ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Le tappe della vicenda giudiziaria - 2. Le motivazioni della sentenza - 3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica.
1. Le tappe della vicenda giudiziaria
Con la sentenza della Cassazione 24 febbraio 2023, n. 13258 (dep. 29 marzo 2023) si è aggiunta una nuova tappa tassello alla vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito: un caso sotto diversi punti di vista complesso, che – in ragione della sua esposizione mediatica – ha costituito l’occasione per il riaccendersi del dibattito pubblico, ed anche dell’interesse della dottrina, sul controverso istituto del 41 bis. Volendo riassumere in estrema sintesi tale tormentata vicenda, si può ricordare che Alfredo Cospito è detenuto dal 2012 in esecuzione di un cumulo di pene per varie condanne (tra cui associazione ed attentati per finalità di terrorismo o di eversione, reati in materia di armi, furto aggravato, danneggiamento, istigazione a delinquere) ed è anche, a far data dal 2016, in stato di custodia cautelare per una serie di reati tra cui il delitto di ‘strage politica’ ex art. 285 c.p. (per aver collocato e fatto esplodere alcuni ordigni esplosivi all’ingresso della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano)[1]. A partire dal 4 maggio 2022, Cospito è poi sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis co. 2 ss. o. p. in ragione della sua particolare pericolosità e della capacità di mantenere contatti con esponenti dell’organizzazione eversiva di appartenenza. Contro il decreto ministeriale di applicazione di tale regime, la difesa del detenuto ha, da un lato, proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma e ha, dall’altro, avanzato richiesta di revoca al Ministro della Giustizia. Entrambe le istanze sono state rigettate: dapprima, il Tribunale di sorveglianza con ordinanza del 1 dicembre 2022, poco tempo dopo, il Ministro della giustizia con decreto del 9 febbraio 2023. Contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza, è stato infine proposto ricorso per Cassazione, anch’esso rigettato con la sentenza oggetto di queste osservazioni.
Nel frattempo, come è a tutti noto, il detenuto, a far data dal 22 ottobre 2022, ha intrapreso uno sciopero della fame ancora oggi in atto per protestare contro il regime detentivo del 41 bis: in considerazione del grave pregiudizio alla salute determinato dal prolungato digiuno, i difensori del detenuto, che nel frattempo è stato trasferito presso il Reparto di Medicina Penitenziaria dell’Ospedale San Paolo di Milano, hanno richiesto al Tribunale di sorveglianza di Milano la concessione della detenzione domiciliare ex art. 47 ter co. 1 ter (ossia la misura domiciliare applicabile nei casi in cui si può disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.), richiesta anche questa rigettata in data 24 marzo 2023.
Occorre ancora ricordare, a dimostrazione della molteplicità delle questioni che la vicenda solleva, che il Ministro della giustizia (con evidente, seppur non esplicito, riferimento al caso di specie) ha posto al Comitato nazionale di bioetica un complesso quesito relativo alla possibilità di eseguire, in caso di imminente pericolo di vita, interventi di nutrizione e rianimazione contro la volontà, precedentemente espressa, di persona che abbia intrapreso uno sciopero della fame, con particolare riferimento alla situazione del soggetto privato della libertà personale: al quesito il Comitato ha risposto con un documento, datato 6 marzo 2023, nel quale si prende atto dell’impossibilità di assumere una posizione unitaria sul tema, essendosi evidenziate all’interno di tale organo una pluralità di opinioni tra loro non conciliabili.
2. Le motivazioni della sentenza
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione ha ritenuto in parte inammissibili ed in parte infondati i motivi di ricorso della difesa, la quale aveva eccepito che il Tribunale di sorveglianza non avesse motivato adeguatamente sulla sussistenza dei presupposti applicativi del regime detentivo speciale, tanto con riferimento all’accertamento della persistente operatività della associazione criminale di appartenenza, quanto con riferimento alla sussistenza di collegamenti tra il detenuto e i sodali operanti all’esterno.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni, la Corte di cassazione ha reputato necessario ricostruire l’evoluzione normativa dell’art. 41 bis e, per quanto più ci interessa, definire il perimetro del sindacato giudiziale sui decreti ministeriali di applicazione (e proroga) del regime detentivo speciale, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale e dalle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità. In un passaggio che risulta di particolare rilevanza per la questione su cui intendiamo concentrare l’attenzione, la Cassazione sottolinea che seppur la formulazione attuale dell’art. 41 bis – così come risultante dall’ultimo intervento di modifica operato con la legge 15 luglio 2009, n. 94 – limiti il sindacato del tribunale di sorveglianza alla ricorrenza dei presupposti applicativi, essendo stata eliminata la previsione di un controllo sulla “congruità del contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza pubblica”, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che ciò non esime l’organo giudicante dal vagliare la funzionalità dell’imposizione del regime detentivo speciale rispetto al perseguimento delle finalità previste dalla disciplina normativa[2]. In questo senso si è quindi orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ha sempre riconosciuto la sussistenza di un potere giudiziale di controllo in ordine al “collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”, affermando anche di recente che il controllo del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo sui provvedimenti ministeriali di applicazione e proroga del 41 bis deve avere ad oggetto “l’accertamento della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, la pericolosità sociale e il collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”[3].
Venendo ora al merito della sentenza, per quanto attiene al profilo della persistente operatività dell’associazione di cui il detenuto è ritenuto essere parte (ossia la FAI, Federazione Anarchica informale), la Cassazione ha ritenuto esaurienti le motivazioni del Tribunale, in quanto fondate su accertamenti giudiziali (le sentenze di condanna a carico di Cospito) che consentono di ritenere accertata la sussistenza e la vitalità dell’associazione fino ad epoca prossima all’applicazione del regime detentivo speciale[4].
Anche in relazione alla sussistenza di collegamenti con l’associazione di appartenenza, la Cassazione ha ritenuto adeguate le motivazioni dell’ordinanza impugnata. Sul punto, la difesa aveva contestato il fatto che la prova dei collegamenti fosse desunta esclusivamente dall’aver il detenuto fatto pervenire all’esterno scritti, poi pubblicati su riviste e siti internet, caratterizzati da una chiara ed innegabile valenza istigatrice, nei quali l’autore esortava i “compagni anarchici in libertà” a porre in essere azioni violente e ad intraprendere la strada dello scontro armato contro lo Stato. Nella sostanza, la difesa ha ritenuto che il regime del 41 bis sia stato utilizzato per uno scopo diverso da quello per il quale esso può essere legittimamente utilizzato: cioè non per impedire al detenuto di inviare messaggi o direttive criminose a specifici sodali all’esterno, pronti a mettere in atto i suoi propositi criminosi, ma piuttosto “per impedire al Cospito di continuare ad esternare il proprio pensiero politico, ovvero per sanzionare l’istigazione o comunque il proselitismo”; l’attività comunicativa del detenuto “apertamente diffusa all’esterno in incertam personam” sarebbe stata dunque illegittimamente equiparata ai messaggi criptici o ai pizzini, così operando – sempre secondo la prospettiva della difesa del detenuto – un’illegittima estensione del perimetro applicativo del regime detentivo. Né il Tribunale di sorveglianza avrebbe offerto una motivazione convincente circa il fatto che la pericolosità del detenuto si sarebbe potuta neutralizzare tramite strumenti meno afflittivi ma comunque idonei allo scopo, quali ad esempio la collocazione nel circuito dell’Alta sorveglianza, con sottoposizione a censura della corrispondenza.
Anche su questo punto la Cassazione non accoglie le tesi della difesa, ritenendo che la sussistenza dei collegamenti tra il detenuto e l’associazione di appartenenza possano ritenersi dimostrati sulla base di diversi elementi: innanzitutto, in ragione della posizione ricoperta da Cospito all’interno dell’associazione, avendo le sentenze relative ai diversi reati per i quali è condannato accertato senza possibilità di smentita il suo ruolo di “capo ed organizzatore” del FAI; in secondo luogo, in ragione dell’assiduità delle comunicazioni intrattenute durante la detenzione nel regime ordinario con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario, di cui gli scritti pubblicati su riviste e siti on line, rappresentano chiara prova, essendosi con essi perseguito l’obiettivo di sollecitare “i soggetti più predisposti alle azioni violente e (…) alla commissione di attentati”; ancora, alla luce dell’evidente seguito goduto da Cospito nell’ambiente anarchico-insurrezionalista, desumibile dalle plurime campagne di solidarietà organizzate dalle cellule anarchiche nel corso della sua detenzione, spesso tradottesi in atti di violenza e fatti costituenti reato. Per le stesse ragioni la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente dimostrato il fatto che il detenuto, una volta collocato nel regime detentivo ordinario, avrebbe continuato ad essere il punto di riferimento per gli accoliti all’esterno e che dunque il regime detentivo ordinario (anche nel circuito dell’Alta sicurezza), non sarebbe stato idoneo a contrastare adeguatamente la pericolosità del detenuto.
Quanto infine alla tesi secondo cui il 41 bis sarebbe stato utilizzato per scopi diversi da quelli per i quali è stato introdotto, la Cassazione ha osservato che il regime detentivo speciale “non si caratterizza per una elettiva ovvero fisiologica applicazione per determinati tipi di associazione criminale”, come dimostra il richiamo contenuto nello stesso co. 2 dell’art. 41 bis ai delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. Né il tenore letterale della norma consentirebbe di ritenere che le comunicazioni che il 41 bis intende vietare sarebbero solo “messaggi criptici” o i c.d. “pizzini”.
3. Riflessioni, a margine della sentenza, sull’utilizzabilità del 41 bis per impedire la diffusione di messaggi pericolosi per la sicurezza pubblica
Tra le questioni affrontate dalla Corte di cassazione, ci pare interessante soffermarsi, per la sua valenza generale, sull’ultima, cioè sull’utilizzabilità del regime detentivo speciale per affrontare – questa l’espressione utilizzata nella requisitoria della Procura generale presso la Cassazione – “un’ipotesi ermeneutica del tutto inedita, e quasi ‘di confine’, di possibile applicazione del regime detentivo speciale”[5]: ossia, se tale istituto possa essere utilizzato non per ostacolare il passaggio di precise direttive criminose attraverso messaggi cifrati o pizzini a specifici sodali all’esterno, ma per impedire la diffusione in incertam personam di messaggi dalla forte valenza istigatrice, in quanto tali pericolosi per la sicurezza pubblica.
