ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Movimento per la Giustizia: la sua storia di Armando Spataro [1] - seconda parte
Sommario (seconda parte): 1. Magistrati del Movimento componenti del CSM, del CDC dell’ANM, del Direttivo dell’ADM e del Direttivo del Movimento stesso. - 2. Fusione del Movimento ed Articolo 3: nascita del Movimento per la Giustizia-Articolo 3. Alcune iniziative del gruppo. - 3. La rivista Giustizia Insieme, il sito web, la mailing list e la chat del Movimento. - 4. L’ esperienza del Movimento all’interno di MEDEL. 5. Dal Movimento e da MD ad Area Democratica per la Giustizia.
Segue a "la nostra storia" pubblicato il 10 ottobre 2022.
1. Magistrati del Movimento componenti del CSM, del CDC dell’ANM, del Direttivo dell’ADM e del Direttivo del Movimento stesso
Vorrei ricordare a questo punto quali sono stati i magistrati del Movimento per la Giustizia eletti alla carica di componenti del CSM, partendo dall’inizio degli anni ottanta, cioè da quando ancora il Movimento non esisteva ma già cresceva il dibattito che avrebbe portato alla sua fondazione nel 1988, nonché degli organi direttivi della Associazione Nazionale Magistrati, del Movimento stesso e dell’A.D.M.I.
Consiglio Superiore della Magistratura Epoca anteriore alla nascita del Movimento:
- CSM 1976-1981: Mario Almerighi;
- CSM 1981-1986: Vladimiro Zagrebelsky e Giovanni Tamburino;
CSM eletto in epoca anteriore alla nascita del Movimento, ma in carica durante i suoi primi anni di attività:
- CSM 1986-1990: Pietro Calogero, Vito D’Ambrosio (che annunciarono in plenum la fondazione del Movimento e la loro adesione al nuovo gruppo) e Stefano Racheli;
CSM per la cui elezione il Movimento presentò una lista propria:
- CSM 1990-1994: Alfonso Amatucci, Luigi Fenizia e Nino Condorelli;
- CSM 1994-1998: Vladimiro Zagrebelsky, Saverio Mannino, Paolo Fiore, Sergio Lari e Mario Chiarolla (che subentrò a V. Zagrebelsky, dimessosi in prossimità della scadenza della consiliatura, per assumere presso il Ministero della Giustizia la direzione dell’Organizzazione Giudiziaria, lasciata da Ernesto Lupo, e poi dell’Ufficio legislativo fino al 2001);
- CSM 1998-2002: Gioacchino Natoli, Ippolisto Parziale e Armando Spataro
- CSM 2002-2006: Ernesto Aghina, Paolo Arbasino e Giuseppe Fici;
- CSM: 2006 -2010: Dino Petralia, Ciro Riviezzo e Mario Fresa. Ernesto Lupo, quale Primo Presidente della Corte di Cassazione, ne fu membro di diritto dal 13.7.2010;
- CSM 2010-2014: Aniello Nappi, Paolo Carfì, Roberto Rossi. Ernesto Lupo, quale Primo Presidente della Corte di Cassazione, ne fu membro di diritto fino al 20.5.2013
CSM per la cui elezione, dopo consultazioni primarie ed elaborazione di un programma comune, i magistrati del Movimento si candidarono nella lista di Area o Area Democratica per la Giustizia, di cui si farà cenno più avanti:
- CSM 2014-2018, che vide ben sette candidati eletti, di cui cinque provenienti dal Movimento): Antonello Ardituro, Valerio Fracassi, Fabio Napoleone, Ercole Aprile e Nicola Clivio;
- CSM 2018-2022, che vide cinque candidati eletti, di cui uno proveniente dal Movimento): Mario Suriano;
- CSM 2022-2026, che ha visto eletti ben sei candidati di Area (pur a fronte dell’aumento a venti unità dei componenti togati), di cui due di “matrice movimentista”: Marcello Basilico e Tullio Morello.
Associazione Nazionale Magistrati: organi direttivi Sono stati ovviamente numerosi i magistrati del movimento per la giustizia che sono stati eletti componenti del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM e della Giunta Esecutiva Centrale[2], così come di Consigli Giudiziari e Giunte Distrettuali dell’ANM. Impossibile elencarli tutti, almeno da parte di chi scrive, ma ben si può ricordare che in epoche diverse sono stati:
- Presidenti dell’ANM Mario Almerighi e Ciro Riviezzo;
- Vice Presidenti Giovanni Tamburino, Pietro Martello, Antonello Ardituro e Gioacchino Natoli (che è stato anche Vice Segretario).
Purtroppo Mario Almerighi (fondatore del Movimento, scomparso nel 2017), il 18 ottobre 1998, subito dopo essere stato eletto Presidente dell’ANM, decise di dimettersi sull’onda delle reazioni ad una intervista pubblicata sul Corriere della Sera, certamente non felice, che aveva rilasciato, ma la cui veridicità è sempre stata da lui contestata, anche in sede giudiziaria. Almerighi, come ha ricordato più volte Vito D’Ambrosio suo fraterno amico, visse quella vicenda con coinvolgimento talmente forte da spingerlo ad uscire dal Movimento, lamentando di non essere stato “difeso” associativamente da quella che era soprattutto una sua creatura. Il Movimento restò privo di un punto di riferimento molto importante.
Nel corso degli anni sono stati eletti componenti del CDC e/o della GEC dell’ANM anche Franco Roberti, Alfonso Amatucci, Aldo Celentano (che è stato Direttore de La Magistratura), Leonardo Agueci, Fortunato Lazzaro, Modestino Villani, Nino Condorelli, Armando Spataro, Mario Suriano, Mario Fresa, Nello Nappi, Ippolisto Parziale, Dino Petralia, Nicola Di Grazia, Alessandra Camassa, Alessandra Galli, Luigi Picardi, Marcello Basilico, Manuela Fasolato, Luisa Savoia, Giovanni Tedesco, Lilly Arbore.
Sempre per quanto riguarda le Associazioni nazionali, va qui anche ricordato che nel 1990 è stata fondata l’A.D.M.I. – Associazione Donne Magistrato Italiane, del cui Comitato Direttivo è componente Donatella Salari, attualmente anche vice presidente del Movimento per la Giustizia.
Movimento per la Giustizia: organi direttivi
Quanto alla carica di Presidenti, Segretari e Dirigenti del Movimento, fu costituito, dopo la fondazione del Movimento, un Comitato provvisorio allargato, di cui facevano parte Ernesto Aghina, Mario Almerighi, Nino Condorelli, Luciano Gerardis, Giovanni Kessler, Piero Martello, Sergio Materia, Memo Nataloni, Piervalerio Reinotti, Gioacchino Natoli, Roberto Sciacchitano, Giovanni Antonio Tabasso, Giorgio Vitari.
Negli anni successivi furono Presidenti, Segretari e Vice Presidenti del Movimento i seguenti magistrati.:
- Presidenti: V. Zagrebelsky, Mario Almerighi, Giovanni Tamburino, Ubaldo Nannucci, Nino Condorelli, Pietro Martello, Ernesto Aghina, Patrizia Morabito, Antonella Magaraggia, Dino Petralia, Claudio Gittardi, Bruno Giordano, Angelo Costanzo;
- Segretari: Mario Almerighi, Ippolisto Parziale, Ciro Riviezzo, Mimmo Carcano, Stefano Racheli, Armando Spataro, Nino Condorelli, Carlo Citterio, Valerio Fracassi, Nicola Di Grazia, Carlo Sabatini, Morena Plazzi;
- Vice Presidenti: Gioacchino Natoli, Pietro Martello, Patrizia Morabito, Antonello Spanu, Federico Mazza, Donatella Salari
Oltre tutti i Presidenti, Segretari e Vice Presidenti del Movimento sopra indicati (alcuni dei quali hanno fatto parte del Direttivo in più occasioni), sono stati eletti componenti dei vari Direttivi del Movimento succedutisi nel tempo: Roberto Rossi, Marcello Basilico, Maria Monteleone, Federico Mazza, Luca Ramacci, Rosanna Allieri, Giovanni Nardecchia, Luigi Patronaggio, Giacomo Nonno, Angelo Bozza, Franco Roberti, Christine Von Borries, Giuseppe Locatelli, Mino Lanzellotto, Gianni Caria, Daniela Troja, Giovanni Liberati, Angelo Mambriani, Luigi Picardi, Roberto Parziale, Anna Mantovani, Maria Teresa Orlando, Piero Padova, Paola Filippi, Giuseppe Sepe, Federico Mazza, Lucia Casale, Giuseppe De Gregorio, Marco Gianoglio, Natina Praticò, Mario Suriano, Paola Ghinoy, Anna Rita Mantini, Pasquale Serrao D’Aquino, Maria Teresa Gentile, Antonello Ardituro, Ignazio Fonzo, Tullio Morello, Stefano Civardi . Anche alcuni dei magistrati qui elencati hanno fatto parte in più occasioni del Direttivo[3].
Ho avuto anche io l’onore di esercitare il ruolo di segretario nazionale del Movimento per la Giustizia alla fine del 2002 e di essere stato eletto a far parte del Comitato direttivo centrale dell’ANM nel 2004, cioè dopo la cessazione della mia esperienza nel Csm (un “carrierismo” evidentemente al contrario secondo i duri e puri dell’associazionismo!). Voglio qui citare tali incarichi, soprattutto il primo, perché ciò mi consente di ricordare alcune vicende importanti, nonchè significativi interventi e iniziative del Movimento per la Giustizia.
2. Fusione del Movimento ed Articolo 3: nascita del Movimento per la Giustizia-Articolo 3. Alcune iniziative del gruppo
Certamente uno dei momenti più importanti della nostra storia fu prima l’avvicinamento e poi la fusione che si verificò tra il Movimento ed Articolo 3. Una storia che ricorda la fusione con Proposta ’88, ma che è più articolata di quella. L’ha ben raccontata Giovanni Tamburino per Giustizia Insieme nel 2008 e di seguito ne utilizzo le parti più significative.
La storia di Articolo 3 è innanzitutto la storia dei Ghibellini o di alcuni di essi. Il Ghibellin Fuggiasco era un foglio edito per la prima volta nel marzo del 1999, come “foglio critico-informativo” di Unità per la Costituzione, da giovani rappresentanti di quel gruppo del distretto della Corte d’Appello di Napoli, diretti da Modestino Villani. La metafora dantesca era utilizzata per stimolare il dibattito sui principali temi dell’ANM, dell’autogoverno e della giustizia con l’auspicio che quel movimento potesse allargarsi ai contributi di magistrati di altri distretti. Ben presto alcuni dei magistrati “Ghibellini” lasciarono Unità per la Costituzione per “incompatibilità ambientale” rispetto alla gestione dell’importante sezione napoletana di quella corrente. Tralasciando vicende delicate che si verificarono a Napoli in quel periodo e che riguardavano il locale Consiglio Giudiziario, la gestione della Procura e la Giunta distrettuale dell’ANM che si dimise (le nuove elezioni dell’ottobre del 2001 registrarono un clamoroso successo della “Lista 1 marzo”, composta da magistrati facenti riferimento a MD, Movimento e Ghibellini), va ricordato che i Ghibellini si caratterizzarono subito per il loro movimentismo, la trasversalità dei contributi e delle partecipazioni e la critica al correntismo come metodo per l’occupazione degli organi di autogoverno. Il gruppo si arricchì nei mesi successivi grazie alla partecipazione dei magistrati del distretto di Salerno aderenti a “Impegno per la legalità”. I Ghibellini furono protagonisti di un accordo con Movimento ed MD in vista della elezione del CSM nel 2002 (furono 8 i togati conseguentemente eletti in base alla nuova legge elettorale) e nell’ottobre del 2003, assumendo per la prima volta formalmente la denominazione di Articolo 3 (di cui presidente fu Antonello Ardituro), parteciparono alle elezioni per il rinnovo del CDC, ottenendo l’elezione di Modestino Villani e Mario Suriano. L’attività di Articolo 3 si estese progressivamente a livello nazionale e prese corpo un rapporto privilegiato con il Movimento per la Giustizia: a Napoli venne istituita la sezione “Movimento per la Giustizia – Articolo 3” che ottenne importanti successi nelle elezioni per la giunta locale e per il Consiglio Giudiziario. Quell’esperienza ormai nota a livello nazionale determinò la presentazione di una lista unica per il rinnovo del 2007 del CDC e la conseguente formazione in quell’ambito di un gruppo unico composto da G. Natoli, A. Ardituro, V. D’Ambrosio, L. Picardi e N. Di Grazia.
Ormai la strada era spianata e finalmente, nel corso dell’Assemblea di Roma del 13 e 14 dicembre 2008, fu formalmente ratificata la fusione in un unico gruppo, il Movimento per la Giustizia – Articolo 3: ancora e sempre in movimento, tutti, per offrire ai magistrati italiani una specifica proposta di impegno professionale e di cultura della giurisdizione, dell’associazionismo, del governo autonomo.
L’attività del gruppo continuava intanto a svilupparsi negli anni grazie a convegni, seminari di studio, pubblicazioni, assemblee.
Impossibile citarle tutte, sicchè preferisco ricordare solo alcune iniziative molto importanti, risalenti all’inizio di questo millennio, il periodo forse di maggiore e più intensa attività del gruppo anche quale conseguenza del difficile periodo politico che il Paese stava vivendo.
Diffondemmo i seguenti documenti:
- il 4 ottobre 2002, Il diritto dei forti (pubblicato anche su Avvenimenti), denunciando riforme e progetti di riforma in tema di giustizia (leggi sulle rogatorie e sul rientro anonimo dei capitali occulti costituiti all’estero, opposizione al mandato d’arresto europeo, legge delega sui reati societari, progetti di riforma del CSM e del sistema elettorale, ddl Cirami sul legittimo sospetto, il ddl Pittelli ed il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario) che stavano superando ogni più pessimistica previsione, in alcuni casi facendo arretrare l’Italia nella considerazione della comunità internazionale;
- nel dicembre del 2002, Quali riforme per l’ordinamento giudiziario (pubblicato su La Magistratura, organo dell’ANM), in cui, pur auspicando ogni possibile dialogo, ancora affrontavamo il tema delle riforme in discussione, caratterizzate da un prevalente intento punitivo, accentuatosi con le polemiche conseguenti alla sentenza di condanna del sen. Andreotti per l’omicidio Pecorelli emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Perugia;
- il 18 luglio 2003, Carriere separate, riforma rancorosa (pubblicato anche su Avvenimenti), concernente la “secolare” questione che ciclicamente affligge l’Italia, come avvenuto anche con il referendum abrogativo del 12 giugno 2022. Anche in quella occasione gli avvocati penalisti furono invitati invano ad un confronto pacato che tenesse conto della centralità della questione e della sua pertinenza al tema delle garanzie dei cittadini;
- il 18 settembre 2003, Sulle aggressioni di Berlusconi alla Magistratura, Presidente del Consiglio dei Ministri, note in Italia ed all’estero, fino alla sua “celebre” convinzione espressa il 4 settembre, secondo cui “I giudici sono matti, anzi doppiamente matti. Per prima cosa perché lo sono politicamente e, secondo, sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche . Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dalla razza umana”. Al di là del loro modesto livello, si tratta di affermazioni che allora non potevano far sorridere;
- il 3 ottobre 2003, “I magistrati tra bocche cucite ed interpretazioni creative” (pubblicato anche su Avvenimenti dello stesso giorno) in cui – a proposito del disegno di legge delega per la riforma dell’Ordinamento giudiziario approvato dalla Commissione Giustizia del Senato – attaccavamo duramente la previsione del divieto per i magistrati di “attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo”. Insomma, interpretazione della legge possibile solo in termini graditi alla maggioranza di turno ! ;
- il 17 ottobre 2003, “Libertà di associazione e manifestazione del pensiero: i diritti negati del cittadino-magistrato” (pubblicato anche da La Rinascita dello stesso giorno), in cui – sempre a proposito del disegno di legge delega appena citato ed al di là del condiviso divieto di iscrizione a partiti politici, già presente nello Statuto dell’ANM ed affermato nella giurisprudenza disciplinare – analizzavamo il divieto di partecipazione dei magistrati “…ad attività o iniziative di carattere interne ovvero ad ogni altra attività che non abbia carattere scientifico, ricreativo, sportivo o solidaristico”, ovviamente elencando i diritti costituzionali negati, specie a magistrati che – come quelli del Movimento e non solo – intendevano partecipare a dibattiti ed iniziative della cd. “società civile”;
-ottobre 2003, La giustizia in Italia: gli errori degli ultimi anni, i problemi reali, le riforme possibili” (autori Giovanni Melillo ed A. Spataro, pubblicato sul Giornale di storia contemporanea, n. 1 del gennaio 2004), in cui, partendo dal pubblico interesse quale stella polare di ogni riforma della giustizia, venivano presi in esame l’alluvionale produzione legislativa di quegli anni, il “giusto processo” all’epoca dello scritto, il diritto penale sostanziale, le riforme ad personam del secondo governo – Berlusconi, il contesto internazionale, il controllo del PM, l’efficienza del sistema, le riforme ordinamentali effettivamente utili, il processo civile e la riforma del diritto minorile;
-l’11 novembre 2003, “Il caso Pizzorusso al Consiglio Superiore della Magistratura”, in cui prendevamo posizione a favore ed a sostegno del prof. Alessandro Pizzorusso, in quanto, da docente in un corso di formazione per giovani magistrati, era stato accusato da certa stampa di avere diffuso un “libretto rosso del Politburo sparando pagine più dirompenti delle pallottole..con il preciso obiettivo di diffondere tra i giovani magistrati la faziosità e l’odio di parte…” ovvero con l’obiettivo “…di indottrinamento marxista-stalinista subdolamente compiuto nei confronti dei giovani magistrati”. La questione era stata sollevata da due consiglieri laici del Polo, che avevano anche minacciato le dimissioni sia per le espressioni loro rivolte nella relazione che per i presunti attacchi nei confronti del PdCM. Esprimemmo gratitudine al prof. Pizzorusso per le sue critiche, prive di espressioni insultanti, ai progetti in cantiere di riforma dell’ordinamento giudiziario, CSM incluso, ed aderimmo all’appello di importanti costituzionalisti in favore dell’accademico e della libertà di manifestazione del pensiero, di scienza ed insegnamento;
-il 28 novembre 2003, “La giornata della giustizia dell’ANM al Brancaccio di Roma: chiudere i cantieri aperti per la demolizione della giustizia” (pubblicato anche su La Rinascita dello stesso giorno), in cui si richiamava l’impegno di tutti alla diffusione di una corretta informazione, “di gruppo in gruppo, di persona in persona”, sui gravi rischi per l’assetto costituzionale che sarebbe arrivati in caso di approvazione della “controriforma” ordinamentale che era stata messa a punto dalla Casa della Libertà. La stessa ANM, unitariamente, aveva organizzato a Roma una imponente manifestazione pubblica durante la quale erano intervenuti il Presidente Oscar Scalfaro, l’ex Presidente della Consulta Elia, nonché giuristi come Coppi, Silvestri ed intellettuali come Flores d’Arcais, Camilleri, G. Bachelet, P. Ginsbourg, M. Ovadia, rappresentanti di sindacati ed altri ancora;
- l’11 dicembre 2003, La controriforma prussiana alla stretta finale (pubblicata su Avvenimenti lo stesso giorno), documento in cui, sempre a proposito delle riforme in cantiere, denunciavamo anche l’ambiguità di ampi settori del centrosinistra dichiaratisi d’accordo sulla necessità di una penalizzante riforma della giustizia. Marco Boato si era addirittura dichiarato aperto verso un’ipotesi d’inchiesta su Mani pulite ed il sen. Elvio Fassone spingeva per un confronto sulla riforma ordinamentale, proponendo una serie di modifiche all’insegna di una possibile “riduzione del danno”;
- Inaugurazione dell’anno giudiziario 2004: il dovere della memoria, in cui venivano citati alcuni passaggi della Cronaca della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del 1940 in epoca fascista (tratti da “Annali di diritto e procedura penale” 1940, Storia d’Italia, Einaudi) e descritti i magistrati che inneggiavano al Duce, nonché della Relazione del 1984 della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2 nella parte relativa ai Rapporti con la magistratura. il Movimento invitava magistrati e cittadini ad una mobilitazione permanente in difesa dei principi costituzionali di legalità, della separazione dei poteri, della autonomia della magistratura e della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, così da “… non perdere memoria in difesa della democrazia”;
- 4 luglio e 7 luglio 2004, rispettivamente La controriforma dell’ordinamento giudiziario dopo la mozione di fiducia alla Camera dei Deputati e Gli obiettivi reali della Riforma della Costituzione e dell’Ordinamento giudiziario, in cui veniva ribadita la necessità di un impegno diffuso contro i predetti progetti di riforme, di cui alcuni politici (i cd. “quattro saggi”) avevano individuato i principi fondanti durante quattro giorni di vacanze in Valle di Cadore.
Mi fermo qui per non superare i confini temporali della rievocazione delle prese di posizione del Movimento che mi sono imposto, ricordando però gli auguri che, come Presidente (Nino Condorelli) e Segretario (chi scrive) del Movimento, rivolgemmo in occasione del Natale 2003 “ai magistrati italiani, a tutti” al termine di un altro anno di attacchi alla magistratura: “Cari colleghi ed amici stiamo attraversando l' "inferno": un premier "sequestra" la TV pubblica per oltre due ore di propaganda (così l'editoriale di Repubblica del 22 dicembre), dichiara di non essere interessato alle ragioni per cui il Capo dello Stato ha rifiutato la firma ad una legge incostituzionale, preannuncia di voler stravolgere il principio della par condicio tra i partiti nella propaganda politica attraverso la TV. Di fronte a questo allarmante scenario, risulta evidente l'errore di chi ignora che gli attacchi e le ingiurie alla Magistratura ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge costituiscono solo una parte - forse neppure la più significativa - di una concezione privatistica del rapporto tra potere e diritti dei cittadini. Nè consola, purtroppo, la difesa dei principi costituzionali da parte di chi aspira ad essere in futuro forza di governo: nei contenuti e nelle modalità, essa appare spesso debole, burocratica, contraddittoria, ambigua. Ma né rabbia, né sconforto devono indebolirci”.
