Incertezza normativa e principio di autoresponsabilità degli operatori economici: sempre più verso una “Italia immobile”? (nota a Cons. Stato, IV, 19 aprile 2022, n. 2915)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti. – 2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo. – 3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto. – 4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza. – 4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato. – 5. Cenni conclusivi.
1. I fatti
Un complesso appello, quello proposto al Consiglio di Stato da una società che contesta la legittimità di un atto ministeriale ritenuto lesivo dei propri interessi.
La vicenda sottesa alla pronuncia qui annotata si sviluppa nel giro di qualche anno, passiamone in rassegna i punti salienti.
Agli inizi degli anni 2000 sono predisposti tre programmi di agevolazione fiscale di durata pluriennale al fine di favorire l’avviamento del mercato nazionale di biodiesel: i programmi, ricevuta l’approvazione preventiva della Commissione europea circa la loro compatibilità con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 108, par. 3, TFUE, sono disciplinati con due d.m. rispettivamente del 2003 e del 2008.
Con due sentenze del Consiglio di Stato – la n. 812/2012[1] e la n. 1120/2012[2] – sono poi annullate, in quei d.m., disposizioni concernenti i criteri di assegnazione ai produttori di biodiesel dei quantitativi di prodotto esenti dall’accisa prevista dalla legislazione vigente.
Nel vuoto normativo venutosi a creare, il Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente – con sentenza n. 998/2014[3] – ordinando al Ministero di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare: la quale, infine, è approvata col d.m. n. 37/2015.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, col nuovo decreto, nel dichiarato intento di conformarsi ai giudicati, prevede all’art. 3 la rideterminazione delle quote alle ditte precedentemente ammesse all’agevolazione, tenuto conto dei nuovi criteri individuati. La rideterminazione, ovviamente, vale “ora per allora” in ossequio agli effetti retroattivi dell’annullamento giurisdizionale.
Nasce qui la vicenda giurisdizionale che impegna il Consiglio di Stato: una società beneficiaria di quelle agevolazioni, nella consapevolezza di subire, con i nuovi criteri, una rideterminazione retroattiva in pejus delle quote di biodiesel esonerato dall’accisa, impugna il d.m. n. 37/2015 innanzi al Tar Lazio, sede di Roma.
Il Giudice amministrativo di prime cure rigetta il ricorso, respingendone integralmente i motivi: tra tutti, quello secondo il quale la società ricorrente avrebbe sofferto la lesione del suo legittimo affidamento stante la rimodulazione in pejus delle quote di biodiesel con norma retroattiva.
Per il Tribunale, l’irretroattività dei provvedimenti normativi costituisce invero un principio inderogabile soltanto con riferimento alla legge penale, mentre – relativamente al d.m. n. 37/2015 – non emergono profili di irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità; inoltre, non v’è alcun legittimo affidamento ab origine, non vi sarebbe alcun legittimo affidamento tutelabile, in ragione della situazione di incertezza giuridica originata dai numerosi contenziosi intentati avverso i regolamenti poi annullati.
La pronuncia pone dunque nuovamente in luce la vexata quaestio della tutela dell’affidamento del privato nei confronti del potere amministrativo: non provvedimentale, stavolta, bensì regolatorio. Il tema ha risvolti di natura sostanziale, ovvero i limiti di legittimità dell’affidamento e le condizioni affinché questo possa ricevere protezione rispetto a un atto amministrativo restrittivo; e ricadute di tipo processuale, che investono la retroattività dell’annullamento giurisdizionale, i suoi effetti conformativi e ripristinatorii, nonché la vincolatività del giudicato rispetto all’Amministrazione che deve darvi esecuzione.
Non si può, infine, prescindere da un rilievo generalissimo: ovvero l’affermazione del principio di certezza giuridica, i suoi limiti e le sue concrete modalità di protezione in capo a operatori del mercato che sempre più sono responsabilizzati nel dialogo con l’Amministrazione pubblica[4].
2. I limiti dell’affidamento riposto nell’atto illegittimo e la loro traslazione sull’atto normativo
La pronuncia qui annotata si colloca nel solco di una corposa giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento riposto dal privato rispetto all’esercizio di un potere amministrativo per sé vantaggioso.
La tematica è stata da poco oggetto di due sentenze dell’Adunanza plenaria – la n. 19 e la n. 20 del 2021[5] – le quali hanno costruito il rapporto tra privato e p.A. in termini di correttezza e buona fede reciproci, sicché l’affidamento del privato nei confronti dell’attività amministrativa rileva – sì – ma solo laddove esso possa considerarsi oggettivamente e soggettivamente legittimo e incolpevole[6].
Deve precisarsi che il tema dell’affidamento emerge soprattutto quando il privato chieda tutela per aver ragionevolmente confidato nella legittimità di un provvedimento vantaggioso rivelatosi, poi, illegittimo e annullato dal Giudice amministrativo o in via di autotutela da parte della stessa Amministrazione. In quell’occasione, la Plenaria ha così individuato alcune condizioni al sussistere delle quali deve escludersi in radice la legittimità dell’affidamento del privato e, dunque, la sua protezione da parte dell’ordinamento. Due, in particolare, escludono il ragionevole affidamento sulla legittimità dell’atto: l’esistenza di vizi ictu oculi emergenti nell’atto e l’avvenuta impugnazione del medesimo da parte di un terzo, impugnazione della quale il privato abbia avuto conoscenza.