In proposito è opportuno ricordare che l’esigenza a cui il 41 bis intendeva rispondere nel momento in cui è stato introdotto, nei primi anni ’90, era quella di garantire il rafforzamento della funzione custodialistica del carcere nei confronti di una specifica categoria di detenuti pericolosi, rappresentata dai soggetti che ricoprivano posizioni apicali all’interno di associazioni criminali di stampo mafioso: detenuti che, dal carcere, continuavano a impartire ordini e dettare direttive ai sodali all’esterno, avvalendosi degli strumenti che l’ordinamento penitenziario ordinariamente prevede per garantire la continuità dei rapporti familiari (ossia colloqui, telefonate, corrispondenza, trasmissione di pacchi con vestiti e viveri) e sfruttando tutte le occasioni di contatto con altri detenuti per far circolare informazioni, trasmettere messaggi o comunque consolidare il proprio potere. Ed in effetti il contenuto del regime detentivo speciale – ora tipizzato nell’elenco di prescrizioni contenuto nell’art. 2 quater dell’art. 41 bis – è andato modellandosi sulle restrizioni che, a partire dai primi anni di vita del 41 bis si erano dimostrate come le più efficaci per frenare il flusso comunicativo all’interno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, caratterizzate dalla stabilità del vincolo associativo e da una struttura fortemente gerarchizzata[6].
Ora, é vero che l’istituto è stato modellato sulle esigenze di prevenzione speciale proprie della criminalità di stampo mafioso e che, nella prassi, esso viene utilizzato quasi esclusivamente a questo fine[7]; nondimeno la legge non limita l’operatività dell’istituto a tale specifica realtà associativa: il suo ambito di applicabilità, infatti, è stato sin dall’inizio ‘agganciato’ ai delitti di cui al primo comma dell’art. 4 bis o.p., tra i quali compaiono anche i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
Su questo punto, occorre dunque convenire con la Cassazione sul fatto che secondo la disciplina vigente – a prescindere cioè dall’opportunità di circoscrivere de iure condendo l’applicabilità dell’art. 41 bis alla sola criminalità di stampo mafioso – il regime detentivo speciale risulta applicabile a qualsiasi forma di criminalità associativa, purché ovviamente si tratti di un reato compreso nell’elenco di cui all’art. 4 bis co. 1.
Ancora, bisogna convenire con la Cassazione sul fatto che la legge si limita ad affermare che lo scopo del regime detentivo speciale è di recidere i collegamenti ‘pericolosi’ tra il detenuto e l’associazione all’esterno, senza specificare in alcun modo quale siano le forme di comunicazione che devono essere limitate: da ciò si ricava che lo strumento può essere legittimamente utilizzato anche per impedire modalità di comunicazione diverse da quelle tradizionalmente impiegate dagli associati delle consorterie mafiose (tipicamente rappresentate dai messaggi in codice o dai c.d. pizzini), come nel caso di diffusione di scritti destinati ad essere pubblicati su riviste e siti online.
Detto ciò, si possono tuttavia fare alcune riflessioni a partire dalla stessa lettera della legge ed in particolare dall’art. 41 bis co. 2, laddove si specifica che il regime detentivo speciale ha la funzione di soddisfare le “esigenze di ordine e di sicurezza” che sono poste da detenuti “nei confronti dei quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva” ed ancora precisa che la misura “comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze [di ordine e di sicurezza] e per impedire i collegamenti con l'associazione (…)”. Dunque se le restrizioni sono funzionali a soddisfare le esigenze di ordine e di sicurezza che derivano dalla sussistenza dei collegamenti e ad impedire i collegamenti con l’associazione di appartenenza, ciò parrebbe significare che il regime detentivo speciale non può essere utilizzato per impedire la diffusione di messaggi di propaganda ideologica ‘in incertam personam’, ma presuppone che le comunicazioni ‘pericolose’ del detenuto (qualsiasi siano le forme che esse assumano) siano destinate ai soggetti in libertà a lui ‘collegati’ in forza dell’appartenenza alla medesima associazione criminale: una prova che non può escludersi in astratto, ma che in concreto non risulterà semplice, laddove l’associazione criminale non sia strutturata gerarchicamente, ma presenti caratteri ‘orizzontali’ e di ‘fluidità’, come nel caso di organizzazioni che gravano nell’area dei movimenti anarchico-insurrezionali.
Una seconda riflessione riguarda il fatto che l’applicazione del regime detentivo speciale può considerarsi legittima solo qualora le restrizioni che ne discendono siano “necessarie per il soddisfacimento delle esigenze” di prevenzione, qualora si sia cioè dimostrato che le restrizioni applicate siano congrue rispetto agli obiettivi di prevenzione che il regime si propone di perseguire e che restrizioni diverse, meno gravose in termini di compressione dei diritti e delle libertà individuali, non possano considerarsi idonee allo scopo di impedire i collegamenti pericolosi tra il detenuto e le associazioni criminali di appartenenza[8]. E’ questo, con tutta evidenza, un requisito essenziale per fondare la legittimità, sotto il profilo del principio di proporzionalità, di un istituto che si caratterizza per limitazioni estremamente severe dei diritti fondamentali della persona.
Come riconosciuto dalla Corte di cassazione in questa stessa sentenza (cfr. supra par. 2), tanto la congruità delle restrizioni rispetto alle “esigenze di ordine e sicurezza”, quanto la loro necessità deve essere oggetto di sindacato giurisdizionale in sede di controllo sulla legittimità dei decreti ministeriali di applicazione e proroga del regime detentivo speciale: in tale sede dovrà dunque dimostrarsi che gli obiettivi di prevenzione che si intendono perseguire attraverso l’applicazione del regime detentivo speciale sono realizzati, così come il principio di proporzionalità richiede, con il minor sacrificio possibile dei diritti e delle libertà individuali.
*Angela Di Bella è Professoressa di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano
[1] In relazione a tale procedimento, la Corte di assise d'appello di Torino, cui la Corte di cassazione ha rinviato gli atti per la determinazione della pena a seguito della riqualificazione del fatto quale strage politica ex ar.t 285 c.p., ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 69 co. 4 co. c.p., nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall'art. 285 c.p., non consente di ritenere prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 311 c.p. sulla recidiva di cui all'art. 99, co. 4 c.p. L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale può leggersi in Sist. pen., 8 febbraio 2023, con nota di F. Alma.
[2] Corte cost., sent. 26 maggio 2010, n. 190.
[3] Cass., sez. I, 23 aprile 2021, n. 18434.
[4] Secondo quanto riportato nella pronuncia della Cassazione, tali sentenze hanno appurato che l’associazione eversiva di cui Cospito è parte è costituita sin dal 2003 come ‘organizzazione orizzontale’, in quanto caratterizzata dal coordinamento di vari gruppi di ideologia anarchica, operanti in diverse zone d’Italia con finalità terroristiche ed eversive e che tale coordinamento ha assunto nel tempo un carattere sempre più formalizzato, potendosi individuare al suo interno anche una sorta di comitato direttivo centrale con funzione di programmazione e direzione strategica rispetto alle singole cellule. Ancora, tali sentenze hanno accertato che, a partire dal 2011, l’organizzazione ha assunto una dimensione internazionale, assumendosi il compito del coordinamento tra diverse cellule anarchiche operanti in numerose nazioni europee ed extra-europee
[5] Le conclusioni della Procura generale possono leggersi in Sist. pen., 3 aprile 2023, con un commento di G.L. Gatta, Estremismo ideologico dal carcere e 41 bis: dalla Cassazione nuovi spunti di riflessione sul caso Cospito’.
[6] Sul punto sia consentito rinviare a A. Della Bella, Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016, p. 105 ss.
[7] Dal recente “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario” del Garante nazionale delle persone private della libertà personale (23 marzo 2023) si apprende che sul totale delle 740 persone attualmente sottoposte al regime speciale, quelle che non sono stati condannate o non sono in corso di giudizio per reati connessi alla criminalità organizzata di tipo mafioso sono solamente quattro
[8] Che il regime detentivo speciale possa considerarsi legittimo solo nella misura in cui sia necessario per realizzare gli obiettivi di prevenzione speciale è affermazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale che, sin dalle sue prime pronunce aventi ad oggetto il 41 bis, ha posto in evidenza come la mancanza di congruità tra le misure restrittive e le esigenze di sicurezza che motivano il provvedimento trasforma le stesse in ‘‘ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento’’ (Corte cost. 351/1996).
La legge 27 settembre 2021, n. 134, che recava delega al Governo “per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, è stata attuata con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. legge “Cartabia”).
Si tratta di un provvedimento di ampio respiro, che apporta rilevanti modifiche al codice penale (artt. 1-3), al codice di rito (artt. 4-40), alle relative norme di attuazione (art. 41), oltre a contenere la disciplina della giustizia riparativa (artt. 42-67) e a disporre ulteriori interventi e modifiche ad alcune leggi speciali (artt. 68-84), tra cui spicca l’intervento effettuato dall’art. 71 in materia di sostituzione delle pene detentive brevi già disciplinate dalla legge 24.11.1981, n. 689.
L’entrata in vigore della riforma è stata fin da subito contrassegnata da svariate manifestazioni di protesta e da numerose contestazioni, anche di ordine tecnico, che hanno acceso l’attenzione dei media su alcuni aspetti particolarmente delicati (si pensi alla polemica di stampa sulle “scarcerazioni per mancanza di querela”, ecc.).
La polemica, per fortuna, non ha però riguardato più di tanto quella parte della riforma che riguarda l’introduzione delle pene sostitutive.
Si tratta per l’appunto di pene sostitutive del carcere, non essendosi trovato il coraggio di introdurle nell’elenco edittale delle pene principali, il cui catalogo (art. 17) è rimasto dunque immutato; si è invece pensato di creare - accanto alle tradizionali “misure alternative” previste dall’ordinamento penitenziario[1] - quattro figure di “pene sostitutive”, alle quali è stata però riconosciuta la dignità di essere nominate nel codice penale (art. 20 bis).
Si tratta di un’innovazione importantissima (per chi, ben s’intende, saprà coglierne le opportunità: qui serve la duplice concorrente volontà del giudice ed anche del suo imputato, eccezion fatta per la multa sostitutiva), destinata, almeno negli intenti, a cambiare il volto della penalità nel nostro Paese e ad avvicinare la data del processo al momento dell’effettiva esecuzione della sanzione penale, la quale non è né sospendibile condizionalmente (art. 61 bis l.n. 689/1981), né assoggettabile al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656 c.p.p.[2] per il chiaro disposto di cui all’art. 62 l.n. 689/1981.
È con un po’ di rammarico che osservo come l’intento, sostenuto dai fondi del PNRR, di rendere più veloce ed efficiente il processo penale non abbia però riguardato la magistratura di sorveglianza, che opera nel settore dell’esecuzione penale: dai “procedimenti giudiziari” di cui parla la rubrica del decreto legislativo n. 150/2022 è risultato infatti escluso proprio il procedimento di sorveglianza, il quale ha lo scopo di portare a compimento il complesso iter processuale che, partendo dalla notizia di reato, non si conclude con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, trovando invece il suo esito naturale nella compiuta espiazione della pena irrogata in cognizione [3].
Della velocizzazione dei procedimenti di sorveglianza, quasi non si trattasse di veri e propri procedimenti giudiziari, il legislatore sembra dunque non essersi preoccupato: il settore della sorveglianza è stato conseguentemente escluso dalla distribuzione delle risorse del PNRR e non ha ricevuto in dotazione le risorse umane destinate alla costituzione dell’ufficio per il processo previsto dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151, il cui art. 1, 1° comma prevede comunque che tale ufficio si costituisca anche presso gli Uffici e i Tribunali di sorveglianza.
