Un po' di malinconia, per tante ragioni: perchè ero più giovane e la vita era ancora tutta da scrivere, per il tempo passato e chi si è portato via. Ma, non distinta, dolcezza; dolcezza perchè, forse, quel tempo non è passato invano, anche grazie a chi non c'è più, e un dolce languore per emozioni individuali di tanti anni fa, che erano anche componenti di emozioni collettive.
Oggi penso che chi regala belle emozioni, in fondo, regala amore, che poi, molto probabilmente, sarà l'unica cosa che avrà contato il giorno in cui lasceremo questa terra.
Se è così, anche se all'epoca non mi piaceva come persona, in realtà il nostro Diego si sarà conquistato un'ampia salvezza, perchè ha regalato un'infinità di emozioni a milioni di persone, e lo stesso gli azzurri dell’82 che se ne sono già andati, grazie a quella grandissima impresa coronatasi l’11 luglio di quaranta anni fa.
Quanto a me, finita la serata di Argentina-Inghilterra, il giorno dopo ripresi il mio studio sul Cordero; passai l'esame, e, sempre sullo scorrere degli anni '80, mi laureai ed affrontai il concorso di magistratura.
Superai l'orale, con la certezza di essere nei 300 del bando, il 28 novembre 1990.
Gli anni '80 erano, così, al tramonto: nel 1991 Maradona avrebbe smesso di giocare in Italia; Platini si era già ritirato da tempo; era finita l'Unione Sovietica, nel 1992 iniziava Mani Pulite e venivano uccisi Falcone e Borsellino. Una nuova pagina si apriva per l'Italia, per il mondo e, nel mio piccolo, per me.
Ma questa, è un'altra storia.
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