Ciò perché l’affidamento è meritevole di tutela solo quando esso sia, appunto, sorretto da un convincimento ragionevole rispetto alla correttezza della condotta dell’Amministrazione: la pura consapevolezza che quella condotta sia – o possa essere – tacciata d’illegittimità, o appaia ictu oculi illegittima, esclude la buona fede e dunque impedisce che l’ordinamento protegga colui che – in qualche misura – poteva ben avvedersi di star confidando su un atto illegittimo.
Ora, siffatta lettura è solo parzialmente utile, in questo caso.
Ciò in quanto la giurisprudenza della Plenaria si è appunto pronunciata, sì, sull’affidamento del privato: ma solo relativamente all’ipotesi nella quale costui, avendo erroneamente confidato nella conservazione di un vantaggio arrecatogli da un provvedimento illegittimo, pretenda tutela risarcitoria per l’avvenuto annullamento di quel provvedimento e il conseguente ripristino della legalità. Parliamo, insomma, dell’affidamento su provvedimento amministrativo vantaggioso illegittimo, annullato.
Qui, invece, il tema è sì l’affidamento nutrito nei confronti di un atto amministrativo: non di natura provvedimentale, però, bensì di natura normativa.
Gli appellanti, invero, non lamentano la lesione dell’affidamento per l’avvenuto annullamento degli atti illegittimi, bensì la loro sostituzione retroattiva con atti legittimi di diritto sopravvenuto.
Questo cambia il quadro.
Anzitutto è di immediato rilievo la distinzione tra provvedimento amministrativo e atto normativo – pur attribuibile alla p.A. – quale è il d.m. oggetto d’impugnazione.
Come affermato anche dallo stesso Consiglio di Stato[7] in uno dei giudizi che concernono la vicenda delle aliquote di biodiesel che qui interessano, il decreto ministeriale ha natura di atto normativo della p.A., iscrivendosi nella categoria degli atti regolamentari[8]: il regolamento è invero «definito atto amministrativo a contenuto normativo, poiché esso si presenta come atto formalmente amministrativo (in quanto adottato da una amministrazione pubblica), ma appartenente al novero delle fonti secondarie, stante il suo contenuto normativo, determinato dalla presenza di prescrizioni caratterizzate da generalità ed astrattezza, in grado di agire con carattere innovativo nell’ordinamento giuridico»; così, esso «si contraddistingue per i caratteri della generalità ed astrattezza delle proprie previsioni, poiché queste, per un verso, riguardano una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (potendosi, al massimo, circoscrivere pluralità o categorie di esse o collettività generali), il che ne determina, appunto, la “generalità”; per altro verso, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilità, e quindi applicabilità ad un numero indefinito di casi concreti (il che ne determina l’astrattezza). La caratterizzazione in termini di generalità ed astrattezza delle previsioni del regolamento ne determina anche l’ulteriore, necessario carattere della efficacia verso l’esterno delle sue norme».
D’altra parte, quel d.m., in quanto atto normativo attribuibile alla p.A., è distinguibile anche dagli altri atti amministrativi generali: «ciò che distingue i regolamenti dagli altri atti amministrativi generali (ad esempio, un bando di gara o di concorso) non è da rinvenirsi solo in aspetti formali (quali la autoqualificazione dell’atto come regolamento, ovvero il tipo di procedimento seguito per la sua adozione), ovvero nella circostanza che i destinatari di questi ultimi, in un primo tempo non determinabili, lo diventano in un momento successivo (e quindi nell’assenza di generalità); ma anche nella circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscono espressione di potere della Pubblica Amministrazione volto alla cura di un interesse pubblico in riferimento ad un obiettivo concreto e determinato (la scelta del contraente, l’individuazione dei vincitori di un concorso da assumere), come tale destinato ad essere temporalmente circoscritto e strutturalmente esauribile».
Pertanto, i regolamenti si distinguono dagli atti amministrativi generali e dai provvedimenti amministrativi in quanto questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati, ma determinabili.
Sicché, mentre nel caso dei regolamenti il fondamento del potere è individuabile nella predefinizione astratta della disciplina di un numero indefinito e non determinato nel tempo di casi rientranti nella fattispecie normativa, nel caso degli atti amministrativi generali esso è invece rappresentato dal concreto perseguimento di un interesse pubblico, programmaticamente circoscritto e temporalmente definito.
Il che determina l’ulteriore conseguenza (e distinzione) che, mentre l’efficacia dei regolamenti è temporalmente indefinita (e abbisogna, per la sua cessazione, di un ulteriore atto normativo), nel caso degli atti generali l’efficacia degli stessi si esaurisce con il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico, la cui cura ha costituito la causa giustificatrice dell’esercizio del potere.
Così stanti le cose, il tema diventa non più l’affidamento sulla legittimità di un atto amministrativo poi annullato, bensì la confiance sulla conservazione dello status quo in ragione della sostituzione di quell’atto – di natura normativa – con uno jus superveniens peggiorativo avente efficacia retroattiva, in esecuzione di un giudicato.