Ennesima dimostrazione - questa - della situazione di vera marginalità del settore della sorveglianza, considerato quasi come la cenerentola del sistema penalistico stricto sensu considerato[4].
La conseguenza è che, ammesso e non concesso che i procedimenti giudiziari di cognizione subiscano una spinta acceleratoria grazie alla riforma Cartabia, nulla o quasi è destinato a mutare per i processi di sorveglianza, i quali sono deputati a portare a compimento l’intero iter di cui ho parlato.
Qualcuno potrebbe obiettare che un beneficio, sia pure di riflesso, la sorveglianza avrà nell’immediato futuro per il fatto che, avendo la legge Cartabia attribuito al giudice di cognizione il potere di irrogare le nuove pene sostitutive, il lavoro dei Tribunali di sorveglianza sarà destinato a diminuire.
Osservo però che la nuova legge, oltre a non occuparsi dell’ingente mole di lavoro che schiaccia il settore della sorveglianza, appesantito come noto (oltre al resto) dalla presenza di quasi 100.000 condannati “liberi sospesi”, che restano anche per anni in attesa dell’udienza di sorveglianza, prevede che la gestione in executivis delle pene sostitutive gravi comunque (eccezion fatta per il lavoro di pubblica utilità) sui magistrati di sorveglianza.
Altra evidente controindicazione, destinata a limitare gli effetti della riforma sotto il profilo quantitativo (e dunque dello sgravio “a valle” del carico della sorveglianza), deriva dall’impossibilità per il giudice della cognizione di sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale: appare infatti evidente che l’imputato ben difficilmente sarà indotto a prestare il proprio consenso alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare ove possa coltivare la ragionevole aspettativa di chiedere e di ottenere dal Tribunale di sorveglianza la più favorevole misura dell’affidamento una volta che il pubblico ministero abbia sospeso l’esecuzione della condanna ex art. 656, 5° comma c.p.p. (fanno ovviamente eccezione i reati di cui alla lett. a) del 9° comma dell’art. 656 c.p.p. che non siano ricompresi nel catalogo “proibito” di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, i quali non consentono la sospensione dell’esecuzione e rispetto ai quali dunque vi sarà la massima convenienza a prestare senza remore il consenso pur di non finire in carcere).
Se fosse stata accolta la proposta della Commissione Lattanzi, che aveva incluso anche tale misura alternativa tra le pene sostitutive irrogabili in cognizione, sarebbe stato finalmente chiaro a tutti che anche l’affidamento in prova rappresenta una forma di espiazione della pena detentiva, sia pure sostitutiva.
Quanto alla valutazione relativa all’esistenza di apprezzabili chances di ottenere tale misura in sede esecutiva, i difensori del Distretto in cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, che sono veri abitués della sorveglianza, sono generalmente ben informati circa i criteri adottati in materia dai singoli Tribunali di Sorveglianza, e dunque più che in grado di suggerire ai loro assistiti le scelte più convenienti[5].
Faccio però presente che analoga considerazione dovrebbe valere per lo stesso giudice di cognizione: perchè mai questi dovrebbe irrogare la semilibertà sostituiva o la detenzione domiciliare sostitutiva (nel range di una pena detentiva tra i tre ed i quattro anni) ove egli ritenga che nel caso di specie il suo imputato appaia fin d’ora meritevole di avere un domani l’affidamento in prova al servizio sociale?
Diverso discorso è ovviamente a farsi ove la pena sostituiva “offerta” sia il lavoro di pubblica utilità, il quale appare certamente misura ben più favorevole rispetto all’affidamento in prova.
Qualcosa di buono per la sorveglianza c’è però anche nel decreto legislativo n. 150/2022.
C’è di buono che i colleghi della cognizione sono chiamati (ovviamente purchè lo vogliano e ne avvertano la predisposizione) a prendere confidenza con pene sostitutive il cui contenuto è quasi esattamente coincidente[6] con almeno due delle più importanti misure alternative (semilibertà e detenzione domiciliare) che sono invece il pane quotidiano della sorveglianza.
Non si poteva immaginare nulla di più propizio per l’innesto di un processo osmotico tra due culture tradizionalmente considerate come tra loro antagoniste.
Troppe volte abbiamo sentito ripetere che il settore della sorveglianza è chiamato di fatto a sgretolare il giudicato e a porre nel nulla il lavoro svolto e le risorse impiegate per giungere all’individuazione e alla condanna del colpevole.
Troppe volte si è ripetuto che si tratta di una giurisdizione strabica, che guarda con un occhio di riguardo al reo, disinteressandosi però della posizione delle sue vittime.
Si tratta di diffidenze e di incomprensioni destinate oggi a venir meno.
La distanza, anche culturale, venutasi a creare nei decenni tra cognizione e sorveglianza è oggi chiamata a ricomporsi grazie alla legge Cartabia.
E’ giunto il momento del dialogo e dell’osmosi delle culture, e dunque degli atteggiamenti, se è vero che sarà lo stesso giudice di cognizione a dover rendere “virtuali” i due sostantivi “reclusione ed arresto”[7], trasformandoli egli stesso nelle pene sostitutive volute dalla legge.
Il processo osmotico sarà poi facilitato dalla circostanza che saranno comuni i problemi pratici da affrontare: dalla scarsità delle risorse di cancelleria disponibili[8] fino all’insufficienza degli organici degli uffici di esecuzione penale esterna[9].
Ma sono soprattutto i criteri cui il giudice di cognizione dovrà attenersi per decidere la sostituzione della pena detentiva a contribuire alla progressiva assimilazione delle diverse culture giurisdizionali.
Il novellato art. 58 l.n. 689/1981, richiamati i criteri di cui alla norma-cardine sulla dosimetria della pena (art. 133 c.p.), stabilisce che il giudice possa applicare le pene sostitutive “quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati”.
Rieducazione e special-prevenzione: sono questi i termini oscillatori nei quali si rifugia la clausola legale che si risolve nei fatti in una sorta di delega in bianco fondativa dell’amplissimo potere discrezionale del quale viene oggi a godere il giudice della cognizione.
Si tratta di quello stesso potere da sempre riconosciuto alla magistratura di sorveglianza.
La clausola generalissima è infatti del tutto paragonabile a quella dettata in materia di misure alternative alla detenzione: per l’affidamento in prova al servizio sociale, il 2° comma dell’art. 47 o.p. prevede che esso sia concedibile “nei casi in cui si può ritenere che, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”; per la detenzione domiciliare: il comma 1 bis dell’art. 47 ter o.p. dispone che esso sia concedibile “quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova servizio sociale e sempre che tale misura sia idonee ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati”; per la semilibertà, il 4° comma dell’art. 50 o.p. prevede che la misura sia disposta “in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”.
Anche la clausola del “minor sacrificio”, di cui all’art. 58, 2° comma l.n. 689/1981, il quale indica, tra i criteri di scelta possibile, anche quello che predilige la pena sostitutiva che comporti “il minor sacrificio della libertà personale”, trova la sua lontana eco nella norma di ordinamento penitenziario che, in materia di controlli, prevede che essi siano svolti “con modalità tali da recare il minor pregiudizio possibile al processo di reinserimento sociale e la minore interferenza con lo svolgimento di attività lavorative” (art. 58, 3° comma, o.p.).
Un altro importante elemento destinato ad avvicinare, assimilare e compenetrare la giurisdizione esecutiva con quella di cognizione è costituito dal 2° comma dell’art. 545 bis c.p.p., che orienta l’attività istruttoria necessaria per la sostituzione della pena detentiva con quella sostitutiva.
La prevista acquisizione presso l’Uepe e le forze dell’ordine di “tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali del soggetto” corrisponde esattamente all’attività istruttoria cui sovrintende la cancelleria del Tribunale di sorveglianza sui fascicoli contenenti istanze di concessione di misure alternative (vi si aggiungono l’acquisizione dei certificati dei carichi pendenti ex art. 60 c.p.p e delle iscrizioni ex art. 335 c.p.p.).
C’è dunque da chiedersi se non valesse allora la pena di finalmente decidersi per l’introduzione nel nostro ordinamento del processo bifasico: probabilmente sì, perché se avessimo fatto del Tribunale di sorveglianza un vero e proprio Tribunale “della pena”, destinandogli però un bel pò di risorse per assicurare anche al suo processo il rispetto della ragionevole durata (art. 111, 2° comma Cost.), avremmo risparmiato energie e valorizzato professionalità.
Se forse i tempi non erano ancora maturi per una riforma di tal fatta, ci resta solo da dire
che, fino all’entrata in vigore della legge Cartabia, il magistrato di sorveglianza poteva essere considerato l'ultimo anello della catena in grado di applicare il canone di proporzionalità della pena: canone da applicarsi a quella particolare persona, a quel particolare carcere, a quella particolare sezione, a quella particolare risposta alle offerte trattamentali, usando dunque di un criterio quam suis.
Ma lo iato temporale, che a volte dura lunghi anni, tra il momento del processo ed il momento dell’esecuzione rendeva e rende estremamente difficile l’applicazione del canone di proporzionalità: ciò a causa dei mutamenti medio tempore eventualmente intervenuti nella persona del condannato.
La discesa in campo anche del giudice della cognizione è oggi in grado di garantire risultati migliori proprio in forza della possibile contiguità tra i due momenti: c’è solo da augurarsi che le difficoltà organizzative, la scarsità delle risorse ed il timore del raddoppio delle udienze non renda sterile la riforma.
Comminare all’imputato giudicato colpevole la pena che gli serve, ritagliata su di lui, e nel momento in cui gli serve, rappresenta la sfida cui oggi è chiamato ogni giudice penale che desideri respirare nel futuro.
Un’ultima osservazione: il successo di questa sfida non potrà prescindere dal nuovo ruolo cui sono chiamati gli avvocati, i quali non solo dovranno saper accompagnare i loro assistiti “in un percorso di seria informazione tecnica, in vista di una scelta approfondita e responsabile, in modo da evitare il rischio di adesioni apparenti o scarsamente consapevoli”[10], ma soprattutto dovranno far emergere tutti gli elementi indispensabili per la costruzione della “pena-programma”, la più adatta possibile alle esigenze di vita e familiari dell’imputato.
[1] Mi sembra che il termine “misura alternativa” non compaia mai nel codice penale, se non per quanto riguarda la circostanza aggravante comune di cui al n. 11 quater dell’art. 61 c.p. (“l'avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere”).
[2] L’avvicinamento della data del processo a quella dell'effettiva esecuzione è incentivato, nel caso di giudizio abbreviato, dal disposto dell’art. 442, comma 2 bis c.p.p., secondo cui, in caso di mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato o del suo difensore, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di 1/6 dal giudice dell'esecuzione.
