ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Il tema oggetto del convegno odierno – ossia il ruolo prospettico del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria nel nuovo sistema di giustizia tributaria – non è stato esplorato come meritava nel corso delle molteplici iniziative dedicate, nell’ultimo anno, alla riforma varata dalla Legge 31 agosto 2022, n. 130.
Meritava maggiore attenzione e approfondimenti perché di quest’ultima riforma “epocale” costituisce – a mio avviso – il perno centrale: infatti – per le ragioni che cercherò in sintesi di illustrare – il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione dipende eminentemente dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova magistratura tributaria.
2. La riforma della giustizia tributaria, seppur “epocale”, risente fortemente della pressione temporale determinata dalla sua origine (ossia la necessità di raggiungere, nei rigidi termini fissati, gli obiettivi del PNRR) e, per ciò, è finita col risultare una riforma “timida” e “parziale”, negli aspetti problematici che ha affrontato, e “incompiuta” e fonte di “criticità”, per altri aspetti altrettanto urgenti e centrali dell’assetto della giustizia tributaria che non sono stati affrontati o sono stati affrontati con soluzioni di compromesso inappaganti.
Limitandomi ai profili ordinamentali, vediamo, dapprima, perché la riforma è “epocale”, e poi, in relazione alle modifiche di maggiore rilevanza, perché è anche “parziale” e “incompiuta” (e, per l’effetto, intrisa di criticità), tratteggiando il ruolo che il CPGT è chiamato ad assumere nell’attuale assetto per garantirne resistenza (se non la stessa esistenza).
3. La riforma è “epocale” perché ha determinato la nascita nel nostro ordinamento della c.d. quinta magistratura (che si affianca a quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare), composta da giudici tributari: 1) professionali, 2) selezionati per concorso e 3) qualificati espressamente “magistrati tributari” dalla legge processual-tributaria (cfr. art. 1-bis del d.lgs. n. 545/1992)
La creazione di una vera giurisdizione speciale tributaria era attesa in Italia da circa 160 anni.
E infatti, fin dall’unità d’Italia gli organi investiti di competenza a conoscere le controversie tributarie, le “Commissioni Tributarie”, hanno dato vita a vere e proprie eccezioni rispetto al sistema giurisdizionale nel suo complesso, e rispetto al sistema di giustizia nei confronti degli atti della pubblica amministrazione in particolare.
Sfuggite alla generalizzata abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo degli Stati preunitari (realizzata con la storica legge n. 2248/1865 allegato E, per effetto della clausola di salvezza contenuta nell’art. 12 di essa), le Commissioni Tributarie hanno passato indenne anche l’introduzione della Costituzione repubblicana, per effetto di una lettura conservativa che la Corte Costituzionale ha offerto della VI disposizione finale, nel senso che i giudici speciali preesistenti non dovessero essere necessariamente aboliti, ma semplicemente riorganizzati.
Tale riorganizzazione tuttavia non avvenne, al punto che alcune pronunce della Corte Costituzionale hanno addirittura negato alle Commissioni tributarie il carattere di veri e propri giudici, ciò che avrebbe privato l’intero comparto tributario della presenza di un giudice in senso tecnico, facendo tornare la situazione alla condizione preunitaria, quando il rapporto tra il cittadino e l’amministrazione non poteva essere conosciuto da un giudice terzo e imparziale, ma soltanto da organi interni alla stessa amministrazione.
Tra gli anni ’70 e ‘90 vi è stata una miniriforma (quella di cui al d.P.R. n. 636/1972 e, poi, al d.lgs. n. 545/1992) che è stata ritenuta sufficiente per riabilitare le “Commissioni” come giudici speciali, con la conseguenza che esse si sono conservate sostanzialmente indenni con le loro radici nei sistemi preunitari.
Ciò ha comportato che, fino all’attuale riforma, le controversie aventi ad oggetto la legittimità e la fondatezza degli atti impositivi sono state decise nei gradi di merito da giudici che meritoriamente hanno svolto – e continueranno a svolgere finché la nuova riforma non entrerà a pieno regime – l’attività giudiziale nel tempo libero da altri impegni, e incardinati in una struttura organizzativa del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Quest’assetto si è tradotto in una eccessiva attenzione della giustizia tributaria verso le istanze provenienti dall’Amministrazione finanziaria, anche formali: a quest’ultimo proposito basta menzionare le circolari del MEF che indicavano ai giudici di merito gli orientamenti da assumere su certe questioni e, da ultima, a quanto mi risulta, quella contenente la direttiva di non concedere le sospensive cautelari.
La mancanza di giudici tributari professionali di merito ha generato conseguenze anche nel giudizio di legittimità: in cassazione, infatti, la materia tributaria è trattata da magistrati ordinari, e dunque professionali, ma che nella loro vita giudicante si sono trovati, nella maggior parte dei casi, a trattare tutt’altre materie ed erano privi di esperienza specifica in materia tributaria.
4. La legge di riforma ha risolto le problematiche illustrate solo in misura “parziale”, finendo addirittura con l’accentuare talune criticità pregresse, tanto che – come tutti sappiamo – lo scorso 31 ottobre la Corte di Giustizia tributaria di I grado di Venezia (ordinanza n. 408/1/22) ha già chiesto l’intervento e il vaglio delle nuove norme introdotte dalla riforma da parte della Corte Costituzionale.
Cos’è stato fatto dalla riforma è noto a tutti.
Ha previsto – come detto – l’introduzione di magistrati tributari professionali e a tempo pieno,
la selezione dei nuovi giudici tributari per concorso pubblico annuale bandito dal MEF, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza, ma anche quelli in economia, in nome (formalmente) dell’elevato tecnicismo della materia tributaria.
Nell’anno 2029, a regime, il numero complessivo dei magistrati tributari è previsto in 576 unità (numero che, invero, mi sembra molto limitato se la mole di lavoro dei giudici tributari rimane quella attuale: si consideri che gli attuali giudici tributari onorari sono 2.300 circa e, notoriamente, sono in affanno) e il loro trattamento economico è, ora, equiparato a quello dei giudici ordinari.
Gli organi giudicanti non si chiamano più “Commissioni tributarie”, ma “Corti di Giustizia tributaria”, a segnalare la nuova, piena natura “giurisdizionale” (che sarebbe stata segnalata in modo sicuramente più appropriato dall’uso di “Tribunali tributari”, espressione vagliata dalla commissione di riforma ma ingiustificatamente respinta per volere di una parte dei suoi componenti).
Se questo è, in sintesi, ciò che è stato fatto, vi sono limiti, mancanze e criticità che la rendono – come detto – una riforma “parziale” e “incompiuta”.
4.1. Innanzitutto, la riforma non prevede l’accesso dei magistrati tributari di carriera alla Suprema Corte, limite, questo, presente fin dalle prime bozze della riforma e divenuto invalicabile nel testo definitivo per la prevista possibilità di avere giudici tributari con laurea in economia.
Nel nuovo assetto riformato avremo magistrati tributari di merito con una formazione specialistica, le cui sentenze saranno vagliate da una Suprema Corte costituita in netta prevalenza (tolti i giudici di legittimità che, fino ad oggi, hanno operato anche nei gradi di merito) da magistrati privi di una formazione altrettanto specialistica, per le ragioni che ho detto all’inizio.
La situazione è aggravata da altre due previsioni a regime:
- per la prima, i magistrati di cassazione non possono più essere anche giudici delle nuove Corti tributarie, con conseguente perdita di questa fonte di apprendimento sul campo della materia tributaria;
- i magistrati ordinari che decidono di optare per la magistratura tributaria non possono tornare indietro, precludendosi così la possibilità di accedere alla Corte di Cassazione, dove potrebbero portare (se potessero rientrare nella magistratura ordinaria) la preparazione tecnica specificamente acquisita quali giudici delle Corti tributarie di merito.
Insomma, si crea un giudice tributario di merito professionale e specializzato, ma si lascia la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, istituita dalla stessa legge di riforma (art. 3, L. n. 130/2022), in mano a giudici ordinari provenienti da altre sezioni, e dunque, in principio, non specializzati.
E ciò in un contesto – qual è quello attuale – in cui la giurisprudenza di legittimità ha assunto un ruolo para-legislativo, con orientamenti che stanno assumendo, de facto, valore di “precedente vincolante” come nei sistemi di common law.
4.2. Ma vi è un’ulteriore mancanza che rende assai critico l’assetto ordinamentale varato: non è stato reciso il legame col Ministero dell’Economia e delle Finanze, che anzi è divenuto ancora più forte e penetrante, mettendo a serio rischio indipendenza, terzietà e autonomia dei nuovi magistrati tributari.
Il problema esisteva già prima ed è noto a tutti.
La giustizia tributaria ha fatto sempre capo gerarchicamente al MEF, e non al Ministero della Giustizia o alla Presidenza del Consiglio, ossia al Ministero che, tramite la gestione dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, è titolare dei rapporti di debito-credito oggetto della maggior parte delle controversie tributarie, con il cortocircuito che le cause tributarie sono state decise da un giudice incardinato nella struttura organizzativa di una delle parti in causa.
La riforma ha aggravato la situazione, portandola, forse, a un punto di rottura.
Adesso:
- i nuovi magistrati tributari sono formalmente “dipendenti” del MEF,
- il concorso è bandito con decreto del MEF, che gestisce le procedure concorsuali;
- la nomina a magistrato tributario dei concorrenti risultati vincitori avviene con decreto del MEF, che ha totale competenza in ordine allo status giuridico ed economico dei magistrati tributari;
- il MEF, tramite un’apposita Direzione, supporta l’Ufficio ispettivo che è stato istituito presso il CPGT;
- il nuovo Ufficio del Massimario Nazionale, istituito sempre presso il CPGT, deve avvalersi delle risorse e dei servizi del MEF, e le massime elaborate devono alimentare la banca dati della giurisprudenza tributaria di merito gestita dal MEF.