Parafrasando le parole con cui Marco Polo (in "Le città invisibili" di Italo Calvino), dopo avergli raccontato i suoi viaggi e descritto le città irriconoscibili visitate, risponde a Kublai Khan che gli chiede: "Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti?”, Nino ed io così chiudemmo il nostro messaggio : A voi, a noi tutti un solo augurio, forte e convinto: non accettiamo l'inferno (fino a diventarne parte); stiamo insieme, cerchiamo contatti e comunicazione con chiunque abbia a cuore i valori che ci animano e per cui abbiamo scelto di fare questo lavoro. Come auspica il Marco Polo di Calvino, non smettiamo di cercare la città cui tende il nostro viaggio; impariamo a cercare, a saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno; per farlo durare, per dargli spazio e farlo crescere. Dobbiamo crederci senza arretrare di un solo passo. Auguri a tutti, dunque, sinceramente e con forza!”
Naturalmente, oltre alla produzione di documenti ed a pubbliche prese di posizione, il Movimento per la Giustizia ha organizzato molti eventi di grande impatto e successo.
Tra i tanti, voglio qui citarne citarne solo un paio, limitandomi a quelli di anni lontani:
- sempre a difesa della Costituzione, il Movimento per la Giustizia - con le associazioni della società civile Articolo 21 e Libertà e Giustizia - organizzò il 15
gennaio del 2004, nell’Auditorium della Provincia di Milano un convegno pluritematico su “Controriforme e diritti dei cittadini”, preceduto dalla diffusione di documenti in cui venivano affrontati i problemi che riforme e progetti di riforme in quel periodo stavano determinavano nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Nella sala affollatissima della Provincia, con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che intervennero sulle sofferenze del settore pubblico, introdotte da Sandra Bonsanti, Nino Condorelli e Federico Orlando: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sanità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Alessandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Sergio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Stato». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento finale di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzionale: i quotidiani diedero grande rilievo all’evento e La Repubblica parlò di un nostro “trionfo”;
- pochi giorni dopo, il 24 gennaio 2004, a Catania, il Movimento per la giustizia organizzò un magnifico evento in ricordo di Gabriele Chelazzi, magistrato fiorentino anch’egli fondatore del gruppo, deceduto nel 2003, esperto di mafia e terrorismo e cultore del coordinamento investigativo[4]. Il convegno era intitolato Lo stato della risposta istituzionale alla mafia ed al terrorismo, settori criminali in cui moltissimi magistrati del Movimento hanno lavorato per anni ed anni. Introdotti da Ignazio Fonzo e coordinati da Gianni Melillo, intervennero Virginio Rognoni (Vice Presidente del CSM), Pierluigi Vigna (Procuratore Nazionale Antimafia), i prof.ri Eligio Resta ed Alfredo Galasso, gli on.li Enzo Bianco, Anna Finocchiaro, Ignazio La Russa, Giovanni Burtone ed i magistrati Franco Roberti (altro storico “movimentista”), Gioacchino Natoli, Giuseppe Gennaro, Gaetano Paci, Luigi De Ficchy e Roberto Alfonso;
- il 3 ed il 4 ottobre 2008, a Reggio Calabria, il Movimento organizzò un altro importante convegno intitolato “La nuova dirigenza degli uffici giudiziari. Progetto per una gestione partecipata”, riguardante, cioè, un tema particolarmente caro al gruppo. Vi parteciparono i dirigenti del Movimento dell’epoca, nonchè componenti del CSM e del CDC (appartenenti al Movimento e ad altri gruppi), altri magistrati esperti ed avvocati che dedicarono molta attenzione alla organizzazione e gestione degli uffici giudicanti e requirenti. Questa la presentazione del convegno:
La riforma dell’ordinamento giudiziario, che ha disposto tra l’altro la temporaneità degli incarichi dirigenziali e la conseguente decadenza di molti magistrati che li ricoprivano, ha imposto al C.S.M. un rapido rinnovo dei vertici di tanti uffici giudiziari. E l’organo di autogoverno non si è lasciato sfuggire l’occasione di procedere ad un profondo cambiamento anche generazionale, stabilendo il principio che l’anzianità costituisce soltanto presupposto di legittimazione per la partecipazione al concorso.
Ciò comporta che per la prima volta sono chiamati a responsabilità dirigenziali numerosi magistrati che finora hanno svolto altre funzioni. Si viene così a determinare un radicale cambiamento culturale. Intanto, la consapevolezza della temporaneità dell’incarico e dell’ineludibilità della verifica dell’operato e dei risultati impone una costante attenzione al progetto organizzativo. Inoltre, viene meno il convincimento, finora assai radicato, che l’accesso ai vertici dirigenziali sia riservato soltanto ai magistrati più anziani che senza demerito abbiano percorso una sorta di cursus honorum. E finalmente si fa strada l’idea che la stessa organizzazione degli uffici non sia appannaggio esclusivo dei dirigenti, ma coinvolga, sia pure con funzioni e responsabilità differenti, tutti i magistrati, anche i più giovani, chiamati da subito a fornire ogni utile apporto.
Il convegno vuole appunto riflettere, partendo da angolature diverse per ufficio e per funzioni, sulla nuova cultura della gestione, come momento di partecipazione di tutti i magistrati all’organizzazione degli uffici.
In questa prospettiva s’impone un fecondo confronto tra dirigenti e magistrati che svolgono diverse funzioni, nel convincimento che sia ormai tempo di cambiare profondamente i moduli organizzativi degli uffici giudiziari
Evidente l’attualità e l’importanza degli argomenti trattati in quella occasione.
3. La rivista Giustizia Insieme, il sito web, la mailing list e la chat del Movimento
Un ulteriore salto di qualità segnò la storia del Movimento tra la fine del 2008 ed il 2009, allorchè, dopo la fusione con Articolo 3, i due gruppi unificati diedero vita alla rivista quadrimestrale in cartaceo “Giustizia Insieme” (Aracne Editrice srl): il primo numero risale al dicembre 2008 (n. 0/2008). Direttore ne fu inizialmente il segretario Valerio Fracassi, mentre la redazione fu costituita da Ernesto Aghina e Carlo Citterio (coordinatori scientifici), nonché da Alfonso Amatucci, Ferruccio Auletta, Pasquale D’Ascola, Salvatore Dovere, Paola Filippi, Camilla Gattiboni, Luigi Lanza, Luca Perilli, Antonio F. Rosa, Giuseppe Sepe e Modestino Villani. Dal n. 2.3/2012, assunse il ruolo di direttore Nicola Di Grazia, nuovo segretario generale del Movimento-Articolo 3.
Sin dalle prime pubblicazioni, la rivista è stata una piattaforma “aperta” ai contributi non solo degli appartenenti al gruppo, ma anche di avvocati, accademici, giornalisti: il modo migliore per parlare di giustizia e dei suoi rapporti con la società senza isolarsi in una grotta.
Dopo vari anni di pubblicazione in cartaceo, con copertina rigidamente verde, l’ultimo numero (nn. 2.3/2013) fu pubblicato nel dicembre 2014, ma da quel momento – grazie anche all’infaticabile Luca Ramacci - la rivista iniziò ad essere diffusa solo sul web (https://www.giustiziainsieme.it/) e diventò, unitamente a Questione Giustizia che fa capo ad MD, una delle più importanti sedi di dibattito su temi giuridici di ogni natura, incluse la giustizia dell’U.E., quella amministrativa e tributaria, la materia ordinamentale, la tematica dei diritti umani etc. La sua periodicità è giornaliera e, come per le antiche edizioni in cartaceo, è aperta ad ogni tipo di contributo. Direttrice scientifica è Paola Filippi (inizialmente con Bruno Giordano), direttore responsabile Marcello Basilico, ma redazione e comitato scientifico[5] sono ricchi di saperi di diversa estrazione, a partire (gli altri non me ne vorranno) da quelli di Roberto Conti che della rivista è stato ed è ancora una colonna, pur essendosi recentemente dimesso dalla funzione di codirettore scientifico. È interessante leggere “gli obiettivi” di Giustizia Insieme nella homepage (anch’essa con sfondo verde e logo immutato):
“Giustizia Insieme”, si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma permanente dedicata al confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile. L’originale obiettivo della rivista cartacea: diffondere il modello di magistrato non autoreferenziale ma capace di ascoltare e confrontarsi con la società e che trovava massima espressione comunicativa nella “doppia voce” del togato a confronto sul medesimo tema con il non togato, rimane immutato, pur nel cambiamento della veste grafica e delle regole redazionali.
“Giustizia insieme” si offre così come proscenio on line ove voci diversamente togate o in abito borghese potranno trovare il loro luogo di confronto sui temi giuridici tenuti insieme dal filo rosso della giustizia al servizio della società, una tavola rotonda, accessibile a tutti, finalizzata a contribuire al dibattito sui temi della giustizia.
Un Filo rosso da dipanare in termini di aspirazione al miglioramento dell’esercizio della funzione giurisdizionale nella consapevolezza della molteplicità degli effetti diretti e indiretti che ognuna delle decisioni del magistrato, dell’avvocato così come di tutti gli attori del processo, determina nell’individuale e nel sociale.
L’evoluzione della nostra società ha mutato le nuove generazioni e con esse i giovani magistrati, i giovani avvocati e gli attori del processo. Ai giovani, per primi, si rivolge “Giustizia insieme” con l’impegno di ricordare che tra l’essere e l’apparire la scelta va rivolta all’essere con tutte le responsabilità connesse perché solo ciò che “è” incide e solo “su ciò che è” si incide, ciò che appare rimane sugli schermi e infine disorienta.
“Giustizia insieme” per collaborare alla formazione di un modello di magistrato che ascolti, osservi e si confronti al fine di incidere efficacemente con la sua giurisprudenza e l’organizzazione del suo ufficio nel percorso della legalità del nostro paese.
“Giustizia insieme” per offrire un luogo di confronto duttile ai cambiamenti quale eredità per le future generazioni che, come noi, continueranno ad aspirare ad una magistratura che non sia corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa bensì che sia impegnata ad ascoltare le parti del processo, a studiare, a ricercare soluzioni e a confrontarsi per poi decidere, nel silenzio della camera di consiglio, senza mai distogliere lo sguardo dal destinatario della sua decisione.
Il potere determina grandi responsabilità e, come è scritto nella prima presentazione della rivista, “la giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici”; Giustizia insieme” allora perché insieme si interpretino e si applichino le norme e si utilizzino gli strumenti a nostra disposizione per rendere tempestiva e efficace l’azione giurisdizionale.”
Davvero incredibile il numero e la varietà degli argomenti trattati a più voci nella rivista nel corso della sua storia: essendone impossibile un dettagliato elenco di argomenti ed autori, mi limito a citare, a solo titolo di esempio, interventi su riforme della Giustizia e del CSM (con dibattito sull’ipotesi anticostituzionale e strampalata del sorteggio dei suoi componenti), ruolo dell’avvocatura nei Consigli giudiziari, criterio delle “pari opportunità”, carichi e condizioni di lavoro dei magistrati, rapporti tra mafia, politica e mondo degli affari (storico intervento di Franco Roberti, all’epoca Procuratore a Salerno), temi connessi dell’immigrazione e dei diritti fondamentali, sicurezza ed igiene sul lavoro, giudici e letteratura, approccio dei giovani magistrati ed avvocati al mondo della giustizia, comunicazione e giustizia nel mondo del web, processi e informazione, giustizia disciplinare, magistratura onoraria, ricordi non retorici di G. Falcone e P. Borsellino a vent’anni dalla loro morte, l’esperienza dei magistrati nelle scuole, l’esperienza all’interno di Medel, Associazione sovranazionale dei magistrati progressisti (di cui si dirà appresso), rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, la storia di Area e della sua carta dei valori approvata nell’Assemblea di Roma dell’8 giugno 2013, l’organizzazione degli uffici giudiziari ed in particolare delle Procure (contrastandone la tendenza a considerarla una struttura verticistica in nome di una gestione partecipata) ed il loro rapporto con i cittadini, pubblico ministero e polizia giudiziaria, giurisdizione e politica tra società e istituzione, diritto del lavoro. Ma, considerata l’importanza storica dell’apporto di G. Falcone al Movimento, voglio citare l’articolo di Gioacchino Natoli del maggio 2022 dal titolo Nascita e storia del pool anti-mafia: il problema del metodo, in cui l’autore narra dettagliatamente la storia delle complicità e contiguità tra mafia e istituzioni sin dall’inizio degli anni 60, del superficiale metodo di lavoro che Falcone criticò ed innovò dando vita a quello che fu chiamato “il metodo-Falcone”, del ruolo di Borsellino, Di Lello, Chinnici e Caponnetto nella creazione del pool specializzato etc.. Ma Natoli ricorda anche la mancata nomina di Falcone a Consigliere Istruttore di Palermo, la creazione e le competenze di DDA e DNA, la testimonianza di Alfredo Morvillo sul sistema delle “carte a posto”, concludendo con l’auspicio che non sia dispersa “la grande storia di un grande Uomo, né quelle di una “lunga guerra” sui modelli organizzativi più efficaci per contrastare Cosa Nostra, che insieme hanno formato, però, la storia giudiziaria dell’Italia e di Palermo”.
A proposito del citato passaggio della rivista dal formato cartaceo alla versione sul web, va detto – ricordando le parole di Luca Ramacci (Giustizia Insieme n. 2/2010) – che il Movimento per la Giustizia ha promosso, in anni lontani ed in epoca di incompatibilità tra informatica e pubblica amministrazione (uffici giudiziari in particolare), varie iniziative per indirizzare al meglio i magistrati all’utilizzazione di Internet e delle infinite risorse che offre. Tra queste, una serie di incontri ideati da Ernesto Aghina ed organizzati presso alcuni uffici con il titolo “Il magistrato nella Rete, navigare nel diritto” che ebbero un buon successo con grande partecipazione dei magistrati, cui si cercava di fornire informazioni sugli strumenti disponibili per migliorare il lavoro attraverso una capillare ricerca di testi di legge, sentenza, consultazione di siti Internet.
Il Movimento per la Giustizia ha sempre avuto un’attenzione particolare per l’informatica ed è stato forse il primo gruppo dell’ANM, grazie al webmaster Luca Ramacci, ad utilizzare internet dando vita al sito www.movimentoperlagiustizia.it.
Ed è stato sicuramente il primo gruppo, sin dai suoi primi anni di vita e grazie anche all’intervento di Federico Mazza, a realizzare una “comunità informatica” attraverso una mailing list di discussione che raggiunse rapidamente un numero considerevole di iscritti, consentendo, cosa mai avvenuta prima, la possibilità di discutere e scambiarsi opinioni in tempo reale: una vera e propria “piazza virtuale”, peraltro da subito aperta a persone estranee alla magistratura, ma comunque interessate al mondo della giustizia (avvocati, docenti, giornalisti) ed allo scambio anche di documenti. L’uso delle mailing list si è poi rapidamente propagato all’interno della magistratura, agli altri gruppi associativi e, mediante la realizzazione di liste dedicate, ha favorito l’approfondimento di materie specifiche così determinando la creazione di più siti Web.
Oggi il Movimento-Articolo 3 si è dotato anche di un’interessante chat su WApp che consente il tuning immediato tra tutti i partecipi: il tempo di postare, di leggere e – se si vuole – di ripostare ed il dibattito è avviato ed è alla portata di tutti. Nella chat scorre la vita del Movimento così come essa è ed è così realizzato pienamente il sogno di trent’anni fa, cioè l’immediata conoscenza dei fatti per tutti e la possibilità di intervento in linguaggio corrente: ciò ne ha fatto uno strumento di libertà insostituibile che va difeso pur se, ma questa è l’opinione di chi scrive, non si può ignorare l’importanza della mailing list che consente un dibattito forse meno rapido ma più approfondito.
4. L’ esperienza del Movimento all’interno di MEDEL (Magistrats Européens pour la Démocratie et les libertés)
Dopo un periodo di attenzione alle sue attività e sulla scia di MD, il Movimento si è iscritto nel 2004 a Medel, fondata a Strasburgo nel 1985 e dotata di statuto consultivo presso il Consiglio d’Europa, operandovi con successo e convinzione grazie, in particolare, all’impegno di Gioacchino Natoli, Luca De Matteis, Marcello Basilico, Christine Von Borries, Alessandro Sutera Sardo, Carlo Sabatini ed altri.
MD è stata una delle associazioni fondatrici di Medel (Vito Monetti l’ha presieduta) ed ormai ne fanno parte 23 associazioni di giudici e pubblici ministeri di 16 stati europei, cui aderiscono circa 20.000 magistrati.
L’impegno in Medel è tuttora oggi uno dei punti qualificanti dell’attività del Movimento, consentendo di sviluppare ed arricchire una comune cultura europea fondata sui valori propri dello Stato di diritto, del rispetto delle libertà fondamentali, della difesa dell’indipendenza della magistratura. Si tratta di un impegno che deve essere intensificato, specie in un periodo come questo in cui si manifestano aggressioni nei confronti di magistrati in vari Stati sovranisti (già il 16.11.2006, il Movimento fece sentire la sua voce a Madrid nel corso di un incontro di Medel intitolato “Colloquio sulla trasformazione del diritto in una società globalizzata”) ed in cui il problema dell’immigrazione richiama la necessità di difesa di principi e diritti come solidarietà, diritto all’asilo e ad altre forme di protezione. Non a caso, sempre Medel è stata co-organizzatrice dello stupendo evento di Lampedusa del 2009 che sarà appresso citato
5. Dal Movimento e da MD ad Area Democratica per la Giustizia
Vista la loro indiscutibile vicinanza culturale e le “alleanze” spesso attuate in occasioni di elezioni associative (distrettuali e nazionali), Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-Art.3, con atto fondativo (la Carta Dei Valori) approvato dall’Assemblea di Roma l’8 giugno 2013, formalizzarono la nascita di “Area”, fino a quel momento mero “cartello elettorale”, divenuta, proprio con l’approvazione di quella Carta, e grazie all’esperienza di lavoro comune maturata negli organi di autogoverno centrali e locali e nell’Associazione Nazionale Magistrati, un gruppo autonomo della magistratura associata[6].
In realtà, una parte del Gruppo ebbe delle perplessità quanto all’avvio del percorso che ha condotto ad Area. Alle molte e ai molti che dicevano con entusiasmo “contaminiamoci” ve ne erano altri che vedevano difficoltà di amalgama tra MD, che appariva organizzazione rigidamente strutturata, ed il Movimento, che ha sempre tratto il suo appeal dalla mancanza di una strutturazione forte e dunque oggettivamente da una maggiore libertà, se non una pluralità, di discussioni interne ed esterne e di giudizio sugli eventi.
Comunque, era stato il 2012 l’anno di svolta di AREA (già presente – come si è detto - in molte realtà locali), atteso che per le elezioni del CDC dell’ANM del febbraio 2012, per la prima volta MD e MOV3 presentarono una lista unica appunto denominata AREA e non due separate.
Area elesse propri esponenti nel Consiglio Superiore della Magistratura, nei Consigli Giudiziari e in tutti gli organi rappresentativi dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il Coordinamento di Area fu inizialmente composto da rappresentanti delle due predette correnti, facenti parte dei rispettivi Direttivi.
Nel corso dell’Assemblea veneta del Movimento – Articolo 3 del 22 dicembre 2014, Lorenzo Miazzi formulò un documento-proposta per la necessaria struttura e precisazione dei fini di Area, da intendersi come un soggetto autonomo rispetto ai gruppi che vi avevano dato vita, il che non implicava l’esaurimento della loro esperienza o il superamento dell’appartenenza essendo evidente che quei gruppi continuavano ad essere la spina dorsale della nuova esperienza, un esperimento senza precedenti per l’associazionismo giudiziario, che richiedeva però struttura ben precisa e la scelta di cosa Area doveva essere.
Sulla base di tali riflessioni, nel giugno 2015 fu approvata una carta di organizzazione in forza della quale, ad ottobre dello stesso anno, furono eletti i componenti del Coordinamento Nazionale di Area, chiamando al voto diretto tutti i magistrati aderenti.
Il 21 giugno 2016 Area si costituì formalmente come associazione con atto notarile e si diede uno Statuto, approvato dall’Assemblea Nazionale il 27 novembre 2016.
Il 26 e il 27 maggio 2017 si è tenuto a Napoli il Primo Congresso Nazionale che ha segnato una svolta, icasticamente rappresentata dal mutamento del nome: “Area” è diventata “Area Democratica per la Giustizia” (AreaDG), ha assunto dunque un’identità più chiara, ha dato avvio ad una campagna di iscrizioni ed ha contestualmente aperto il proprio sito internet. Non ha però mutato la propria natura di associazione plurale aperta al contributo di tutti.
Questa la sua auto-presentazione:
Dal sito di “Area Democratica per la Giustizia”
“Siamo magistrati italiani ed europei, orgogliosi di far parte di una magistratura indipendente e autonoma, che, proprio perché tale, è stata capace di far fronte al terrorismo e alle mafie e di tutelare i diritti fondamentali delle persone. Siamo consapevoli che l’evoluzione del ruolo del magistrato e il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva sottolineano l’esigenza della professionalità, della responsabilità e della deontologia del magistrato. La Costituzione è il nostro punto di riferimento nell’esercizio della giurisdizione e nell’autogoverno. Area nasce da un’idea di giustizia come esigenza inalienabile di ogni persona, bene comune e funzione pubblica al servizio della società. Vogliamo realizzarla, partendo e beneficiando dell’esperienza e del patrimonio storico e ideale di Magistratura Democratica e del Movimento per la giustizia-Art. 3.”
Con queste parole il nostro primo atto fondativo – la Carta Dei Valori, approvata dall’Assemblea di Roma l’8 giugno 2013 – descriveva l’identità e lo scopo di “Area”, nata come “cartello elettorale” tra Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-art.3, e divenuta, proprio con l’approvazione di quella Carta, e grazie all’esperienza di lavoro comune maturata negli organi di autogoverno centrali e locali e nell’Associazione Nazionale Magistrati, un gruppo autonomo della magistratura associata.