[3] Va a tal proposito ricordato che la necessità di una visione globale ed unitaria della giurisdizione penale è sottolineata da Corte cost. n. 313/1990, secondo cui “la necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue ….deve essere dunque espressamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per il giudice della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie”.
[4] Non trovo nulla di più efficace delle espressioni usate a questo proposito da M. Bortolato: “Lo stigma penitenziario è la differente considerazione che si ha di un <piano superiore>, ove è situato il processo di cognizione, figlio prediletto della giustizia, e i suoi protagonisti, rispetto ad uno <scantinato> ove è collocata l'esecuzione ed i suoi umili attori. La dicotomia tra fase del giudizio e fase dell’esecuzione sta in buona parte tra la giustizia del processo, ove si concentra ogni attenzione, esempio di sacralità e garantismo, e la pena eseguita, che è quasi un “figlio illegittimo” di cui vergognarsi e che si tenta di nascondere” (Lezione tenuta al corso della Scuola Superiore della Magistratura “Applicazione ed esecuzione della pena: giudice della cognizione e della sorveglianza”, Napoli, Castel Capuano, 16 febbraio 2023).
[5] Non si intende con ciò affermare che la giustizia predittiva, che tanta fortuna sta avendo nel campo del diritto civile, specialmente nei settori del lavoro e della previdenza sociale, abbia diritto di cittadinanza anche sul terreno dell'esecuzione penale, in quanto le singole decisioni della magistratura di sorveglianza sono tarate sulla singola persona e sulla sua particolare storia.
[6] Parlo di quasi-coincidenza perché le due pene sostitutive, restrittive della libertà personale, sono state disegnate a maglie assai più larghe di quelle delle corrispondenti figure previste dall'ordinamento penitenziario: la semilibertà sostitutiva, il cui programma di trattamento è predisposto non dal Direttore dell’istituto ma dall’Uepe, è presidiata dalla garanzia (tutelabile ex art. 35 bis o.p. lo si vedrà) della territorialità ed obbliga a trascorrere in istituto “almeno otto ore al giorno”, lasciando dunque ben 16 ore da riempire con le attività extra-murali di cui al 1° comma del novellato art. 55 l.n. 689/1981; la detenzione domiciliare sostitutiva obbliga a stare in casa non meno di 12 ore al giorno, ed è caratterizzata dal diritto soggettivo perfetto del detenuto domiciliare di uscire “per almeno quattro ore al giorno” (di qui l'incomprimibilità di tale spazio di libertà, siccome appartenente allo statuto della “pena legale”, da parte del magistrato di sorveglianza in sede di modifica delle prescrizioni). Per entrambi gli istituti è poi previsto che non trovi applicazione l’art. 120 del Codice della strada (“Requisiti soggettivi per ottenere il rilascio della patente di guida”). Per il resto, le pene sostitutive trovano una disciplina largamente comune a quella dei corrispondenti istituti di ordinamento penitenziario: ciò in forza dei rinvii disposti dal novellato art. 76 l.n. 689/1981 (liberazione anticipata, estendibilità della pena sostitutiva ai titoli sopravvenuti, disciplina delle pene accessorie e scomputabilità in caso di mala gestio dei periodi trascorsi in licenza). Anche il regime prescrittivo obbligatorio (art. 56 ter l.n. 689/1981) è praticamente identico a quello che ordinariamente accompagna quasi tutte le misure alternative disciplinate dall'ordinamento penitenziario. Lo stesso dicasi per il sistema delle preclusioni oggi disciplinato dal novellato art. 59.
[7] In realtà, già nel vigore del previgente testo dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice della cognizione era dotato di siffatto potere, essendogli consentita la sostituzione delle pene detentive contenute nel limite di due anni con la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria delle specie corrispondente: tale istituto, specie in relazione alla semidetenzione e alla libertà controllata (che alcuni studiosi hanno considerato aboliti “per desuetudine”), ha però trovato scarsa applicazione nella pratica a causa della perfetta coincidenza tra l'area della concedibilità della sospensione condizionale della pena (due anni) e l'area della sua sostituibilità (due anni).
[8] È facile prevedere che l’art. 545 bis c.p.p. (“Condanna a pena sostitutiva”) obbligherà quasi sempre alla duplicazione delle udienze, con relativo incremento sia dei ruoli del giudicante sia del lavoro di cancelleria.
[9] Gli Uffici di esecuzione penale esterna sono oggi chiamati a redigere il programma di trattamento della semilibertà sostitutiva (art. 55, 3° comma, l.n. 689/1981), come pure della detenzione domiciliare sostitutiva (art. 56, 2° comma, l.n. 689/1981). Ricordo che trattasi di Uffici che, specialmente dopo l'introduzione dell'istituto della messa alla prova, che ne ha distolto l'impegno per circa il 50% a favore dei giudici della cognizione, non sono in grado di riscontrare tutte le richieste di indagini socio-familiari provenienti dalla magistratura di sorveglianza, al punto che quest'ultima si è vista costretta quasi dappertutto a stipulare dei protocolli di intesa che esonerano gli Uepe da tale incombenza nel caso di condanne a pene, anche residue, inferiori ad una determinata soglia (sei mesi, un anno, ed anche più, a seconda delle diverse realtà locali).
[10] Non posso che rimandare a tal proposito all’illuminante contributo di A. Calcaterra: “Le novità introdotte dalla riforma Cartabia. Le nuove soluzioni sanzionatorie e il rinnovato ruolo dell'avvocatura”, in Questione Giustizia, 15.2.2023, ove si sottolinea ad esempio l'importanza di alcune informazioni: all'assistito va chiarito che al consenso prestato al lavoro di pubblica utilità consegue l’inappellabilità della sentenza (art. 593, 3° comma c.p.p.); l’assistito va del pari informato sui tempi di attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza in caso di scelta della “strada tradizionale”.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive. – 3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione. - 4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali. – 5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust.
1. Premessa
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie un’interessante ricognizione di principi già espressi in materia di regime probatorio delle intese anticoncorrenziali.
Al contempo, il giudice amministrativo svolge talune precisazioni circa le modalità di quantificazione delle sanzioni Antitrust, prendendo le mosse dalla loro qualificazione in termini di sanzioni sostanzialmente penali.
2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria
La vicenda giudiziaria ha origine dal ricorso presentato al Tar Lazio con cui la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento dell’AGCM che, avendo rilevato un’intesa restrittiva della concorrenza nell’ambito del mercato della produzione e commercializzazione di fogli in cartone ondulato, ha comminato alla ricorrente la sanzione pecuniaria pari ad € 3.658.077,00[i].
Più specificatamente, nell’ambito di quel procedimento l’AGCM ha intrapreso un’istruttoria volta ad accertare la partecipazione, da parte di una serie di società, a due distinte intese anticoncorrenziali: da un lato, nel mercato della produzione e commercializzazione di cartone ondulato (cd. intesa-fogli); dall’altro, in quello della produzione e commercializzazione di imballaggi in cartone ondulato (intesa-imballaggi).
Con una serie di successive delibere, il procedimento è stato poi esteso tanto sotto il profilo soggettivo, mediante il coinvolgimento di altre società[ii]; tanto sotto l’aspetto oggettivo delle condotte oggetto di accertamento, allargate alla limitazione o al controllo della produzione dei fogli in cartone ondulato nonché alla ripartizione di specifici clienti[iii].
Nel corso dell’istruttoria particolarmente rilevanti sono state le dichiarazioni rese da diverse imprese partecipanti alle intese oggetto di accertamento, nell’ambito del programma di clemenza (c.d. leniency).
In ragione della ritenuta fondatezza della contestazione in merito alla realizzazione delle due intese, l’Autorità ha concluso l’iter con il provvedimento sanzionatorio oggetto di impugnazione.
Il T.a.r. Lazio ha rigettato il ricorso con sentenza n. 6040/2021; detta sentenza è stata impugnata dalla società appellante, la quale ha prospetta una serie di motivi, alcuni dei quali anche piuttosto articolati.
Innanzitutto, con il primo motivo l’appellante deduce il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti, lamentando la mancata valutazione degli elementi istruttori che escludono la propria partecipazione da qualsiasi intesa, oltre che l’adesione acritica alla ricostruzione prospettata dall’AGCM.
In particolare, l’unico elemento utilizzato a sostegno della partecipazione dell’impresa appellante all’asserita intesa consisterebbe nella presunta partecipazione del responsabile commerciale della società alle riunioni intercorse in attuazione dell’intesa. Al riguardo, il T.a.r. Lazio si sarebbe limitato a ritenere che gli elementi riportati nel provvedimento fossero idonei a fornire un quadro univoco in ordine alla partecipazione anche dell’impresa appellante all’intesa-fogli.
Sul punto, l’appellante sostiene invece che il responsabile commerciale avrebbe partecipato alle riunioni in questione non come rappresentante della società ma “in proprio”[iv]; tant’è che, a seguito del suo decesso, nessun altro rappresentante avrebbe preso parte ad altre riunioni. In altri termini, non sarebbe provata l’adesione dell’appellante all’intesa, basandosi questa solo sulle dichiarazioni di un leniency applicant da ritenersi prive di qualsiasi valenza istruttoria in quanto non corroborate da ulteriori elementi di prova.
Né, sempre secondo l’appellante, ci sarebbe stato alcuno scambio di informazioni commerciali con le altre imprese concorrenti. A riprova di ciò, allega la circostanza di aver mantenuto una politica di prezzo totalmente autonoma dal Listino 2004, con risultati economici ben peggiori di quelli delle altre imprese di settore. Tali aspetti non sarebbero stati presi in considerazione dall’Autorità che, nell’esaminare la posizione di ciascuna impresa, si sarebbe limitata a prendere atto dei ricavi medi di settore, senza considerare le variazioni rilevantissime tra i ricavi dei singoli concorrenti.
Ancora, lo schema delle riunioni incriminate di cui si fa menzione nella sentenza di primo grado sarebbe del tutto inattendibile, in quanto privo di chiarezza in ordine alla partecipazione e alle eventuali tempistiche con cui il responsabile commerciale dell’appellante avrebbe partecipato alla maggioranza delle riunioni attuative dell’asserita impresa; risultando invece evidente, dalla documentazione raccolta in sede istruttoria, l’assenza dalle predette riunioni oltre che l’estraneità allo scambio documentale.
Con il secondo motivo l’appellante deduce nuovamente l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti sotto il diverso profilo della errata definizione da parte del T.a.r. del Lazio dei limiti temporali della partecipazione all’intesa. Anche ad ammettere un coinvolgimento d’appellante per il tramite del più volte menzionato responsabile commerciale, tale partecipazione, ad avviso dell’appellante, sarebbe limitata ad un arco temporale di gran lunga inferiore rispetto a quello contestato[v].