4.3. In questo nuovo contesto si può ancora affermare che la giustizia tributaria è autonoma, terza e indipendente?
Questa domanda se l’è posta anche la Corte di giustizia tributaria di I grado di Venezia, che, con l’ordinanza n. 408 del 30 ottobre 2022, ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale e di compatibilità con l’art. 6 della CEDU (che prevede una serie di garanzie in tema di equo processo) delle nuovissime norme sulla magistratura tributaria.
Nell’ordinanza di rimessione, i giudici tributari veneti hanno sottolineato le differenze che derivano dal nuovo assetto ordinamentale, denunciando che – se in occasione della precedente ordinanza della CTP di Reggio Emilia dichiarata inammissibile si poneva una questione di “apparenza” di indipendenza – oggi si pone una questione di indipendenza tout court, alla luce delle circostanze evidenziate (rapporto di lavoro dipendente con il MEF in esclusiva, con gestione completa dello status giuridico ed economico dei magistrati, ecc.).
Non credo, per evidenti ragioni, che la Corte Costituzionale giungerà a demolire la nuova disciplina della giustizia tributaria, ma sarebbe dovere del legislatore rispondere alle domande poste con l’ordinanza di rimessione. E basterebbe poco: una legge che ponga la giustizia tributaria sotto l’ombrello gerarchico del Ministero della giustizia o, meglio ancora, della Presidenza del Consiglio.
5. Se questo è il quadro generale, il ruolo del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria è cruciale nel contesto della giustizia tributaria riformata, essendo evidente che solo un CPGT forte e autonomo può tamponare il vulnus ai principi di terzietà e indipendenza che l’attuale assetto della giustizia tributaria si presta a generare.
Rispetto al passato, il CPGT è chiamato a realizzare un netto cambio di passo.
In presenza di una compenetrazione così forte tra gli organi di giustizia tributaria e il MEF – e non essendo verosimile immaginare (per motivi che tutti conosciamo) la trasmigrazione della giurisdizione tributaria sotto il Ministero della Giustizia o la Presidenza del Consiglio, su iniziativa del legislatore o come conseguenza di un intervento della Corte Costituzionale – è ben evidente che solo un CPGT robusto, resistente e autorevole, che esercita appieno e senza timore reverenziale le prerogative concesse dalla legge, può garantire l’indipendenza effettiva dei giudici tributari (che è prevista dall’art. 108, secondo comma, Cost. anche per i giudici speciali) – e l’equilibrio generale del nuovo “sistema” della giustizia tributaria: nel nuovo contesto, e in breve, il CPGT deve ergersi a “barriera invalicabile” (utilizzando la felice espressione dell’attuale Presidente Antonio Leone) tra i magistrati tributari (che soggiacciono e devono soggiacere soltanto alla legge, come prevede icasticamente l’art. 101 della nostra Costituzione) e il MEF (loro datore di lavoro e, insieme, parte in causa!).
È per queste ragioni che – come ho detto in apertura – è dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova “magistratura tributaria” che dipende il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione, nella prospettiva di un ritrovato equilibrio sostanziale tra l’interesse di parte pubblica al contrasto dell’evasione e il diritto dei contribuenti a subire una “giusta imposizione”.
[1] Testo dell’intervento introduttivo svolto dall’A. al convegno “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e la sua Agenda”, svoltosi presso l’Università L. Bocconi in data 27 giugno 2023.
*Professore ordinario di diritto tributario nell’Università L. Bocconi, Milano
Le Università italiane oggi sono chiamate a svolgere il compito difficile ma quantomai urgente di modernizzare i propri corsi di laurea per stare al passo con i tempi. Tale necessità muove dal confronto con il mondo del lavoro, che richiede neolaureati con abilità e competenze tecniche, ma anche con l’Europa che da anni propugna un adeguamento degli standard formativi.
Per soddisfare le suscitate richieste, occorre modificare sostanzialmente l’offerta formativa, accogliere una maggiore internazionalizzazione degli studi, l’apprendimento digitale e nuove forme di didattica. E se vi è un percorso di laurea che più di tutti risente dell’opportunità di un ripensamento, questo è certamente quello in Giurisprudenza.
Gli ultimi quindici anni di storia del mondo del lavoro e, più genericamente, di quello economico e sociale hanno vissuto – in un lasso di tempo brevissimo – trasformazioni epocali che necessitano di un costante e continuo aggiornamento. L’attuale percorso di studi della LMG/01 è, sotto molteplici punti di vista, inadeguato nel preparare gli studenti ad affrontare le sfide dell’universo lavorativo post – laurea. Non è pensabile che un giovane dottore in Giurisprudenza, indipendentemente dalla carriera che voglia intraprendere, non abbia mai visto un’aula di tribunale o una cancelleria, o che non abbia mai redatto un atto giudiziario. È altrettanto impensabile che un dottore in Giurisprudenza, oggi più che mai “nativo digitale”, non conosca materie sempre più diffuse quali il legal english, GDPR, blockchain e smart contracts.
La facoltà di Giurisprudenza presentandosi “scollata” dalla realtà subisce nettamente il contraccolpo delle altre facoltà pronte a recepire le sfide del mercato.
Non è una novità, anzi è un dato noto, come il percorso di laurea in Giurisprudenza mostri un appeal certamente inferiore rispetto a qualche decennio fa. Oggi i giovani percepiscono più gli svantaggi che le soddisfazioni nell’intraprendere una carriera da giurista: gli alti costi della libera professione, la concorrenza spietata, etc. Al contrario, vi sono facoltà che registrano un’impennata di matricole, soprattutto se sono a numero programmato: ingegneria, medicina, le quali sono in grado di offrire la possibilità di ottenere un lavoro sicuro, tutelato, remunerativo e soprattutto all’avanguardia.
Il pericolo è quello che sempre più giovani con maggiori capacità e più forte determinazione si orientino verso strade che queste facoltà sono in grado di offrire anziché quelle connesse all’aerea economico – giuridica. Le conseguenze non sono lontane da immaginare: minori iscrizioni comportano minori entrate economiche per le casse dell’Università, ma spostandosi dal perimetro accademico e rivolgendo lo sguardo alla professione, si riverberano in un calo di iscritti all’albo degli Avvocati, minando all’effettività della tutela previdenziale, alla tutela giurisdizionale del cittadino e alla tutela dei valori della professione forense.
L’Associazione Italiana Giovani Avvocati – AIGA – che tra i suoi obiettivi si propone proprio quello di “agevolare l’accesso alla professione forense” si è posta la domanda di come poter riportare i diplomati a scegliere il percorso di laurea in Giurisprudenza ed arginare i rischi di una c.d. “fuga di cervelli”.
La risposta non può che passare attraverso una profonda riorganizzazione dell’intero percorso accademico. Occorre infatti riavvicinare il mondo universitario a quello professionale, aiutando gli studenti a capire che cosa succederà una volta ottenuto il diploma di laurea, quali sono le c.d. soft skills che uno studente deve avere acquisito per poter essere competitivo e al tempo stesso attraente nel mercato del lavoro, quali sono i ruoli che potrà andare a rivestire.
Infatti, la capacità di scegliere il giusto percorso da intraprendere spesso non matura neppure dopo il completamento degli studi. Per questo appare necessario che l’Accademia offra allo studente gli elementi pratici e concreti di quanti più possibili sbocchi professionali. Bene da questo punto di vista il rinnovo della Convenzione quadro tra il Consiglio Nazionale Forense e la Conferenza Nazionale dei Direttori di Giurisprudenza e Scienze Giuridiche avente ad oggetto lo svolgimento anticipato di un semestre di tirocinio per l’accesso alla professione forense. In tal modo è consentito allo studente in regola con lo svolgimento degli esami di profitto dei primi quattro anni del corso di laurea purché abbia ottenuto crediti nei settori scientifico-disciplinari più importanti (diritto privato, diritto processuale civile, diritto penale, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’Unione Europea) di chiedere di essere ammesso all’anticipazione di un semestre di tirocinio in costanza degli studi universitari e prima del conseguimento del diploma di laurea. La previsione di poter anticipare la pratica forense garantisce il raggiungimento di una duplice finalità: quella di accelerare l’entrata nel mercato del mercato del lavoro da parte dello studente e quella di permettere allo stesso di avere un reale contatto con l’attività professionale già durante il percorso di studi.
Questi tirocini hanno finora dato feedback positivi, mostrando come l’approccio pratico sia la carta vincente. Per questo motivo, AIGA ha elaborato una proposta di riforma del percorso universitario che ha come scopo quello di costruire un percorso di studi “orientato” che, attraverso un approccio pratico multiprofessionale, sia in grado di fornire a ciascun studente gli elementi conoscitivi necessari a scegliere l’ambito lavorativo più adatto alle proprie inclinazioni ed agli effettivi sbocchi del mercato.
In particolare, si potrebbero introdurre per ogni anno a partire dal secondo dei tirocini curriculari obbligatori presso studi legali, uffici giudiziari, studi notarili, enti pubblici, aziende, tribunali. La conoscenza di questi diversi settori consentirebbe allo studente di affinare le proprie competenze interdisciplinari, riuscendo poi nella carriera futura ad immedesimarsi anche nelle altre figure professionali.
Non solo, si potrebbe prevedere una redistribuzione dei crediti formativi attraverso l’inserimento di materie altamente professionalizzanti e specifiche (come il diritto tributario, il diritto commerciale internazionale, l’informatica giuridica): tale redistribuzione non può e non deve servire esclusivamente ad aggiungere nuovi testi da imparare a memoria. Si ritiene necessaria un’applicazione pratica, con l’ausilio anche di casistica già esistente, attraverso ad esempio dei simposi (anche multidisciplinari ed obbligatori), per far sì che venga già assimilata una forma mentis tecnico – giuridica dagli studenti ed una capacità critica rivolta a ciò che accade quotidianamente nel mondo del diritto.