Dall’approvazione della Carta dei Valori molto cammino è stato fatto. Area ha eletto propri esponenti nel Consiglio Superiore della Magistratura, nei Consigli Giudiziari e in tutti gli organi rappresentativi dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Nel giugno 2015 ha approvato una carta di organizzazione in forza della quale, ad ottobre dello stesso anno, ha rinnovato il precedente organo rappresentativo e, per la prima volta, ha eletto i componenti del Coordinamento Nazionale chiamando al voto diretto tutti i magistrati aderenti. Il 21 giugno 2016 si è costituita come associazione e si è data uno Statuto, approvato dall’Assemblea Nazionale il 27 novembre 2016. Il 26 e il 27 maggio 2017 si è tenuto a Napoli il Primo Congresso Nazionale che ha segnato una svolta, icasticamente rappresentata dal mutamento del nome: “Area” è diventata “Area Democratica per la Giustizia” (AreaDG), ha assunto dunque un’identità più chiara, ha dato avvio ad una campagna di iscrizioni ed ha contestualmente aperto questo sito internet.
Con le iscrizioni Area Democratica per la Giustizia diventa anche economicamente autonoma, ma non cambia la propria natura di associazione plurale aperta al contributo di tutti.
Area Democratica per la Giustizia si riconosce nell’Associazione Nazionale Magistrati e nella sua funzione di presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura italiana, ma aspira a rinnovarla uniformando la sua azione di rappresentanza ad alcuni principi ispiratori: l’apertura alla società, la trasparenza nel funzionamento della giurisdizione e del governo autonomo, l’affermazione dei principi di eguaglianza, solidarietà e giustizia.
Crediamo in una magistratura attenta ai diritti, particolarmente a quelli dei più deboli ed emarginati, sensibile alle nuove istanze di tutela che nascono dall’evoluzione della società.
Pensiamo che un soggetto collettivo aperto alla collaborazione di persone diverse (anche non iscritte) possa contribuire ad una miglior comprensione della realtà nella quale i magistrati sono chiamati ad operare, renderli liberi da pericolose spinte corporative, aiutarli a non trasformarsi in burocrati. Possa, soprattutto, renderli protagonisti – insieme agli avvocati, al personale amministrativo e a tutti gli operatori del settore - del quotidiano sforzo per migliorare il funzionamento della Giustizia: che è per noi – oggi come sempre – un bene comune, strumento imprescindibile ed essenziale perché i valori Costituzionali possano trovare attuazione.
Anche in questo caso, visto l’oggetto di questa relazione, può essere utile ricordare quali sono stati i magistrati che, da componenti del Movimento per la Giustizia – Articolo 3, hanno fatto parte del Coordinamento (organo sostanzialmente equivalente ad un Direttivo) di Area (fase iniziale) e poi di Area Democratica per la Giustizia:
Coordinamento dal 2013 Giuseppe De Gregorio, Antonello Spanu, entrambi all’epoca facenti anche parte del Direttivo del Movimento
Coordinamento dal 2015 Paola Filippi, Giorgio Falcone, Mario Suriano (poi dimessosi), Giuseppe De Gregorio (in sostituzione di M. Suriano)
Coordinamento 2017-2019 Morena Plazzi e Marco Gianoglio
Coordinamento 2019-2021 Giuseppe De Gregorio, Donatella Salari, Stefano Civardi,
Coordinamento in carica dal 2022: non ne fa parte alcun magistrato di “estrazione – Movimento”[7].
E’ comunque utile ricordare che la norma transitoria dello Statuto di AreaDG (Art. 24 - Norma transitoria) prevede che “per il biennio 2015-2017 sono componenti di diritto del Coordinamento Nazionale anche i segretari dei gruppi fondatori, Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-Art.3. Fino al 31/12/16 hanno diritto di voto in assemblea anche tutti coloro che sono già iscritti a Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-art. 3).” Questa previsione, proprio perchè transitoria, lascia intendere come, ab initio, fosse previsto che AREADG, dopo la spinta dei gruppi che maggiormente l’avevano ideata, dovesse tendere – ove possibile - ad avere vita autonoma e propria identità.
Dall’approvazione della Carta dei Valori, comunque, molto cammino è stato fatto, ma non sono mancate dialettiche e polemiche interne: ad esempio, pur riconoscendosi unitariamente nell’Associazione Nazionale Magistrati e nella sua funzione di presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura italiana, MD, nonostante molti dei suoi iscritti “militassero” ormai convintamente in Area, ha determinato uno strappo interno non marginale autonomamente decidendo di presentare una propria lista di candidati in occasione delle elezioni del settembre del 2022 dei componenti togati del CSM. Il Movimento, pur continuando ad esistere, non lo ha fatto, riconoscendo solo ad Area la gestione della politica associativa ed elettorale.
Pur convinto della necessità perdurante di preservare il patrimonio culturale e storico di corrente all’interno di Area, ritengo che la scelta di MD nella predetta fase elettorale, indipendentemente dai risultati (6 gli eletti di Area, 2 quelli di MD, di cui uno candidatosi da indipendente nella lista di MD, al pari di una storica ed autorevole esponente del Movimento) non costituisca una bella pagina nella storia di Area Democratica per la Giustizia e non sia nemmeno giustificata dalla modifica dell’art. 1, punto 2, della citata Carta dei Valori intervenuta il 26.9.2021[8] che secondo, una interpretazione che non condivido (forse a causa della quasi quadriennale mia lontananza dai palazzi di Giustizia), avrebbe trasformato AREA in un gruppo autonomo di cui MD ed il MOVIMENTO non farebbero più parte (o quasi) !
È troppo presto per un commento ampio ed approfondito dell’esito di queste elezioni, ma a parere di chi scrive vi sono dei punti fermi nella storia e nella struttura di Area Democratica per la Giustizia che non possono essere ignorati e che servono per valutare quanto accaduto:
- MD e MOVIMENTO sono le due correnti che hanno fondato AREA (poi AREA – DG) e non si sono mai impegnate ad autosciogliersi per questo, pur se al nuovo gruppo hanno via via aderito magistrati che non appartenevano né all’una, né all’altra corrente;
- è stata per questa ragione prevista la possibilità di doppia tessera (AREA-MD oppure AREA-MOVIMENTO), con versamento di una doppia quota associativa;
- la dialettica interna e quella associativa hanno permesso che i due gruppi fondatori manifestassero talvolta opinioni divergenti su alcune questioni, ma mai in misura da determinare incompatibilità per la loro convivenza in AREA;
- il MOVIMENTO, anzi, ha scelto di rinunciare sostanzialmente ad assumere posizioni autonome o a diffondere documenti a propria firma, “delegando” ogni pubblica presa di posizione ad AREA. Qualcuno, all’interno del MOVIMENTO (tra cui chi scrive) non ha condiviso tale scelta, ritenendo che l’identità della corrente non dovesse andare dispersa, né con lo scioglimento formale del gruppo, né con il silenzio, salvo che, in un improbabile e non vicino futuro, una simile scelta non fosse stata comune e contestuale anche da parte di MD;
- è certo però che la “difesa” ed il significato della diversa identità storica dei gruppi (MD è stata costituita nel 1964 e il Movimento per la Giustizia nel 1988), pur potendo determinare una corretta interlocuzione interna, non hanno sin qui impedito l’importante cammino in comune delle due correnti “per” Area – “in” Area: lo dimostra la loro costante “alleanza” in occasione delle elezioni per il CSM e per gli organi direttivi dell’ANM. Ed è bene aggiungere che quando un “cartello elettorale” è fondato su comunanza di principi non è affatto disdicevole, anzi;
- la scelta di MD per le ultime elezioni dei membri togati del CSM costituisce invece un inevitabile segnale di “rottura” : se AREA ha sempre avuto una comune lista di candidati ed MD oggi si sfila e se ne crea una propria, è evidente che ci si trova dinanzi ad una ingiustificata rottura, non si sa se e quanto sanabile. Due liste “contro” non sono un segnale di unità e di comune sentire.
- non è un caso il fatto che molti storici magistrati aderenti ad MD, che hanno sin dalla fondazione di Area lavorato in modo convinto per la nuova comune realtà associativa, si siano dimessi da Magistratura Democratica.
In ogni caso, è bene attendere lo sviluppo di questa complessa vicenda per trarne conclusioni definitive riguardanti la storia ed il futuro del Movimento per la Giustizia (che deve recuperare il suo spirito originario e riappropriarsi di una quota di autonomia politica, pur all’interno di Area), di Magistratura Democratica (che dovrebbe tornare a credere in Area DG) e di Area Democratica per la Giustizia, che deve porre al centro del suo agire la questione morale, l’impegno sociale e la resa della giustizia in senso non burocratico, attraverso una dirigenza capace di meglio ascoltare e valutare anche il dissenso interno. Continuerà o riprenderà, in tal modo, un auspicabile cammino comune.
A seguire, nel prossimo numero di Giustizia Insieme, la III^ ed ultima parte del testo.
[1] Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) - è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
[2] Può essere utile qui ricordare i magistrati che sono stati Presidenti e Segretari dell’ANM dal periodo di fondazione del Movimento per la Giustizia fino ad oggi e con i quali, dunque, il gruppo si è sempre lealmente confrontato.
Si tratta di dati acquisiti presso l’ANM che non dispone invece dell’elenco di tutti coloro che sono stati componenti del CDC :
Periodo | Presidenti ANM | Segretari ANM |
17 aprile1988 | Raffaele Bertoni | Edmondo Bruti Liberati |
Aprile 1989 | Raffaele Bertoni | Antonio Martone |
2 dicembre 1991 | Giacomo Caliendo | Mario Cicala |
10 maggio 1992 | Mario Cicala | Franco Ippolito |
22 gennaio 1994 | Elena Paciotti | Marcello Maddalena |
4 marzo 1995 | Antonio Abbate | Edmondo Bruti Liberati |
14 dicembre 1996 | Elena Paciotti | Wladimiro De Nunzio |
17 ottobre 1998 | Mario Almerighi | Paolo Giordano |
18 ottobre 1998 | Francesco Castellano (ff) | Paolo Giordano |
28 febbraio 1999 | Antonio Martone | Mario Cicala |
7 novembre 1999 | Mario Cicala | Claudio Castelli |
15 aprile 2000 | Giuseppe Gennaro | Francesco Lo Voi |
16 marzo 2002 | Antonio Patrono | Lucio Aschettino |
25 maggio 2002 | Edmondo Bruti Liberati | Carlo Fucci |
25 maggio 2003 | Edmondo Bruti Liberati | Carlo Fucci |
30 aprile 2005 | Ciro Riviezzo | Antonio Patrono |
12 marzo 2006 | Giuseppe Gennaro | Nello Rossi |
24 novembre 2007 | Simone Luerti | Luca Palamara |
17 maggio 2008 | Luca Palamara | Giuseppe Cascini |
24 marzo 2012 | Rodolfo Maria Sabelli | Maurizio Carbone |
9 aprile 2016 | Piercamillo Davigo | Francesco Minisci |
1 aprile 2017 | Eugenio Albamonte | Edoardo Cilenti |
24 marzo 2018 | Francesco Minisci | Alcide Maritati |
6 aprile 2019 | Pasquale Grasso | Giuliano Caputo |
16 giugno 2019 | Luca Poniz | Giuliano Caputo |
5 dicembre 2020 | Giuseppe Santalucia | Salvatore Casciaro |
[3] L’autore si scusa con altri componenti del Direttivo del Movimento eventualmente qui non nominati. Si scusa anche se, per una scelta necessaria di sintesi, non sono qui riportati i periodi di esercizio delle funzioni di coloro che sono stati componenti di organi direttivi dell’ANM e del MOVIMENTO, citati nella pagina precedente ed in questa.
[4] Sempre alla memoria di Gabriele Chelazzi fu dedicato il libro intitolato “Il coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo” (Giuffrè, 2004), a cura di Giovanni Melillo, Armando Spataro e Piero Luigi Vigna, con cessione dei proventi all’Associazione Libera.
[5] Redazione: Direttrice scientifica Paola Filippi, Direttore Responsabili Marcello Basilico. Coordinatrice di Redazione Ilaria Buonaguro. Componenti: Ernesto Aghina, Marta Agostini, Gabriele Allieri, Giuseppe Amara, Maria Cristiana Amoroso, Andrea Apollonio, Elisa Arbia, Elisa Asprone, Beatrice, Chiara Bicchielli, Franco Caroleo, Carlo Citterio, Angelo Costanzo, Costantino De Robbio, Franco De Stefano, Marco Dell’Utri, Giovanni Di Giorgio, Carlo Vittorio Giabardo, Riccardo Ionta, Giovanni Liberati, Enrico Manzon, Lorenzo Miazzi, Werner Mussner, Alessandro Nazzi, Sibilla Ottoni, Ilaria Palmieri, Donatella Palumbo, Michela Petrini, Isabella Pierazzi, Luca Ramacci, Filippo Ruggiero, Sandro Saba, Federica Salvatore, Francesca Urbani.
Comitato Scientifico: Alfonso Amatucci, Mirzia Rosa Bianca, Bruno Capponi, Corrado Caruso, Roberto Conti, Mariella De Masellis, Pasquale Fimiani, Fabio Francario. Giacomo Fumu, Gabriella Luccioli, Giuseppe Melis, Vincenzo Militello. Dino Petralia, Oreste Pollicino, Giuseppe Santalucia, Mario Serio, Giorgio Spangher.
[6] Sintesi tratta dal sito web di Area Democratica per la Giustizia
[7] Attualmente il Coordinamento di Area Democratica per la Giustizia è composto da Egle Pilla (presidente), Eugenio Albamonte (segretario) e da Roberto Arata, Ilaria Casu, Daniela Galazzi, Luca Minniti e Chiara Valori
[8] Nell’assemblea generale di Cagliari del 26.9.2021 di Area DG, il testo previgente dell’articolo 1, punto 2 della Carta dei Valori di Area DG è stato modificato nella parte in cui affermava che “Area è un’associazione plurale, che comprende persone e gruppi, con la loro identità ed autonomia”. Il nuove testo è il seguente: “Area è un’associazione plurale, che comprende magistrati che si riconoscono nei valori espressi nella presente Carta”.
Movimento per la Giustizia: la sua storia* di Armando Spataro[1] - terza e ultima parte
Sommario (terza parte): 1. Il Movimento per la Giustizia e l’impegno civile del magistrato quale forma di partecipazione alla vita associativa. - 2. Altri temi di discussioni e polemiche, la posizione del Movimento per la Giustizia. - 2.1. Il sorteggio o il pre-sorteggio dei magistrati componenti del Csm. - 2.2. Questione morale ed abolizione delle correnti. - 2.3. Il potere dei dirigenti degli Uffici Giudiziari e, in particolare, dei Procuratori della Repubblica. - 2.4. Il rapporto con l’Avvocatura. - 2.5. Giustizia, informazione e comportamenti dei magistrati. - 2.6. “Carrierismo”, automatismi e incarichi fuori ruolo. - 3. Movimento per la Giustizia: possibili critiche ed autocritiche. - 4. Conclusioni ed auspici: il rifiuto del compromesso sui principi.
segue a "la nostra storia" -prima parte- pubblicato il 10 ottobre 2022 e a "la nostra storia" - seconda parte- pubblicato il 13 ottobre 2022.
1. Il Movimento per la Giustizia e l’impegno civile del magistrato quale forma di partecipazione alla vita associativa
Spesso si sente dire che i giovani magistrati non sono più, come un tempo, animati da spirito di sacrificio e di servizio e che, anche per questo, non partecipano alla vita associativa e non sono particolarmente interessati ai temi inerenti l’amministrazione della giustizia. Sarebbero condizionati da un eccesso di burocratizzazione del loro lavoro che spesso induce anche i migliori a rinchiudersi nel proprio ufficio (sempre che ne abbiano uno), prestando attenzione solo ai procedimenti loro assegnati, ai carichi medi di lavoro ed ai parametri per positive valutazioni della loro professionalità.
Ciò produrrebbe disaffezione anche rispetto alla necessità di una loro testimonianza fuori dai palazzi di giustizia su diritti e doveri dei cittadini.
Personalmente credo che le ragioni di una tale disaffezione risiedano innanzitutto nel tremendo periodo che la magistratura sta vivendo, a partire dall’esplodere del caso Palamara, e nella connessa disinformazione, spesso dolosamente finalizzata a ledere il principio di indipendenza della magistratura ed il senso stesso dell’associativismo, accusando indiscriminatamente tutti i giudici ed i pubblici ministeri di sistematiche violazioni dei loro doveri.
Orbene, preciso subito che credo fortemente nell’impegno civile del magistrato, ovviamente all’interno dei confini tracciati dalla Costituzione e la storia dell’Associazione Nazionale Magistrati e di alcune sue componenti (tra cui sicuramente il Movimento per la Giustizia) dimostra come tale impegno rafforzi la fiducia dei magistrati nel proprio ruolo e faccia crescere quella dei cittadini nella Giustizia.
Alcuni fatti servono: a partire dalla fine degli anni ’80, ad esempio, molti magistrati che si occupavano del contrasto del terrorismo interno, sostenuti dall’ANM si dedicarono anche al racconto pubblico della verità. Quei magistrati, cioè, proprio nella temperie degli anni di piombo, sentirono il dovere di uscire dai loro palazzi per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali e ovunque fosse possibile, allo scopo di diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica e così contrastare con fermezza il verbo di chi teorizzava la neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»).Negli anni seguenti, un identico doveroso impegno è stato messo in campo contro la logica mafiosa, la corruzione, nonché a difesa dei principi costituzionali e del principio di solidarietà. Ed è così ancora oggi. Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente e/o a nome del Movimento per la Giustizia. Il 14 settembre del 2002, ad es., ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimenticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Giovanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite, anche da accademici, le «leggi vergogna», sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le reazioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra presenza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana.
Tra il 2004 e la primavera del 2006, i dirigenti del Movimento parteciparono ad iniziative tese a contrastare la pessima riforma costituzionale messa in cantiere e poi approvata dalla maggioranza di centrodestra che governava il paese in quegli anni. Furono moltissimi i colleghi che si “schierarono”, oltre a varie associazioni e confederazioni sindacali, all’Anpi ed a chiunque altro fosse sensibile al tema. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica aderirono anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione Nazionale Magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potessero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo di quella riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. Tentammo di spiegare come, invece, quell’impegno appariva doveroso, continuando comunque a dialogare con i cittadini (soprattutto i più giovani) e ad intervenire nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche attraverso strumenti informatici e moderne tecnologie. E fino al giugno del 2006 fu tutto un susseguirsi frenetico di manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi organizzati sempre per lo stesso fine : il «No» vinse con il 61,3%, riforma bocciata !
Fu per le stesse ragioni che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo. Ancora non sapevamo che allo stesso modo e per le stesse ragioni ci saremmo comportati a gennaio del 2010 in occasione della stessa cerimonia e che, anzi, indossando la toga, avremmo abbandonato le Aula Magne dei nostri palazzi al momento del discorso del rappresentante del ministero della Giustizia.
Nonostante le accuse di politicizzazione che ci piovevano addosso, molti magistrati del Movimento per la Giustizia e di MD si impegnarono con successo, sempre a sostegno del “NO”, anche nella campagna referendaria del 2016 contro la pessima riforma costituzionale definita “renziana” e messa in campo da uno schieramento politico di orientamento apparentemente opposto rispetto al 2006.
Potrei continuare ad elencare varie altre importanti occasioni di impegno civile del Movimento per la Giustizia, ma mi limito a citare quelle che hanno riguardato il tema dell’immigrazione, tuttora oggetto di dispute politiche e sociali dai toni aspri e spesso offensivi. E’ noto che, nel 2008 e 2009 da un lato e nel 2018 e 2029 dall’altro, i governi pro tempore vararono rispettivamente “pacchetti sicurezza” e “decreti sicurezza”, colmi di inaccettabili previsioni lesive di valori costituzionali.
Orbene, anche in quel caso a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, cioè nel 2009 Movimento per la Giustizia e Magistratura Democratica e nel 2019 Area Democratica per la Giustizia organizzarono due splendidi convegni a Lampedusa, luogo di tragedie e sofferenze, ma anche simbolo dell’accoglienza. Entrambi avevano lo stesso titolo: “La frontiere del diritto ed il diritto della Frontiera”, ma al titolo del secondo era aggiunto la frase “Dieci dopo ancora insieme a Lampedusa”
Vi parteciparono – da noi invitati - avvocati, giornalisti, magistrati, alti ufficiali della Guardia Costiera nonchè il Vescovo di Agrigento ed il sindaco che aprirono quegli incontri dedicati alla solidarietà. Intervennero anche ex presidenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale, il responsabile dell’Alto Commissariato dell’ONU-UNCHR, il Vice Presidente della Commissione Libertà Civili del Parlamento Europeo ed un componente del Tribunale permanente dei popoli.
Sullo stesso tema, il 20 e 21 febbraio 2015, Area, Movimento per la Giustizia e Magistratura Democratica, organizzarono a Catania un altro splendido convegno (“L’immigrazione che verrà. Dal respingimento a Mare Nostrum, dall’Italia all’Europa”), cui avevano partecipato eminenti studiosi ed esperti e che fu chiuso da Anna Canepa e Nicola Di Grazia, rispettivamente segretari di MD e del Movimento.
Spero che ciò che ho sin qui raccontato possa servire a rispondere a tutti coloro che accusano i magistrati impegnati fuori dai palazzi di giustizia di parlare e scrivere al di là di quanto sarebbe loro esclusivamente concesso, cioè solo con sentenze ed atti giudiziari. E ciò farebbero – si dice – per ragioni legate alle personali convinzioni politiche, finendo con il compromettere l’autorevolezza e l’immagine di terzietà della magistratura. Di fronte a tali accuse vorrei chiedere a chi le formula di evitare ingiustificate generalizzazioni: la Costituzione non prevede solo principi e diritti astratti, ma impone anche doveri per i cittadini che vi si riconoscono, come l’impegno per la difesa dei diritti fondamentali.
È questo il modello di magistrato che auspico per il futuro delle correnti dell’ANM, a partire ovviamente dal Movimento per la Giustizia, un futuro caratterizzato cioè da un impegno civile perfettamente compatibile con la professione e con la vita associativa, ed anzi capace di “purificare” l’Associazione stessa.