Con il terzo motivo l’appellante fa valere l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, lamentando l’erronea valutazione da parte del T.a.r. in ordine alla impossibilità di procedere alla riqualificazione dell’asserita intesa in abuso di posizione dominante. Invero, secondo la prospettazione dell’appellante, i contenuti dell’intesa in questione sarebbero stati definiti solo da una quota di larghissima maggioranza sul mercato che, congiuntamente, detiene una posizione dominante sul mercato della carta. Tali imprese dominanti avrebbero imposto agli operatori minori – tra cui l’appellante stessa - le condizioni alle quali operare sul mercato, cui si sarebbero aggiunti meccanismi di controllo e di verifica oltre che di ritorsione nei confronti di quanti non si fossero adeguati[vi].
Con il quarto ed ultimo motivo l’appellante lamenta l’erronea determinazione della sanzione, sotto diversi profili.
Innanzitutto, per quanto attiene alla illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza dell’intesa: il carattere segreto dell’intesa, infatti, non potrebbe mai dirsi insito nella violazione in sé o nella natura riservata con cui essa viene posta in essere[vii], dovendo semmai l’AGCM fornire prova di circostanze idonee a far ritenere la precisa e determinata volontà delle parti di occultare ogni contatto avvenuto per dare luogo all'intesa sanzionata.
In secondo luogo, la determinazione della sanzione sarebbe erronea in relazione all’illegittima omissione da parte del T.a.r. della valutazione degli effetti dell’intesa, avendo registrato l’impresa appellante – diversamente dalle imprese dominanti - un quadro non di crescita, ma semmai di stabilità e a tratti di contrazione, sia in termini di ricavi che di margine operativo.
Sotto un terzo profilo, l’appellante lamenta l’illegittima mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti, avendo essa dimostrato «di aver svolto un ruolo marginale alla partecipazione dell’infrazione, provando altresì di non aver di fatto concretamente attuato la pratica illecita», in ossequio alla previsione contenuta nel § 23 delle Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Da ultimo, un ulteriore profilo attiene al ricalcolo della sanzione, avendo l’Autorità interpretato l’art. 15, co. 1, l. 287/1990, nella parte in cui stabilisce che l’AGCM può applicare una sanzione «fino al 10% del fatturato», come mera soglia di contenimento della sanzione. Tale interpretazione conduce alla conseguenza che l’importo calcolato secondo le Linee guida, nei passaggi sanzionatori intermedi, possa eccedere il massimo di legge, purché tale limite venga poi rispettato nel risultato finale.
Un simile approccio, ad avviso dell’appellante, solleverebbe forti perplessità nella misura in cui finisce per determinare un “appiattimento” di tutte le sanzioni irrogate verso il massimo, in violazione dei principi di legalità, proporzionalità, individualità e uguaglianza. Il superamento della soglia del 10% nei passaggi intermedi di calcolo comporta infatti un innalzamento artificioso ed indebito della sanzione sulla quale calcolare le eventuali attenuanti, che rischiano così di divenire, di fatto, irrilevanti ai fini sanzionatori[viii].
3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive
Il Consiglio di Stato reputa il primo motivo infondato. Per giungere a tale conclusione compie una preliminare ed efficace sintesi dei principi enunciati in materia di prova dell’esistenza e della partecipazione ad una intesa restrittiva della concorrenza, richiamando una serie di propri precedenti.
Innanzitutto, l’accertamento de quo non richiede che l’intesa risulti da documenti o da altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali, essendo sufficienti anche indizi purché gravi, precisi e concordanti[ix]; a tal fine, occorre procedere ad una valutazione globale delle prove acquisite, onde dare evidenza dell'intero assetto dei rapporti intercorrenti tra le imprese[x], predisponendo un'analisi complessa ed articolata che tenga conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nella loro interezza e nella correlazione reciproca[xi].
In altri termini, la prova di accordi bilaterali assume valenza sufficiente a dimostrare l'esistenza dell'intesa, non essendo necessario accertare la partecipazione ad ogni singolo episodio contestato dall'Autorità[xii]. Ne consegue allora che un elevato numero di indizi e riscontri, unitariamente considerati, possono costituire la prova di una violazione delle regole di concorrenza solo se manchi una spiegazione alternativa lecita della condotta delle imprese coinvolte[xiii]; in tal caso, grava sulle imprese l'onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti[xiv].
Ancora, la sola partecipazione di un'impresa alle riunioni nel corso delle quali sono stati definiti gli elementi dell'intesa vietata non consente all’impresa in questione di invocare la propria estraneità rispetto alla fattispecie oggetto di sanzione; a meno che essa non si sia manifestamente opposta alla pratica ovvero riesca a dimostrare che la sua partecipazione alle riunioni non si sia connotata di alcuno spirito anticoncorrenziale[xv]. E ciò in quanto si deve presumere che le imprese partecipanti alla concertazione e che rimangono presenti sul mercato tengano conto degli scambi di informazioni con i loro concorrenti per decidere il proprio comportamento sul mercato stesso[xvi], restando così superfluo, al fine dell'an della responsabilità, indagare se il singolo partecipante all'intesa vietata abbia avuto un ruolo maggiore o minore, attivo o meramente passivo[xvii].
Nel caso di specie, l’accertamento in ordine all’esistenza delle due intese emerge dalla circostanza che numerose imprese hanno confessato la propria partecipazione agli illeciti, rendendo all’Autorità dettagliate dichiarazioni, il cui contenuto è confluito nel provvedimento.
Inoltre, tramite l’istruttoria svolta dall’AGCM è stato documentalmente accertata la partecipazione dell’appellante ad un numero significativo di riunioni, specie nel periodo intercorrente dal 1998 al 2013. Nel corso del procedimento l’appellante non ha fornito neppure un principio di prova riguardo alla sua eventuale opposizione alla pratica che si andava in modo evidente delineando. Né può assumere valore il tentativo di creare un discrimen tra i ruoli ricoperti dal responsabile commerciale, per un verso, dipendente dell’impresa appellante e, per altro verso, esponente di spicco del GIFCO, non essendo emerso nessun elemento a supporto di tale ricostruzione.
Neppure il secondo motivo di appello, concernente l’arco temporale della contestata partecipazione dell’appellante all’asserita intesa, può essere accolto. Posto che l’azione di contrasto ai cartelli deve essere effettiva, per il carattere segreto o riservato degli accordi di cartello la prova della c.d. “pistola fumante” è evenienza rarissima. In questo caso, evidenze individualizzanti relative alla partecipazione a determinati segmenti temporali del cartello unitario protrattosi per lungo tempo, in presenza di una mancata dissociazione significativa o della prova positiva di una spiegazione alternativa, sono sufficienti a ritenere concretizzata la prova della partecipazione all’intesa per tutto il periodo individuato dall’Autorità.
Ancora, infondato è il terzo motivo di appello concernente la riqualificazione dell’asserita intesa in termini di abuso di posizione dominante. Al riguardo, la VI Sez. richiama un proprio precedente in cui ha dettagliatamente chiarito come i singoli comportamenti delle imprese devono essere considerati quali «tasselli di un mosaico» e dunque come elementi di una fattispecie complessa, «significativi non di per sé ma come parte di un disegno unitario»[xviii] qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante.
Rispetto ad esso, è sufficiente che l'AGCM tracci - come avvenuto nel caso di specie - un quadro indiziario coerente ed univoco, oltre che privo di salti logici. Viceversa, spetta ai soggetti interessati fornire spiegazioni alternative alle conclusioni tratte nel provvedimento accertativo della violazione concorrenziale; in questo caso, tuttavia, l’ipotesi prospettata dall’appellante appare meramente ipotetica e non suffragata da alcun supporto probatorio.
3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione
Con riferimento al quarto motivo, il Consiglio di Stato giunge ad esiti differenziati in relazione ai singoli profili evidenziati dall’appellante. Anche in questo caso, al fine di meglio inquadrare le questioni sottese, il giudice si preoccupa preliminarmente di riassumere i principi già sanciti dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni.
Innanzitutto, nell'esercizio del proprio potere sanzionatorio l'Autorità persegue un duplice obiettivo: da un lato, un effetto dissuasivo specifico nei confronti delle imprese che si sono rese responsabili di una violazione delle norme in materia di intese; dall’altro, un effetto dissuasivo generale nei confronti degli altri operatori economici dall'assumere o continuare condotte contrarie alle norme di concorrenza[xix]. L'elevato grado di severità che caratterizza le sanzioni Antitrust ne determina la natura sostanzialmente penale delle stesse[xx], sebbene questo non determini un’automatica applicazione di tutti i principi garantistici previsti dal processo penale[xxi]. Per quanto qui d’interesse, la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell'applicazione delle sanzioni penali anche alle sanzioni amministrative punitive[xxii].
L’art. 15, l. n. 287/90[xxiii], ferma la qualificazione dell'illecito come grave ai fini della punibilità con sanzione pecuniaria, consente inoltre al giudice un apprezzamento di gravità in ordine alla graduazione della pena[xxiv]. A tal fine, i provvedimenti dell'Autorità devono recare l'indicazione di una serie di dati come: qualificazione dell'infrazione come grave o molto grave; durata dell'illecito; importo della sanzione per ciascuna impresa; eventuali circostanze attenuanti o aggravanti applicate; rapporto percentuale tra importo della sanzione e fatturato complessivo dell'impresa; eventuali altri criteri di quantificazione utilizzati[xxv].
All’esito di siffatta qualificazione, la determinazione dell'importo della sanzione costituisce espressione di un potere discrezionale dell'Autorità, e ciò in quanto il valore finale della sanzione va determinato assumendo quale principale parametro di riferimento l'effettiva idoneità del quantum della sanzione a tenere conto nel modo più adeguato possibile della specifica gravità della condotta contestata all'impresa[xxvi].
Tanto chiarito, la VI Sez. reputa infondata la doglianza relativa all’illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza. Le intese in questione sono state correttamente considerate segrete, sia perché esse non erano palesate al pubblico sia perché ai fini della prova si è dovuto ricorrere a plurime dichiarazioni dei leniency applicants, oltre che all’acquisizione di documenti come la corrispondenza delle imprese coinvolte, normalmente coperta dal segreto epistolare.
Neppure può essere accolta la tesi secondo cui il provvedimento non avrebbe accertato gli effetti che l’intesa ha prodotto sul mercato, e ciò in quanto le intese hanno un oggetto di per sé vietato e, quindi, sono per loro stessa natura dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, senza che occorra dimostrare in concreto la sussistenza di effetti dannosi sul mercato.
Al contrario, la VI Sez. reputa fondate le censure con cui si lamentano per un verso, la mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti e, per altro verso, i criteri di calcolo della sanzione che si risolvono in una violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e individualità della pena.