3. Affidamento e attività normativa: itinerari di un conflitto
La protezione dell’affidamento in relazione a un’attività amministrativa di carattere sostanzialmente normativo è tematica che condivide profili di forte affinità con quella più generale del rapporto tra affidamento e legislazione.
Amplius, il rapporto tra cittadino e legislatore corre su più crinali parzialmente sovrapposti: la protezione dell’affidamento, il principio di continuità e quello di certezza del diritto.
Ora, mentre quest’ultimo innerva di sé gli ordinamenti democratici, costituendone il fondamento di riconoscibilità nella misura in cui garantisce la stabilità dei rapporti giuridici e la prevedibilità del dato normativo[9], l’affidamento e il principio di continuità hanno un ambito applicativo maggiormente circoscritto.
Mentre il principio di continuità viene in rilievo tutte quelle volte in cui si realizzi un mutamento normativo che segni una cesura rispetto al passato, il principio del legittimo affidamento emerge quando detto mutamento sia di segno retroattivo e incida su posizioni giuridiche ormai consolidate nel cittadino[10].
Il principio del legittimo affidamento è così posto a presidio di una situazione in cui il legislatore interviene con una norma o propriamente retroattiva – incidente in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive consolidate – oppure impropriamente tale – poiché va a incidere su rapporti di durata modificandone l’assetto per il futuro[11].
Così letta, la tutela dell’affidamento costituirebbe un limite alla discrezionalità del legislatore – parliamo infatti di atti normativi – nell’elaborazione di norme sopravvenute regolatrici in senso peggiorativo: limite non di per sé assoluto, tale per cui v’è il divieto di normare in via retroattiva, seppur in pejus; bensì relativo, nel senso che quella retroattività, valutata come necessaria dal legislatore, dev’essere “governata”[12], magari con disposizioni transitorie, per proteggere quanto più possibile quei rapporti giuridici – ancora in itinere – nati nel regime normativo precedente di segno più favorevole.
La relatività del legittimo affidamento come limite alla retroattività degli atti normativi pregiudizievoli per i rapporti giuridici consolidati è, peraltro, sostenuta da una certa giurisprudenza costituzionale[13] che lo ha qualificato come limite cedevole rispetto ad altre esigenze giudicate inderogabili, per esempio di tipo finanziario.
Questo assetto sarebbe confermato – e per il vero lo afferma anche lo stesso Collegio nella sentenza qui annotata – dal fatto che la Costituzione sancisce il divieto di retroattività in riferimento alla sola legge penale[14]: lasciando così all’affidamento il ruolo, appunto, di “governatore” delle norme che dispongono anche per il passato.
4. Affidamento, proporzionalità e ragionevolezza
In questo suo momento applicativo, l’affidamento si accompagna necessariamente al principio di ragionevolezza: che può esser riletto, anzitutto, con lo strumentario del principio di proporzionalità.
In altre parole, stante una generale, ampia ammissibilità di norme retroattive peggiorative, tenendo conto del limite del legittimo affidamento, bisogna sempre verificare che la norma retroattiva non frustri irragionevolmente od oltremodo l’affidamento medesimo.
Entra, quindi, in gioco, come detto, lo «strumentario concettuale»[15] del principio di proporzionalità.
Per un verso, infatti, bisogna valutare che la norma retroattiva sia di per sé ragionevole, intesa la ragionevolezza quale sua idoneità a perseguire – o a favorire sensibilmente il perseguimento – dell’obiettivo del legislatore (primo step del c.d. test di proporzionalità); in secondo luogo, andrà valutata la sua necessarietà, ovvero l’idoneità in concreto, l’assenza di valide alternative di intervento per il legislatore, che siano meno negativamente incidenti sulle posizioni giuridiche soggettive che si oppongono al cambiamento normativo in parola (secondo step del c.d. test di proporzionalità). Infine, valutate la idoneità e la necessarietà, dovrà esser valutata la ragionevolezza specifica della norma, ovvero dovrà esserne esaminata la proporzionalità in senso stretto e, in particolare, delle sue componenti propriamente o impropriamente retroattive. Come ritenuto dalla dottrina, a questo punto, «se non vi è valida alternativa rispetto ad un intervento normativo, che appare idoneo e necessario per il raggiungimento di un fine inderogabile di diritto pubblico, allora non resta che valutare se il sacrificio che la nuova norma impone al privato – e, nello specifico, al suo legittimo affidamento – non sia tale da imporre di rinunciare comunque all’emanazione della nuova normativa, perché il peso dell’interesse pubblico non è tale da poter prevalere sugli interessi privati contrapposti. Ma, se così non è (come nella maggior parte delle ipotesi, per il vero), allora non resta che ragionare in termini di diritto intertemporale: valutando, cioè, l’adeguatezza delle misure transitorie a fungere da giusto contrappeso rispetto al sacrificio imposto al privato e, in particolare, al suo legittimo affidamento»[16].