Del resto, già ad anni precedenti la fondazione nel 1909 dell’Associazione generale tra i magistrati italiani, risalgono le resistenze del ceto politico rispetto a questo tipo di impegno dei magistrati: precisamente nell’agosto del 1907, il guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando aveva diramato una circolare ai capi delle Corti nella quale rilevava con rammarico la diffusione tra i magistrati del «costume di pubblicamente interloquire intorno a questioni attinenti l’esercizio dell’ufficio loro, sia sotto forma di interviste, sia con lettere o con articoli», e concludeva minacciando sanzioni in caso di abusi. Lo stesso ministro, in una intervista al «Corriere d’Italia» del 23 agosto 1909, a proposito della ormai intervenuta fondazione dell’Agmi, esprimeva «dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni[2]».
La rottura della separatezza della casta, l’apertura alla politica, la messa in crisi del principio gerarchico e della stessa dipendenza della magistratura rispetto all’esecutivo erano appunto la stessa ragione d’essere della Associazione. Del resto, proprio nella seduta di fondazione dell’Agmi, Giovanni Sola, appena assunta la presidenza, esordì osservando: «La magistratura italiana, già da tempo, sente il bisogno di uscire dal suo isolamento di fronte allo sviluppo economico e sociale del paese e ai complessi problemi che tuttora gravano insoluti sugli ordinamenti della giustizia». Sono parole e concetti che riecheggeranno negli anni successivi e che si devono considerare attuali ancora oggi.
Sono orgoglioso di appartenere a un’associazione che ha questa storia e che non a caso raccoglie il 94% dei magistrati italiani. Dunque, pur dando per scontato che anche al nostro interno si manifestano talvolta condotte incompatibili con il codice deontologico che ci siamo dati (tra cui contiguità politiche, insufficiente operosità e scarsa sensibilità al pubblico interesse), non comprendo come oggi sia possibile per molti magistrati dimenticare le nostre radici, reclamare per l’Anm una prevalente attenzione agli aspetti economico-sindacali e snobbare indifferenti i valori alti che ci legano, in nome di riforme o progetti di riforme che hanno il sapore del populismo.
Il Movimento per la Giustizia non lo ha mai fatto.
2. Altri temi di discussioni e polemiche, la posizione del Movimento per la Giustizia
Affronto di seguito alcuni dei temi di maggior rilievo del dibattito pubblico riguardante la Giustizia. Ovviamente, lo sono quelli riguardanti la separazione delle carriere e la giustizia civile, ma, vista l’impossibilità di trattarli sinteticamente in questo già lungo documento, basta ricordare :
- sulla separazione delle carriere, tema che tanto affascina alcuni settori della politica e l’Unione delle Camere Penali, che gli argomenti che vi si oppongono sono numerosi e vincenti, riguardando principi costituzionali, l’assetto prevalente a livello internazionale, la raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”. Non vale la pena, pertanto, rispondere ad affermazioni di segno opposto, anche se provenienti da settori minoritari di altre correnti e da ex magistrati, in quanto infondate, incolte e talvolta offensive (come quella secondo cui i giudici, per effetto della già limitata possibilità di interscambio delle funzioni, sarebbero portati ad accogliere le tesi dei p.m.);
- sulla giustizia civile, che, insieme ad MD, il Movimento ha costituito il “Gruppo sul civile”. Si tratta di un esempio di collaborazione tra le due correnti voluta da Carlo Verardi, che ne vantò l’importanza in un suo intervento a fine duemila al congresso di MD, l’ultimo prima della sua prematura scomparsa avvenuta il 15 settembre del 2001. Il gruppo gradualmente è stato assorbito nell’attività degli Osservatori per la giustizia civile cui molti magistrati del Movimento partecipano con entusiasmo e di cui Gianfranco Gilardi è animatore dopo la scomparsa di Verardi.
Altri temi appresso trattati continuano a suscitare aspre polemiche e parlarne consente di meglio precisare storia e posizioni del Movimento per la Giustizia. A tal proposito, se alcuni dei dirigenti o degli appartenenti al gruppo non dovessero condividere le mie affermazioni, mi scuso con loro: io parlo della storia che ho vissuto e delle scelte del Movimento cui, con molti altri colleghi, ho contribuito. Poi, è ben possibile che tutto cambi, ma io non me lo auguro, specie rispetto a quanto segue.
2.1. Il sorteggio o il pre-sorteggio dei magistrati componenti del Csm
La riforma di cui più frequentemente si discute è quella del Csm. All’inizio dell’estate del 2009, i quotidiani avevano pubblicato una notizia capace di dar corpo ai peggiori fantasmi che potessero aleggiare sulla magistratura italiana: il ministro della Giustizia Alfano stava infatti studiando l’ennesima possibile modifica del sistema di designazione dei componenti togati del Csm. Si voleva introdurne la nomina per sorteggio, allo scopo di distruggere il peso delle correnti: una cinquantina di nomi di candidati sarebbero stati estratti «dall’urna» (immagino grazie alla manina di una dea bendata) e solo tra questi i magistrati avrebbero potuto esercitare il loro diritto di eleggere i membri togati del Csm. Un diritto previsto dalla Costituzione (art. 104, comma 3) che, secondo gli strateghi di questo disegno, sarebbe stato preservato grazie al voto finale da esprimersi rispetto alle poche decine di nomi estratti dall’urna. Ma la Costituzione prevede elezioni vere e libere, senza alcuna possibilità di eluderne o limitarne la portata. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto organizzare corsi di aggiornamento professionale aperti alle esperienze esterne alla magistratura? O è meglio evitarlo? In che senso interpretare la possibilità di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale ecc.? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone?
E tuttora non vedo perché dovrebbe essere vietato o criticabile che anche i magistrati riconoscano le proprie affinità con taluni colleghi e ai colleghi affini preferiscano far riferimento per elaborazioni culturali o per designarli – attraverso il voto – a compiti di rappresentanza nell’Associazione o a funzioni istituzionali in seno al Csm. È normale, infatti, che le correnti, in vista delle elezioni dei dirigenti dell’Associazione magistrati o dei componenti togati del Csm designino i propri candidati ed elaborino programmi sottoponendoli al giudizio dei magistrati elettori. È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore che intenda esprimere un voto consapevole voglia conoscere le opinioni e i programmi dei candidati. Ed è altrettanto logico che costoro, per presentarsi agli elettori, si aggreghino per omogeneità di vedute e vogliano rendersi riconoscibili con un programma, una sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. E la democrazia rappresentativa non riguarda solo il Parlamento e le elezioni politiche, riguarda anche l’elezione dei comitati di quartiere. Ecco perché all’interno dell’Associazione magistrati si sono formate le tanto vituperate correnti: luoghi di aggregazioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma solo la deriva corporativa.
Il sorteggio, insomma, è una ipotesi di riforma offensiva ed umiliante per i magistrati, con il Csm ridotto al rango di una bocciofila di quartiere e i magistrati al livello di persone che non sanno giudicare, orientarsi, scegliere, partecipare alla vita democratica e che sono costretti ad accettare che le alte funzioni consiliari siano esercitate da colleghi selezionati in base al caso. Naturalmente, il sorteggio – secondo chi ne è sostenitore - dovrebbe riguardare solo i componenti togati del Csm e non quelli di nomina politico-parlamentare! Ancora una volta si conferma, in tal modo, un convincimento diffuso in politica: i magistrati sono persone da punire, anche privandoli del diritto di voto.
Ricordo con orgoglio, pertanto, la posizione assunta dal Movimento per la Giustizia, fermamente contraria ad ogni tipo di sorteggio per selezionare i componenti del CSM, una fermezza mantenuta anche negli ultimi anni quando, riforma ordinamentale Cartabia alle porte, una parte della magistratura (tra cui anche pm e giudici noti che qui non vale la pena di nominare) ha continuato incredibilmente a sostenere, ed ancora sostiene, la necessità del sorteggio per vincere le degenerazioni correntizie .
La soluzione dei problemi emersi in questi anni sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’Associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.
Si deve però chiedere a politici, a studiosi, alla stampa ed a chi osserva la realtà che ci circonda di evitare ingiustificate generalizzazioni e strumentalizzazioni delle criticità nel tempo emerse.
2.2. Questione morale ed abolizione delle correnti
Altra proposta populista che periodicamente torna di attualità è quella di abolire le correnti dei magistrati, non si comprende se con legge o con atto interno dell’ANM. Prescindendo dalle già ricordate ragioni storiche e culturali della nascita e dello sviluppo delle correnti, fondate su diverse visioni del ruolo del CSM e della stessa idea di organizzazione e gestione della giustizia, ci si deve chiedere se chi formula tale ipotesi conosca la Costituzione ed il principio di libertà di associazione previsto nell’art. 18.
Tra i magistrati circolano spesso sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che, ad es., le note conversazioni e gli incontri di cui si è parlato negli ultimi tempi costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.
Ma deve essere chiaro che non esistono bacchette magiche per rigenerare le correnti e l’impegno associativo così come la “questione morale” non cesserà mai di esistere, così come sarà sempre impossibile eliminare una quota di discrezionalità nelle scelte consiliari e mi spiace che anche all’interno del Movimento per la Giustizia-Articolo 3 e di Area Democratica per la Giustizia non si manifesti compattezza su questi temi. Le correnti, allora, tornino ad essere luoghi di discussione ideale e culturale come erano e come possono esserlo ancora, a partire da un impegno civile che, ovviamente collegato a questioni giuridiche, le spinga a schierarsi innanzitutto a tutela dei diritti fondamentali delle persone ed a difesa dei principi costituzionali su cui si regge ogni democrazia. Non si tratta di un’affermazione retorica e scontata: devono essere cancellati i frutti marci dell’associazionismo, vivendolo virtuosamente nel quotidiano. Per le correnti deve valere – e non solo in occasione delle scadenze elettorali - più la coerenza dell’agire in relazione ai principi cui si ispirano ed alla propria identità culturale, piuttosto che la ricerca del consenso o la politica dei “passi felpati” e degli accordi ad ogni costo. Questa è almeno l’idea delle correnti in cui hanno sempre creduto coloro che hanno contribuito a fondare ed a far crescere il Movimento per la Giustizia.
Il pericolo, insomma, è che le conseguenze di quanto è sotto i nostri occhi diano nuovamente fiato a chi vuol umiliare la magistratura riducendola al rango di un ordine sottoposto agli altri due poteri, teoria costituzionale “innovativa” rispetto ai rudimenti della educazione civica, ma in epoca berlusconiana cara persino a due ministri della Giustizia.
L’irrinunciabile pre-requisito di ogni riforma – che da sé non potrà mai essere la panacea di tutti i mali - riguarda comunque i magistrati elettori per i quali, ai fini di un voto libero e motivato va invocata, così come per i cittadini nelle elezioni politiche, una più approfondita conoscenza dei programmi e dei profili dei candidati, verificandone successivamente – se eletti – la fedeltà e la coerenza rispetto ai principi dichiarati . Lo ripeterò fino alla noia.
2.3. Il potere dei dirigenti degli Uffici Giudiziari e, in particolare, dei Procuratori della Repubblica
Esiste indiscutibilmente un “potere” specifico dei dirigenti degli Uffici Giudiziari, cioè Procuratori della Repubblica, Presidenti di Tribunali, Corti di Appello e Corte di Cassazione. Orbene, anche rispetto all’esercizio di questo tipo di potere si sono sviluppate discussioni e polemiche tra chi è convinto che, soprattutto per i Procuratori della Repubblica, si tratti di un potere sostanzialmente gerarchico e chi ritiene – a mio avviso correttamente – che si tratti invece di un potere organizzativo che richiede una costante interlocuzione con i magistrati componenti dell’Ufficio.
Qui mi riferirò all’esercizio del potere dirigenziale all’interno delle Procure, sia perché è in tali uffici che si è consumata l’intera mia esperienza professionale, sia perché per la dirigenza degli uffici giudicanti è davvero insignificante la posizione di chi sposa l’idea di un Presidente-Capo di Tribunali e Corti.
Personalmente non ho mai accettato, neppure quando ho diretto la Procura di Torino, la definizione di “Procuratore Capo della Repubblica”, al punto da farla rimuovere dall’accesso al mio ufficio.
Non ho dubbi sul fatto che il Movimento per la Giustizia abbia sempre sostenuto tale convinzione perché, indipendentemente dalle dimensioni dell’ufficio, un Procuratore della Repubblica non può ispirarsi ad una concezione gerarchica dell’esercizio delle sue funzioni: egli deve operare in piena armonia con tutti i componenti dell’ufficio stesso, non solo con i Procuratori Aggiunti, di cui va valorizzato appieno il ruolo co-organizzativo, ma anche con i Sostituti, rispettandone autonomia, professionalità e dignità. A tal fine, principale strumento è ovviamente quello delle Assemblee periodiche e frequenti.
E l’obbligo di esercitare l’azione penale previsto nell’articolo 112 della Costituzione deve intendersi come obbligo del Pubblico Ministero come ufficio! Con tale principio devono armonizzarsi l’interpretazione e l’applicazione del testo dell’art. 2 del D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 (come modificato dall’art. 1 L. 24.10.2006 n. 269) secondo cui “Il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio”, esercitando anche i suoi doveri in tema di selezione delle priorità nel rispetto della legge.
Ciò significa che la gerarchia di tipo organizzativo da praticarsi deve essere soprattutto capace di esprimere un potere di indirizzo circa l’adozione, da parte degli aggiunti e dei sostituti, di criteri omogenei ai fini delle determinazioni inerenti il promovimento dell’azione penale e circa l’utilizzo delle risorse disponibili: un problema reale, presente in ogni Procura, che va affrontato “facendo squadra” .
Di conseguenza, il “corretto, puntuale ed uniforme” esercizio dell’azione penale, che deve essere la prima preoccupazione di un Procuratore, rimanda ad un cammino che tutti i componenti dell’ufficio devono insieme progettare e costruire, facendosi poi carico della sua manutenzione, cioè dell’aggiornamento e della ulteriore messa a punto delle scelte, anche per effetto del diluvio di leggi, convenzioni e sentenze che ci piovono addosso intensamente, persino da terre lontane! Ed il Procuratore, in questo, riveste un decisivo ruolo di spinta.
Insomma, i “procuratori-mandarini” sono esistiti in passato, ma rischiano di rivivere in futuro se dovesse prevalere una visione gerarchica dei poteri dei procuratori, non estranea a vari magistrati che rivestono tale ruolo.
Non è un caso che Area Democratica per la Giustizia sia impegnata costantemente sul tema dell’organizzazione degli uffici in nome della loro trasparenza ed efficienza, pur se si tratta di un impegno non sempre gradito ad alcuni dirigenti.
2.4. Il rapporto con l’Avvocatura
Importante è il tema dell’attenzione che i magistrati devono riservare ai rapporti ed al confronto con l’Avvocatura, co-protagonista della giustizia, al fine di poter individuare e superare, anche per quella via, criticità organizzative degli Uffici Giudiziari, a partire dal deficit di personale amministrativo.
Sono pertanto auspicabili incontri tra dirigenti di tali uffici ed i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati e delle Camere Penali che possono favorire, ad es., alcune scelte organizzative come quelle concernenti l’assetto dei gruppi specializzati dei Pubblici Ministeri e delle Sezioni di Tribunale, l’elaborazione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, le modalità di svolgimento delle udienze, l’accesso informatico a taluni atti e l’acquisizione di copie digitalizzate di atti, l’inoltro reciproco informatizzato di istanza ed atti.
In questa cornice, trovo condivisibile che nella cd. Riforma Cartabia, che ovviamente non è possibile qui prendere in considerazione nella sua interezza, si preveda il coinvolgimento di avvocati e professori in alcune delle competenze dei Consigli giudiziari, tra cui le valutazioni di professionalità, ove comunque il voto degli avvocati deve essere unanime e conforme alla valutazioni del Consiglio dell’Ordine forense competente. Del resto le decisioni sull’avanzamento in carriera dei magistrati spettano al Consiglio Superiore della Magistratura, che da sempre decide con la partecipazione dei membri laici.
Sarebbe certo auspicabile, a parere di chi scrive, sulla base del principio di reciprocità, l’intervento e il possibile parere della componente togata del Consiglio Giudiziario in occasione di delibere, come quelle organizzative, di competenza dei Consigli dell’Ordine forense, ma non è condivisibile elevare muri – come alcune correnti e vari magistrati hanno fatto – contro questo aspetto della riforma, ipotizzando atteggiamenti vendicativi (o quasi) di avvocati, conseguenti a precedenti “scontri” processuali con i magistrati da valutare. Trovo quest’ argomento offensivo nei confronti della classe forense, quasi che la dialettica processuale tra le parti, che può essere spesso accesa, condizionasse il dovuto leale rapporto tra Avvocatura e Magistratura.
Il Movimento per la Giustizia, al di là di isolate e criticabili eccezioni, non ha assunto fortunatamente questa posizione, pur non rinunciando ad un confronto con il Ministro della Giustizia – come del resto ha fatto l’ANM – in ordine a criticità rilevabili nella riforma.
2.5. Giustizia, informazione e comportamenti dei magistrati
È questo un argomento di discussione rispetto al quale il Movimento per la Giustizia può rivendicare una linea coerente, che ha portato i suoi componenti, indipendentemente dagli incarichi direttivi eventualmente rivestiti, a rifuggire da insopportabili eccessi di retorica e di autoreferenzialità.
Tali eccessi sono individuabili negli atteggiamenti, nelle conferenze stampa e nelle parole di alcuni magistrati, pur se lodevolmente impegnati in indagini difficili e pericolose e per questo meritevoli della gratitudine di tutti. Non sono apprezzabili, infatti, quanti si propongono (o accettano che altri li propongano) come eroi solitari e isolati, unici custodi e ricercatori della verità, sicché chiunque osi esprimere critica e dissenso rispetto al loro operato viene solo per questo collocato nello schieramento dei nemici del bene e della verità.
Ad avviso del Movimento, si deve evitare di incorrere, sia pure in buona fede, in simili atteggiamenti, espressione di una errata concezione del potere e dei doveri che la legge attribuisce ai magistrati. Ciò rischia, peraltro, di indurre in errore la pubblica opinione, facendole credere che la giustizia sia terreno riservato ad una eroica élite di magistrati ed investigatori: il nostro, invece, è un lavoro normale come tanti altri e la Giustizia è un “bene comune” che può affermarsi solo con l’impegno quotidiano di una collettività sensibile, qualunque sia il lavoro ed il sistema di vita di quanti la compongono.
Si spiega dunque come il D. lgs. 8 novembre 2021, n. 188, conosciuto come “legge sulla presunzione di innocenza” di (parziale) recepimento della direttiva UE 2016/343, abbia inteso, con minime criticità e senza introdurre affatto alcun bavaglio all'informazione, contrastare prassi inaccettabili, come conferenze stampa teatrali, commenti che anticipano le decisioni quasi che i provvedimenti restrittivi equivalgano a vere e proprie sentenze.
Il dovere di informazione va esercitato nei limiti della legge, rispettando la privacy, le regole deontologiche, e ovviamente la presunzione di innocenza, facendo piazza pulita di quella furia comunicativa che porta alcuni magistrati ad esaltare le proprie inchieste o quelle del proprio ufficio.
2.6. “Carrierismo”, automatismi e incarichi fuori ruolo
Tralasciandone altre, chiudo l’elenco delle problematiche di rilievo che dividono spesso anche l’ANM, citandone ancora tre che hanno visto il Movimento per la Giustizia discuterne apertamente, pervenendo a scelte apprezzabili, anche se, purtroppo, non sempre del tutto condivise al suo interno.
Si è già detto nel par. “2.2” quanto assurda possa essere l’ipotesi di abolizione delle correnti dell’ANM, esistenti o future, descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche. Si invoca innanzitutto, per porvi rimedio, la trasparenza piena delle motivazioni di ogni scelta consiliare e su questo non si può non essere d’accordo, pur se la pubblicità delle sedute delle Commissioni consiliari non può certe bastare a vincere le deviazioni che si vogliono contrastare e non è certo idonea a far emergere possibili influenze esterne.
Ecco allora che molti magistrati e spezzoni associativi, condizionati dal dominante populismo (sostantivo che giudico il più appropriato per definire il nuovo e pessimo modo di discutere e sostenere le proprie opinioni nelle società moderne), contrastano l’aspirazione ad assumere incarichi direttivi o semidirettivi in un ufficio requirente o giudicante (definendola riprovevole “carrierismo”), auspicano automatismi di ogni tipo nelle nomine ad incarichi direttivi e semidirettivi in modo da cancellare la discrezionalità delle scelte e penalizzano i magistrati che hanno svolto - o sono disponibili a svolgere - attività fuori ruolo, quasi che ciò comportasse un marchio eterno di inaffidabilità.
In realtà, queste posizioni sembrano ispirarsi alla logica della rassegnazione ed insieme della risposta rabbiosa: Claudio Castelli ha recentemente parlato, in modo condivisibile, della “demonizzazione dei magistrati fuori ruolo accusati, delle più varie nefandezze” o delle accuse che provengono da certi settori della politica secondo cui essi sarebbero anche “il braccio armato della magistratura nei Ministeri, che in tal modo imporrebbe ad un Parlamento, evidentemente inconsapevole, opzioni gradite alla magistratura”[3]. Si deve allora reagire con intelligenza sia a certe offensive posizioni, che alle derive presenti effettivamente nei comportamenti di taluni magistrati collocati fuori ruolo.
Nulla autorizza a dimenticare, infatti, la cultura istituzionale di magistrati che hanno svolto importanti incarichi fuori ruolo, inclusi quelli politici, rientrando con onore ed apprezzamento diffuso nell’esercizio delle precedenti funzioni ordinarie di magistrato. Per limitarmi a quelli “movimentisti”, voglio qui ricordare i nomi di G. Falcone, V. Zagrebelsky, G. Lattanzi, E. Lupo, V. D’Ambrosio, D. Carcano, G. Melillo, ma tanti altri potrebbero essere citati, anche appartenenti ad altre correnti. E’ così che “si fa giustizia di demagogiche quanto diffuse, all’esterno e all’interno della stessa magistratura, crociate contro i magistrati fuori ruolo, che in molte situazioni assicurano una competenza professionale non altrimenti reperibile”[4].
Inoltre, non credo affatto che, in nome di un presunto rigore morale, sia corretto penalizzare l’aspirazione a ricoprire funzioni direttive da parte dei magistrati, senza neppure distinguerne la natura.