È da tenere conto inoltre che le gravi carenze del percorso universitario, troppo ancorato a studi teorici, sono emerse con forza all’esito della correzione degli scritti al concorso in magistratura. In tale circostanza si è elevato il coro dei critici evidenziando che all’esito del percorso di laurea in giurisprudenza gravi sono le difficoltà che la maggior parte dei candidati affronta per le prove scritte. Eppure la giurisdizione si caratterizza e si esercita attraverso provvedimenti scritti, ordinanze, sentenze, decreti. Non distante da ciò sono i risultati riscontrati in sede di abilitazione alla professione forense, ove all’epoca della vigenza delle tre prove scritte emergevano gravi carenze nella scrittura e nell’articolazione logica di un discorso giuridico o di una strategia processuale e che oggi nella vigenza del c.d. “doppio orale” fanno trasparire la mancanza di correttezza della forma espositiva, anche sotto il profilo grammaticale e sintattico e di padronanza nell’uso del linguaggio giuridico. Diventa fondamentale perciò abbinare, sin dal primo anno, la frequenza obbligatoria di corsi di scrittura giuridica, così da consentire allo studente di acquisire la chiarezza, logicità, completezza e sinteticità richieste in sede di accesso alle varie professioni successive al percorso di laurea.
Ma la novità più rilevante sarebbe quella di programmare un percorso biennale obbligatorio di “orientamento professionale” con insegnamenti dedicati e specifici: avvocatura, avvocatura d’impresa, magistratura, notariato. L’indirizzo avvocatura ad esempio potrebbe concentrare insegnamenti di tipo pratico relativi alla redazione di atti giudiziari, l’approfondimento delle materie procedurali, la conoscenza del legal english, lezioni di deontologia. Questo percorso dovrebbe affiancarsi a quello tradizionale per materie generalmente presente nell’attuale piano di studi, non diventarne alternativo, così da aumentare la competitività e le abilità dello studente.
L’idea del percorso c.d. orientato rappresenta un’applicazione concreta di ciò che viene indicato negli “Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area (ESG)[1]” del 2015, per cui “Le Istituzioni garantiscono che i corsi di studio siano erogati in modo da incoraggiare gli studenti ad assumere un ruolo attivo nello sviluppo del processo di apprendimento e che la verifica del profitto degli studenti rifletta tale approccio”. In particolare poi le Linee Guida chiariscono che “un approccio all’apprendimento e all’insegnamento incentrato sullo studente contribuisce in maniera sostanziale a stimolare la motivazione, l’auto-riflessione ed il coinvolgimento degli studenti nel processo di apprendimento”, per cui prima di tutto “rispetta la diversità degli studenti e delle loro esigenze, consentendo percorsi flessibili di apprendimento”.
Infine, risulta necessaria la creazione di un canale di collegamento fisso tra gli ordini territoriali e le Università, garantendo la possibilità agli ordini professionali di concordare i piani didattici, anticipando di fatto le materie affrontate durante le Scuole Forensi già a livello universitario. Il beneficio sarebbe duplice: da un lato il neolaureato acquisirebbe già una base di competenze tecnico – pratiche da poter spendere fin dall’inizio e dall’altro, attraverso la costituzione di convezioni con gli studi legali territoriali, quest’ultimi sarebbero in grado di attingere da un bacino circoscritto di neolaureati con un percorso specifico rivolto alla pratica forense.
Questa è l’idea di riforma del percorso di laurea in Giurisprudenza secondo AIGA che nasce dall’ascolto delle esigenze degli studenti con l’obiettivo di porre al centro della formazione il criterio del merito. Un piccolo grande passo da abbinare alla riforma delle Scuole Forensi e dell’esame di abilitazione, per giungere ad una riforma dell’intero accesso alla professione forense.
[1] Gli ESG sono un insieme di standard e di linee guida per l’assicurazione interna ed esterna della qualità nell’istruzione superiore. Gli ESG si applicano a tutta l’istruzione superiore offerta nell’EHEA (Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore), indipendentemente dalle modalità di studio o dal luogo di erogazione. In questo documento, il termine “corso di studio” si riferisce all’istruzione superiore in senso lato, inclusa quella che non prevede il conseguimento di un titolo formale.
Sommario: 1. Una diversa prospettiva sulla sinteticità e chiarezza. - 2. Il dibattito sui predicati tra processo amministrativo e civile. - 3. Aspetti critici e gli orientamenti sulla infra-petizione. - 4. Il giudice non può offrire “benevolenza” a una delle parti. - 5. Quale distinzione tra l’irragionevole estensione dell’atto e la chiarezza e sinteticità espositiva? - 6. Il ritorno al punto di partenza.
1. Una diversa prospettiva sulla sinteticità e chiarezza
Una prospettiva originale sul tema della sinteticità e chiarezza degli atti processuali emerge da un recente decreto cautelare del Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana[1]. Tale decreto adotta un’interpretazione innovativa dei poteri del giudice riguardo alle conseguenze del superamento dei limiti quantitativi degli atti processuali, contribuendo così ad arricchire e ad agitare il dibattito in corso.
Il citato decreto monocratico dichiara inammissibile un’istanza di concessione di misure cautelari monocratiche per “eccesso quantitativo” dell’appello “proposto il giorno successivo a quello di pubblicazione della sentenza gravata” che “al netto delle parti escluse ai sensi dell’articolo 4 del D.P.C.S. 22 dicembre 2016 consta di 100.846 caratteri (spazi esclusi), cui si aggiungono i 6.917 caratteri della “premessa” (questi ultimi rilevanti almeno per la parte eccedente i 4.000 caratteri consentiti dall’articolo 4, comma 1, terzo alinea, del cit. D.P.C.S.), dunque per un totale di caratteri computabili pari a 103.763: sicché l’atto processuale in esame eccede di 33.763 caratteri il limite dimensionale (di 70.000 caratteri) fissato dall’art. 3, comma 1, lettera b), del cit. D.P.C.S. (nonché, altresì, di 3.763 caratteri quello, di 100.000 caratteri, autorizzabile ai sensi dell’art. 5, comma 1, dello stesso D.P.C.S.)”[2].
Non è tanto il dato fattuale del superamento della quantità (il c.d. eccesso di lunghezza) a destare particolare curiosità (e per certi versi preoccupazione), quanto la conseguenza giuridica e il fondamento interpretativo posto alla base della conseguenza stessa che, com’è noto, costituiscono per il processo amministrativo il nodo problematico derivante dalla formulazione normativa e dalla interpretazione giurisprudenziale non uniforme[3]. È un tema solo in apparenza poco dibattuto tra gli studiosi del processo amministrativo[4] e quelli del processo civile[5] che si cimentano in un numero di predicati spesso vaghi o usati come sinonimi o che son destinati a creare ossimori e che si identificano nella chiarezza, sinteticità, comprensibilità, non prolissità, non ripetitività, brevità, comprensibilità degli atti stessi o ancora nell’essere gli atti o le loro motivazioni concisi o succinti.
Nulla di nuovo[6]: questione dibattuta che inizia ad assumere maggior rilievo con l’avvento della sentenza breve ovvero quella “succintamente motivata” (cfr. art. 21-bis l. Tar).
2. Il dibattito sui predicati tra processo amministrativo e civile
Il dibattito sui predicati ora enunciati invece comincia a formarsi con maggiore enfasi con la fine della macchina da scrivere e con l’avvento dell’informatica e delle banche dati che consentono di redigere atti mediante operazioni di “taglia e incolla” e che nel quotidiano portano verso una crescita bulimica degli atti di parte (e certe volte delle sentenze) togliendo spesso ogni argine ai fiumi di righe e pagine che cominciano a inondare i documenti digitali e le loro stampe cartacee. Fenomeno che si accentua a seguito del passaggio dal bollo, commisurato al numero delle righe per pagina (o commisurato al foglio uso protocollo), al contributo unificato, che invece da tale numero prescinde essendo quantificato in misura forfettaria dando spesso la sensazione di aver pagato abbastanza e di poter scrivere senza limiti. Il dibattito si accentua ulteriormente con il passaggio dall’atto cartaceo all’atto digitale e alla mancanza di sensazione del peso fisico delle cartelle e dei fascicoli.
Invece nello specifico del processo in cassazione lo spauracchio del principio dell’autosufficienza e il conseguente reiterarsi di provvedimenti di inammissibilità ha inclinato gli avvocati a predisporre ricorsi di decine (a volte centinaia) di pagine nei quali ritrascrivere i documenti, gli atti ed i provvedimenti dei precedenti gradi di giudizio spesso anche per intero.
Nel processo amministrativo il principio di sinteticità e di chiarezza è stato codificato all’art. 3, c. 2 c.p.a. (Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione) ed è previsto per gli atti di parte e per quelli del giudice. Per quanto riguarda gli atti di parte i requisiti formali sono stati disciplinati in un susseguirsi di cambiamenti e con “non poche difficoltà ricostruttive” si è arrivati alla formulazione attuale di cui all’art. 13-ter dell’allegato n. 2 attuato per quanto riguarda i limiti dimensionali con il D.P.C.S. 22 dicembre 2016[7].
Il principio di sinteticità e chiarezza trova fonte in una norma ordinaria e può considerarsi “sicuramente” un principio generale definito innovativo e che rientra nell’economia dei mezzi processuali e che costituisce un corollario dell’effettività della tutela giurisdizionale e della ragionevole durata del processo che ne è una sub specie e come tale non avrebbe di per sé fondamento costituzionale[8]. Lo sviluppo di detto principio è stato significativo in quanto è andato anche “oltre il processo amministrativo”[9] e con un moto circolare di contaminazione è arrivato a sfiorare il ricorso per Cassazione e a “toccare” il processo civile in generale[10] e (con orientamenti definiti stravaganti[11]) a interessare il processo tributario[12].