L’accortezza dell’inserimento di disposizioni transitorie, di diritto intertemporale, è peraltro superflua e non necessaria laddove la successione di norme sia di per sé prevedibile; quando cioè l’affidamento maturi su atti normativi il cui esito abrogativo è oggettivamente prevedibile, esso non impedirà l’elaborazione di atti normativi sopravvenuti con efficacia retroattiva: «Quest’ultimo, infatti, non potrà invocarsi in ipotesi di reformatio in peius del trattamento giuridico nei casi in cui detto mutamento normativo di segno sfavorevole risultasse prevedibile o conoscibile potendosi configurare il sorgere di una situazione di vantaggio, idonea a ingenerare affidamento, esclusivamente nel caso in cui il mutamento sfavorevole per il cittadino non fosse prevedibile. In ragione di ciò, risulta di immediata evidenza come non si possano invocare affidamenti di fronte a forme di esercizio dell’attività legislativa che si caratterizzino naturaliter per un’intrinseca instabilità»[17].
La medesima ragionevolezza, in altre parole, consente la retroattività di norme che non siano di diritto penale, laddove un interesse pubblico la richieda; impone, al tempo stesso, che l’affidamento del cittadino costituisca un elemento di governo della retroattività, per esempio tramite l’imposizione di disposizioni transitorie; e però, lo impone solo allorché l’affidamento del cittadino possa ritenersi legittimo, dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
4.1. Quando la norma peggiorativa può essere retroattiva: interessi pubblici, affidamento non legittimo, effetto ripristinatorio del giudicato
Orbene, quanto alla retroattività delle disposizioni successivamente intervenute, il Consiglio di Stato richiama il corposo excursus giurisprudenziale in materia di tetti di spesa, per il quale «la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità»[18].
Si tratta, come noto, di un tema sul quale è intervenuta una decina d’anni fa l’Adunanza plenaria, proprio per dirimere il contrasto tra due orientamenti opposti[19]: il primo escludente la legittimità della fissazione di tetti in via retroattiva, specie quando intervenga in un periodo avanzato dell’anno, poiché finisce per ledere l’autonomia e l’integrità delle scelte imprenditoriali, alterando gravemente le dinamiche concorrenziali tra erogatori pubblici e privati; il secondo che invece la riteneva legittima (anzi fisiologica, attesa la complessità del procedimento di quantificazione delle risorse disponibili, del quale essa costituisce solo l’atto terminale). Aderendo al secondo indirizzo, la Plenaria ha poi determinato un aggravamento dell’istruttoria da parte dell’Amministrazione in termini di contraddittorio e partecipazione specie per la tutela dell’affidamento degli operatori economici per esigenze di certezza e stabilità degli investimenti[20].
È evidente, insomma, che l’esistenza di un interesse pubblico specifico e concreto – spesso di matrice economico-finanziaria – legittima un intervento normativo retroattivo in grado di frustrare l’affidamento degli operatori, purché ne sussistano i requisiti di ragionevolezza e proporzionalità.
Intervento che, di per sé, risulta a questo punto ragionevole anche – anzi, soprattutto – laddove debba escludersi in radice la legittimità dell’affidamento riposto dall’operatore: laddove egli, cioè, potesse prevedere l’instabilità normativa e la successione di norme. Mentre nell’ambito del potere legislativo questo dato è generalmente riferito – come accennato – alle norme su decretazione d’urgenza o a quelle delegate, di per sé instabili, bisogna qui rammentare che ci si trova nell’ambito del potere normativo/regolatorio dell’Amministrazione.
La traslazione comporta un adattamento della ragionevolezza: qui si esclude l’affidamento dell’operatore quando – esattamente come accade con i provvedimenti amministrativi illegittimi – egli sia a conoscenza del contenzioso (o addirittura ne sia parte processuale) nel quale quell’atto regolatorio è impugnato e possa, dunque, prevedere il contenuto delle nuove disposizioni normative perché questo è già presente negli indirizzi ermeneutici della sentenza di annullamento pronunziata all’esito del medesimo contenzioso.
Così pronuncia il Collegio nella sentenza qui annotata: «la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo. […] In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021). […] 14.5. I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). […] 14.6. Ebbene, con riferimento al caso in esame, i giudizi di annullamento culminati nelle sentenze nn. 812/2012 e 1120/2012 si sono svolti anche nei confronti dell’odierna appellante, intimata in qualità di controinteressata e, dunque, pienamente a “conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”».
All’interesse finanziario da perseguire e all’assenza in radice d’una legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico si aggiunge, poi, la ragione puramente processuale dalla quale scaturisce, per il Collegio, la legittimità della scelta normativa retroattiva.
V’è, infatti, «piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata» dai d.m. annullati nel 2012, bensì dal d.m. n. 37/2015, «attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia».
In altre parole, anche se il precedente assetto normativo travolto dalla sentenza di annullamento ha indirizzato le scelte imprenditoriali e produttive degli operatori economici, non v’è per loro alcuna tutela e la nuova disciplina vale legittimamente “ora per allora”[21].
A questo proposito, il Collegio richiama una corposa mole di precedenti in base ai quali l’adozione di un atto amministrativo anche regolatorio “ora per allora” è legittima per conseguire gli effetti ripristinatorii della sentenza di annullamento, i quali si accompagnano a quelli eliminatorii dell’atto illegittimo e conformativi per il ri-esercizio del potere[22].