È al CSM che tocca bocciare le ambizioni di carriera fondate sul poco o sul niente valorizzando esperienze e professionalità positive, anche se riguardanti incarichi fuori ruolo ministeriali, o di natura istituzionale o di livello internazionale, in ordine ai quali è pur sempre possibile valutare il grado di indipendenza dimostrato da chi li ha rivestiti.
Compito nient’affatto semplice, tanto che ogni CSM tende ad emettere nuove circolari per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, allo scopo di rendere le nomine più semplici (mentre spesso avviene il contrario) e di eliminare ogni possibile discrezionalità, proposito – quest’ultimo - assolutamente surreale visto che per tali nomine non si potrà mai procedere premendo uno o più tasti per ottenere un valore matematicamente incontestabile e una conseguente graduatoria di meritevoli.
La condanna che si vuol comminare a chi ha svolto o intende svolgere incarichi fuori ruolo ed a chi aspira ad esercitare ruoli direttivi o semidirettivi, non può in alcun modo dar luogo a misure preventive o a “cure” fondate su automatismi o su generalizzati e non mirati divieti.
Ed il Movimento per la Giustizia, per quanto noto a chi scrive, si è sempre battuto per tutto questo, senza rinunciare a corretto confronto con chi sostiene opinioni diverse, senza rinchiudersi in certezze prive di dubbi e senza evitare le necessarie autocritiche
3. Movimento per la Giustizia: le possibili critiche ed autocritiche
Mi avvio alla fine e mi sembra necessario domandarmi se, fin qui, sia stato troppo sbilanciato nel sottolineare i tanti aspetti positivi della storia del Movimento per la Giustizia, tacendo su possibili criticità.
Non intendo, infatti, apparire un mero “laudator temporis acti”: non mi sento un “conservatore” guidato dal mero rimpianto del passato, quanto – piuttosto - un critico per antitesi di certi aspetti del presente.
Sulla chat e sulla mailing list del Movimento circolano in proposito affermazioni importanti (anche quando non si condividono), così come su Giustizia Insieme sono stati pubblicati articoli (due per tutti: quelli di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio nel numero 0/2008) che spingono a riflettere: V. D’Ambrosio affermava, rientrato in magistratura dopo dieci anni, “di avere trovato un Movimento cambiato e non di poco..con mutamenti che non erano semplici effetti degli anni passati…un percorso che è stato un susseguirsi di stop and go, freno ed acceleratore che ha confuso la nostra immagine”. Parlava, anche dell’atteggiamento di fronte alle polemiche politiche riaccese contro la Magistratura ed alle minacce alla sua posizione istituzionale.
E Giovanni Tamburino citava coloro che, tra i magistrati, avevano “nel frattempo scelto strade diverse per ragioni che comunque sono state utili per riflettere sull’idoneità attuale del Movimento a dare risposte efficaci per una figura di magistrato adeguato alla domanda di giustizia secondo i valori della Costituzione Repubblicana, sempre più impellente, e per un associazionismo giudiziario all’altezza delle sfide che vengono sia dall’interno della stessa magistratura, che dalla società e dalla politica, attento al servizio e non al corporativismo in ogni sua forma”.
D’Ambrosio e Tamburino, comunque, credevano nel Movimento e nella forza della sua laicità e libertà nell’approccio ai temi della giustizia. E’ quello in cui anche io oggi credo, pur se non ci si può limitare ad “etichettare festosamente le nostre scelte di vent’anni fa”[5]. Le parole dei due illustri colleghi ed amici potrebbero essere citate ancora oggi a 34 anni dalla fondazione del Gruppo.
Le vicende generazionali e la modernità influiscono certamente anche sull’associazionismo e per i giovani magistrati contano il clima sociale e culturale negli anni della formazione: ma, considerando che forse è giunto il momento per un nuovo 1988, può ben dirsi che la difesa del passato diventa talvolta un ritorno al futuro.
Ecco perché deve chiedersi all’ANM ed al Movimento di evitare il ripetersi di scelte che talvolta si sono manifestate e che non sono condivisibili: non si deve, cioè, prestare attenzione solo agli aspetti impiegatizi e corporativi della funzione del magistrato.
Il Movimento per la Giustizia, in particolare, deve interrompere e ribaltare un percorso di fatto che sembra intrapreso e che sembra poter prevedere alla fine “lo scioglimento di fatto del gruppo” quasi che il proprio compito associativo sia stato raggiunto o “appaltato ad Area Democratica per la Giustizia”[6], che – come si è detto - solo in futuro potrà diventare una corrente se tutte le originarie componenti fondatrici decideranno di autosciogliervisi o se taluna di esse decidesse in modo trasparente di “sfilarsi”.
Ma fino a quel momento, occorre preservare la identità del Movimento, esprimendo in autonomia le proprie posizioni ed altrettanto consentendo di fare agli iscritti, pur dissenzienti rispetto alle scelte dei dirigenti. La “doppia tessera” non è un falso, ma una realtà possibile e sin qui praticata, e la cultura progressista consente momenti diversi di impegno, crescita e coinvolgimento delle nuove generazioni di magistrati.
Non a caso la definizione del gruppo rimanda al comune impegno delle due correnti fondatrici: “Area” (termine che indica un terreno ampio e senza netti confini in cui operare), “democratica” (parola finale della denominazione di MD), “per la Giustizia” (parole finali della denominazione del Movimento).
Tutti insieme, dunque, per un percorso comune, per un rinnovato impegno civile, nonché per individuare (o rinforzare: ndr) “nuove idee forti della cultura della giurisdizione servizio, professionale e responsabile” che ha sempre caratterizzato il gruppo, “da proporre ai magistrati italiani ed alla magistratura associata, confidando che per esse possa realizzarsi una condivisione di obiettivi più tempestiva di quanto accaduto in passato”, quali quelli su cui “il Movimento si sta oggi impegnando, in particolare: gestione partecipata degli uffici giudiziari, corresponsabilizzazione dell’avvocatura anche nei temi ordinamentali; ricerca dii un metodo di confronto permanente, caratterizzato da libertà, trasparenza e spirito costruttivo, sia nella vita interna del gruppo che nell’azione associativa con le altre correnti..; promozione di un’area di azione politico-associativa che vada oltre le specifiche appartenenze e si incontri e realizzi su valori condivisi, obiettivi specifici, azioni coerenti, senza remore o riserve o eccezioni che trovano la reale giustificazione solo nella regola dell’appartenenza”[7].
In questo quadro la “questione morale” non può e non deve mai perdere il ruolo di “stella polare” dell’agire del gruppo.
E, aggiungo, perché non scendere in campo con chiarezza, forza e continuità, con iniziative simili a quelle messe in campo già vent’anni fa contro “leggi vergogna” e progetti di riforma punitivi nei confronti della Magistratura (si rimanda al par. 4)? La situazione, oggi, non sembra affatto migliorata, anzi !
Forza Movimento!
4. Conclusioni ed auspici: il rifiuto del compromesso sui principi
Ovviamente la giusta decisione nel settore penale e civile, al termine di una corretta e rapida trattazione di indagini e procedimenti, costituisce la stella polare del lavoro dei magistrati, ma altre luci devono illuminarlo ed una di queste è la storia e la ragione d’essere dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, nella quale - mi auguro – devono essere soprattutto i giovani giudici e pubblici ministeri ad impegnarsi per ridarle piena credibilità.
Proprio ai tanti giovani colleghi che progressivamente perdono fiducia in chi li rappresenta ed ai quali ho qui già raccomandato di esercitare il loro diritto di voto in modo consapevole, mi permetto di raccomandare di tenersi lontani da ogni forma di populismo. Ma chiedo loro anche di conoscere e ricordare la storia della nostra Associazione, che è una storia bella e ricca e che non deve essere infangata da comportamenti interni vergognosi o da accuse ingiustamente generalizzanti ed interessate.
A tal proposito, vorrei ricordare che a Napoli, nel quartiere San Lorenzo, vi sono lapidi in marmo che affollano i muri della chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. La piazzetta dove la chiesa si trova è tagliata, manco a farlo apposta, da via dei Tribunali. I testi stupendi delle lapidi sono scritti in latino. Suscitano tutti un’eco profonda, ma due, in particolare, mi hanno sempre colpito e sempre rileggo quando passo in quella zona. Il primo dice: Excellentium virorum est improborum negligere contumeliam a quibus etiam laudari turpe [È degli uomini migliori non curarsi degli insulti degli improbi, giacché persino essere lodati da costoro è motivo di vergogna]. Il secondo è ancor più significativo: Audendo agendoque Respublica crescit non iis consiliis quae timidi cauta appellant [La cosa pubblica cresce con coraggio e con l’azione, non con le decisioni che i pavidi chiamano caute][8].
Rileggo ancora: «La cosa pubblica cresce con coraggio e con l’azione, non con le decisioni che i pavidi chiamano caute». Il pensiero va subito a quanti, ovunque collocati, nelle istituzioni o nei partiti, ma anche nell’Associazione Nazionale Magistrati, conoscono solo la prudenza come criterio-guida della propria azione politica. La prudenza, sia ben chiaro, è virtù per chiunque, ma quando assume i caratteri del compromesso sui principi diventa vizio da evitare, quasi sempre un peccato che è difficile perdonare.
[1] Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) - è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
[2] Come è noto, nell’aprile 1904, un gruppo di 116 magistrati in servizio nella Corte d’Appello di Trani sottoscrisse un proclama per rivendicare la dignità della funzione e sollecitare la riforma dell’ordinamento giudiziario. Quel documento, conosciuto come il «Proclama di Trani», è considerato il primo passo sulla strada della successiva formale fondazione dell’Associazione magistrati nel 1909. Il testo di questo documento può essere letto nel già citato libro Cento anni di Associazione magistrati, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara, Ipsoa, Milano 2009. La storia dell’Anm è anche dettagliatamente narrata nel sito dell’Associazione (www. associazionemagistrati.it).
[3] “Contro la demonizzazione dei magistrati fuori ruolo”, in Questione Giustizia, 9.9.2022. Claudio Castelli, in tale importante articolo, affronta tutti gli aspetti oggetto della “demonizzazione”, ricordando l’interesse dell’amministrazione di appartenenza allo svolgimento di tali incarichi e precisando alla fine che, dall’ultimo censimento (30 aprile 2021) effettuato dal CSM sui magistrati ordinari fuori ruolo, tolti i ruoli elettivi (16 componenti del CSM e 4 parlamentari), ne risultano 42 impegnati presso organi costituzionali (CSM, Corte Costituzionale e Presidenza della Repubblica, tra cui due Giudici costituzionali) e 161 in altri incarichi di cui ben 28 con incarichi internazionali (spesso direttamente giurisdizionali), 80 presso il Ministero della Giustizia ed i restanti – 131 – presso altri Ministeri ed organi.
[4] Csm e ordinamento giudiziario. Quali riforme? (Edmondo Bruti Liberati, in Politica del Diritto, n. 4/2021)
[5] Vito D’Ambrosio, articolo citato del 2008.
[6] Le riflessioni in corsivo sono di Luisa Savoia, qui utilizzate con il suo consenso
[7] Le parti in corsivo sono tratte dal citato articolo di G. Tamburino del 2008.
[8] La prima frase è una traduzione di Plutarco di volgari offese che gli abitanti di Chio arrecarono ai magistrati spartani. La seconda è di Livio che parla della guerra di Roma con Cartagine.
Pasolini e il diritto di scandalizzare l’uomo medio
di Maurizio Di Masi
Sommario: 1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura… - 2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”) - 3. Su diritto e violenza, oggi - 4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio.
1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura…
Ringrazio la Redazione di Giustizia Insieme per l’opportunità di riprendere e sviluppare alcune riflessioni elaborate in occasione del Convegno svoltosi a Perugia dal 15 al 18 luglio 2015 “Visioni del giuridico. Rileggendo Pasolini: il diritto dopo la scomparsa delle lucciole”[1].
L’incipit del breve ragionamento che qui si intende fare è dato da un noto saggio di Stefano Rodotà “Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini”, ripubblicato in appendice a “La vita e le regole. Tra diritto e non diritto”, ove si ricorda magistralmente come, nella sua attività di scrittore e regista, Pier Paolo Pasolini abbia dovuto più volte confrontarsi con il sistema giudiziario italiano e sia stato chiamato a difendere in tribunale quasi tutta la propria produzione artistica, oltre che il proprio stile di vita[2]. Tanto che non si esagera se si afferma che Pasolini è stato l’intellettuale più processato di tutta l’Italia repubblicana: nonostante questo, egli in giudizio non si è mai comportato da vittima o da perseguitato, ma ha sempre rivendicato con orgoglio il diritto dell’artista a scandalizzare il proprio pubblico, facendo coincidere questo diritto con la funzione civile dell’intellettuale nelle società democratiche tardo-capitalistiche.
D’altra parte ciò che caratterizza Pasolini rispetto a tutti gli altri artisti e intellettuali del suo tempo, ciò che fa di lui un Autore di rottura con il paradigma di letteratura mainstream negli anni ’60 e ’70 del Novecento, è proprio il fatto che la sua opera è segnata da una radicale impurità estetica[3]. Impurità estetica che ben emerge nella commistione, in tutta la sua produzione artistica, fra vita privata e opera, tanto che l’intero lavoro intellettuale di Pasolini può essere considerato «come una grande performance, in cui l’oggetto estetico è meno importante della presenza o dell’azione dell’artista. Impossibile leggerla come un testo autosufficiente, senza un riferimento alla persona dell’autore»[4].
L’intellettuale, secondo Pasolini, deve dunque avere un ruolo (anche politico) attivo, performativo della realtà, e non cullarsi nella roccaforte della convenzionalità delle istituzioni e dell’industria culturale; l’artista, agendo in prima persona sul mondo reale, deve opporsi alle tendenze che Pasolini vedeva svilupparsi intorno a lui e che stavano portando allo svuotamento di potere degli schieramenti politico-ideologici classici dell’Italia del dopoguerra, con conseguente affermazione di un nuovo potere fascista in seno alle società neocapitalistiche[5].
La funzione civile dell’intellettuale viene ben tratteggiata dallo stesso Autore nel discorso scritto, e mai pronunciato a causa della morte, per il 36° Congresso del Partito Radicale del novembre 1975[6]. In questo testo infatti, Pasolini, dopo aver ritenuto «adorabili le persone che non sanno di avere dei diritti» e quelle che «pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano», e dopo aver definito, invece, «abbastanza simpatiche […] quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)», riconosce espressamente il ruolo degli «intellettuali impegnati», i quali:
«considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati».
Accanto agli intellettuali impegnati, per aggiunta, Pasolini – in considerazione del contesto – plaude i più estremisti di questi intellettuali, coloro cioè che
«si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi (…)».
Tanto che l’invito per i Radicali è quello di
«continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare».
Ebbene, lo stretto legame fra opera e Autore, fra impegno intelletuale e politico[7], spiega il perché ad essere messi sotto processo sono stati, ogni volta, tanto la produzione artistica di Pasolini quanto la sua personalità scandalosa, il suo stile di vita, attraverso quello che è stato ben spiegato da Barbara Castaldo come «un singolare meccanismo di interscambiabilità che rivela uno dei punti chiave dei processi: laddove era imputata l’arte, veniva coinvolta la realtà privata dell’artista per fornire ulteriori prove d’appoggio all’accusa o alla difesa; quando invece era la vita privata a essere sotto indagine, inevitabilmente se ne cercavano indizi nella produzione artistica dell’autore»[8].
2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”)
L’esperienza giudiziaria di Pasolini, in un’altra prospettiva, mostra in maniera nitida il dark side del diritto, dal momento che per oltre un trentennio, nei vari processi che lo hanno coinvolto più o meno direttamente, lo strumento processuale è stato usato come vera e propria arma politica per censurare e reprimere una voce dissenziente, per tentare di omologare una identità molesta e difforme da quanto il pensiero dominante a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del Novecento era disposto a tollerare. Siamo, d’altra parte, nella fase di quello che è stato definito il “disgelo costituzionale”, quando cioè i principi e i valori espressi nella Costituzione repubblicana comincino assai lentamente a diffondersi nella società civile[9].
Come ha scritto nitidamente Stefano Rodotà, le prese di posizione contro Pasolini rappresentavano indubbiamente uno degli strumenti di cui si sono serviti quanti cercavano e creavano pretesti, occasioni, simboli per contrastare le novità che stavano faticosamente emergendo nella società italiana. E le aggressioni all’intellettuale hanno seguito due strade:
«quella della violenza fisica, firmata in modo addirittura ostentato dai gruppi fascisti; e quella della violenza giudiziaria, che non a caso vede protagoniste le due istituzioni più rappresentative della faccia autoritaria dello Stato, la magistratura e la polizia. Pasolini si rileva, dunque, un bersaglio politico»[10].
Si consideri il processo al film “La ricotta”, sequestrato per vilipendio alla religione di Stato[11]. Il capo d’imputazione nei confronti di Pasolini, invero, era volto a imputargli il reato di cui all’art. 402 c.p. (reato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale solo nel 2000[12]):
«per avere, nella sua qualità di soggettista e regista dell’episodio “La ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”, pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica».
Più di altri, il processo a “La ricotta” è emblematico sia della concezione pasoliniana del ruolo dell’intellettuale nelle società democratiche e pluraliste, sia dei limiti del diritto positivo e della propria incapacità di “reggere” giuridicamente l’eccesso nell’uso della parola scritta (e dell’immagine filmica) all’interno di una griglia concettuale pensata per il “buon padre di famiglia” (locuzione tipica delle codificazioni moderne, traduzione giuridica dell’uomo medio). Nel processo di primo grado, non a caso, il Pubblico Ministero chiede espressamente ai giudici di scegliere fra sè, che rappresenta il comune sentimento (l’uomo medio, verrebbe da dire), e Pasolini, che rappresenta il nemico del senso comune.
Significativo quanto si legge nella sentenza di condanna di primo grado:
«[è] un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da Pasolini per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazione di massa.
Ora, con la sua opera, Pasolini non si rivolge soltanto ad una élite di intellettuali, perché, nella loro sufficienza, traggono da essa motivo per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri, di cui magari, nella loro evoluta incredulità, hanno maturato il superamento. E neppure l’opera di Pasolini è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata, dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L’opera di Pasolini è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Di qui la indiscussa idoneità della pellicola a offendere, mediante il vilipendio della religione, quel patrimonio».
Pasolini viene condannato a 4 mesi con condizionale, mentre la Corte d’Appello di Roma lo assolve perché il fatto non costituisce reato, dal momento che – aderendo alla difesa di Pasolini – il film riproduce le irriverenze e le sconcezze della troupe e costituisce perciò «una rappresentazione di vita contemporanea», che descriveva «la primitiva rozzezza e il grossolano umorismo della plebe»[13].
Ma la sentenza d’appello viene impugnata dal procuratore generale Battiati, il quale torna a sostenere che lo scopo del film sia di vilipendere la religione cattolica: la sentenza del 24 febbraio 1967 la Cassazione ha accolto le ragioni del procuratore generale. La Terza sezione penale ha perciò annullato la sentenza d’assoluzione «per erronea applicazione della legge» e «per vizio di motivazione», ritenendo che «l’istanza sociale a carattere protestatario perseguita dal regista non esclude affatto il fine di vilipendere la religione».
Alla sentenza della Cassazione non è seguito, però, il rinvio alla Corte d’Appello, giacché nel frattempo è intervenuta l’amnistia, che ha estinto il reato[14].
Dagli atti di questo processo emerge in sintesi lo scenario di un Paese, l’Italia degli anni ‘60, che si declama con compiacimento democratico, ma che operativamente dimostra di affondare le proprie radici su di una cultura civile e giuridica ancora troppo legata a vecchi paradigmi conservatori – se non addirittura reazionari – e che soltanto a parole, per l’appunto, si è lasciata dietro la propria esperienza patriarcale e fascista.
3. Su diritto e violenza, oggi
In un bell’articolo scritto da Wu Ming 1[15] sono citate alcune interessanti dichiarazioni di Pasolini:
«Appena avrò un po’ di tempo pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…».
Che la forza dell’apparato statale si metta in moto per reprimere voci ritenute scomode, anormali o scandalose non è, invero, esperienza che l’ordinamento giuridico si è davvero lasciato alle spalle, se pensiamo – ad esempio – al violento dibattito pubblico e parlamentare che vi è stato attorno alla legge Cirinnà sulle Unioni civili omosessuali[16] o, per rimanere in tema di identità non eterosessuali, alle violenza istituzionale rispetto al dibattito – ancora una volta pubblico e parlamentare – sul più recente d.d.l. Zan e l’identità di genere[17]. Violenza simbolica, certo, ma che finisce per legittimare culturalmente e socialmente la violenza fattuale, agita, a cui diverse minoranze sono quotidianamente soggette.
Violenza che spesso diventa istituzionale e che, purtroppo, in alcuni interventi delle forze dell’ordine diventa ancor oggi difficilmente giustificabile in un contesto pluralistico e democratico[18].
Si pensi, ad esempio, alle stravaganti iniziative di alcune Questure italiane rispetto a pacifiche contromanifestazioni organizzate in tutta Italia da associazioni LGBTQIA+ italiane contro le c.d. “Sentinelle in piedi”, movimento mobilitatosi contro il d.d.l. Scalfarotto volto – come il d.d.l. Zan – ad estendere la legge Mancino-Reale sulle discriminazioni etniche, razziali e religiose anche ad atti motivati da omo-transfobia.
Emblematico, in particolare, quanto accaduto a Perugia, nel non troppo lontano 2014: un singolare episodio che ha visto coinvolti attivisti omosessuali, imputati ex artt. 110 e 659 c. p. (Disturbo alla quieta pubblica) per essersi, tra l’altro, baciati in pubblico fra le “Sentinelle in piedi”.
Lo “scandalo” procurato da tale gesto, innocuo ma nelle nostre strade ritenuto (ancora!?) non convenzionale[19], emerge chiaramente dal verbale della Questura, ove la Digos, descrivendo l’azione di uno degli imputati, esponente dell’associazione Omphalos LGBTI, così letteralmente scrive:
«[...] avvicinandosi ad altro individuo di sesso maschile si esibiva in un prolungato e concupiscente bacio sulla bocca con lo stesso nel bel mezzo di Corso Vannucci ed in presenza di numerose famiglie con bambini e ragazzi molti dei quali minorenni che in quel momento affollavano il centro cittadino lasciando i passanti disgustati da tale dimostrazione [...]».