Il sistema del processo amministrativo è visto come un modello avanzato che potrebbe porre rimedio “alla crisi di funzionalità del processo civile e soprattutto di quello di legittimità, afflitto da un arretrato spaventoso e difficilmente gestibile”[13]. La dottrina e gli operatori del processo civile seguono “l’esperienza del supremo Consesso amministrativo” che “non ha esitato (…) a qualificare la sinteticità degli atti come uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Ma notano altresì che “nel processo civile è tutto più difficile” a causa delle “antichissime radici” che hanno sviluppato “l’inclinazione alla prolissità e alla complessità dell’argomentazione”[14].
Di recente il processo civile con le riforme orizzontali previste dal PNRR ha assunto una propria disciplina compiuta prevedendo tutta una serie di interventi (agli artt. 163, c. 2, n. 4, 167, c. 1, 366 c.p.c.) e, in particolare, all’ art. 121 c.p.c. ha previsto i principi di chiarezza e sinteticità degli atti del giudice e delle parti quali principi generali, mentre all’art. 46 disp. att. al c.p.c. ha previsto la forma e i criteri di redazione degli atti giudiziari[15].
La Relazione illustrativa alla riforma precisa che tale principio di delega è stato introdotto in un’ottica di accelerazione del processo, tenendo conto altresì dello sviluppo e del consolidamento del processo civile telematico, che impone nuove e più agili modalità di consultazione e gestione degli atti processuali da leggere tramite video, tanto per le parti quanto per i giudici[16].
La legge delega ha altresì espressamente previsto il divieto di sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo ha comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese[17]. Tale principio di delega è stato recepito nella nuova formulazione dell’art. 46 disp. att. c.p.c. [18].
Anche il Codice della giustizia contabile contiene un’espressa norma[19].
I principi di sinteticità e chiarezza informano altresì l’ordinamento dell’Unione Europea e della Cedu. La CorteGUE richiede un numero massimo di pagine[20], le Linee guida[21] prevedono che “nei limiti del ragionevole, le memorie dovrebbero essere il più sintetiche possibile” e di mantenere “uno stile semplice in modo che il documento sia agevolmente traducibile – periodi chiari e incisivi sono la scelta migliore”. La CorteEDU impone l’utilizzo di un formulario di ricorso, richiedendo una sintetica esposizione dei fatti e dei motivi e un numero massimo di pagine per i documenti integrativi[22].
Interessante notare l’art. 132 c.p.c. svizzero (rubricato Atti viziati da carenze formali o da condotta processuale querulomane o altrimenti abusiva) nel quale gli atti illeggibili, sconvenienti, incomprensibili o prolissi vanno sanati entro il termine fissato dal giudice, altrimenti, l’atto si considera non presentato[23].
Per andare oltre il sistema processuale si può notare che esiste anche una specifica regola tecnica UNI 11482:2013 sugli “Elementi strutturali e aspetti linguistici delle comunicazioni scritte delle organizzazioni” che interviene (in via volontaria per quanto riguarda l’applicabilità) sui linguaggi delle organizzazioni i quali genericamente sono tecnico-amministrativi e indipendentemente dall’argomento condividono alcune caratteristiche che dovrebbero essere disciplinate. In particolare queste regole tecniche permettono di definire concretamente la chiarezza.
Inoltre nella pubblica amministrazione ci sono stati tentativi di migliorare il linguaggio burocratese[24], come anche nell’ambito legislativo con tecniche di buona redazione.
In effetti la questione si sposta sulle tecniche di redazione degli atti e su quella disciplina moderna che si chiama legal design[25]. Essa si ritrova ad esempio nel regolamento sui compensi degli avvocati nella parte in cui prevede il sistema premiante del compenso dell’avvocato per gli atti processuali redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione, la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati e la navigazione all’interno dell’atto[26].
La questione è comunque anche culturale e non solo precettiva. Calamandrei nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato insegna che “la brevità e la chiarezza, quando riescono a stare insieme, sono i mezzi sicuri per corrompere onestamente il giudice”. Scialoja dal canto suo insegna che “il diritto è l’arte di tracciare i limiti ed un limite non esiste se non in quanto sia chiaro” e “tutto ciò che è oscuro può appartenere forse ad altre scienze, ma non al diritto”[27].
Il punto è che giurista (o meglio una parte di essi o alcune categorie o parti di esse) non è propenso al bello nel linguaggio. Il valore della bellezza assume importanza per favorire lo sviluppo della conoscenza. Per i giuristi il bello non è un obiettivo ricercato anzi è percepito quasi come un disvalore, perché si sospetta ambiguo, non necessariamente completo, serio, affidabile, preferisce un linguaggio contorto[28].
3. Aspetti critici e gli orientamenti sulla infra-petizione
Ritornando al processo amministrativo, com’è noto, ci sono alcuni aspetti critici che a fronte della recente riforma del processo civile potrebbero trovare spunto e soluzione con quel moto circolare di rinvio esterno a doppio senso.
È pacifico che il principio di sinteticità e chiarezza, come detto, è previsto da fonte primaria e trova corollario in una serie di principi citati. Meno pacifica è la conseguenza della violazione: nessuna norma di rango primario sul processo amministrativo prevede esplicitamente che la violazione del principio di sinteticità possa dar luogo alla inammissibilità – in parte qua – della domanda. Le conseguenze della violazione del principio si individuano all’art. 26 c.p.a., con riguardo all’aspetto della condanna alle spese di lite e all’art. 13-ter, c. 5, all. II c.p.a., laddove è previsto che l’omesso esame del giudice delle questioni contenute nelle pagine dell’atto eccedenti i limiti dimensionali prescritti o autorizzati non rappresenta motivo di impugnazione.
Non più pacifica è altresì l’interpretazione del citato comma 5 sulla condotta del giudice.
L’interpretazione delle conseguenze della violazione di tali norme, compresi i requisiti e i limiti dimensionali degli atti, è stata affidata alla dottrina e alla giurisprudenza che si è concretizzato in diversi filoni generando orientamenti contrastanti e qualche volta radicali come nel caso in commento.
Secondo una prima teoria il superamento dei limiti dimensionali determinerebbe l’inammissibilità delle specifiche censure o delle deduzioni svolte dalla parte[29] ricevendo però la critica dell’assenza di una norma dalla quale sarebbe possibile far derivare la conseguenza dell’irricevibilità o inammissibilità in parte qua dell’atto processuale di parte eccedente i limiti dimensionali previsti.
Tale filone aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto per violazione del dovere di specificità dei motivi di ricorso ex artt. 40, c. 1, lett. d) e 101, c. 1, c.p.a. e altresì del dovere di sinteticità di cui all’art. 3, c. 2, c.p.a sulla scorta di quel filone dell’ Adunanza plenaria[30] e ripreso dalle Sezioni unite della cassazione[31] della considerazione della “giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale”.
In base a un altro orientamento della giurisprudenza amministrativa è stato di contro escluso che la violazione dei limiti dimensionali comporti la irricevibilità, in parte qua, dell’atto, in quanto vanno in concreto soppesato le dimensioni dell’atto con la complessità della vicenda[32]. Se l’iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26 c.p.a.), secondo questa teoria giurisprudenziale “l’art. 13-ter, in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti” (c.d. infra-petizione) in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda”[33].
La posizione assunta coglie il problema di fondo della mole di affari trattati e sintomatico ne è il passaggio dell’ordinanza che rileva come “ciascuna Sezione del Consiglio di Stato ‒ non contemplando il nostro ordinamento processuale alcun meccanismo di filtro (a differenza della stragrande maggioranza delle Supreme Corti europee) ‒ ogni settimana deve scrutinare nel merito un numero elevatissimo di cause (nell’ordine delle centinaia), ciascuna delle quali (salvo che gli avvocati non compaiano o vi rinuncino) è ammessa alla discussione orale”.
Esiste anche un orientamento che prevede sanzioni di irricevibilità o inammissibilità per il superamento non autorizzato dei limiti dimensionali, ma con alcune cautele, come l’invito a riformulare le difese o a sintetizzare con memoria o a concedere alla controparte la possibilità di replicare sulla parte eccedente[34] oppure trascurare i profili di inammissibilità, poiché il ricorso è privo di fondamento nel merito[35].
4. Il giudice non può offrire “benevolenza” a una delle parti
Nel caso di specie[36] il Giudice ha negato la tutela cautelare monocratica applicando “la sanzione” dell’inammissibilità dell’istanza di concessione di misure cautelari monocratiche “perché contenute nelle pagine finali dell’atto di appello, ossia in quelle che certamente eccedono il relativo limite dimensionale normativamente stabilito”. La lettura che egli ha dato all’art. 13-ter, c. 5, delle norme di attuazione del c.p.a. è alquanto diversa da quanto si stava consolidando sino ad ora. Si era abbastanza convinti - ma pare non sia proprio così - che il c. 5 “si limiti a stabilire che il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti”, e che “l’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione” (la deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda – c.d. legittimità dell’infra-petizione), lasciando così “apparentemente intendere che il giudice possa, pur se solo facoltativamente, esaminare anche le questioni poste nelle pagine in eccesso”.
Invece la posizione assunta dal decreto presidenziale vede configurare nel comma 5 “un obbligo (negativo) del giudice, piuttosto che una sua facoltà, di non esaminare le questioni (e, dunque, di non conoscere delle domande) trattate nelle porzioni dell’atto processuale che eccedano i suoi limiti normativamente fissati”, ovviamente “fatte salve, naturalmente, le facoltà “riparatorie” concesse dall’art. 7, comma 1, del cit. D.P.C.S., e segnatamente dal relativo secondo periodo”.