A ciò si accompagna un richiamo al principio di autoresponsabilità, per il quale «la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, recide il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la presunta condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili (Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2021, n. 962)».
In altre parole, secondo il Collegio, l’imprenditore che è a conoscenza dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato (cioè “fatto affidamento”) sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate.
5. Cenni conclusivi
La sentenza qui annotata mostra il costante conflitto ormai esistente tra operatori economici e Amministrazioni. Un conflitto regolato dal Giudice amministrativo facendo richiamo ai principi generali del Diritto amministrativo: i quali, tuttavia, sembrano – ad avviso di chi scrive – non essere perfettamente attagliati alle vicende per le quali è causa.
I fatti, a questo punto, sono ben noti: si tratta di imprenditori che hanno operato le loro scelte strategiche nell’ambito di un quadro normativo non più attuale, nelle more sostituito – a seguito di giudicato – da una disciplina deteriore e retroattiva, pertanto lesiva dei loro interessi.
Qualora questa vicenda si fosse verificata con la successione nel tempo di norme di legge, espressione appunto del potere legislativo, è plausibile che l’affidamento degli operatori economici avrebbe ottenuto protezione – in quanto legittimo – tramite l’emanazione di norme di diritto intertemporale e transitorie.
Poiché però la cornice normativa di riferimento non era fornita da un atto di fonte legislativa, bensì da un atto di fonte amministrativa espressione di potere regolatorio, il parametro utilizzato dal Giudice nella definizione della controversia è stato quello della tutela dell’affidamento rispetto al provvedimento amministrativo favorevole illegittimo.
Con una inevitabile conseguenza derivata.
E cioè che, richiamando il principio di autoresponsabilità, è esclusa la legittimità dell’affidamento nutrito dall’operatore economico quando per costui sia prevedibile che il quadro normativo nell’ambito del quale sta compiendo le sue scelte strategiche sia precario a causa di un probabile annullamento giurisdizionale: conseguentemente, ne è esclusa la tutela.
Il punto, però, non pare centrato. Perché ciò che qui è messo in discussione non è la precarietà degli effetti del quadro normativo giurisdizionalmente annullato, bensì la retroattività “ora per allora” della regolazione amministrativa successiva.
Regolazione il cui sindacato sfugge – diversamente dalle pronunce di prime cure – ai parametri di ragionevolezza e proporzionalità: i quali, ove fossero stati applicati, avrebbero potuto condurre a una forma di tutela degli operatori economici – quanto meno indennitaria – derivante dalla successione di norme nel tempo.
Invece quegli operatori sono stati richiamati all’ossequio al principio di autoresponsabilità, che ancora una volta viene utilizzato in modo tranchant: tanto da invitare l’operatore a non compiere alcuna scelta imprenditoriale se basata su una disposizione la cui legittimità è sub iudice. Non v’è dubbio che, qui, l’autoresponsabilità conduca a una sorta di estremo principio di precauzione: che tuttavia mal si sposa con il mondo imprenditoriale, sospinto verso continue scelte che – pur ponderate – non possono sospendersi a causa della perdurante incertezza del quadro normativo, la quale – a sua volta – diventa un bagaglio troppo pesante per cadere esclusivamente sulle spalle degli operatori economici[23].
[1] Cons. Stato, IV, 16 febbraio 2012, n. 812: «[…] il Collegio annulla l’art. 4, comma 2, del D.M. 25 luglio 2003 n. 256, ed i provvedimenti attuativi delle predette disposizioni […] di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato per le annualità 2006, 2007 e 2008 […]. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di B. in esenzione e/o agevolato, in luogo di quanto già disposto dall’annullato art. 4, co. 2 D.M. n. 256/2003, e, quindi, dovrà riprocedere ad assegnazione per gli anni 2006, 2007 e 2008».
[2] Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2012, n. 1120, di tenore analogo alla n. 812: «in accoglimento dei motivi di appello ora considerati, e dei motivi (per il tramite di essi riproposti) di cui al ricorso instaurativo del giudizio di I grado, il Collegio annulla l’art. 3, comma 4, del D.M. 3 settembre 2008 n. 156. Per effetto del disposto annullamento e del conseguente obbligo conformativo alla presente pronuncia gravante sull’amministrazione, quest’ultima dovrà procedere a rideterminare i criteri di assegnazione del quantitativo di biodiesel in esenzione e/o agevolato».
[3] Cons. Stato, IV, 4 marzo 2014, n. 998: «[…] la Sezione ritiene di dover limitare la decisione di accoglimento dei ricorsi all’ordine all’Amministrazione di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare in un termine perentorio, che si stima equo fissare in 120 giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza. Qualora questo termine dovesse infruttuosamente spirare, su richiesta di parte, potrà essere valutata l’opportunità di far ricorso all’ulteriore misura della nomina di un Commissario ad acta col compito di provvedere in sostituzione dell’Amministrazione».
[4] In proposito v. i numerosi appelli di M.A. Sandulli, la quale parla di “norme-trappola per i privati” (Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile, in Giustiziainsieme.it); di recente anche la sua intervista a Michele Corradino, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato e già Consigliere dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione, nonché autore di «L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire», edito da Chiarelettere nel novembre 2020. L’intervista è sempre su Giustiziainsieme.it. Al titolo del libro è volutamente ispirato il titolo di questo piccolo contributo.
La sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese trova, peraltro, terreno fertile nella confusione tra le categorie giuridiche: si pensi alla scarsa intellegibilità tra «falsità», «mendacio» e «non veridicità» dell’autocertificazione. In un’era nella quale, con progressive stratificazioni normative, il privato è stato investito di un sempre più gravoso principio di autoresponsabilità nel dichiarare fatti e stati all’Amministrazione, al fine di alleggerirne il percorso burocratico, di fatto costui è privo di idonee garanzie, poiché rischia di vedersi applicate sanzioni ex D.P.R. n. 445/2000 e di subire atti di autotutela amministrativa in deroga ai termini di legge. Ciò in quanto, se il sistema ordinamentale – condivisibilmente –non tutela l’affidamento di chi dichiara il falso alla p.A. (e quindi agisce con intento decettivo), al contrario dovrebbe evitare d’irrogare sanzioni per «qualsiasi, preteso, “errore” di ricostruzione e valutazione del quadro tecnico e normativo di riferimento imputabile all’interessato anche nella dichiarazione di circostanze (come il generico possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento) sulle quali (a differenza di quelle risultanti dagli atti di certazione) i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giurisdizionale) o la realtà fattuale (dati inconfutabili, come il peso, la misura, ecc.) non offrono certezza»: v. in proposito lo scritto di M.A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione «non veritiera», in Giustiziainsieme.it, 15 ottobre 2020, dal quale è tratta quest’ultima citazione.
[5] Sia qui consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022, pp. 3 ss.
[6] Cons. Stato, ad. plen., n. 20/2021, cit.: «L’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’Amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato».
[7] Già citato Cons. Stato, IV, n. 812/2012.
[8] L’ambiguità delle fonti del diritto amministrativo, necessariamente flessibili e connotate da atipicità, è ben descritta nel suo contesto storico da M. Mazzamuto, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Dir. amm., n. 4/2015, pp. 683 ss.: «Un’altra vicenda significativa, ma specifica del nostro ordinamento, è, a cominciare dagli anni cinquanta dello scorso secolo, quella del confine intercorrente tra i regolamenti e i cd. “atti amministrativi generali”. Sono note le traversie che hanno toccato talune rilevanti fattispecie (dai provvedimenti che stabiliscono prezzi o tariffe ai piani urbanistici o ai bandi di concorso o di gara), ove si sono nuovamente riversate le incertezze concettuali della nozione di norma giuridica, questa volta coinvolgendo per lunghi anni la stessa giurisprudenza in un'alternanza di qualificazioni contrastanti. Per quanto, almeno al livello giurisprudenziale, certe vecchie questioni si siano sostanzialmente sopite, il confronto rimane sempre vivo col sopravvenire di nuove fattispecie, ed è ancora impregiudicato il versante degli atti regolativi delle autorità amministrative indipendenti. Non sorprende così che la giurisprudenza abbia ritenuto nella sua sede più autorevole di consolidare un (in verità sempre relativo) criterio generale di distinzione che, per l’atto amministrativo generale, collega in sostanza difetto di astrattezza e determinabilità a posteriori dei destinatari. Sullo sfondo di questa variegata concorrenza qualificatoria aleggia il problema del rispetto delle garanzie di competenza o di formazione dei regolamenti (ove previste, come nel caso dei regolamenti statali: L. n. 400/88) e più in generale del “fondamento” stesso del potere regolamentare. L'utilizzo di criteri sostanziali per l'individuazione di un regolamento lascia infatti di per sé impregiudicati i suddetti profili che potrebbero inficiare la validità dell'atto. Così, ad es., una circolare qualificata come regolamento viene annullata per difetto di competenza dell'Assessore regionale, spettando la potestà regolamentare alla Giunta regionale o un decreto ministeriale qualificato come regolamento viene annullato perché, in assenza di espressa deroga legislativa, doveva sottoporsi al procedimento previsto per i regolamenti ministeriali».
[9] V. in proposito P. Carnevale, I diritti, la legge e il principio di tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento italiano. Piccolo divertissement su alcune questioni di natura definitoria, in Scritti in onore di Alessandro Pace, III, 2012, 1939.
[10] V. in proposito l’ampio affresco di F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in Gruppodipisa.it, poi in Dir. pubbl., n. 2/2014, pp. 583 ss., per il quale il principio di continuità è «una fattispecie ben distinguibile dalla tutela di un legittimo affidamento, atteso che questi si radica in tutti quei casi in cui l’intervento legislativo, di segno retroattivo, incide in modo negativo su posizioni giuridiche soggettive ormai maturate dal cittadino. Oppure, in tutte quelle fattispecie di retroattività impropria in cui la norma incide su rapporti di durata modificandoli per il futuro e frustrando le aspettative maturate dalle parti. Benché, in siffatta ipotesi, le situazioni giuridiche soggettive siano solo in parte consolidate, atteso che il loro consolidamento definitivo è necessariamente proiettato nel futuro. Orbene, tanto in caso di retroattività propria quanto in quello di retroattività impropria, la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente rilevante, circostanza che rende netta la distinzione rispetto al più generale principio di continuità che, come già accennato, si sostanzia, invece, in una più generica esigenza di non discontinuità della normazione», p. 4.