Senza contare, poi, che altri contromanifestanti, appartenenti anche al collettivo “Bella Queer”, «si sono mascherati con dei “boa di struzzo”» viola e hanno disturbato la manifestazione con rumori consistenti nel gridare slogan e cori a suon di un tamburello di grosse dimensioni...
Al di là della facile ironia che il verbale della Questura perugina può (e dovrebbe!) suscitare a chi ha un minimo a cuore se non la libertà di manifestazione di pensiero almeno il buon senso, e che ci restituisce davvero, ad opera della Digos, l’idea di un “buon costume” degli anni ’40 del Novecento, mi preme qui sottolineare come il confine fra diritto e violenza si fa, tanto nei processi a Pasolini quanto nel caso considerato, assai labile, entra in una zona di indifferenza.
La violenza istituzionale, non senza scomode contraddizioni, era come noto emersa altresì nel processo a Pino Pelosi per l’omicidio Pasolini[20], che in certo qual modo ci racconda di una Magistratura che aveva ricostruito (e liquidato) l’accaduto con gli occhi del buon padre di famiglia, dell’uomo medio che considerava normali omosessuali uccisi e ragazzi di borgata assassini[21].
D’altra parte la differenza fra diritto e violenza, ricordando Eligio Resta, è anche il loro confine, a volte certo, altre volte sfumato[22]. Ciò che caratterizza il diritto – che è pur esso forza e violenza, sia pure “regolata, statuita, limitata” – è precisamente la sua differenza dalla violenza che esso intende regolare, scongiurare e mettere al bando: una differenza che lo stesso diritto – performativamente – istituisce, ma che rimane esposta al rischio della sua negazione, cioè dell’in-differenziazione rispetto alla stessa violenza illegittima. E ciò perchè tale differenza non si dà mai una volta per tutte e non ha nulla di essenziale, ma muta nel tempo con la società e richiede alla scienza giuridica e agli operatori del diritto di mantenere un carattere omeostatico rispetto ai mutamenti socio-culturali.
Quanto, invece, alla differenza fra ieri e oggi, mi pare importante sottolineare come essa sia data da un approccio (se non sempre meno personalistico almeno) più democratico della Magistratura[23], oggi maggiormente disposta a tutelare il cittadino valorizzandone le diversità e i diritti fondamentali, sinanche dall’inopportuno esercizio della violenza che talvolta viene ancor fatto dalle forze dell’ordine, o – e sempre più spesso – dall’inattività del Parlamento.
Sebbene possa sembrare superfluo raccontarlo, la storia giudiziaria ha un lieto fine: gli attivisti e le attiviste LGBTIAQ+ di Perugia sono stati assolti, chi in primo grado (come l’attivista di Omphalos del bacio “concupiscente”, perché il fatto non sussiste) chi in secondo grado[24], con costi emotivi inestimabili e un processo che avrebbe potuto non ingolfare la già farraginosa macchina della giustizia italiana…
4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio
Come ci ricorda sempre Stefano Rodotà, spetta a Pier Paolo Pasolini il merito di aver costretto i giudici a spostare ogni volta più in là le frontiere del “buon costume”, che rispecchiava il pudore del “buon padre di famiglia”, in maniera maggiormente rispettosa delle ansie e delle istanze di libertà dell’Italia degli anni ’70[25].
Discostandosi dal senso comune costruito dall’ideologia borghese liberale, accogliendo la lezione gramsciana[26], Pasolini va anche oltre la ricerca del buon senso per disfare le posizioni conformiste. Scandalizzare, per il poeta di Casarsa, è un modo efficace per opporsi alla “mutazione antropologica”[27], per mettere in discussione la realtà conformata dall’uomo medio, dietro cui si nasconde – per usare le celebri parole di Orson Welles nel film “La ricotta” – «un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista».
Attraverso le sue opere Pasolini sembra profanare[28] lo status quo edificato dal fascismo, prima, e dalla Democrazia cristiana e dal consumismo, poi, per restituire a ciascuno una umanità e una dignità che non si prestano (o, meglio, non dovrebbero prestarsi) ad essere ingabbiate, da un sistema fondato sul consumismo, in schemi convenzionali, in rigide regole predefinite e omologanti.
Monito attuale ancora oggi per chi si approccia allo studio del diritto, dispositivo omologante per antonomasia, che, se non usato cum grano salis, rischia – come visto – di non essere troppo differente dalla stessa violenza che esso pretende di regolare[29]. Tanto che, in questa prospettiva, si è anche paragonato metaforicamente il diritto al φάρμακον: il farmaco, invero, è al tempo stesso veleno e antidoto, malattia e cura, idoneo a funzionare come rimedio proprio in virtù della sua natura duttile rispetto al male da curare[30].
L’invito per il giurista e gli operatori del diritto e delle forze dell’ordine, che la Magistratura di oggi ha certo fatto proprio, è quello ad adottare un approccio critico e rispettoso delle singole dignità personali, al di là del senso comune e dei pregiudizi. Ciò per garantire quello sviluppo della persona (Artt. 2 e 3² Cost.) che costituisce la cifra di un sistema giuridico realmente democratico e pluralista.
Detto altrimenti, è l’utilizzo che vien fatto del diritto che può portare a storture ed aberrazioni, per evitare le quali occorre pensare un altro modo di approcciarsi al, di “fare” diritto, proprio come Pasolini, rompendo paradigmi ben consolidati, ha consacrato la sua vita ad un altro modo di “fare” arte.
Rivendicando, sino alla fine, il diritto dell’intellettuale di scandalizzare il conformista, l’uomo medio, il moralista[31].
[1] In parte confluite in F. Bettini, M. Di Masi, Pier Paolo Pasolini, i processi e l’orgoglio dello scandalo, in E. Contu, A. Guerrieri, G. Romano, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. II, Aracne, Roma,2016, p. 23 ss.
[2] S. Rodotà, Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, oggi in Id., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 267 ss.
[3] C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 14. L’Autrice sottolinea come Pasolini abbia sempre avuto presente l’idea di poesia come azione: in particolare si veda p. 139 ss.
[4] Ivi, p. 15.
[5] Sul punto si rinvia a A. Manna, Pier Paolo Pasolini. Il Re è altrove: dal “fascismo archeologico” al “nuovo fascismo”, in Aa. Vv., L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, Edizioni Action30, Bari, 2009, p. 99 ss. Come viene qui osservato: il «nuovo fascismo di cui parla Pasolini non ha nulla in comune né con la violenza del regime mussoliniano, né con la falsa democrazia democristiana. Al contrario, esso emerge con la nascita di un tipo di società, la società del consumo di massa. Una delle caratteristiche salienti di questo nuovo tipo di potere è la sua capacità di omologare i rapporti tra gli individui» p. 108.
[6] P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 189 ss., ma il testo è reperibile anche on-line: Lo scandalo Radicale: la lettera che Pier Paolo Pasolini non lesse mai al Congresso, in MessinaOra.it, 1 novembre 2015.
[7] Per quanto va precisato che la militanza politica di Pasolini non lo ha mai spinto a rivendicare, in prima persona, diritti civili. Pasolini guardava con sospetto al diritto, come parte del femminismo italiano di quei tempi (cfr. M. R. Marella, Le donne, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, p. 341 ss., in particolare p. 358 ss.), considerandolo strumento di una malevola tolleranza del tardo capitalismo: si veda N. Mirenzi, Pasolini contro Pasolini, Edizioni Lindau, Torino, 2016.
[8] B. Castaldo, Quando i personaggi querelano l’autore, ovvero come prendere le distanze dal realismo di Pier Paolo Pasolini, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. I, Aracne, Roma, 2016, p. 213.
[9] S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’unità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2011, in particolare p. 98 ss.; vedi altresì C. Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, il Mulino, Bologna, 2015, specialmente p. 81 ss.
[10] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 270.
[11] Diffusamente cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta (l’Inquisizione all’epoca del “boom”), in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, vol. I, cit., p. 261 ss.; sul ruolo della Magistratura in questo processo, poi, cfr. S. Rodotà, Il processo, cit.
[12] Corte cost., 20-11-2000, n. 508, in Giur. it., 2001, p. 2228 ss., con nota di Albo. La sentenza, redatta da Gustavo Zagrebelsky, precisa che è costituzionalmente illegittimo l’art. 402 c.p. per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 8, primo comma, della Costituzione: la tutela penale privilegiata accordata alla religione cattolica in quanto già “religione dello Stato” o in quanto religione professata dalla maggioranza degli italiani costituisce un anacronismo e viola il principio supremo di laicità dello Stato, il quale importa non indifferenza, ma equidistanza ed imparzialità dello Stato rispetto a tutte le confessioni religiose.
[13] Cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta, cit., p. 268, il quale sottolinea come l’assoluzione possa essere letta alla luce dei cambiamenti di quegli anni: papa Giovanni XXIII era morto nel giugno dell’anno prima ed era appena nato il primo centro-sinistra guidato da Aldo Moro.
[14] Gli atti processuali e le sentenze sono raccolti in A. Guadagni (a cura di), Processo Pasolini, L’Unità, Roma, 1994, supplemento al n. 115 dell’Unità del 18 maggio 1994, n. 4 della collana I grandi processi.
[15] Wu Ming 1, La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, in Internazionale, 29 ottobre 2015, on-line. Qui ci si chiedere, fra l’altro, da dove derivi e perché tanto accanimento contro Pasolini: «Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia».
[16] Cfr. per tutti M. R. Marella, Qualche notazione sui possibili effetti simbolici e redistributivi del d.d.l. Cirinnà, in AboutGender. Rivista internazionale di studi di genere, Vol. 5, n. 9, 2016, p. 151 ss.
[17] A. Schillaci, Riconoscere pari dignità promuovendo coesione: per una difesa del d.d.l. Zan, in questa Rivista; F. Zappino, Se la destra strumentalizza il pensiero queer, in DinamoPress, 11 maggio 2021; Y. De Guerre, DDL Zan, un dibattito pubblico cinico e disonesto, in ValigiaBlu, 7 luglio 2021.
[18] Emblematici i noti fatti della scuola Diaz in occasione del G8 del 2001 a Genova: sull’esito in termini di violazione dei diritti umani cfr. F. Buffa, La Cedu e la Diaz 2.0, in Questione Giustizia, on-line, 28 giugno 2017.
[19] Peraltro gli attivisti perugini sono stati persino rinviati a giudizio: vedi Perugia, bacio gay tra le Sentinelle in Piedi: si va a processo, in Gay.it, 7 febbraio 2018; M. R. Marella, Di calze, violenza e dissenso. Su Perugia, in EuroNomade.info, 12 dicembre 2018.
[20] Cfr. G. Landi, Pier Paolo Pasolini. Assassinio di un intellettuale scomodo, Corriere della Sera (RCS Media Group), Milano, Collana “Grandi delitti nella storia”, n. 10, 2020.
[21] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 276 e ss., ove vien dato merito ai soli giudici Salmè e Moro, del Tribunale dei Minorenni di Roma di aver provato a mettere in dubbio la frettolosa e negligente indagine condotta sul caso Pasolini, ipotizzando un “concorso con ignoti”.
[22] E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari, 1992.
[23] Cfr. L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, in Questione Giustizia, on-line, 28 luglio 2021.
[24] Poiché ad alcune attiviste erano stati imputati anche altri reati.
[25] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 272.
[26] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano, 2009; sull’influenza di Gramsci in Pasolini cfr. L. Peloso, Pasolini in dialogo con Gramsci, giugno 2012; P. Voza, Il Gramsci di Pasolini, in La Sguardo. Rivista di filosofia, 19, 2015, p. 243 ss. Nei Quaderni dal carcere Gramsci fa più volte riferimento al buon senso, identificato con la razionalità, e il senso comune, che spesso indica una opinione volgare diffusa (vedi, ad esempio, Quaderno 11 (XVIII) §56). Sulle ricadute nel diritto del pensiero di Gramsci cfr. G. Marini, L’Italian style fra centro e periferia ovvero Gramsci, Gorla e la posta in gioco nel diritto privato, in Riv. it. sci. giur., 2016, p. 95 ss.; J. Esquirol, Le strategie intellettuali dell’analisi critica, in Riv. crit. dir. priv., n. 2/2021, p. 187 ss.
[27] Su cui cfr. A. Tricomi, Anatomia di un’opera tarda, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, cit., p. 245 ss.; e ivi, M. Balestrieri, Legge e Apocalisse. Note critiche intorno a La rabbia di Pier Paolo Pasolini, p. 41ss.
[28] Nel senso di G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, secondo cui «Profanare significa: aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza» (p. 110), forma che ignora la separazione fra sacro e profano o, rectius, che ne fa un uso differente, libero dalle norme prestabilite dalla religio e dal loro significato.
[29] Cfr. ancora E. Resta, La certezza e la speranza, cit., ove si afferma chiaramente che il diritto «sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà soltanto un’altra violenza se finirà per assomigliare troppo all’oggetto che dice di regolare» p. XI.
[30] Ivi, p. 31 ss.
[31] «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista»: così rispose Pasolini nella sua ultima intervista, nel 1975 poco prima del suo omicidio, a Philippe Bouvard di “Dix de Der”.
Silenzio-assenso e tutela del legittimo affidamento: il perfezionamento della fattispecie non è subordinato alla presenza dei requisiti di validità. (Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746)
di Antonio Persico
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il silenzio-assenso e la rilevanza (non ostativa) dei requisiti di validità. – 3. La non operatività dell’istituto in caso di inconfigurabilità giuridica dell’istanza. – 4. Silenzio assenso e obbligo di provvedere. – 5. Conclusioni e prospettive.
1. Premessa.
La sentenza in commento ha preso posizione su una serie di aspetti legati alla natura e al funzionamento del silenzio-assenso provvedimentale[1]. Nel caso di specie, si trattava di valutare la formazione del silenzio-assenzo ex art. 20, comma 8, d.P.R. n. 380/2001 su un’istanza di permesso di costruire presentata da un privato, il quale tuttavia aveva già realizzato l’intervento (una demo-ricostruzione) di cui richiedeva l’autorizzazione. Parte ricorrente, in particolare, sosteneva l’illegittimità dell’ordine di demolizione avente ad oggetto il manufatto abusivo, per ciò che il Comune avrebbe dovuto tenere conto della formazione del silenzio-assenso sull’istanza di permesso. L’ente locale, non avendo provveduto in forma espressa sull’istanza, avrebbe invero consentito il perfezionamento di un permesso di costruire “tacito”, indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti di legge per il rilascio del titolo, rispetto al quale l’ordine di demolizione successivamente intervenuto si sarebbe posto in rapporto di insanabile contraddizione.
Il Consiglio di Stato, nel negare la fondatezza di una simile ricostruzione, ha ritenuto opportuno soffermarsi (ed è la parte centrale della pronuncia) sull’istituto del silenzio-assenso verticale, mediante una digressione che, se pure non in tutte le sue parti si rivela indispensabile ai fini del decidere, è sicuramente importante in termini generali. In particolare, il supremo Consesso della giustizia amministrativa ha colto l’occasione per affrontare un profilo critico dell’operatività del meccanismo di semplificazione in parola, riassumibile nell’interrogativo se la formazione del silenzio-assenso sia configurabile in caso di mancanza dei requisiti di validità del titolo che l’istante miri a ottenere[2]. Con risolutezza, i giudici di Palazzo Spada hanno risposto affermativamente al quesito, prendendo le distanze da quell’indirizzo giurisprudenziale che predica la necessità della prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo ai fini del perfezionamento della fattispecie silenziosa[3]. Come si vedrà, il ragionamento seguito da Collegio si basa su argomenti già ampiamente invocati dalla dottrina più sensibile alla tutela del legittimo affidamento dei privati[4].
2. Il silenzio-assenso e la rilevanza (non ostativa) dei requisiti di validità.
La digressione sul silenzio-assenso provvedimentale, contenuta nei punti 8.1-8-2 della sentenza, esordisce con la presa di posizione sulla natura giuridica dell’istituto[5]. Il Collegio scarta apertamente la concezione “attizia”, la quale ravvisa nel silenzio-assenso un provvedimento autorizzativo tacito nell’intento di consentire l’esperibilità del rimedio impugnatorio da parte del terzo controinteressato. È questa, invero, una fictio iuris ritenuta non necessaria. Di contro, viene accolta la posizione della dottrina maggioritaria[6] che qualifica il silenzio-assenso come mero fatto reso giuridicamente rilevante da una scelta legislativa, la quale fa discendere dall’inerzia della p.a. gli stessi effetti dell’accoglimento della domanda (tesi dell’equivalenza). L’equiparazione quoad effectum, sarebbe peraltro “totale”, nel senso «gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo».
Effettuata questa premessa, la sentenza s’incentra sulla rilevanza dei requisiti di validità della fattispecie in relazione al funzionamento del meccanismo di semplificazione in parola. L’assenza di detti requisiti, consistenti nei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dalla normativa applicabile, non impedisce la formazione del silenzio-assenso, contrariamente a quanto sostenuto da quella parte della giurisprudenza che a proposito del rilascio tacito del permesso di costruire si è così espressa: «la cristallizzazione del titolo a seguito dell’inerzia dell’Ente presuppone logicamente la sussistenza di tutti i requisiti per la legittima esplicazione dell’attività […]: allorché, dunque, […] il progetto sia oggettivamente contrastante con le previsioni pianificatorie, non vi è spazio logico, né prima ancora, margine giuridico, per ritenere formato per silentium il titolo edilizio»[7]. Il silenzio-assenso si forma quindi anche se l’attività da intraprendere in virtù del titolo abilitativo richiesto non sia conforme a legge, non ostando la mancanza dei requisiti di validità all’operatività dell’istituto.
La carenza dei requisiti di legge, invero, rileva solamente nell’ottica dell’esercizio di poteri di autotutela caducatoria della p.a., ovvero dei poteri demolitori del g.a. Al riguardo, il Collegio ritiene logico e coerente che tutti i titoli abilitativi “taciti” siano sottoposti al regime dell’“annullabilità” (non specificando se ci si riferisce all’annullamento d’ufficio o all’annullamento in sede giurisdizionale). Poco dopo, con riguardo all’annullamento d’ufficio, la sentenza precisa che, venuto meno con il decorso dei termini il potere primario di provvedere, residua solamente «la possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi ‘silenziosamente’». Pertanto, si evince che la mancanza dei requisiti di legge determina l’annullabilità del titolo abilitativo silenzioso per violazione di legge, ma non impedisce il perfezionamento della fattispecie per silentium.
La soluzione prospettata appare in linea con la ratio di semplificazione (ex parte civium) dell’istituto e con le esigenze di tutela del legittimo affidamento, coerentemente ai principi di collaborazione e buona fede che, in base all’art. 1, comma 2-bis, l. 241/1990, informano i rapporti tra cittadini e amministrazione[8]. Sul punto il Collegio fa propria l’icastica osservazione della giurisprudenza maggioritaria[9], secondo cui «[n]essun vantaggio, infatti, avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali [il riferimento implicito, per differentiam, è ai presupposti dell’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies], in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda».
A sostegno della correttezza della ricostruzione effettuata, la sesta Sezione elenca una serie di indici normativi, tratti dalla legge 241/1990 e ampiamente valorizzati dalla dottrina, dai quali si desume la formazione del silenzio-assenso anche in mancanza dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività.
Il primo di questi indici a essere preso in considerazione è contenuto nell’art. 21-nonies, il quale contempla l’annullamento d’ufficio del «provvedimento […] formato ai sensi dell’art. 20», così presupponendo il perfezionamento della fattispecie anche in caso di violazione di legge[10]. Viene poi valorizzato il comma 8-bis dell’art. 2, il quale, nel comminare l’inefficacia alle determinazioni adottate dopo i termini di cui all’art. 20, comma 1, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, conferma l’operatività del meccanismo del silenzio-assenso allo scadere dei termini per provvedere[11]. Ancora, il Collegio dà risalto al nuovo comma 2-bis dell’art. 20, il quale prevede il rilascio obbligatorio, da parte dell’amministrazione su richiesta del privato, di un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda in virtù della formazione del silenzio-assenso. Ora, questa disposizione, preceduta temporalmente e propiziata dall’introduzione di un ultimo periodo nell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, dal contenuto analogo, ma non identico, mira a porre rimedio alle incertezze relative alla formazione del silenzio-assenso, stabilendo a favore del privato un «diritto ad un’attestazione»: di vero e proprio diritto soggettivo sembrerebbe trattarsi, ma il Collegio altro non aggiunge al riguardo. Sul punto può rinviarsi al contributo dottrinario che ha invocato una soluzione del genere, a tutela del legittimo affidamento del privato e della certezza >span class="Nessuno"> [12]. Infine, viene preso in esame l’art. 21 della l.n. 241 del 1990, nella sua formulazione attuale e previgente. Com’è noto, in passato il comma 2 di detto articolo sanzionava coloro che avessero intrapreso l’attività sottoposta al modulo del silenzio-assenso «in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente». Ora, l’avvenuta abrogazione del comma in parola priverebbe di un argomento la tesi che subordina l’operatività dell’istituto all’esistenza dei requisiti di validità: sarebbe infatti venuta meno l’equiparazione tra attività intrapresa in assenza di titolo e attività svolta in mancanza dei presupposti soggettivi e oggettivi previsti dalla legge[13]. Per quanto riguarda invece il comma 1 dell’articolo 21 (il quale afferma che in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge), la pronuncia in commento prende atto atto del difficile raccordo tra questa norma e l’art. 21-nonies, non essendo chiaro se possa formarsi il silenzio su un’istanza recante dichiarazioni mendaci o false attestazioni e, in caso affermativo, se sussistano in capo all’amministrazioni poteri d’intervento successivo diversi da quelli previsti dal comma 2-bisdell’articolo ultimo citato[14]. Quale che sia la corretta ricostruzione del rapporto tra le due norme, appare chiaro al Collegio che dalla lettura del primo comma dell’art. 21, emerga l’operatività del silenzio-assenso nelle ipotesi di semplice incompletezza delle dichiarazioni effettuate dal privato[15].