Detta posizione sarebbe frutto di “una più meditata considerazione” in base alla quale “si deve piuttosto ritenere che la normativa citata non abbia demandato al giudice di poter conoscere, o meno, delle questioni ulteriori a quelle svolte nei limiti dimensionali dell’atto processuale secondo il suo soggettivo apprezzamento”, ma ne avrebbe previsto un “obbligo (negativo) del giudice”.
Detto obbligo si troverebbe nei “fondamentali principi di terzietà e di imparzialità del giudice” che in “un processo di parti (ossia di c.d. giurisdizione soggettiva)” non può offrire “benevolenza” a una delle parti in quanto la benevolenza offerta “conseguirebbe ineluttabilmente un pregiudizio (da reputarsi “ingiusto”, perché ottenuto a fronte della violazione di una norma del codice processuale) per le (altre) controparti processuali”[37].
Il decreto presidenziale sembra suggerire che già il solo mancato rispetto dei limiti quantitativi degli atti processuali potrebbe portare a una potenziale dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione. Questo perché il superamento di tali limiti non tanto potrebbe compromettere la chiarezza delle questioni quanto invece ostacolare il principio di leale collaborazione tra le parti coinvolte nel processo e il giudice. Tale situazione rappresenterebbe un impedimento per un dibattito completo ed efficace, con l’ulteriore obiettivo di evitare l’imposizione di oneri processuali superflui sia allo Stato che alle parti coinvolte.
Da ciò si desumerebbe che il superamento della quantità prevista (del c.d. peso o lunghezza) comporti l’inammissibilità per la parte eccedente, e nel caso di specie della complessiva tutela cautelare presidenziale, azionata il “giorno successivo a quello di pubblicazione della sentenza gravata”. Elemento quest’ultimo che, non conoscendo gli atti di causa, potrebbe intendersi come atto particolarmente urgente redatto da un legale veloce e capace oppure come atto “buttato su in un solo giorno” con la probabile tecnica del copia incolla.
In ogni caso il decreto presidenziale commentato ritiene che i limiti dimensionali possono costruire un requisito formale necessario e sufficiente per il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale.
Va detto che la giurisprudenza invece pare attestarsi su una posizione diversa da quella sostenuta dal decreto presidenziale commentato: considera la violazione della sinteticità quale sintomatica della sussistenza di un vizio dell’atto che si manifesta solo ove venga compromessa l’intelligibilità delle questioni dedotte. La giurisprudenza, pur conferendo certamente rilievo al principio di sinteticità che supporta la necessità di essere concisi, sembra suggerire che questo principio non si limiti solo alla brevità dell’atto. La mancanza di sinteticità potrebbe rendere parte dell’atto processuale inammissibile o irricevibile solo se le questioni sollevate diventano oscure e poco comprensibili, violando così i requisiti di forma e contenuto testualmente stabiliti dalla legge.
5. Quale distinzione tra l’irragionevole estensione dell’atto e la chiarezza e sinteticità espositiva?
Andrebbe fatta debita distinzione tra l’irragionevole estensione dell’atto e la (non) chiarezza e sinteticità espositiva[38].
È assodato che “la sinteticità non è più un mero canone orientativo della condotta delle parti, bensì è oramai una regola del processo amministrativo”[39] e che di conseguenza le parti dovrebbero rispettare le regole sui limiti o chiederne autorizzazione per il loro superamento, poiché il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali, allorquando ingiustificata, sia tale da compromettere l’esame tempestivo nonché l’intellegibilità della domanda[40].
Come procede il Giudice di fronte ad una presunzione del genere?
Il Consiglio di Stato, in una recente ordinanza, si è espresso con la raccomandazione che “non è opportuno sorprendere le parti con atteggiamenti drastici o punitivi, ma, in linea con il principio di leale collaborazione e con un canone di adeguatezza, appare più giusto concedere un breve rinvio, per permettere alle medesime di operare un ragionevole riequilibrio dimensionale delle difese”[41].
Si è anche espresso, in altra decisione, di “ritenere irragionevole non considerare le ultime pagine qualora l’esiguo sforamento dipenda dall’inserimento di immagini” e nel caso da un’elevata complessità tecnica[42].
Purtroppo, a mio avviso, non è sempre assodato in giurisprudenza, mentre lo è più in dottrina[43], che la sinteticità non possa essere assimilata alla brevità e che l’assenza di brevità comporti l’intellegibilità dell’atto processuale e quindi la sua inammissibilità, irricevibilità o addirittura nullità, e questo sulla base di una mera presunzione generata dal legislatore che ha considerato la non sinteticità un fatto sintomatico di una possibile non intellegibilità del contenuto dell’atto processuale[44]. Tuttavia la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto il suo scopo.
Brevità e sinteticità non paiono assumere il medesimo significato e anche il giudice amministrativo ha specificato che “l’essenza della sinteticità, sancita dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola” [45].
Pertanto è sintetico l’atto non solo se esclude ripetizioni o ridondanze non utili, ma anche quando la dimensione è proporzionata alla numerosità e alla complessità delle questioni trattate.
Sul punto Fabio Francario ci ricorda che è necessario stabilire se nel ragionamento sul tema ci si vuole riferire allo scopo immediato della regola sui limiti dimensionali, che è garantire la brevità, o a quello finalistico del principio, che è assicurare l’ottimale comprensibilità dell’atto. Egli afferma che è importante evitare di considerare la regola della brevità come un’unica manifestazione del principio di sinteticità. In effetti, questo principio non si riduce semplicemente al rispetto di limiti numerici di pagine, spazi o battute, ma si riferisce alla corretta proporzione tra le questioni da affrontare e gli argomenti scelti per farlo in modo equilibrato[46].
Dovrebbe essere assodato che la sinteticità è considerata come una caratteristica formale di un atto processuale, e la sua mancanza non avrà conseguenze negative per l’atto stesso, a meno che non comporti la mancanza di elementi concreti che supportino l’allegata illegittimità[47].
In questo senso, non sembrano esserci nuovi requisiti formali che devono essere considerati necessari per il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale.
Se l’esposizione delle questioni è oscura e confusa, compromettendo la loro comprensibilità, la domanda può essere dichiarata inammissibile a causa dell’incertezza che provoca. Tuttavia, se l’atto, nonostante superi i limiti dimensionali, contiene domande formulate in modo chiaro e comprensibile per il giudice, non ci sono motivi per evitare di pronunciarsi sull’intera domanda[48].
Attenta dottrina ci ricorda che rimane da dimostrare che un testo, per essere sintetico debba anche essere breve, e che quindi il problema della sintesi si possa risolvere semplicemente dando i numeri: un testo lungo può essere sintetico se tratta numerosi argomenti e un testo breve può essere prolisso se il suo contenuto è semplice[49].
Sebbene sinteticità e chiarezza siano, per quanto appena esposto, criteri distinti (o almeno distinguibili), essi vengono correntemente adoperati assieme per formare “un’endiadi, in cui la prima è quasi sempre premessa alla seconda”[50].
Sul fronte del processo civile si notano importanti cambiamenti che potrebbero essere utili al processo amministrativo adottando le tecniche dell’analogia legis e l’analogia juris in un percorso a doppio senso tra il processo civile e quello amministrativo.
Dalla lettura delle norme sulla riforma del processo civile (in particolare gli artt. 121 c.p.c. e 46 disp. att. c.p.c.), e sulla scia della giurisprudenza della Cassazione[51], emerge che il principio di chiarezza e il principio di sinteticità nel nuovo processo civile sono distinti e autonomi tra loro.
La chiarezza richiede che il testo sia facilmente comprensibile e privo di ambiguità, mentre la sinteticità richiede che il testo non contenga ripetizioni inutili e non sia eccessivamente prolisso.
La mancanza di chiarezza può portare alla nullità dell’atto se rende incerto il suo contenuto o le ragioni che lo motivano. In tal caso, si può applicare l’art. 164 c.p.c., che prevede un termine per l’integrazione dell’atto di citazione.
D’altra parte, viene notato come la mancanza di sinteticità nel processo civile non abbia una sanzione specifica. Secondo l’articolo 46 disp. att. al c.p.c., la violazione delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non ne comporta l’invalidità, e il termine "limiti" sembra riferirsi alle dimensioni dell’atto. Di conseguenza, la lunghezza eccessiva dell’atto da sola non può determinarne l’inammissibilità[52]. Qui si pone il problema del potere del giudice. Si nota che manca una norma che riconosca al giudice il potere di invitare le parti a riformulare un atto se risulta eccessivamente prolisso o ridondante. Sul punto si potrebbe argomentare che il potere del giudice di sollecitare e gestire il processo, sia stabilito dall’art. 175, c. 1, c.p.c. che gli conferisce il potere di chiedere alle parti di riformulare un atto se risulta eccessivamente lungo o ridondante. Il giudice deve infatti garantire lo svolgimento sollecito e leale del processo, e ciò dipende anche dalla mole degli atti delle parti che deve leggere[53].
Una ulteriore sintesi può essere colta in una recentissima sentenza della Cassazione (Cass., Sez. II, Ord., 16 marzo 2023, n. 7600) la quale richiama il principio del codice del processo amministrativo ribadendo l’assenza di specifica sanzione.
Questa sentenza “intende dare continuità” al consolidato principio di diritto in base al quale: “In tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (ex plurimis Sez. 5, Ord. n. 8009 del 2019)”[54].
6. Il ritorno al punto di partenza
“Gli scritti difensivi “obesi” esistono, ma la ...dieta è sbagliata”[55]. Il discorso, per il processo amministrativo ritorna al punto di partenza anche in considerazione di quanto accade nel processo civile. Il punto fermo dovrebbe individuarsi nell’assunto che non ci sono norme che espressamente prevedono la sanzione dell’inammissibilità per il solo fatto del superamento dei limiti, e l’inammissibilità è disciplinata dagli artt. 40 e 44 c.p.a. per quelle ipotesi indicate. Fuori da questi casi si ha una creazione pretoria di altra ipotesi di nullità. Infatti, la disposizione sui limiti quantitativi (involontariamente) introduce una nullità indiretta rafforzata “dall’autorizzazione a presumere”. In tal modo si può arrivare a sostenere che l’atto non sia intellegibile perché ha superato i limiti (e quindi non si capisce)[56].