[11] Così, D.-U. Galetta, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell’esperienza comparata e comunitaria: riflessioni critiche e proposte per un nuovo approccio in materia di tutela del legittimo affidamento nei confronti dell’attività del legislatore, in Foro amm. Tar, n. 6/2008, pp. 1899, la quale prosegue: «Le posizioni giuridiche soggettive esistenti sono, in questa seconda ipotesi, solo in parte consolidate, poiché il loro definitivo consolidamento è necessariamente proiettato nel futuro. Comune ad entrambe le ipotesi è, in ogni caso, la circostanza che la condotta del cittadino si è conformata ad un’aspettativa giuridicamente fondata che è all’origine di una serie di disposizioni relative ai propri diritti di libertà (e, quindi, non solo di carattere patrimoniale) basate, appunto, sulla permanenza della situazione creata dalla norma che viene invece modificata. Sicché il principio di tutela del legittimo affidamento è posto a presidio stesso dei diritti di libertà del cittadino».
[12] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: il principio del legittimo affidamento «attiene al rapporto fiduciario esistente tra governanti e governati e alla pretesa di stabilità della disciplina legislativa pregressa in base alla quale i governati abbiano maturato posizioni di vantaggio. In tal modo, questi divengono titolari di un interesse alla salvaguardia di dette posizioni nei riguardi dell’azione dei pubblici poteri, in specie del potere legislativo, rispetto alla discontinuità del legiferare. Circostanza, questa, che presuppone una stabilità già raggiunta; ossia un consolidamento e una stratificazione di posizioni soggettive che giustifichino una pretesa al perdurare di una stabilità ormai conseguita. Si badi bene, questo non significa che il principio di affidamento si appalesi come statico e quindi necessariamente votato alla conservazione e al mero mantenimento dello status quo. Piuttosto, questi si pone come espressione di un’istanza volta a realizzare una sorta di governo della trasformazione, ossia un’istanza finalizzata a governare il cambiamento e a circoscrivere gli effetti pregiudizievoli del mutamento, sia esso normativo o amministrativo, nei confronti della situazione pregressa ormai stratificatasi. Proprio in questa prospettiva di governo della trasformazione, si collocano quelle norme transitorie che accompagnano le leggi di reformatio in peius e che consentono un graduale passaggio dal vecchio al nuovo sistema con il fine, non sempre pienamente riuscito, di salvaguardare le posizioni di vantaggio maturate. In tal senso, il principio di affidamento, in quanto volto a regolare le problematiche sottese al passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, si presenta come dinamico e contrapposto ad una certezza del diritto che, come si avrà subito modo di dire, si caratterizza, invece, come rispondente ad un’esigenza di staticità e di resistenza al cambiamento», p. 5.
[13] Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 349: «nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.)»; pur tuttavia «Dette disposizioni [...] al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto ». V. anche Corte cost. n. 374 del 2000.
[14] F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit.: «se agli inizi del XX secolo si era soliti ammettere leggi retroattive esclusivamente in “circostanze eccezionali e per motivi di interesse pubblico e con le limitazioni richieste dall’equità” e per la tutela di “diritti sacri dell’uomo” scaturenti dalla “legge esterna e imprescindibile di natura”, dopo la costituzionalizzazione del divieto di retroattività con riferimento alla sola materia penale, chiarito come l’art. 25 non potesse rappresentare un limite alla discrezionalità del legislatore in ordine al ricorso a norme retroattive in materia non penale, le riflessioni di una parte degli studiosi, lungi dal continuare a ritenere eccezionale il ricorso a siffatte disposizioni, si sono concentrate, più semplicemente, sul tentativo di individuare i paletti di detta discrezionalità onde circoscriverla. In particolare, si è fatto riferimento al principio di ragionevolezza, che in alcune riflessioni è addirittura additato quale “unico limite alle leggi retroattive”. In questo contesto si inserisce il principio del legittimo affidamento inteso quale ulteriore limite alla possibilità per il legislatore di far ricorso a discipline che producano effetti per il passato».
[15] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit., dal quale pure sono ripresi i passi qui citati nel corpo del testo.
[16] D.-U. Galetta, Legittimo affidamento, cit.
[17] Sempre F.F. Pagano, Il principio di affidamento, cit., che si riferisce alle ipotesi di decretazione d’urgenza o delega legislativa con possibilità per il governo di emanare ulteriori atti modificativi o correttivi.
[18] Cfr. Cons. Stato, ad. plen., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; Id., III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n.. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; Id., V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Id., ad. plen., 2 maggio 2006 n. 8.
[19] V. in proposito G. Fares, Sanità. La retroattività dei tetti di spesa dopo l’Adunanza plenaria, in Il libro dell’anno 2016, Treccani, in www.treccani.it.