Per giungere a tali conclusioni, ricostruisce il quadro normativo vigente in materia, prendendo le mosse dall’art. 11 della l. 689/1981[xxvii] che, al fine di modulare la sanzione in ragione delle specificità del caso concreto, individua come parametri di riferimento «la gravità della violazione, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché la personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
Inoltre, le Linee Guida ai punti 7 e ss. dispongono che la sanzione venga calcolata moltiplicando una percentuale del valore delle vendite determinata in funzione della gravità dell’infrazione, per la durata dell’intesa contestata (espressa in anni, mesi e giorni); l’importo assunto quale base di calcolo è quindi ancorato ad un dato oggettivo. Quest’ultimo importo viene considerato solo per una quota percentuale, fissata in funzione della gravità dell’infrazione e fino alla misura massima del 30% del valore delle vendite; con l’ulteriore precisazione che in presenza di violazioni particolarmente rare tale percentuale non possa essere inferiore al 15%.
In ogni caso, l’importo risultante all’esito del descritto procedimento di calcolo, secondo quanto previsto dal menzionato art. 15 della l. n. 287/1990, non deve eccedere il tetto del 10% del fatturato. Ancora, ulteriori riduzioni sono riconoscibili in applicazione di un programma di clemenza[xxviii] o delle circostanze concrete[xxix].
Nel caso di specie, l’Autorità, sul rilievo dell’indisponibilità di elementi certi circa l’effettivo impatto dell’intesa sul mercato, ha applicato a tutte le partecipanti il predetto valore percentuale minimo del 15%; il quantum così parametrato viene rimodulato (in aumento) in relazione alle responsabilità del singolo operatore, tenuto conto di eventuali circostanze aggravanti/attenuanti rinvenibili nella fattispecie[xxx].
Tuttavia, lo scarto esistente fra il minimo valore percentuale (vale a dire il 15% del coefficiente di calcolo) e il massimo valore percentuale (rappresentato dal 10% del fatturato), determina in concreto un appiattimento della sanzione su quest’ultimo valore, frustrando la ratio della disciplina di settore, astrattamente improntata ad una differenziazione della sanzione in funzione delle specificità delle condotte e dei ruoli imputabili a ciascun singolo operatore[xxxi].
Ne consegue che la ratio sottesa all’art. 15, individuabile nella necessità di contenere l’entità della sanzione entro limiti di sostenibilità finanziaria, se così interpretata limita - quando non esclude - la possibilità di graduare la stessa adeguandola alle effettive responsabilità degli autori delle condotte illegittime. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, una simile discrasia deve essere eliminata, dovendosene fare l’Autorità in sede di ridefinizione degli importi delle sanzioni.
4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali
Le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato con riferimento alla sufficienza di elementi indiziari ai fini dell’accertamento delle intese restrittive della concorrenza non lasciano di certo sorpresi.
Si tratta infatti di un orientamento piuttosto consolidato che, in ragione dei caratteri peculiari degli illeciti anticoncorrenziali[xxxii] – quali lo svolgimento in modo segreto e clandestino, talvolta in territorio estero e con una documentazione in genere piuttosto minimale –, si è interrogato sulle regole probatorie da seguire in ambito procedimentale e in sede di successivo controllo giurisdizionale.
Le principali tematiche affrontate (e risolte) sono state essenzialmente due: la prima, concernente gli elementi necessari per fornire la prova della partecipazione all'intesa anticoncorrenziale; la seconda, relativa agli elementi probatori invocabili dalle imprese a testimonianza della loro dissociazione dalle intese in questione.
Con riferimento al primo aspetto, l’approccio seguito è stato quello di dedurre l’asserita condotta illecita della singola impresa da una valutazione unitaria e complessiva di un significativo numero di indizi e riscontri. Tanto si giustifica proprio in ragione del fatto che gli elementi probatori attestanti in modo esplicito una condotta illegittima sono normalmente frammentari, sporadici, sforniti di taluni dettagli ricostruibili solo in via deduttiva[xxxiii]. Così, sono reputati elementi indiziari, la cui rilevanza deve essere valutata globalmente: l'elevato numero di riunioni e contatti tra le imprese coinvolte, la sostanziale stabilità delle quote di mercato, l'elevato grado di fidelizzazione della clientela, oltre che la confessione proveniente dagli altri soggetti partecipanti all’intesa vietata, riscontrata nel caso di specie.
Per quanto attiene poi al secondo profilo, laddove l’Autorità abbia provato - con le modalità appena indicate - la partecipazione ad una intesa anticoncorrenziale, l’impresa può fornire ulteriori elementi probatori a supporto della propria estraneità all'illecito. In dettaglio, tali elementi si identificano nella dimostrazione di una dissociazione significativa, tale da rivestire i caratteri di una opposizione alla pratica, o nella prova positiva di una spiegazione alternativa.
Su questo fronte, forte è stata l’influenza di quella giurisprudenza sovranazionale che ha elaborato una vera e propria "dottrina della dissociazione pubblica". In base ad essa, l’accertamento non può dirsi avvenuto laddove l’impresa, rispetto alla quale la Commissione abbia provato la condotta illecita, abbia manifestato in maniera inequivocabile la volontà di dissociarsi, portando tale volontà a conoscenza degli altri partecipanti all’accordo[xxxiv].
Un simile rigore si giustifica in ragione del fatto che la sola partecipazione di un'impresa a riunioni aventi un oggetto anticoncorrenziale ha obiettivamente l'effetto di creare o rafforzare l'intesa stessa, nella misura in cui fornisce l’impressione di volersi conformare ad essa. Pertanto, la mera circostanza che l’impresa non abbia dato seguito alle riunioni, né - come nel caso di specie - abbia tratto specifici vantaggi da esse, non è sufficiente ad ad escludere la sua responsabilità, essendo necessario che questa prenda pubblicamente le distanze dal contenuto delle riunioni.
Lungi dal rappresentare un’inversione dell’onere della prova, un approccio del genere si pone nel solco del dettato normativo: la dissociazione può essere dimostrata dall’impresa solo dopo che l’Autorità, assolvendo correttamente al proprio onere probatorio, abbia dimostrato la partecipazione della singola impresa all’intesa vietata; in mancanza, la prova non può dirsi raggiunta.
Si tratterebbe, in altri termini, di configurare un mero alleggerimento dell’onere probatorio posto in capo all’AGCM - anche in ragione della complessità dell’indagine investigativa cui la stessa è tenuta - che, almeno in astratto, appare rispettoso del principio di presunzione di innocenza.
Tuttavia, non è peregrino evidenziare come un siffatto modus agendi, a seconda di come declinato nella prassi, rischi di disattendere il predetto principio proprio in una materia in cui questo assume una particolare rilevanza, non solo per la natura “paragiurisdizionale” delle attività poste in essere delle Authorities, ma anche in ragione del carattere sostanzialmente penale delle sanzioni de quibus.
5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust
In tema di quantificazione della sanzione, al di là del tecnicismo delle norme di settore, il presupposto del ragionamento seguito dal Consiglio di Stato è rappresentato dal riconoscimento della natura punitiva delle sanzioni irrogate dall’AGCM, cui consegue l’estensione di taluni principi propri delle pene in senso stretto.
Più in dettaglio, si tratta dell’adesione alla tesi sostanzialista, elaborata dalla giurisprudenza sovranazionale e ormai ampiamente sdoganata anche in ambito interno, in base alla quale ai fini della individuazione delle “pene” cui applicare le garanzie riconosciute a livello costituzionale e convenzionale, non occorre fermarsi al dato formale ma è necessario esaminare la sostanza delle singole sanzioni. In quest’ottica, il nomen iuris rappresenta solo il primo dei criteri da seguire ai fini del riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione, collocandosi accanto a questo, in un rapporto di alternatività, anche quelli della natura della disposizione punitiva e del grado di severità della sanzione stessa[xxxv].
Nel caso di specie, è stato proprio quest’ultimo il criterio dirimente che in passato aveva portato il Consiglio di Stato a riconoscere la natura punitiva delle sanzioni pecuniarie de quibus[xxxvi], con conseguente applicazione delle garanzie proprie del settore penale.
Ed in particolare, il profilo qui attenzionato dal Consiglio di Stato è quello della proporzionalità della sanzione amministrativa, già oggetto di riconoscimento da parte del giudice amministrativo[xxxvii], in aderenza alla linea interpretativa seguita dalla Consulta.
Al riguardo, ebbene precisare che il principio in esame è da tempo applicato nel diritto amministrativo, anche grazie al contribuito interpretativo della Corte di Giustizia che lo ha elevato al rango di principio generale del diritto comunitario[xxxviii].
Nel diritto nazionale, tale principio ha assunto una particolare valenza all’indomani della l. 15/2005 che, incidendo sul testo dell’art. 1 della l. 241/1990, ha assoggettato l’attività amministrativa al rispetto di tutti i principi procedimentali di diritto comunitario[xxxix]. In conseguenza della novella, il rispetto del principio di proporzionalità è stato evocato dalla giurisprudenza italiana in maniera costante in diversi settori, dalla materia ambientale, alla concorrenza, al commercio, agli appalti pubblici e alle sanzioni[xl].
Purtuttavia, allorquando vengano in considerazione sanzioni sostanzialmente penali, il medesimo principio si declina in termini diversi e più pregnanti, non dissimili da quelli che lo connotano nel diritto penale.
È questa la conclusione cui è giunta qualche anno fa la Consulta che ha esteso il principio di proporzionalità – inteso in senso forte – alle sanzioni sostanzialmente penali, ammettendo così un sindacato condotto secondo uno schema autonomo, vale a dire sganciato dal raffronto con un tertium comparationis e reso possibile in virtù dell’applicazione dell’art. 49, par. 3 Carta di Nizza[xli].
Tali approdi sono fatti propri dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che, in sede di ricognizione dei principi enunciati dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni, richiama un proprio precedente il quale, a sua volta, fa rinvio alla sentenza della Corte Costituzionale[xlii].
L’interesse per la sentenza, pertanto, deriva anche dalla circostanza che la stessa conferma il ruolo attivo svolto dal giudice amministrativo nel processo di assimilazione tra la figura delle sanzioni amministrative e quella delle sanzioni penali, in adesione al filone sostanzialista inaugurato da Strasburgo e in linea di continuità con l’orientamento patrocinato dalla Corte Costituzionale.
[i] In dettaglio, si allude al provvedimento n. 2784 adottato nell’adunanza del 17 luglio 2019.
[ii] Cfr. delibere AGCM del 5 luglio 2017, del 5 dicembre 2017 e del 9 maggio 2018.
[iii] Cfr. delibera AGCM del 31 ottobre 2018.
[iv] Nello specifico, costui avrebbe agito al fine di incentivare il proprio prestigio all’interno del Gruppo Italiano Fabbricanti Cartone Ondulato – GIFCO di cui era stato membro del Consiglio Direttivo per più di un decennio.
[v]In particolare, tale partecipazione non si estenderebbe a tutto il periodo compreso dal 5.11.2009 al 30.3.2017 come asserito nella sentenza impugnata, ma al più dal 2011 (data a partire dalla quale nei file ci sarebbe prova della partecipazione alle riunioni dell’impresa appellante) al 20.10.2015 (data di morte del responsabile commerciale per il cui tramite si ritiene che l’appellante abbia preso parte alle intese).