Inoltre riemerge la questione sul comportamento del giudice. Come già detto, il giudice deve infatti garantire lo svolgimento sollecito e leale del processo, ma purtroppo ciò dipende anche dalla mole degli atti delle parti che deve scrutinare.
Al giudice, almeno dalla lettura fino ad ora data dalla giurisprudenza (la disposizione ha introdotto una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda - il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione)[57] e dalla dottrina[58], non è vietato conoscere la parte eccedente i limiti potendo egli conoscere o anche non conoscere la parte eccedente. Ove il giudice la conosca si pone la questione sulla garanzia dell’integrità del contraddittorio nei confronti delle altre parti che avrebbero potuto non accettare il contradittorio sulla parte eccedente ma non averlo regolarmente eccepito.
La posizione assunta dal decreto commentato fornisce una lettura diversa della disciplina in termini di vero obbligo del giudice di non (dover) considerare la parte eccedente sul presupposto della tutela del contraddittorio e del fatto di non poter essere benevoli con le parti anzi con una delle parti.
In sintesi, entrambe le teorie si rifanno sull’integrità del contradittorio assumendo posizioni conservative (l’equilibrio va assicurato tagliando) o più progressiste (l’equilibrio va assicurato integrando).
La dottrina sul punto invece già in tempi non sospetti aveva argomentato in senso negativo sull’obbligo del giudice a non esaminare oltre il recinto: “Se la voluntas legis fosse stata effettivamente questa, la norma andava scritta esattamente al contrario; vietando cioè la condotta ritenuta inammissibile (conoscere oltre i limiti dimensionali), e non già rimuovendo un obbligo esistente (pronunciare su tutta la domanda)”[59]. Lo stesso dicasi per la sanzione della nullità[60].
Questione del tutto diversa invece nella novella del processo civile dove non solo si nega la sanzione, ma si pone la questione sul fondamento del potere del giudice a richiamare le parti all’ordine[61].
Si è dell’avviso che la norma sui limiti degli atti nel processo amministrativo sia nata con una presunzione apparentemente innocente o tarata per ipotesi estreme[62] ma che nel tempo ha portato verso la creazione di una nullità indiretta; altrettanto lo è l’evoluzione della giurisprudenza su posizioni che sostengono l’obbligo del giudice di non esaminare la parte eccedente.
Da un lato abbiamo la posizione propensa a “sorprendere” le parti con provvedimenti trancianti come nel caso del decreto che ha “tagliato” la domanda cautelare, perché oltre i limiti dimensionali, e non permette di essere benevoli.
Dall’altro lato vi è quella posizione più accomodante ispirata alla leale collaborazione , che invita le parti a riformulare le difese nei predetti limiti dimensionali, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti.
In tale contesto di orientamenti comportamentali contrastanti non va sottaciuta l’esauribilità della risorsa giustizia, e l’irritabilità del giudicante, di fronte la crescita smisurata del numero e della dimensione degli atti. Va altresì evidenziato il comportamento assunto dai patrocinatori che non di rado è lontano dai “precetti” di Calamandrei o di Scialoja, i quali spesso sottostimano il rischio di imbattersi nella responsabilità professionale verso il cliente, e di vedersi negata la copertura assicurativa del danno.
Attenta dottrina ha già espresso seri dubbi sulla legittimità costituzionalmente, con riferimento agli artt. 21 e 24 Cost., della norma che “imponga al difensore la connotazione e le peculiarità della sua difesa”[63]. E questa potrebbe essere una via che ad oggi, a quanto mi consta, non è stata percorsa.
In alternativa sarebbe auspicabile un intervento della Plenaria sulla falsariga della recente Cassazione.
Infine, una soluzione molto semplice potrebbe trovarsi nel rispondere alla tecnologia digitale (del copia incolla, dell’uso della copiatura dalle banche dati) con gli stessi strumenti informatici: creare dei formulari-recinti con spazi limitati al numero di parole o battiture previste dalle disposizioni tecniche (similmente già previsto nei giudizi Cedu) oppure introdurre dei sistemi di conteggio ed editing che impediscano il caricamento dell’atto quando è in esubero (tecnica del semaforo rosso) oppure dei sistemi più blandi di mero avvertimento per il redattore di aver superato le dimensioni (tecnica del manometro), dall’altro canto esistono altresì degli ausili informatici in grado di sintetizzare o riassumere i testi o parti di esse e che potrebbero costituire un valido strumento di supporto alla primitiva tecnica del copia incolla.
[1] CGARS, Sez. giur., decreto, 4 aprile 2023, n. 104.
[2] Purtroppo l’epilogo non sarà mai noto in quanto in sede cautelare collegiale “la parte ha dichiarato di rinunciare all’istanza cautelare annessa al ricorso in epigrafe, come da verbale di udienza, purché con salvezza di quella annessa al riproposto appello n. …”, cfr. CGARS, Sez. giur., ord., 4 aprile 2023, n. 150.
[3] Come rileva F. Francario, Il principio di sinteticità, in Enc. Giur., Treccani, Roma, 2018, 683 ss il quale è sostenitore della teoria diametralmente opposta a quella assunta nel decreto in commento. Si v. altresì in modo più approfondito stesso A. Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., n. 1/2018, 129 ss.
[4] Tra i numerosi contributi in dottrina, si v. F. Gambardella, Giudizio cautelare e principio di sinteticità degli atti processuali (nota a CGARS ord.36/2021 e decr. 31/2021), reperibile qui https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1628-giudizio-cautelare-e-principio-di-sinteticita-degli-atti-processuali-nota-a-cgars-ord-36-2021-e-decr-31-2021; I. Impastato, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare: la scure del giudice amministrativo sui “limiti dimensionali di sinteticità” degli atti processuali di parte (e sul diritto di difesa), in Judicium, 2021; F. Saitta, La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, in Il Processo, n. 3/2019, 539 ss.; G. Milizia, Il dovere di sinteticità non riguarda solo gli scritti difensivi ma anche i documenti depositati, nota a T.A.R. Palermo, 17 settembre 2019, n. 2203, inD&G, 176, 2019, 17; M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, 2017; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 1, 2016, 1 ss; G. Ferrari, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Il Libro dell’anno del Diritto 2016, in https://www.treccani.it/enciclopedia/sinteticita-degli-atti-nel-giudizio-amministrativo_%28Il-Libro-dell’anno-del-Diritto%29/; M. Sanino, La «sinteticità» degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità?, in Foro it., 2015, V, 379; R. De Nictolis, La sinteticità degli atti di parte e del giudice nel processo amministrativo, Relazione al Convegno presso la Corte di Cassazione “Giornata europea della giustizia civile”, Roma, 26 ottobre 2016, in www.giustizia-amministrativa.it; M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo sui contratti pubblici, in www.l’amministrativista.it, 2016; G.P. Cirillo, I principi generali del processo amministrativo, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, 42-45; F.G. Scoca, Il “costo” del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir. proc. amm., 2014, 4, 1414, F. Cordopatri, La violazione del dovere di sinteticità degli atti e l’abuso del processo, in Federalismi.it, 2014; Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, in Giur. it., 2014, 149-155; A.G. Pietrosanti, Sulla violazione dei principi di chiarezza e sinteticità previsti dall’art. 3, comma 2, c.p.a., in Foro amm. TAR, 2013, 3611; G.P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in www.giustizia-amministrativa.it, 2012; F. Merusi, Sul giusto processo amministrativo, in Foro amm., CDS, 2011, 13533 ss.
[5] M. Taruffo, Note sintetiche sulla sinteticità, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2017, 453 ss, G. Finocchiaro, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Rivista di Diritto Processuale Civile, 2013, 4-3, 853; G. Ianni, Il principio di sinteticità degli atti e le sue conseguenze nel processo civile, in ilprocessocivile.it, 5 gennaio 2017, 4.
[6] M. Sanino, La «sinteticità» degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità?, in Foro it., 2015, V, 379.
[7] Per una ricostruzione si rinvia a R. De Nictolis, La sinteticità degli atti di parte e del giudice nel processo amministrativo, cit.supra, F. Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte,cit.
[8] F. Francario, Il principio di sinteticità, cit.
[9] Come notava la Cass. sez. un., ord., 11 aprile 2012 n. 5698 “la sintesi va assumendo nell’ordinamento è del resto attestato anche dall’art. 3, n. 2, del codice del processo amministrativo (di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104), il quale prescrive anche alle parti di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica …” e inoltre la recentissima Cass., sez. II, ord., 16 marzo 2023, n. 7600, infra.
[10] In un primo momento in relazione al processo amministrativo telematico la Cassazione ha espresso l’orientamento che le regole di redazione di ricorso e atti difensivi del processo amministrativo si applicano al ricorso per cassazione, invece con successiva sentenza (sez. II, 25 novembre 2019, n. 306859) ha stabilito che non può trovare applicazione in sede di ricorso per cassazione, in mancanza - allo stato - di una previsione di legge primaria atta a formalizzare l’applicabilità della inammissibilità del ricorso per violazione degli stessi criteri di fronte alla Corte di cassazione.