3. La non operatività dell’istituto in caso di inconfigurabilità giuridica dell’istanza.
Al termine di tale digressione, il Collegio affronta il punto veramente dirimente ai fini del decidere. Il decorso del tempo non può determinare indefettibilmente la formazione del silenzio-assenso. Al riguardo, la sentenza in commento accoglie implicitamente la distinzione tra requisiti di validità, non ostativi al perfezionamento del silenzio-assenso, e requisiti di formazione del silenzio-assenso, cui viene ricondotta l’ipotesi di «radicale ‘inconfigurabilità’ giuridica dell’istanza». Quest’ultima eventualità ricorre allorquando l’istanza non sia aderente al «modello normativo astratto» prefigurato dal legislatore. La pronuncia risulta epigrafica, omettendo di fornire quei chiarimenti necessari alla comprensione di una “regola” di carattere generale.
La distinzione tra requisiti di validità ed elementi essenziali alla formazione del silenzio-assenso era invero già stata tracciata dalla giurisprudenza[16]. La dottrina, a sua volta, ha chiarito che alla seconda categoria andrebbero ricondotte le ipotesi di carenza di legittimazione dell’istante, di incompletezza formale e di intempestività dell’istanza[17]. Ora, potrebbe ritenersi che nella fattispecie all’esame del Consiglio di Stato l’istanza di permesso di costruire non risultasse tempestiva e chiudere così il discorso, oppure tentare di ravvisare un criterio distintivo non empirico tra requisiti di validità e requisiti di esistenza.
Seguendo questa seconda pista, si osserva che nella sentenza in commento, il Collegio ha ravvisato un’ipotesi di radicale inconfigurabilità giuridica dell’istanza nella mancanza di un «necessario presupposto logico-normativo», essendo l’intervento da autorizzare già stato realizzato. La categoria della radicale inconfigurabilità giuridica dell’istanza, espressiva del difetto dei requisiti essenziali/di formazione del silenzio-assenso, sembra riposare in ultima analisi sulla gravità dei vizi presenti nella fattispecie. In precedenza si è detto che per il Collegio la carenza dei requisiti di validità, che si registra quando «l'attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non sia conforme alle norme», è causa di annullabilità del titolo tacito, tracciandosi così una corrispondenza tra annullabilità del provvedimento per violazione di legge e difetto dei requisiti di validità. Di contro, la preclusione all’operatività del silenzio-assenso per inconfigurabilità giuridica dell’istanza ricorre in presenza di vizi più gravi della violazione di legge, che determinerebbero la nullità o l’inesistenza del provvedimento favorevole ipoteticamente adottato in forma espressa. Sembra potersi tracciare in tal senso una corrispondenza tra vizi di nullità/inesistenza e difetto dei requisiti di formazione del silenzio-assenso.
In effetti, nella fattispecie attenzionata dalla sesta Sezione, un ipotetico provvedimento espresso di assenso sarebbe stato nullo per carenza di un elemento essenziale, ex art. 21-septies l. 241/1990: l’oggetto del provvedimento risultava impossibile secondo lo schema degli art. 1418 e 1346 e c.c. in quanto l’attività da autorizzare era già stata realizzata. Stando poi alle affermazioni contenute nella sentenza, l’ipotetico provvedimento favorevole avrebbe potuto ritenersi addirittura inesistente, in quanto assolutamente non riconducibile al «‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore»[18].
4. Silenzio-assenso e obbligo di provvedere.
Infine, si segnala che la pronuncia in commento ha toccato anche il tema, particolarmente dibattuto in dottrina, del rapporto tra obbligo di provvedere e silenzio-assenso. Com’è noto, l’obbligo di provvedere, perentoriamente enunciato all’art. 2, comma 1, periodo primo della l. 241/1990, viene valorizzato da alcuni Autori nell’ottica di ribadire la non fungibilità per il privato tra titolo espresso e titolo formatosi per silentium, essendo il secondo, tra l’altro, intrinsecamente più instabile del primo a fronte dei poteri di autotutela caducatoria[19]. Orbene, il Collegio sembra recepire le preoccupazioni alla base di quest’orientamento allorché precisa che la funzione semplificatoria del silenzio-assenso opera a beneficio esclusivo del privato, senza sollevare la p.a. dal dovere di provvedere in forma espressa[20]. In quest’ottica, risulta del tutto coerente l’aver in precedenza sostenuto la natura di mero fatto giuridicamente rilevante del silenzio-assenso, scartando la teoria attizia che vuole il silenzio-assenso interamente sovrapponibile, ad ogni effetto, al provvedimento espresso. La pronuncia valorizza il dettato dei commi 1 e 9 del ridetto articolo 2, i quali rispettivamente stigmatizzano la condotta del funzionario che ometta o ritardi l’emanazione di un provvedimento espresso e ribadiscono l’obbligo di provvedere espressamente, seppur in forma semplificata, in caso di domande manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate.
In sintesi, il Collegio afferma che il silenzio-assenso non costituisce una modalità ordinaria di svolgimento della funzione, così prendendo le distanze da quelle tesi dottrinarie volte a ravvisare nel silenzio-assenso verticale una deroga all’obbligo di provvedere, ovvero un modello alternativo e fisiologico di provvedere[21].
5. Conclusioni e prospettive.
In conclusione, la sentenza in esame ha affrontato una serie di temi rilevanti relativi all’istituto del silenzio-assenso provvedimentale, con affermazioni nette e recise che rendono spesso necessario uno sforzo interpretativo e ricostruttivo per dipanare il ragionamento sottostante. In conformità con quanto evidenziato a più riprese dalla dottrina[22], la decisione risulta ispirata dall’esigenza di garantire, il più possibile, le istanze di legittimo affidamento del privato, ampliando l’ambito applicativo del silenzio-assenso anche alle domande difformi dai requisiti di validità.
Preso atto che la mancanza dei requisiti di validità non osta alla formazione del silenzio-assenso, e ribadito l’obbligo di provvedere in forma espressa nei termini, resta necessario un importante chiarimento su un aspetto legato a una disposizione pur citata nella digressione sul silenzio-assenso. Il riferimento è al comma 8-bis dell’art. 2 della legge 241/1990, il quale prevede l’inefficacia del provvedimento di diniego intervenuto dopo la formazione del silenzio-assenso. Orbene, il problema meritevole di chiarificazione riguarda il regime di validità dell’atto sopravvenuto, e assume oggi rilevanza eminentemente processuale: ferma restando la sua inefficacia, ci si interroga sul rimedio esperibile a fronte di tale atto tardivo. La risposta al quesito dipende evidentemente dalla natura dell’invalidità in questione e presenta notevoli ricadute pratico-applicative[23]. Volendo escludere la mera annullabilità, permane il dubbio se il provvedimento in questione sia nullo, e pertanto impugnabile nel termine di 180 con l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. (ferma l’eccepibilità perpetua), ovvero inesistente: in questo caso si pone il tema dell’ammissibilità di una domanda di accertamento atipica volta a rimuovere l’incertezza da esso derivante. Lungi il problema dal trovare una soluzione univoca in dottrina, occorrerà attendere sul punto i necessari assestamenti giurisprudenziali.
[1] Per un inquadramento generale sul silenzio-assenso provvedimentale e sui problemi che esso pone si v. G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della P.A., in M.A. SANDULLI (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, III ed., Milano, 2020; tra le prime ricostruzioni dell’istituto, antecedenti alla generalizzazione del suo regime operata dalla l. n. 15/2005, si v. B. TONOLETTI, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., vol. XIV, Torino, 1995; A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in Dir. e soc., 1982, 715 ss; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971.
[2] Vari sono i contributi che indagano la (controversa) portata semplificatoria dell’istituto, tra i quali si v. M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, n.7/2015; ID., L’istituto del silenzio assenso tra semplificazione e incertezza, in Nuove autonomie, 2012, 435 ss.; L. FERRARA, Dia (e silenzio assenso) tra autoamministrazione e semplificazione, in Dir. Amm., 2006, 759 ss.; M. ANDREIS, Silenzio-assenso, semplificazione competitiva e D.I.A.: problemi e profili applicativi alla luce dei nuovi articoli 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, sostituiti dalla L. 80/2005, Milano, 2005; V. CERULLI IRELLI, F. LUCIANI, La semplificazione dell’azione amministrativa, in Dir. Amm., 2000, 617 ss.; G. VESPERINI, Il silenzio assenso e la denuncia sostitutiva di autorizzazione dopo la legge 241 del 1990: un bilancio, in Dir. e società, 1997.
[3] Indirizzo cui hanno aderito di recente TAR Campania, Napoli, Sez. II, 10 gennaio 2022, n. 171; Cons. Stato, sez. IV, 25 febbraio 2021, n. 1629; Cons. Stato Sez. IV, 1 luglio 2021, n. 5018.
[4] In particolare, da ultimi, M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il Processo, n. 1/2022, e ivi ulteriori richiami anche a precedenti scritti dell’A.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi.it, n. 10/2020.
[5] Sulla natura giuridica del silenzio-assenso provvedimentale si v. M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere,cit.; G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit.
[6] In dottrina, cfr. M. D’ORSOGNA, R. LOMBARDI, Silenzio assenso, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 972; F. GAMBARDELLA, Il silenzio assenso tra obbligo di procedere e dovere di provvedere, in www.giustizia-amministrativa.it; F.G. SCOCA, M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. amm., 1995, p. 393 ss.; A. TRAVI, Silenzio-assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, 1985. Sul tema si v. anche V. PARISIO, Il silenzio della pubblica amministrazione tra prospettive attizie e fattuali, alla luce delle novità introdotte dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, in Foro amm. - TAR, 2006, p. 2798 ss.
[7] Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2019, n. 8529. V. anche nota 2.
[8] Cfr. M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[9] TAR Valle d’Aosta, 19 novembre 2020, n. 60; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 6 febbraio 2017, n. 210; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521.
[10] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit., p. 229.
[11] Ibidem, p. 228 e M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit., p. 18.
[12] M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit. In argomento, si v. anche G. STRAZZA, L’ambito di operatività del silenzio-assenso e le esigenze di certezza (nota a Cass., Sez. III, ord. 6 luglio 2020, n. 13865), in Riv. giur. ed., 4, 2020, 864 ss. In generale, sul contenuto e sulla portata del principio di certezza del diritto si v. M.IMMORDINO, Il principio di certezza del diritto nei rapporti tra Amministrazione e cittadini, Torino, 2003.
[13] Il carattere stridente di tale disposizione con le esigenze del legittimo affidamento dei privati era stato segnalato da M.A. SANDULLI, Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della p.A., in Giust. Civ. 1994, 485 ss.
[14] Il difettoso coordinamento tra le due norme è stato denunciato dai pareri n. 839 e 1784/2016 del Consiglio di Stato sui decreti SCIA, e da ultimo, in dottrina, da M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.
[15] Afferma sul punto M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit., p. 47: «In ogni caso, ciò che almeno in teoria appare non essere oggetto di discussione è che, in caso di dichiarazioni non false, ma semplicemente incomplete, il silenzio dovrebbe formarsi».
[16] TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521.
[17] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere, cit..
[18] Sui rapporti tra invalidità e nullità nel diritto amministrativo si v. M. CALARESU, F. PIGNATIELLO, La nullità del provvedimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, cit.
[19] Su tutti, i già citati M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.; M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[20] M. CALABRÒ, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit.
[21] Cfr. A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 285; G. MORBIDELLI, Il silenzio-assenso, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, p. 245; ID., Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano 1971.
[22] Cfr. note 3 e 12.
[23] Il problema viene segnalato da M.A. SANDULLI, Silenzio assenso e termine a provvedere, cit.
Movimento per la Giustizia: la sua storia* di Armando Spataro** - prima parte
Sommario della prima parte: 1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi. - 2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con Proposta ’88.
Coerentemente con l’impostazione del Corso, cercherò, in questo intervento, di concentrarmi sulla storia del Movimento per la Giustizia (poi “Movimento per la Giustizia-Proposta’88” ed infine “Movimento per la Giustizia–Articolo 3”), limitandomi, solo quando necessario, a brevi considerazioni sull’ANM, sulle altre correnti e su fatti successivi al dicembre 2018 che conosco meno a seguito della cessazione del mio servizio per raggiunti limiti di età.
1. Premessa: le correnti dell’ANM – Brevi cenni introduttivi
La storia dell’Associazione nazionale magistrati, fondata nel 1909 è ampiamente nota ed è stata descritta e ricostruita in molti testi, unitamente a quella delle prime correnti[1]. A tal proposito, può qui schematicamente ricordarsi che le «correnti» iniziarono a formarsi dalla fine degli anni ’50, allorché – dopo il Congresso di Napoli del 1957 e in vista delle elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale del 1958 – si formarono due schieramenti contrapposti, uno dei quali si autodenominò Terzo Potere, che – su posizioni conservatrici – si opponeva alla maggioranza dell’Associazione. Nel 1961, addirittura, un gruppo di magistrati ultraconservatori abbandonò l’Anm formando l’Unione magistrati italiani (UMI), che si estinse, però, nel 1979, rifluendo nell’Anm stessa.
Altre correnti o gruppi organizzati furono successivamente fondati:
- tra il 1962 e il 1963 Magistratura indipendente;
- nel 1964, Magistratura democratica, a opera di magistrati che fuoriuscirono da Terzo Potere;
- nel 1969, Impegno costituzionale ad opera di un’estesa frangia di magistrati di Md;
- nel 1980, Unità per la Costituzione a seguito della fusione di Impegno Costituzionale con Terzo Potere;
- nel 1988, il Movimento per la Giustizia per le ragioni e per i fini di cui parlerò appresso;
- nel 1988, Proposta ’88, ad opera di magistrati che fuoriuscirono da Magistratura Indipendente. Anche di Proposta ’88 si parlerà nel paragrafo seguente;
- nel marzo del 1999, fu per la prima volta pubblicato il “Ghibellin Fuggiasco”, un “foglio critico-informativo” di Unità per la Costituzione, curato da giovani rappresentanti di quel gruppo del distretto della Corte d’Appello di Napoli. Successivamente alcuni di quei magistrati lasciarono Unicost, realizzando attività in comune con colleghi del distretto di Salerno aderenti a “Impegno per la legalità” ed assumendo per la prima volta, nell’ottobre del 2003, la denominazione di Articolo 3. Nel corso dell’Assemblea di Roma del 13 e 14 dicembre 2008, fu formalmente ratificata – dopo un periodo di vicinanza associativa - la fusione in un unico gruppo del Movimento per la Giustizia ed Articolo 3. Se ne parlerà nel paragrafo 4;
- nel 2013, Area, per effetto di una scelta di Magistratura Democratica e del Movimento per la Giustizia, che, come appresso si dirà, non si sono sciolte e che nel 2017 hanno poi mutato la denominazione del “gruppo comune”, chiamandolo Area Democratica per la Giustizia. Se ne parlerà nel paragrafo 7;
- nel 2012, Articolo 101 (o anche “Altra Proposta” e prima ancora “Proposta B”, denominazione usata per la lista di candidati presentata in occasione delle elezioni del CDC del 2012), gruppo che duramente contesta ANM e CSM ed il cui programma si fonda su scelte che da tempo definisco inaccettabili: sorteggio “temperato” per designare i componenti del CSM, rotazione per incarichi direttivi e semidirettivi, abolizione della immunità funzionale dei membri del CSM, temporaneità effettiva degli incarichi direttivi per contrastare il cd. “carrierismo” etc.;
- il 28 febbraio 2015, data dell’Atto costitutivo e dello Statuto approvato, Autonomia & Indipendenza (prevalentemente grazie alla fuoriuscita di vari fondatori da Magistratura Indipendente), il cui principale scopo sembra essere quello della cancellazione delle correnti e della valorizzazione del sorteggio per la designazione dei rappresentanti dei magistrati, sia in seno all’ANM che nel CSM, giudicate rispettivamente associazione ed istituzione non in grado di adempiere con onore ai rispettivi compiti e doveri. Nell’aprile del 2016 un suo noto rappresentante fu nominato presidente dell’ANM, ma nel luglio del 2017 lasciò la GEC, insieme a tutti i componenti della corrente in polemica con le modalità di scelta dei magistrati per gli incarichi direttivi.
2. Il percorso di nascita del Movimento ed il “manifesto fondativo”. La fusione con “Proposta ‘88.
Voglio premettere che questo intervento conterrà varie citazioni del mio percorso professionale e associativo: me ne scuso, ma ciò inevitabilmente serve ove si voglia raccontare, come in questo caso, una storia vissuta in prima persona.
Per cominciare, ricordo che, dopo il tirocinio, avevo assunto nel settembre 1976 le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica di Milano e che dopo qualche mese di lavoro avevo iniziato ad interessarmi all’attività dell’Associazione Nazionale Magistrati: non avendo maturato alcuna opzione e volendo conoscerne la situazione, presi a frequentare, sia pure non con assiduità, le riunioni di Magistratura Democratica, di Terzo Potere, di Magistratura Indipendente (lo feci per due volte) e di Impegno Costituzionale. Ascoltavo ciò che vi si discuteva e cercavo di capire quale delle correnti sentivo più vicina al mio modo di pensare. Ero indeciso tra Magistratura Democratica ed Impegno Costituzionale ma, durante una riunione di MD, fui negativamente colpito dalle dure critiche che un collega iscritto formulò nei confronti dei magistrati che avevano accettato di condurre inchieste di terrorismo (io ero uno di loro). Solo Edmondo Bruti Liberati intervenne con forza per contestare quelle affermazioni.
Anche per questo, scelsi di iscrivermi ad Impegno Costituzionale, il cui leader indiscusso era all’epoca Adolfo Beria d’Argentine, gruppo in cui si riconoscevano alcuni miei maestri come Emilio Alessandrini, Guido Galli, Gerardo D’Ambrosio ed altri ancora. Il mio impegno personale nella corrente aumentò progressivamente tanto che divenni uno dei componenti della segreteria milanese .
Grande, però, fu la delusione allorchè nel 1980, nel corso di un’assemblea a Milano, proprio Beria d’Argentine annunciò ai presenti che gli organismi dirigenti di Impegno Costituzionale e di Terzo Potere avevano deliberato la fusione dei due gruppi, la cancellazione delle loro denominazioni e la conseguente nascita di una nuova corrente che si sarebbe chiamata Unità per la Costituzione (Unicost). Molti dei presenti (tra i quali pochissimi erano a conoscenza di quella novità) furono d’accordo su quella scelta, alcuni rimasero perplessi, mentre io – che ero rimasto assolutamente sorpreso – chiesi la parola e domandai ai dirigenti nazionali presenti come mai, vista la sua indubbia importanza, quella decisione non era stata prima sottoposta al giudizio degli iscritti (oggi si direbbe “della base”).
Non ebbi alcuna risposta per cui, prima che l’assemblea venisse dichiarata chiusa, rassegnai le mie dimissioni sia dalla carica di componente della segreteria milanese che da quella di iscritto ad Impegno Costituzionale.
Era il 1980 e per i seguenti otto anni non svolsi alcuna attività associativa, non partecipai ad alcuna riunione e votai sempre secondo preferenze nei confronti di singoli candidati da me stimati e non delle loro correnti di appartenenza.
Certo, rispetto a quella personale scelta di disinteresse associativo, ebbe un ruolo determinante anche il mio impegno professionale nel settore del terrorismo interno che davvero non mi lasciava tempo per altro.
Ma nel 1988 finirono sostanzialmente gli “anni di piombo” e – pur senza nesso causale tra i due eventi – fui tra i fondatori del Movimento per la Giustizia.
La premessa della nascita del gruppo fu costituita da uno «storico» documento che alcuni magistrati allora “militanti” in UNICOST diffusero all’inizio del 1988 per manifestare il proprio disagio per la gestione di quel gruppo e dell’ANM, caratterizzata dalla regola della lottizzazione correntizia. Casualmente quel manifesto fu stampato su carta verde (perché il tipografo sotto casa di Mario Almerighi, ove fu stampato, disponeva in quel momento solo di carta di quel colore), da cui il nome di «Verdi» che, all’inizio, venne usato per designare, anche con qualche punta spregiativa, quel gruppo di persone che intendevano impegnarsi per riaffermare il metodo del dibattito aperto e tra le quali vi erano Mario Almerighi, Pierpaolo Casadei Monti, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Luciano Gerardis, Ubaldo Nannucci, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky, Pasquale D’Ascola. Ci fu, anzi, qualche “avversario” che li definiva “meloni”, verdi fuori e rossi dentro.
Va doverosamente ricordato però che il primo storico documento “verde” risale al 1982 e faceva riferimento ad una tempestosa riunione del comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione successiva alle elezioni del CDC ed allo straordinario successo elettorale della candidatura di un magistrato che, nella funzione precedentemente rivestita di componente del CSM, era stato protagonista di una interferenza presso la Procura Generale di Milano in relazione ad una nota indagine dell’epoca. MD chiese di non affidare la presidenza dell’ANM a quel magistrato, pur essendo stato nettamente il più votato tra i candidati, e soltanto i “verdi” (Tamburino, Zagrebelsky, Di Nicola, Sciacchitano, Almerighi, Condorelli, Anna Creazzo), appoggiando quella richiesta, impedirono il formarsi di una unanimità a sostegno della candidatura alla Presidenza ANM di quel magistrato plurivotato che dovette così rinunciare all’incarico. A quella riunione dei “verdi” altre ne seguirono, sempre più partecipate. I magistrati prima citati ed altri ancora furono protagonisti di numerose mobilitazioni e “battaglie”: indimenticabile la resistenza al Pres.te Cossiga in occasione del suo primo conflitto del 1985 con il CSM, riguardante la formazione dell’odg e le prerogative dei Pubblici Ministeri. I magistrati del gruppo dei “verdi” erano in gran parte tutti provenienti da Impegno Costituzionale, contrari alla fusione – che volevano far annullare - con Terzo Potere che, come si è detto, aveva dato luogo ad Unità per la Costituzione.
Così nacquero dunque i “verdi”[2] che quindi, dopo essere stati minoranza dissenziente in Unicost per circa 6 anni densi di avvenimenti e fatiche, furono determinanti per la fondazione del Movimento nel 1988.
Tornando, dunque, al manifesto del 1988, esso rappresentò l’atto di nascita di un nuovo metodo di confronto e di quello che sarebbe stato il Movimento per la Giustizia. Il Movimento, infatti, nacque nell’aprile del 1988 nell’ambito dell’Associazione Magistrati, grazie alla citata iniziativa dei “verdi” e di altri magistrati. Quella del Movimento – come ha scritto Giovanni Tamburino - fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti.