[20] Cons. Stato, ad. plen., n. 3/2012, cit.: «la tutela di tale affidamento richiede che le decurtazioni imposte al tetto dell’anno precedente, ove retroattive, siano contenute, salvo congrua istruttoria e adeguata esplicitazione all’esito di una valutazione comparativa, nei limiti imposti dai tagli stabiliti dalle disposizioni finanziarie conoscibili dalle strutture private all’inizio e nel corso dell’anno. Più in generale, la fissazione di tetti retroagenti impone l’osservanza di un percorso istruttorio, ispirato al principio della partecipazione, che assicuri l’equilibrato contemperamento degli interessi in rilievo, nonché esige una motivazione tanto più approfondita quanto maggiore è il distacco dalla prevista percentuale di tagli. Inoltre, la considerazione dell’interesse dell’operatore sanitario a non patire oltre misura la lesione della propria sfera economica anche con riguardo alle prestazioni già erogate fa sì che la latitudine della discrezionalità che compete alla regione in sede di programmazione conosca un ridimensionamento tanto maggiore quanto maggiore sia il ritardo nella fissazione dei tetti».
[21] Queste le parole del Collegio: «Il quadro così delineato inclina a ritenere che l’amministrazione disponga di un ampio potere regolatorio anche sui profili di intervento più schiettamente collegati al parametro temporale, potendo tratteggiare una disciplina capace di retroagire nei suoi effetti giuridici e materiali senza che ciò comporti di per sé l’illegittimità della scelta compiuta».
[22] Questi i precedenti citati dal Collegio: «...è utile ribadire che il giudicato comporta effetti eliminatori, con cui l’atto illegittimo è eliminato dal sistema con effetti retroattivi; ripristinatori, per adeguare lo stato di fatto e di diritto successivo all’atto illegittimo, con l’adozione di un atto amministrativo retroattivo idoneo a consentire “ora per allora” il raggiungimento della finalità indicata nella sentenza; conformativi, con cui, valorizzando la motivazione della sentenza, si individua il modo corretto di ri-esercizio del potere a seguito dell’annullamento» (Cons. Stato, VI, 26 marzo 2014, n. 1742; Cons. Stato, V, 30 marzo 2021, n. 2670. E ancora: «In sede di esecuzione di una sentenza di annullamento, l’Amministrazione a volte deve e a volte può emanare un atto avente effetti “ora per allora”. Ad esempio [...] quando si tratti di colmare il “vuoto” conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato con effetti ex tunc un atto generale, l’Amministrazione ben può determinare ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, quando sia stato annullato un provvedimento impositivo di prezzi, di tariffe o di aliquote», cfr. ex plurimis, Cons. Stato, V, 21 ottobre 1997, n. 1145 e, tra le più recenti, Cons. Stato, III, 26 ottobre 2016, n. 4487; Cons. Stato, III, 7 marzo 2016, n. 927; Cons. Stato, VI, 6 aprile 2018, n. 2133.
[23] M.A. Sandulli, nella sua intervista a M. Corradino, L’Italia Immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”. Maria Alessandra Sandulli intervista Michele Corradino, cit., parla proprio di «errori di diritto che, in nome dell’incertezza normativa, giustamente si “affrancano” a chi istituzionalmente dovrebbe averla [la responsabilità, n.d.r.]» e che, però, vengono imputati alla responsabilità oggettiva dell’operatore. Il Pres. Corradino, alla domanda circa l’eccesso di responsabilità sugli operatori privati e la sua inevitabile ricaduta potenzialmente negativa sul tessuto economico-sociale, così risponde: «La responsabilizzazione del privato è strettamente legata alla liberalizzazione e alla rinuncia alla necessità del controllo preventivo della pubblica amministrazione per lo svolgimento di numerose attività. Di fronte all’impossibilità per la pubblica amministrazione di rispondere in tempi ragionevoli alle richieste del privato, la tendenza della legislazione è stata quella di ampliare i confini del silenzio assenso. La conseguenza è che attività in grado di incidere sulla salute pubblica, sull’ambiente, perfino sulla sicurezza sono sostanzialmente liberalizzate e l’esistenza in capo ai gestori dei requisiti minimi è rimessa a controlli sporadici e casuali. Il sistema può reggere solo se sono previste sanzioni certe ed interdittive per quanti abbiano fornito dati falsi o svolgano l’attività in assenza dei requisiti minimi. Chi tradisce la fiducia della comunità deve essere immediatamente e definitivamente espulso dal mercato. Ci sono due aspetti che però non vanno sottovalutati. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare chi sbaglia in buona fede. In questo caso, credo, c’è anzitutto un problema di chiarezza delle regole e di possibilità di dialogo fluido con la pubblica amministrazione come avviene in altri Paesi. D’altra parte, desta preoccupazione la tendenza legislativa a trasferire la responsabilità dal pubblico al privato: ne è testimonianza il nuovo comma 2 bis dell’art. 20 della l. 241/1990, introdotto dal d.l. 71/21, che prima lega il silenzio assenso ad un’attestazione del decorso dei termini “e dell’intervenuto accoglimento della domanda” del privato da parte della pubblica amministrazione e poi, in ipotesi di mancato rilascio di tale documento, prevede inspiegabilmente che essa sia sostituita da una dichiarazione dell’interessato resa ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 445/2000 che, com’è noto, è penalmente sanzionata in caso di falsità. Dietro l’alibi dell’accelerazione sembra annidarsi un trasferimento del costo e soprattutto del rischio dell’inefficienza della pubblica amministrazione sul soggetto privato richiedente».