[vi] A sostegno di questa ricostruzione, vengono allegate una serie di circostanze, quali: vantaggio economico concentrato nelle sole imprese in posizione dominante; convenienza dell’intesa immaginata dall’AGCM unicamente per le grandi imprese titolari di più stabilimenti e non anche per quelle dotate di un unico stabilimento come l’appellante; mantenimento di una politica autonoma da parte dell’appellante.
[vii] Nella specie, documenti ad uso interno o scambi di mail intercorsi tra le parti e non conoscibili all’esterno.
[viii] Per superare questa aporia, l’appellante ha proposto una interpretazione alternativa della norma, in base alla quale il limite di cui all’art. 15 della l. n. 287/1990 deve essere inteso come massimo edittale in senso proprio, tale da imporre all’AGCM di determinare l’importo della sanzione entro il massimo di legge anche nei passaggi di calcolo intermedi.
[ix] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[x] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[xi] Cons. Stato, Sez. VI, 03/01/2020, n. 52.
[xii] Cons. Stato, Sez. VI, 02/09/2019, n. 6022.
[xiii] Cons. Stato, Sez. VI, 14/01/2019, n. 321.
[xiv] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n. 4123.
[xv] Cons. Stato Sez. VI, 02/07/2015, n. 3291.
[xvi] Cons. Stato, Sez. VI, 24/10/2014, n. 5274.
[xvii] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2014, n. 4506.
[xviii] Cons Stato, Sez. VI, 01/06/2016, n. 2328.
[xix] Cons. Stato, Sez. VI, 15/07/2019, n. 4990.
[xx] Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164, Corte di Giustizia dell'Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08.
[xxi] Cons. Stato, Sez. VI, 10/07/2018, n.4211.
[xxii] Cons. Stato sez. VI, 09/06/2022, n. 4696.
[xxiii] Art. 15, comma 1-bis: «Tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o associazione di imprese nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione. Se l'infrazione commessa da un'associazione di imprese riguarda le attività dei suoi membri, l'Autorità dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento della somma dei fatturati totali a livello mondiale realizzati nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida di ciascun membro operante sul mercato interessato dall'infrazione commessa dall'associazione. Tuttavia, la responsabilità finanziaria di ciascuna impresa riguardo al pagamento della sanzione non può superare il 10 per cento del fatturato da essa realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida».
[xxiv] Cons. Stato, Sez. VI, 24/06/2010, n. 4013.
[xxv] Cons. Stato, Sez. VI, 20/05/2011, n. 3013.
[xxvi] Cons Stato, Sez. VI, 26/03/2020, n.2111.
[xxvii] Applicabile in virtù del rinvio che l’art. 31 della l. n. 287/1990 compie alle disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689.
[xxviii] V. art. 30 Linee Guida.
[xxix] V. art. 34 Linee Guida.
[xxx] Sulla scorta di quanto previsto dall’art. 25 delle Linee Guida.
[xxxi] Circostanza del resto confermata anche dal provvedimento impugnato, nella parte in cui la stessa AGCM precisa che le sanzioni applicate alle imprese partecipanti «eccedono per la maggior parte delle aziende coinvolte, il limite massimo previsto dall’art. 15, comma 1, della legge n. 287/1990». In altri termini, il beneficio del tetto massimo riconosciuto ad ogni azienda si determina in funzione dell’entità dello scostamento della sanzione (calcolata come sopra descritto) dal tetto legale, determinando il paradossale risultato che maggiore è la gravità della condotta, maggiore può rivelarsi il vantaggio che il trasgressore ricava.
[xxxii] Per un’analisi più approfondita della materia, si rinvia a A. PAPPALARDO, Il diritto comunitario della concorrenza - Profili sostanziali, Utet, Torino, 2007.
[xxxiii] In tal senso, oltra ai precedenti più recenti citati nella parte motiva della sentenza in commento, v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2008, n. 424 in cui, per la prima volta, vengono chiariti i criteri di valutazione del giudice amministrativo in ordine all'assolvimento da parte dell'AGCM dell'onere probatorio circa l'esistenza di un'intesa.
[xxxiv] Sul punto, v. in Corte di Giustizia, sentt. 8 luglio 1999, causa C-199/92, Huls/Commissione, pt. 155 e causa C-49/92 Commissione/Anic Partecipazioni, pt. 96.
[xxxv] In argomento si rinvia, ex multis, a F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Giappichelli, Torino, 2015, 4; V. MANES, Profili e confini dell’illecito para-penale, Rivista Italiana Di Diritto E Procedura Penale,2017, p. 988.
[xxxvi] V. Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164 secondo cui «Questa disposizione [art. 6 CEDU] si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. […] Nella la fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare al grado di severità della stessa ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale».
[xxxvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696, ove si legge che «Tale conclusione, oltre che più aderente alla lettera della legge, appare anche in maggior sintonia con i recenti approdi della giurisprudenza volti a salvaguardare i principi di adeguatezza e proporzionalità della sanzione, i quali implicano necessariamente che la situazione economica della società, di cui l’Autorità deve tenere conto, e i dati utilizzati per il calcolo della sanzione siano, se non concomitanti, quanto meno temporalmente prossimi alla data di irrogazione della stessa».
[xxxviii] Cfr., ex multis, C.giust. 18 novembre 1987, causa C-137/85, Maizena e a., Id., 16 ottobre 1991, causa C-24/90, Hauptzollamt Hamburg-Jonas c./Werner Faust offene Handelsgesellschaft Kg secondo cui «per stabilire se una disposizione di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità è necessario controllare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a realizzare lo scopo perseguito, senza andare oltre quanto è necessario per raggiungerlo [...] fermo restando che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva».
[xxxix] Per una disamina più approfondita del principio di proporzionalità nel diritto amministrativo si rinvia, fra gli altri, a A.M. SANDULLI, voce Proporzionalità, in S. CASSESSE (diretto da) Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4643 e ss; ID., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 37 e ss.; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; TRIMARCHI BANFI F., Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2016, p. 361.
[xl]Esemplificativa è Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087 ove viene precisato che «il principio di proporzionalità […] si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, sia con atti normativi, sia con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario, in misura superiore, cioè sproporzionata, a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all'obiettivo da perseguire, e necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile» Nel medesimo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2670/01; Id., 5714/02; Id., Sez. VI, 1 aprile 2000, n. 1885.
[xli] Si allude a Corte Cost. sent. 10 maggio 2019, n. 112 che, riconoscendo la natura punitiva della misura prevista dall’art. 187-sexies t.u.f., ne ha dichiarato la incostituzionalità nella parte in cui prevede la confisca dell’intero «prodotto» di operazioni finanziarie illecite e dei «beni utilizzati» per commetterle, anziché del solo «profitto» ricavato da queste operazioni.
[xlii] Il riferimento è alla già menzionata Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696 che chiarisce «Deve infatti ricordarsi che la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell’applicazione delle sanzioni penali – che impone la necessaria personalizzazione della pena alla luce della oggettiva gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato in attuazione del principio di personalità della responsabilità penale ai sensi dell’art. 27 Cost. – anche alle sanzioni amministrative punitive (sentenza n. 112 del 2019, cfr. anche Consiglio di Stato, 25 giugno 2019, n. 4335: “l’importo dell’ammenda deve rimanere comunque proporzionato, oltre che all’infrazione anche e in ogni caso alla situazione economico-finanziaria del soggetto che se ne ritenga responsabile”)».
È disponibile qui il terzo fascicolo del 2023 di Giustizia Insieme:
Con i contributi di Cristiano Valle, Anna Madarasi, Antonio Musella, Nasa Isihii, Giacomo Fumu, Angelo Costanzo, Sibilla Ottoni, Simone Benvenuti, Simone Pitto, Leonardo Pierdominici, Marcello Basilico, Giulia Battaglia, Paola Filippi, Morena Plazzi, Tomaso Epidendio, Giuliano Scarselli, Barbara Spinelli, Aldo Schiavello, Pier Virgilio Dastoli, Federico Cappelletti, Maria Teresa Covatta, Fulvio Vassallo Paleologo.
Editoriale
Allargare il dialogo di Sibilla Ottoni
La Rivista ha inaugurato nel 2023 una nuova Voce dedicata all’attualità giuridica estera, alla comparazione, al dialogo con giuristi ed intellettuali di altri ordinamenti.
Il dibattito culturale sulla giustizia non può infatti restare confinato nel perimetro di un solo sistema, quando i grandi temi che lo animano sono ormai definitivamente globali: l’impatto delle crisi finanziarie, gli squilibri socioeconomici che muovono masse di umanità migrante, la questione climatica, le questioni bioetiche connesse all’emergere di nuovi diritti. Si tratta di questioni che travalicano ogni frontiera, ma che ciascun paese metabolizza a suo modo, anche in contrapposizione con gli altri, sicché tali fenomeni operano come correnti atmosferiche capaci di addensare perturbazioni geopolitiche o, al contrario, di aprire spazi di convergenza ideologica e programmatica.
Anche sui temi apparentemente domestici, poiché inerenti la normativa nazionale, vi è un interesse intrinseco nel confronto con altri ordinamenti, che risiede già solo nella possibilità che da ciò emergano problematiche comuni, e nel conseguente arricchimento che può trarsi dalle diverse soluzioni prospettate. In tal senso, la comparazione non è soltanto un’abitudine mentale alla curiosità e all’ascolto, ma anche un irrinunciabile metodo giuridico, che consente di prendere distanza e di guardarsi dal di fuori, uno strumento che attraverso il confronto accende una luce diversa, permette e così impone di cambiare prospettiva.
E poi esiste, specularmente, l’arricchimento che si trae dalla riflessione su questioni apparentemente lontane, lontane almeno nei termini in cui si pongono, sicché l’urgenza con cui affiorano altrove diventa spunto di nuova riflessione rispetto al loro atteggiarsi nel dibattito interno. La questione femminile, l’equilibrio tra poteri ed il rapporto tra potere religioso e potere temporale, la democrazia, la stessa libertà di pensiero e di parola. La riflessione su questi temi ci scuote dal profondo, perché ci impone di tornare a interrogarci su alcuni elementi fondanti della nostra cultura non soltanto giuridica, di non darli per scontati, di chiederci ancora, e ancora, se determinati approdi possano mai dirsi definitivamente acquisiti.
Il dialogo, come l’etimo impone, è tanto più proficuo quanto più variegate sono le posizioni dei soggetti tra cui il discorso corre, il confronto è tanto più utile quanto più eterogenei sono gli elementi che si tengono insieme, uno di fronte all’altro, in una complessiva riflessione. Con la Voce Diritti Stranieri, Giustizia Insieme idealmente accoglie nel proprio discorso altri sguardi e altre voci, vicini e lontani, da guardare e ascoltare e attraverso i quali guardarsi e ascoltarsi.