L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti “depositavano” i loro deliberati interni.
Il nuovo gruppo decise non a caso di denominarsi “Movimento per la Giustizia”, poiché si voleva in tal modo mettere in evidenza la scelta di aprirsi agli interventi di qualsiasi componente del mondo dei giuristi, escludendo ogni rischio di autoreferenzialità.
Per questa ragione lo statuto consente tuttora la formale iscrizione di avvocati e professori: non furono molti, però, gli appartenenti a tali categorie professionali che si iscrissero al gruppo…e forse noi stessi abbiamo spinto poco in tale direzione.
L’evento che contribuì in modo decisivo a determinare la fondazione del Movimento per la Giustizia fu la mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, dopo che Antonino Caponnetto era stato trasferito ad analoghe funzioni al Tribunale di Firenze. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche (secondo cui la maggiore anzianità, purchè senza demerito, doveva essere il criterio prevalente nella nomina dei magistrati per incarichi direttivi e semidirettivi), quando non di mero potere, prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia: il 19 gennaio 1988, 16 consiglieri (tra cui 2 di MD) votarono per Antonino Meli (che vinse), 10 (tra cui Vito D’Ambrosio, Pietro Calogero che erano allora iscritti ad Unità per la Costituzione, nonché Stefano Racheli che era iscritto a Magistratura Indipendente e Gian Carlo Caselli di MD) per Falcone e 5 si astennero.
Tornerò più avanti sulla vicenda Falcone.
Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali che furono i fondatori del gruppo.
In ordine alfabetico ne vengono elencati i nomi, collocando in un primo gruppo coloro che sottoscrissero il 16.4.1988 un documento di dimissioni da Unicost, (custodito nell’archivio del Movimento, il cui incipit è il seguente: “I sottoscritti, avendo constatato l’impossibilità di proseguire ulteriormente la propria azione – come gruppo e come singoli – all’interno di Unità per la Costituzione, nel promuovere con altri colleghi un movimento aperto alla partecipazione di tutti i magistrati, comunicano di rassegnare le proprie dimissioni dalla corrente di Unità per la Costituzione”): Leonardo Agueci, Mario Almerighi, Fausto Angelucci, Rodolfo Attinà, Walter Basilone, Angelo Bozza, Pietro Calogero, Nino Condorelli, Mario Conte, Anna Creazzo, Vito D’Ambrosio, Luigi De Ficchy, Luigi De Liguori, Enrico Di Nicola, Massimo Fabiani, Giovanni Falcone, Olindo Ferrone, Giuseppe Fici, Francesco Garofalo, Pina Geremia, Mario Giarrusso, Anna Introini, Franco Ionta, Ferdinando Licata, Onofrio Lo Re, Gabriella Luccioli, Sergio Materia, Maria Monteleone, Mario Morisani, Domenico Nataloni, Angelo Palladino, Federico Palomba, Vittorio Paraggio, Ippolisto Parziale, Antonio Petrella, Carlo Peyron, Franco Providenti, Nicla Restivo, Ciro Riviezzo, Giuseppe Sajeva, Roberto Sciacchitano, Matia Teresa Saragnano, Armando Spataro, Giovannantonio Tabasso, Franco Testa, Raffaele Tito, Andrea Vardaro, Guido Viola;
Altri fondatori del Movimento, in gran parte anch’essi dimissionari da Unicost, furono: Ernesto Aghina, Giuseppe Ayala, Maria Teresa Cameli, Rosario Cantelmo, Domenico Carcano, Pierpaolo Casadei Monti, Aldo Celentano, Angelo Costanzo, Gerardo D’Ambrosio, Michele Del Gaudio, Marco Di Napoli, Matteo Frasca, Mario Fresa, Luciano Gerardis, Francantonio Granero, Pietro Grasso, Giovanni Kessler, Sergio Lari, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Antonella Magaraggia, Sergio Materia, Gianni Melillo, Alfredo Morvillo, Francesca Morvillo, Ubaldo Nannucci, Nello Nappi, Gioacchino Natoli, Guido Papalia, Roberto Parziale, Piervalerio Reinotti, Franco Roberti, Giovanni Tamburino, Vladimiro Zagrebelsky ed altri ancora.
Questo il manifesto fondativo che approvammo all’unanimità il 17 aprile 1988, al termine di una indimenticabile assemblea svoltasi nell’Hotel Salus di Roma, in piazza Indipendenza, a cento metri circa dal CSM:
Sono stato a lungo indeciso se inserire l’intero “manifesto fondativo” in questo documento: “forse è troppo lungo” - mi dicevo – ma, letto e riletto, mi è parso pensato e scritto oggi! Allora valeva la pena di inserirlo qui .
Il documento, infatti, oltre a tracciare le linee d’azione lungo cui il Movimento si è mosso nei decenni successivi, dava corpo ad una seria presa di distanza dalle deviazioni correntizie che già allora si manifestavano. Vorrei essere chiaro: a prescindere dalla mia esperienza personale non sono mai stato tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Questo tema sarà appresso approfondito (par. “9.a” e 9”b”), ma non si può negare che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni, anche prima dell’esplodere del “caso – Palamara”: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Ciò è avvenuto spesso – ed è la deviazione più eclatante – per le nomine dei dirigenti degli uffici, ma anche per i trasferimenti in Cassazione o in altri uffici ambiti, per le designazioni dei relatori nei corsi di aggiornamento professionale e così via. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm, i quali non celano, a loro volta, vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica.
Il Movimento per la Giustizia, sin dai suoi primi passi, intese porre all’attenzione della magistratura associata tali deviazioni che già allora si manifestavano, denunciando la cd. “questione morale” e proponendo strumenti di contrasto che sarebbero stati in breve da tutti i magistrati condivisi, almeno a parole: estraneità rispetto a qualsiasi aspettativa della politica, necessità di efficienza e trasparenza nella gestione degli uffici giudiziari (il termine “giustizia partecipata”, ormai diventato di uso comune, fu coniato proprio in un convegno del Movimento), controlli di professionalità tali da valorizzare, specie rispetto al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, la specializzazione professionale dei magistrati nei diversi settori della loro attività. Temi urgenti e difficili che ci fecero guadagnare l’appellativo irridente di «moralisti ed aziendalisti» e che le correnti tradizionali, tutte, seppure in misura diversa e per ragioni diverse, avevano trascurato, condizionate da meccanismi che ne impedivano la discussione senza reticenze.
Era fuori di dubbio la nostra vicinanza, sul piano della condivisione dei principi su cui deve reggersi la giurisdizione, alla corrente di Magistratura democratica. Personalmente, ne apprezzavo la capacità di produzione culturale e l’organizzazione interna. Ma eravamo abbastanza critici rispetto a una compattezza ideologica così forte da conferirle una sorta di forma-partito. D’altro canto, penso che i colleghi di MD, pur apprezzando molte nostre posizioni, ci considerassero affetti da ricorrenti sintomi di qualunquismo. Solo con il tempo, abbiamo superato, credo in modo sincero, quelle reciproche diffidenze.
Il primo congresso nazionale del Movimento per la Giustizia si svolse a Milano nel novembre del 1988: le posizioni del gruppo erano diventate, in gran parte e in tempi relativamente brevi, oggetto di ampia conoscenza all’interno della magistratura, nonostante le iniziali fortissime resistenze ed i tentativi, in seguito attuati persino con una precipitosa manipolazione della legge elettorale relativa al C.S.M. del 1990 (si veda appresso su questo punto), di tenerci fuori dal C.S.M. stesso e conseguentemente di farci a breve scomparire dalla scena della magistratura associata. Di quel convegno in tanti ricordiamo uno storico intervento di Giovanni Falcone che venne pubblicato su La Repubblica del 9 novembre e che dovrebbe oggi essere ripubblicato. Iniziava così: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato impiegato…Basta con un’Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il CSM”.
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, il Movimento fu oggetto di interesse da parte di molti giovani magistrati “innamorati” della Costituzione che vedevano in tanti modi violentata. Fuor di metafora il Movimento per questi neo magistrati fu la naturale scelta di associazionismo perché costituito da persone che non badavano a sé medesimi, che non parlavano di carriera e di posti, bensì di come inverare la Costituzione e di come servirla al meglio: insomma furono in tanti a scommettere il meglio delle proprie energie sulla scelta “movimentista”, sia pure con fortune alterne.
Alla fine degli anni ‘80, il Movimento iniziò un percorso di comune impegno associativo insieme al gruppo di Proposta ’88, che, nato da una scissione all’interno di Magistratura indipendente per ragioni in qualche modo simili a quelle che avevano indotto i “verdi” a lasciare Unicost, era guidato da Stefano Racheli, Alfonso Amatucci ed altri colleghi. Ad un certo punto, dopo un intenso confronto ed iniziative comuni, i due gruppi decisero di fondersi adottando inizialmente la denominazione “Movimento per la Giustizia – Proposta ‘88”, mutata poco dopo, più semplicemente, in “Movimento per la Giustizia”. La fusione fu seguita in particolare da un primo comitato paritetico provvisorio di cui facevano parte – per il Movimento - Mario Almerighi, Leo Agueci, Gianni Kessler e Ippolisto Parziale. Il conseguente apparentamento elettorale diede ottimi risultati in occasione del rinnovo del CSM nel 1990, di cui parlerò appresso.
Intanto, in un crescendo di impegno diffuso, il Movimento aveva per la prima volta pubblicato un proprio periodico autofinanziato, Impegno per la Giustizia, ovviamente in cartaceo verde. Il primo numero fu quello dell’ottobre/dicembre 1989[3], stampato presso una tipografia romana. Il primo direttore fu Roberto Sciacchitano. Stampa, pubblicazione e diffusione del periodico, come tutte le attività del Movimento ancora oggi, furono autofinanziate[4].
Proprio tra il 1989 e l’inizio del 1990, il Movimento si trovò di fronte al problema che storicamente si presenta per gruppi o movimenti che, nati per fungere da stimolo per le istituzioni di riferimento, devono a un certo punto decidere se andare avanti limitandosi a criticarle e a dare suggerimenti dall’esterno o se concorrere a renderle più trasparenti ed efficienti dell’interno.
Partecipare o no alle elezioni del 1990 per il rinnovo del Csm, dunque, fu l’interrogativo che il Movimento affrontò in un importante congresso nazionale a Milano. Vladimiro Zagrebelsky, io ed altri eravamo contrari. L’assemblea decise diversamente ed ebbe ragione, nonostante il varo in extremis della citata legge elettorale che, introducendo un quorum altissimo di consensi (9%) per accedere all’assegnazione dei posti con metodo proporzionale, intendeva dichiaratamente colpire il nostro neonato gruppo «eretico», impedendone l’accesso al Csm. Ma il Movimento, ormai corpo unico con Proposta ’88, riportò un successo inaspettato, specie tra i giovani magistrati, raggiungendo il 14% circa dei consensi e portando nel Csm ben tre suoi candidati (Alfonso Amatucci, Nino Condorelli e Luigi Fenizia) anche se tra gli eletti non vi fu Giovanni Falcone che, dopo la nascita del gruppo, vi si era dedicato con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano. Aveva accettato di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse ben “speso” nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò in tal modo la falsità dell’assunto secondo cui chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, acquistando notorietà e però rischiando la pelle, diventa per ciò solo popolare e amato da tutti e fa più facilmente carriera. Lo aveva teorizzato, come si sa, Leonardo Sciascia: «I lettori, comunque, prendano atto» – scriveva Sciascia chiudendo il suo celebre attacco ai «professionisti dell’antimafia», pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 – «che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Si riferiva in quel caso alla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala che il Csm aveva deliberato pochi mesi prima, preferendolo a magistrati con maggiore anzianità ma minor esperienza nel campo delle indagini sulla criminalità mafiosa.
Tornando a Falcone, a quella piccola grande delusione egli reagì con il sorriso ironico e con il distacco proprio dei siciliani colti, fatalisti, abituati a vivere alla giornata e a non meravigliarsi di nulla. Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza. Ne voglio spiegare le ragioni che rimandano anch’esse alla visione della giustizia del nostro gruppo.
Era accaduto che alla vigilia del varo della Direzione nazionale antimafia – e subito dopo – altre discussioni divisero noi magistrati: riguardavano appunto Giovanni Falcone. Non posso dire di avere lavorato con lui nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992, anche lavorando intensamente insieme nel Movimento per la Giustizia, fin quasi alla sua morte.
Ciononostante, in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici: una situazione simile, cioè, a quella che Paolo Borsellino aveva denunciato pubblicamente nel luglio del 1988. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quanto infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «.. .capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA) e delle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) e anche in questo caso patì qualche critica per la sua originaria impostazione. Il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente alcune critiche e preoccupazioni : alla luce delle competenze che si volevano attribuire alla DNA, in particolare, era forte il rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sua sostanziale dipendenza dall’esecutivo. Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli.
Si trattava di critiche, dunque, che nulla avevano a che fare con altre posizioni inaccettabili, come quelle leggibili in una retriva circolare del CSM del 1993 che definiva le DDA come potenziali incrostazioni e centri di potere. Per cambiare quella circolare il Movimento si impegnò in nome della necessità della specializzazione dei saperi.
Ma altre critiche, più personali, piovvero addosso a Falcone quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato più volte l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma quelle discussioni finirono forse con il raffreddare i rapporti di Giovanni con il Movimento, pur se quei dubbi non avevano in alcun modo intaccato la nostra stima ed i nostri sentimenti nei suoi confronti.
Comunque, prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Tornando al Movimento ed alla mia esperienza professionale e di “militante”, rammento che il gruppo mi chiese la disponibilità a candidarmi per il rinnovo del CSM nel 1994, ma rifiutai per gli assorbenti impegni di lavoro nella Procura di Milano. Quelle elezioni fecero registrare un nostro successo ancora maggiore di quello del 1990 e i nostri rappresentanti in seno al Csm passarono da tre a quattro. Mi impegnai in campagna elettorale accompagnando presso i Tribunali della Lombardia il nostro candidato di spicco, Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e studioso di eccezionale livello, eletto insieme a Sergio Lari, Saverio Mannino e Paolo Fiore.
Fu proprio Zagrebelsky, unitamente a Stefano Racheli, a chiedermi di candidarmi nel 1998. Questa volta accettai. Negli anni precedenti, a causa dell’impegno nel settore Antimafia, mi ero anche dimesso dal ruolo di segretario nazionale del Movimento, appena tre mesi dopo esservi stato designato dall’assemblea del gruppo. Avevo sbagliato a pensare di poter esercitare quella funzione in presenza di un impegno professionale così assorbente, sulla cui priorità non ho mai avuto alcun dubbio. Ma nel 1998, avevo ormai esaurito tutti i principali dibattimenti di mafia, potevo sentirmi in pace con la mia coscienza professionale, ero decisamente motivato per un impegno nell’organo di autogoverno e, soprattutto, mi spingeva l’affetto dei tanti colleghi che mi chiedevano di fare quella scelta. In tanti mi accompagnarono in campagna elettorale, presso le sedi giudiziarie della Lombardia, del Trentino, della Toscana, della Sardegna e della Calabria che costituivano il mio collegio elettorale. La «campagna elettorale» fu coinvolgente e ricca di entusiasmo: tanti volti di giovani colleghi che non conoscevo – e le loro attese – mi incoraggiarono facendomi comprendere che il Movimento per la Giustizia era ormai ben radicato nel territorio nazionale. Il successo fu confortante e, soprattutto, era evidente che non eravamo in alcun modo considerati un gruppo elitario da sostenere per ottenere qualcosa in cambio: a dieci anni dalla fondazione del gruppo, come ha scritto Giovanni Tamburino, potevano ormai contare sull’apporto ed i contributi di chi non aveva partecipato a quella fase iniziale, ma si era a noi avvicinato condividendo i nostri programmi e le nostre conseguenti condotte associative, istituzionali e professionali.
Con me, furono eletti altri due “storici” colleghi del Movimento per la Giustizia: Ippolisto Parziale, giudice a Roma ed uno dei maggiori protagonisti della “messa in opera” organizzativa del gruppo, e Gioacchino Natoli, sostituto procuratore della Repubblica a Palermo ove aveva speso molti dei suoi anni di lavoro accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: erano stati per lui i fratelli e maestri che per me erano stati Guido Galli ed Emilio Alessandrini.
Il 31 luglio del 1998, al Quirinale, prestammo giuramento quali componenti eletti del Consiglio superiore della magistratura, stringendo la mano di Oscar Luigi Scalfaro, uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani, che era stato magistrato prima di entrare in Parlamento.
Molti magistrati, specie negli ultimi anni, sostengono che l’approdo al Csm costituisca il punto d’arrivo al termine di una carriera associativa a ciò finalizzata. E si dolgono se chi ha svolto attività associativa a livello dirigenziale o è stato componente del Csm transiti poi tra i magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia o altri ministeri. Insomma, viene denunciata l’esistenza di una sorta di carriera parallela o alternativa rispetto a quella di chi passa i giorni seduto alle scrivanie di uffici, spesso in condizioni di estrema difficoltà. Talvolta è possibile individuare un fondo di verità in queste impietose valutazioni, ma si scivola nel qualunquismo, a mio avviso, se accuse di questo tipo vengono formulate in modo immotivato e indistinto. Penso, infatti, che le esperienze di molti magistrati possano risultare proficue anche in incarichi ministeriali se si conservano, come spesso ho detto, le caratteristiche di indipendenza e autonomia proprie della nostra professione. Ma penso anche che la vita associativa possa assumere un significato alto ove non comporti disattenzione verso i propri doveri professionali e sia ispirata non da logiche particolaristiche, bensì dai valori e dagli scopi che furono condivisi da quei magistrati che il 13 giugno del 1909 fondarono, a Milano, l’Associazione generale tra i magistrati italiani (Agmi, come allora si chiamava).
Rivendico con un certo orgoglio - e forse con una dose di ingenuità - le ragioni che hanno indotto magistrati appartenenti al Movimento per la Giustizia (e certamente non solo loro) a candidarsi per ruoli elettivi come quelli di componenti del Csm o degli organi direttivi dell’ANM : lo hanno fatto – mi auguro e credo – pensando al CSM e all’Associazione quali organi capaci di difendere la dignità e l’indipendenza assoluta dei magistrati, ma contemporaneamente attenti alla tutela dei diritti dei cittadini. Credo che il Movimento per la Giustizia non abbia mai pensato all’ANM come l’organo di rappresentanza di una «corporazione» o come un «sindacato delle toghe», una definizione, come ha detto giustamente Giuseppe Berruti, componente del Csm nel quadriennio 2006-2010, che è già un modo per intaccarne l’autorevolezza.
Ricordo molte cose belle ed interessanti della mia esperienza al CSM da cui molto ho appreso, ma c’è un episodio che non dimenticherò: vivevamo il difficile periodo in cui Ministro della Giustizia era Roberto Castelli che l’l marzo del 2002 fece una rapida apparizione a Salerno, dove era in corso il XXVI Congresso nazionale dell’Anm su Tempi e qualità della giustizia. Castelli arrivò nell’affollato salone e prese posto in prima fila, giusto pochi minuti prima che prendesse la parola Nello Rossi, il collega consigliere di Magistratura democratica che, con la sua consueta capacità oratoria e con puntualità di argomenti, ebbe modo di elencare al ministro le ragioni di delusione e preoccupazione della magistratura italiana. Castelli parlò subito dopo di lui, suscitando con le sue parole accentuati mormorii e proteste. Immediatamente dopo, mentre come membro del CSM mi accingevo anche io a salire sul palco per il mio intervento, lasciò la sua poltrona in prima fila e abbandonò i lavori congressuali. Il fatto non mi sconvolse più di tanto ed anzi acuì la mia vis oratoria. Parlai, così, rivolto a quella poltrona vuota in prima fila, quasi si trattasse di un preordinato colpo di teatro: «Prendo atto, preliminarmente, che il ministro della Giustizia, appena terminato il suo intervento, sta abbandonando il convegno: è il suo modo di mostrarsi disposto al dialogo, interventi ‘mordi e fuggi’, senza attribuire alcun rilievo alle opinioni altrui. Parlerò, dunque, alla sua poltrona vuota, pregando i presenti di non occuparla». Dopo avere elencato i guasti prodotti dalle leggi varate in quei mesi, ricordai le critiche che piovevano addosso all’Italia da ogni parte d’Europa e, sempre fissando la sua sedia vuota, chiesi al ministro se pensasse davvero che l’Europa fosse popolata di toghe rosse e di nemici dell’Italia. «State portando il paese verso l’oscurantismo giudiziario», conclusi.... Il Ministro non c’era, ma forse sapeva quale era la posizione del Movimento che in quell’occasione esposi in nome dell’intera magistratura.
*Prima parte della Relazione tenuta al corso - “Storia della magistratura e dell’Associazionismo” per la SSM a Scandicci 3/5 ottobre 2022 nella Quarta sessione: “Le Correnti dell’ANM dai programmi ai segni della crisi: una prospettiva storica”. La seconda e la terza parte saranno pubblicate nei prossimo giorni.
**Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) - è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
[1] Va qui citato “Cento anni di Associazione magistrati”, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara (Ipsoa, Milano 2009), distribuito dall’Anm in occasione del centenario della sua fondazione, celebrato a Roma, alla presenza del capo dello Stato e di altre alte autorità, il 25 giugno del 2009. Nel libro, vi è anche descritta la storia delle correnti dell’Associazione, in buona parte analizzata anche nell’intervento di Giovanni Mammone (1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de «La Magistratura»).
[2] Nel sito web del Movimento per la Giustizia, si può leggere comunque uno storico volantino scritto tra il 1984 ed il 1988, cioè nel periodo in cui il gruppo allora dei "Verdi" era ancora nella corrente di Unità per la Costituzione, che cercava di cambiare dall'interno. Vi si possono rinvenire le linee-guida di un'idea della giustizia – fatta propria dal Movimento - che ancora oggi appassiona perché spinge ad esaminarne i problemi nell'ottica e nell’interesse del cittadino, non del magistrato.
[3] Autorizzazione del Tribunale di Roma del 7 giugno 1989.
[4] Attualmente la “quota sociale” versata dagli iscritti ammonta a 12,00 euro mensili (144,00 euro annuali).
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.