[11] La Commissione Tributaria Regionale Veneto n. 367/2022, con stravagante pronuncia, ha disposto l’inammissibilità dell’appello, reputando che: a) esiste un principio di sinteticità degli atti processuali, che governa il giudizio di cassazione;
b) la violazione di detto principio comporta l’inammissibilità dell’atto processuale; c) tale principio deve caratterizzare l’intero processo e quindi anche i gradi di merito; d) il principio della sinteticità è anche attestato dall’art. 3, n. 2 del Codice del processo amministrativo del 2010; e) la mera consistenza dell’appello in 172 pagine viola di per sé il principio di sinteticità e detta violazione è rafforzata dalla produzione documentale sopra enunciata; f) infine, la produzione di una ulteriore memoria illustrativa deve esser valutata nell’ambito della condotta processuale tenuta dalla parte e si riflette sulla determinazione delle spese di litem cfr. S. Muleo, Stravaganze in tema di inosservanza del principio di sinteticità degli atti processuali tributari (nota a CTR Veneto n. 367/2022), in Riv. Telematica diritto tributario, 2022.
[12] N.DURANTE, Il paradigma della sinteticità degli atti giudiziari. Applicabilità al processo tributario?, in Innovazione e diritto, 2018, 2, 205.
[13] Sul punto Cass. civ., sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21297 che dato atto della carenza di prescrizioni esplicite di sinteticità nel processo civile, individua i riferimenti normativi esistenti come introdotti espressamente nel c.p.a. e soprattutto desume le prime dal principio di ragionevole durata del processo e da quello di leale collaborazione tra le parti processuali e tra quelle ed il giudice richiamando altra giurisprudenza (Cass. n. 11199/12 e Cass. n. 9488/14).
[14] F. De Stefano, La sinteticità degli atti processuali civili di parte nel giudizio di legittimità. Commento a Cassazione, sentenza n. 21297/16, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-sinteticita-degli-atti-processuali-civili-di-parte-nel-giudizio-di-legittimita_24-11-2016.php.
[15] L’intervento normativo trae origine dallo specifico criterio di delega, contenuto alla lett. d) del c. 17, dell’articolo unico della legge delega n. 134/2021, che ha delegato il governo a prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei princìpi di chiarezza e sinteticità.
[16] Relazione tecnica allo schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206. Dossier dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati A.G. n. 407 del 6 settembre 2022
[17] Sulla recente riforma L.R. Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662, in Judicium, 2021, A. Polini e M. Zaglio, L’atto giudiziario come genere letterario : gli stilemi fissati dal D.Lgs. 149/2022, in https://deiustitia.it/2023/03/latto-giudiziario-come-genere-letterario-gli-stilemi-fissati-dal-d-lgs-149-2022/.
[18] Per una precisa ricostruzione si rinvia a L.R. Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662), in Judicium - Il processo civile in Italia e in Europa, https://www.judicium.it/il-principio-di-sinteticita-e-chiarezza-degli-atti-di-parte-e-il-diritto-di-accesso-al-giudice-anche-alla-luce-dellart-1-co-17-lett-d-ed-e-d-d-l-1662/.
[19] Cfr. art. 5, c. 2, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti e dispone che “Il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.
[20] Istruzioni pratiche alle parti relative alle cause proposte davanti alla Corte del 25.11.2013, in GUUE 31.1.2014.
[21] Linee guida per gli avvocati che compaiono dinanzi alla Corte di Giustizia Ue nei procedimenti di rinvio pregiudiziale redatte dalla delegazione permanente presso la Corte di giustizia Ue del CCBE (Consiglio degli ordini forensi d’Europa) al fine di rendere più semplice ed efficace la difesa presso la Corte stessa.
[22] Art. 47 regolamento di procedura, in https://www.echr.coe.int/documents/rules_court_ita.pdf.
[23] Codice di diritto processuale civile svizzero del 19 dicembre 2008 (Codice di procedura civile, CPC), in https://www.fedlex.admin.ch/eli/cc/2010/262/it#art_132. Per un’analisi si v. F. De Stefano, La sinteticità degli atti processuali civili di parte nel giudizio di legittimità. Commento a Cassazione, sentenza n. 21297/16, cit.
[24] Si ricorda il codice di stile del dipartimento della funzione pubblica del ministro Sabino Cassese del 1993, dal manuale di stile del Dipartimento della funzione pubblica del 1997, dalla Guida alla redazione dei testi normativi della Presidenza del consiglio dei ministri approvata con circolare 2 maggio 2001, dalla Direttiva Frattini del 8 maggio 2002 sulla Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi.
[25] Si discute se il legal design sia una propria disciplina o un metodo o una tecnica o un atteggiamento mentale. In ogni caso è una combinazione di più saperi che consente, grazie all’uso di determinati strumenti e tecniche, di progettare prodotti di contenuto giuridico con l’obiettivo che siano: 1. precisi sotto il profilo tecnico giuridico; 2. comprensibili, efficaci immediatamente fruibili sotto il profilo comunicativo e 3. che raggiungano l’obiettivo principale della chiarezza, dell’usabilità e della semplificazione. Si crea una sfida tra la padronanza delle competenze giuridiche e la capacità di redazione di testi giuridici.
[26] D.m. Giustizia n. 37/2018, Regolamento recante modifiche al decreto 10 marzo 2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 che all’art. art. 1 co. 1 bis prevede che “Il compenso determinato tenuto conto dei parametri generali di cui al comma 1 è di regola ulteriormente aumentato del 30 per cento quando gli atti depositati con modalità telematiche sono redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonchè la navigazione all’interno dell’atto”.
[27] Si v. in Diritto pratico e diritto teorico, in Rivista del diritto commerciale, 1911, I, 942.
[28] Normalmente la bellezza è presente nelle discipline architettoniche e urbanistiche: si dice che una città bella è una città dove si sviluppano comunità più prosperosa e dove è favorita la crescita economica e sociale. Applicare questo concetto ai contenuti giuridici?
[29] Riassume in modo efficace il Cons. St., sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636, di fronte ad un appello di di 217 pagine: In ordine alla natura, al fondamento ed alla consistenza dei doveri di sinteticità, chiarezza e specificità (degli scritti delle parti e in particolare degli atti di impugnazione), ed alle conseguenze discendenti dalla loro violazione, il Collegio non intende discostarsi dai principi elaborati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa (cfr. Cass., sez. II, 20 ottobre 2016 n. 21297; sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20589; sez. un., 11 aprile 2012, n. 5698; Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2016, n. 1268; sez. III, 21 marzo 2016, n. 1120; sez. VI, 4 gennaio 2016 n. 8; sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5459; sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400; sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4153; Cons. giust. amm., 14 settembre 2014, n. 536; 19 aprile 2012, n. 395), secondo cui:
a) gli artt. 3, 40 e 101 c.p.a. intendono definire gli elementi essenziali del ricorso, con riferimento alla causa petendi (i motivi di gravame) ed al petitum, cioè la concreta e specifica decisione richiesta al giudice; con particolare riguardo alla stesura dei motivi, lo scopo delle disposizioni è quello di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, oltre ad essere poco sintetici non contengono una esatta suddivisione tra fatto e motivi, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. “motivi intrusi”, ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano nel rischio di revocazione;
b) la chiarezza e specificità degli scritti difensivi (ed in particolare dei motivi) si riferiscono all’ordine delle questioni, al linguaggio da usare, alla correlazione logica con l’atto impugnato (sentenza o provvedimento che sia), alle difese delle controparti; ne consegue che è onere della parte ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, così evitando la prolissità e la contraddittoria commistione fra argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie;
c) l’inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all’art. 101, co. 1, c.p.a., ma anche alla loro mancata “distinta” indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata, come imposto dall’art. 40 c.p.a. applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall’art. 38 c.p.a.; conducano alla inammissibilità per violazione dei doveri di sinteticità e specificità dei motivi, come sancito dagli artt. 3 e 40 c.p.a. (Cons. Stato, sez. V, 30 novembre 2015 n. 5400);
d) il dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della <<…giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale>> (l’idea della funzione giurisdizionale quale “risorsa scarsa” è stata sviluppato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in due recenti pronunce, 25 febbraio 2014, n. 9 e 27 aprile 2015, n. 5, e ripreso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 e, da ultimo, nella sentenza 20 ottobre 2016 n. 21260);
e) gli oneri di specificità sinteticità e chiarezza incombenti sulla parte ricorrente (e sul suo difensore, che tecnicamente la assiste in giudizio) trovano il loro fondamento:
I) nell’art. 24 Cost., posto che solo una esposizione chiara dei motivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda consente l’esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio;
II) nella loro strumentalità alla attuazione del principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma secondo, Cost., poiché un giudizio impostato in modo chiaro e sintetico, quanto alla causa petendi ed al petitum, rende più immediata ed agevole la decisione del giudice, evita l’attardarsi delle parti su argomentazioni ed eccezioni proposte a mero scopo tuzioristico, rende meno probabile il ricorso ai mezzi di impugnazione e, tra questi, in particolare al ricorso per revocazione, a maggior ragione se proposto con finalità meramente dilatorie del passaggio in giudicato della decisione;
III) nella necessità della difesa “tecnica”, il che contribuisce a rendere evidente la natura della professione legale quale “professione protetta”, ai sensi dell’art. 33, comma quinto, Cost. e degli artt. 2229 e seguenti del codice civile (cfr. Corte cost., 17 marzo 2010 n. 106);
f) l’esigenza “forte” della brevità degli scritti difensivi non è solamente una caratteristica dell’ordinamento processuale italiano; si pensi alle istruzioni pratiche relative ai ricorsi ed alle impugnazioni adottate - il 15 ottobre 2004 (G.U. L 29 dell’8 dicembre 2004) e modificate il 27 gennaio 2009 (G.U. L 29 del 31 gennaio 2009) - dalla Corte di giustizia dell’Unione europea;
g) in definitiva, lungi dal porsi come un “ostacolo” alla esplicazione del diritto alla tutela giurisdizionale, i principi di specificità chiarezza e sinteticità sono funzionali alla più piena e complessiva realizzazione del diritto di difesa in giudizio di tutte le parti del processo, in attuazione degli artt. 24 e 111 Cost., e sostengono, una volta di più, le ragioni della necessità di difesa tecnica e, dunque, della natura “protetta” della professione intellettuale legale.