Tra i tanti temi trattati nel corso dell’anno, tre in particolare hanno aperto ad un confronto particolarmente ricco e approfondito che vale la pena ripercorrere con un accenno di sistematicità.
Il primo tema è quello dell’accesso alla magistratura. La diversità dei modelli esistenti è stata posta a confronto attraverso le testimonianze di colleghi, italiani e stranieri, con contributi destinati ad arricchirsi in futuro. Questo confronto è stato lo spunto per riflettere sul sistema italiano, sulle tante istanze di riforma che lo hanno interessato e che lo interessano attualmente, onde chiedersi quale magistrato si intenda chiamare ad amministrare la giustizia; quale giustizia quindi, ossia quale servizio giustizia, quale modello culturale di amministrazione della giustizia; infondo, quale cultura giuridica.
Un secondo tema affrontato nel corso dell’anno in modo trasversale è stato quello delle riforme della giustizia in alcuni Paesi, a noi più o meno vicini culturalmente, di recente interessati da evoluzioni normative che aprono scenari inquietanti. Ne emerge un quadro impattante sulla fragilità di alcuni baluardi, sul loro valore fondante, sulle insidie degli atteggiamenti culturali che mirano ad indebolirli progressivamente prima di assestare il colpo. L’occasione è stata colta per portare questa consapevolezza nell’analisi delle istanze di riforma domestiche, che muovono in una direzione non auspicabile, tanto da aver spinto la magistratura italiana allo sciopero del 16 maggio 2022, volto a denunciare i tanti condizionamenti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura introdotti da una riforma che, pur senza modificarle, “scolora le norme costituzionali, ne fiacca i principi”, come ha scritto un nostro autore.
Infine, è stato affrontato il tema del rispetto dei diritti umani, analizzando alcune delle situazioni più problematiche e sensibili dello scenario geopolitico attuale. Tutte ci toccano da vicino, per quanto alcune di esse possano apparirci distanti in modo falsamente rassicurante. Tutte parlano alle fondamenta della nostra cultura, tutte ci chiamano in causa, alcune in modo diretto. Come la questione migratoria, rispetto alla quale sarebbe non solo miope, ma intellettualmente disonesto guardare soltanto al segmento che ci riguarda anche ufficialmente, giuridicamente e geograficamente. Semplificazioni e mistificazioni che il metodo comparato definitivamente smaschera, costringe ad abbandonare.
Una precisazione è doverosa: i contributi qui raccolti non sono necessariamente aggiornati alle più recenti novità normative, trattandosi di una raccolta di scritti già pubblicati in momenti diversi. L’interesse del quadro d’insieme che ne emerge, infatti, non risiede nella stretta attualità di ciascun saggio, bensì nelle interconnessioni tra le tematiche trattate, nella luce che le une accendono sulle altre, nella complessità del disegno e nella pluralità delle chiavi di lettura che tale complessità richiede.
Una precisazione è doverosa: i contributi qui raccolti non sono necessariamente aggiornati alle più recenti novità normative, trattandosi di scritti già pubblicati in momenti diversi nel corso del 2023. L’interesse del quadro di insieme che ne emerge non risiede, del resto, nella stretta attualità di ciascun saggio, bensì nelle interconnessioni tra le tematiche trattate, nella luce che le une accendono sulle altre, nella complessità del disegno e nella pluralità delle chiavi di lettura che tale complessità richiede.
In questo nuovo lavoro di saggista, Umberto Apice ci invita a viaggiare nel vastissimo mondo della letteratura e del diritto. Il mondo, premette l’a., è quello di Leonardo Sciascia fotografato nella frase in esergo: la libertà, la dignità umana, il rispetto reciproco dipendono dal «problema della giustizia». La giustizia è al centro dell’esperienza umana, ma da sempre si pone in termini di “problema”. Mentre tutti noi vorremmo che la giustizia offrisse soluzioni, cioè risoluzioni dei conflitti che la confusione delle fonti, l’inadeguatezza dell’azione amministrativa, la diffusione dei comportamenti contrari alle regole non possono che moltiplicare. Se la giustizia è davvero un problema, e non da ora, possiamo forse dire che, tuttora, non abbiamo ben capito come possa essere risolto.
Il viaggio organizzato compie numerose fermate incontrando autori che vanno dai classici greci ai contemporanei, ognuno dei quali viene chiamato a dare il proprio piccolo o grande contributo in un dibattito che non finisce e non è destinato a finire, perché è legato alla nostra evoluzione. Che una fermata venga preferita ad altra è soltanto questione di gusto: personalmente, vedo il cuore della trattazione nel cap. 3, dedicato a L’arte del giudicare, e nel cap. 4, dedicato a Il processo tra senso e non-senso, ove i riferimenti vanno dall’Antico Testamento (Re Salomone) sino al processo forse a un tempo più famoso e misterioso: quello in cui Ponzio Pilato formulerà la domanda drammatica che dovrebbe essere scolpita in ogni aula di giustizia – quid est veritas?
È certamente la mia una predilezione anzi, forse, un vizio da processual-civilista perché il volume, che giustamente parla di diritto e di processi, e quindi non soltanto di processo e men che mai di solo processo civile, affronta a più riprese tematiche che, nel nostro linguaggio specialistico forse un po’ deformante, diremmo di natura sostanziale: il lavoro, la condizione femminile, il carcere, il diritto di punire e molto altro. Qui la giustizia non può che essere percepita come problema, anzi come problema, appunto, che non si risolverà mai una volta per tutte. Se il giudizio, il travaglio e la ritualità della decisione sono ciò che invariabilmente più attira il lettore, va riconosciuto nel processo, in ogni processo, un che di patologico perché, se i comportamenti di tutti fossero senza eccezioni conformi a diritto, dei processi non si avvertirebbe proprio il bisogno. E invece, nel nostro Paese i contenziosi crescono costantemente – si dice più che altrove – e non c’è ufficio giudiziario che non si senta preso d’assedio al punto che le parole d’ordine, non da ora, sono smaltimento e respingimento. La ribellione al diritto, dobbiamo pensare, è ormai un problema endemico più forte del rimedio; ed è certo singolare che uno dei più potenti volani di contenzioso sia generato non dai privati ma dalla pubblica amministrazione, la cui azione dovrebbe ispirarsi al principio di legalità.
Al termine del viaggio che Apice ci propone, scegliendo le fermate e cioè le opere da visitare ognuna delle quali ha il suo commento critico, il lettore avrà percepito con chiarezza quanto stretti siano i legami tra la letteratura – quella senza tempo così come quella legata alla cronaca – e il progresso della società, cioè su quello che Sciascia chiamava «il rispetto tra uomo e uomo». La letteratura, scrive Apice, ha una “funzione umanizzante”, una funzione etica, che si riferisce specialmente a chi per mestiere è chiamato ad amministrare la giustizia. E sembra quasi bizzarro che si parli di questa funzione umanizzante proprio nel momento in cui uno dei temi all’ordine del giorno è la possibilità che la giustizia sia prodotta dalle macchine, dagli algoritmi.
Il volume si snoda per itinerari così vari e complessi che risulta non sempre facile mantenere la giusta visione d’insieme; forse, una traccia può essere suggerita dalle parole della Introduzione – che di norma, e credo anche in questo caso, è l’ultima fatica dell’autore – laddove si dice che la letteratura è libertà di espressione e, invariabilmente, ricerca della verità. Quando occorre, e occorre spesso, è anche atto di denuncia contro le incoerenze e le deformazioni di una società in costante trasformazione. La parola della letteratura e quella del diritto hanno in comune, dice Apice, di essere «un mezzo per arrivare allo svelamento della verità».
Al giurista attuale, la concezione del processo (parliamo sempre di quello civile) come strumento di ricerca della verità, al centro del quale Apice pone il giudice «con le sue miserie, i suoi dubbi, la sua insoddisfazione», può apparire – si perdoni il gioco di parole – quasi un fatto letterario. Le esigenze di giustizia della società attuale non sono quelle anche soltanto di qualche lustro fa: è evidente che le strutture esistenti non possono reggerne l’impatto, servono ripensamenti dell’organizzazione, dall’ultimo giudice di pace sino alle Sezioni Unite della Cassazione.
Se la giustizia è un problema, al centro di questo problema, ripetiamo, è la pubblica amministrazione con le sue intollerabili inefficienze: il contenzioso tributario, il lavoro pubblico, i conflitti con le imprese ne sono testimonianza; spesso il cittadino, come il piccolo imprenditore, si trova disarmato dinanzi a un “mostro” che dal canto suo sembra poter tollerare qualsiasi ritardo e immobilismo, in una società dove tutto accade sempre più velocemente. In cui non esistono più riserve di ricchezza e il mancato rispetto di un impegno contrattuale può mettere in difficoltà anche un’impresa solida. Possiamo dire che l’amministrazione è la prima nemica dell’amministrazione della giustizia, con il che il discorso sembra aggrovigliarsi su sé stesso.
Negli ultimi anni, grazie alla diffusione dei modelli economici si vanno affermando concezioni efficientistiche della giustizia: e quasi perdendo di vista che il fenomeno della crescita dei contenziosi è prodotto dal parallelo fenomeno del mancato rispetto del diritto (civile tra privati, amministrativo nel rapporto tra amministrazione e cittadini), si vuole che i processi durino poco, che vengano smaltiti con sempre maggiore rapidità all’esito di accertamenti sempre più sommari, che vengano respinti, specie nelle fasi di gravame, ove non presentino caratteristiche di meritevolezza che le corti sono chiamate a scrutinare in base a presupposti non chiari e non prevedibili. Si tende a non interrogarsi né sulle cause generatrici dei contenziosi, né sulla qualità della risposta che gli uffici giudiziari danno alla c.d. “domanda di giustizia”.
Il giudizio di primo grado, ispirato a preclusioni assertive e probatorie e purtroppo non scevro da inutili formalismi, premia la celerità sulla ricerca della verità. Le impugnazioni (soprattutto appello e cassazione) conoscono sbarramenti di inammissibilità che spesso precludono l’esame del merito: che è quanto dire, ancora una volta, la ricerca della verità. Si ha l’impressione che la procedura si avviti su sé stessa, come se il giudizio fosse sul processo e non sul diritto. Kafka ha parlato del processo penale, ma nel processo civile attuale non si sentirebbe certo a disagio.
Affermare, oggi, che il processo civile ricerca o afferma la verità è fortemente dubbio, molto più dubbio che in passato. Stritolata dai meccanismi e dalle ideologie dell’economia, la giustizia è divenuta una variabile indipendente dalla verità, e in pochi sembrano preoccuparsene.
Se risulta attendibile il parallelo tra letteratura e giustizia, dobbiamo allora concludere che la giustizia, per come ora amministrata, sta perdendo il suo carattere etico, o, forse meglio, si sta trasformando in uno strumento che aspira all’efficienza ma che al tempo stesso può tranquillamente fare a meno della verità, per rispondere a tecnicismi e rituali inutilmente autoreferenziali.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.