[30] Cons. St., A.p.,25 febbraio 2014, n. 9 e 27 aprile 2015, n. 5.
[31] Cass. sez. un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 e 20 ottobre 2016 n. 21260.
[32] CGARS (ord.) 15 settembre 2014, n. 536; Cons. St., sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2969.
[33] Per una ricostruzione delle teorie si v. G. Lofaro, La disciplina dei limiti dimensionali e redazionali degli atti nel processo amministrativo tra chiarezza sinteticità, in Rivista Giuridica AmbienteDiritto.it, XXI, 3/2021, 30 ss.
[34] Cons. St., sez. VI, 13 aprile 2021, n. 3006, cfr. F. Valerini, L’avvocato deve fare il riassunto se vuole che le sue difese siano esaminate, in Diritto & Giustizia, 76, 2021, 6.
[35] Cons. St., sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1450, a conferma di T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, n. 5497/2012. Secondo questa decisione: “Si può tuttavia prescindere da profili di inammissibilità, ivi compresi quelli sollevati dalla difesa di RFI, essendo il ricorso infondato nel merito”.
[36] CGARS, Sez. giur., Decreto, 4 aprile 2023, n. 104.
[37] Il corsivo è mio.
[38] Cfr. Cass. sez. un., ord. 30 novembre 2021, n. 37552, secondo la quale “il ricorso deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.”. V anche Cass. civ., sez. trib., sent., 21 marzo 2019, n. 8009, Cass. civ., 20 ottobre 2016, n. 21297; Cass., sez. un., 17 gennaio 2017, n. 964; Cass., I, 13 aprile 2017, n. 9570; Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2017, n. 18962.
[39] Cons. St., sez.VI, ord. 13 aprile 2021, n. 3006.
[40] Ibidem
[41] Ibidem
[42] Cons. St., sez.III, 12 ottobre 2020, n. 60434.
[43]A. Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, nota a Cons. Stato, Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210, in Giur. it., 2014, 148; F. Saitta, Rito appalti e dovere di sinteticità: gli scritti difensivi “obesi” esistono, ma la ...dieta è sbagliata, in. Lexitalia.it, 7/2015; M. A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia ?, cit., passim.; G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015, 535.
[44] Cfr. F. Francario, Il principio di sinteticità, cit., passim.
[45] Cons Stato, sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900.
[46] F. Francario, Il principio di sinteticità, cit., passim.
[47] Ibidem.
[48] G. Lofaro, La disciplina dei limiti dimensionali e redazionali degli atti nel processo amministrativo tra chiarezza sinteticità, cit.
[49] M. Taruffo, Note sintetiche sulla sinteticità, in Riv. Trim. dir. e proc. civile, 2, 2017, 464.
[50] Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali (DM 9 febbraio 2016, 28 luglio 2016, 19 ottobre 2016), Relazione, Roma, 16 febbraio 2018, p. 3.
[51] Cass. sez. un., Ord. 30 novembre 2021, n. 37552.
[52] Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario, Relazioni sulle novità normative della riforma “Cartabia”. Diritto e procedura civile, 2023, p. 76 e ss.
[53] Ibidem.
[54] Pertanto è regola che l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.
[55] F. Saitta, Rito appalti e dovere di sinteticità: gli scritti difensivi “obesi” esistono, ma la ...dieta è sbagliata, cit.
[56] Per F. Saitta, La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, cit., 539 s., solo il difetto di chiarezza può determinare l’inammissibilità ex artt. 40, c. 2, e 101 c.p.a. e l’unica sanzione per il gravame prolisso è rappresentata dalla condanna alle spese di lite.
[57] Cons. St., sez. VI, 13 aprile 2021, n. 3006.
[58] Per tutti in modo chiaro: F. Francario, Il principio di sinteticità, cit., passim.
[59] Ibidem.
[60] Prosegue Francario, op. cit.: “E se la voluntas fosse stata quella di creare una nuova ipotesi di nullità, ciò avrebbe dovuto in ogni caso comportare l’espressa comminatoria della nullità medesima. Per come la si voglia interpretare, la norma non contiene una espressa comminatoria di nullità”.
[61] Nel riformulato processo civile si è appurato che manca una norma che riconosca al giudice il potere di invitare le parti a riformulare un atto se risulta eccessivamente prolisso o ridondante, ma si potrebbe argomentare che il potere del giudice di sollecitare e gestire il processo trovi fonte nell’art. 175, c. 1, c.p.c. che gli conferisce il potere di chiedere alle parti di riformulare un atto se risulta eccessivamente lungo o ridondante.
[62] Alcuni esempi di limiti superati tratti dalle sopra citate decisioni: l’eccessiva lunghezza dell’atto di appello, che consta di ben 82 pagine, caratterizzate da diverse reiterazioni delle medesime argomentazioni ovvero dall’eccessivo sviluppo delle stesse, con conseguente esposizione in modo talvolta non specifico (cfr. Cons. St., n. 1450/2021), il ricorso in appello conta 37 pagine; la memoria difensiva di controparte conta 32 pagine; la memoria finale dell’appellata conta 31 pagine; la memoria di replica dell’appellante conta 21 pagine (Cons. St., n. 3006/2021); appello di 217 pagine (Cons. St., n. 4636/2016); il ricorso si dilunga per ben 94 pagine, certamente eccessive a fronte di una sentenza di 14 pagine e con un unico motivo di impugnazione, reca una esposizione dei fatti di causa sovrabbondante e ripetitiva che si estende da pagina 13 a pagina 33 …(Cass. sez. un., n. 37552/2021).
[63] M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso del processo o diniego di giustizia?, in Federalismi.it https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=21035&dpath=document&dfile=23102012113431.pdf&content=Le%2Bnuove%2Bmisure%2Bdi%2Bdeflazione%2Bdel%2Bcontenzioso%2Bamministrativo%3A%2Bprevenzione%2Bdell%E2%80%99abuso%2Bdi%2Bprocesso%2Bo%2Bdiniego%2Bdi%2Bgiustizia%3F%2B%2D%2Bstato%2B%2D%2Bdottrina%2B%2D%2B, 2012.
Sommario: 1. Introduzione: la novità della sentenza - 2. La valutazione della rarità nei due gradi del giudizio - 3. Osservazioni sul sindacato e sui punti di novità - 4. Il sindacato di legittimità e la sua estensione - 5. Il problema della sostituzione.
1. Introduzione: la novità della sentenza.
La sentenza in esame riguarda la discrezionalità tecnica in materia di beni culturali, nel caso di un’autorizzazione alla libera circolazione del bene. È interessante perché entra nel vivo della valutazione tecnica, la rarità di un dipinto di Morandi. Il Consiglio di Stato valuta la rarità con il criterio della “specifica” e maggiore attendibilità scientifica. Si inscrive così in quell’orientamento recente, che mette l’accento sulla attendibilità prevalente.
La sentenza è interessante anche per un altro aspetto: considera non solo la parte del fatto ma anche quella del diritto. In “linea di diritto”, dice la sentenza, l’interesse culturale è nella norma giuridica, nell’art. 68 del Codice dei beni culturali, e la sua “importanza” è nella considerazione della norma stessa.
Infine, la sentenza ridefinisce i criteri del sindacato sulla discrezionalità tecnica. Viene fuori così il problema del limite e della sostituzione nel merito; su questo punto la sentenza individua un limite inedito, tentando la risoluzione dello storico problema.
Si delinea così una sentenza che offre una gamma di principi. E, riteniamo, qualcosa di diverso nel modo di sentire e di rappresentare il sindacato di legittimità sulla discrezionalità tecnica[1]. Questo modo, in fondo, riflette l’idea stessa della giurisdizione e dei suoi limiti. Corrisponde a un grande e noto dibattito, anche nella dottrina contemporanea, specie per un suo profilo, l’alternativa tra sindacato debole e sindacato forte, quando vi sia un concetto giuridico indeterminato. Conviene dunque studiare il caso, che già fa emergere tutto il problema. Infine, si potrà fare un’osservazione sull’idea di legittimità, quando in essa entri un concetto, e un interesse, indeterminato.
2. La valutazione della rarità nei due gradi di giudizio
Si tratta dell’opera Fiori, di Giorgio Morandi, dipinto a olio del 1943, proveniente dalla collezione Plaza di Caracas e poi giunto a Milano e appartenente a un soggetto privato. Il proprietario chiede l’autorizzazione alla libera circolazione del bene e il Ministero adotta un provvedimento di diniego. TAR Lombardia, sez. III, Milano, 20 aprile 2022 n. 880 annulla il diniego, mentre la sentenza in esame accoglie l’appello dell’amministrazione e conferma la legittimità del diniego.
Tutto il punto è sul giudizio di valore: l’interesse culturale e la sua importanza. Nella valutazione tecnica, l’importanza si traduce in rarità e qualità dell’opera.
Nel particolare, il provvedimento nega l’autorizzazione alla circolazione ai sensi dell’art. 68 del decr. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, che rinvia ad un decreto ministeriale. La norma dell’art. 68 prevede che l’amministrazione possa autorizzare o negare la libera circolazione “con motivato giudizio”, accertando “se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico … a termini dell'articolo 10. Nel compiere tale valutazione gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministro”.
Gli indirizzi sono adottati con D.M. 6 dicembre 2017, n. 537, “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell'attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico”.
Il decreto ministeriale enuncia sei criteri di valutazione, che permettono di desumere “l’importanza” dell’interesse culturale. In questo caso, l’Ufficio dei beni culturali ne utilizza quattro:
1. qualità artistica dell'opera;
2. rarità in senso qualitativo e/o quantitativo
3. rilevanza della rappresentazione;
4. testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo.
Di conseguenza, l’Amministrazione ritiene che Fiori del 1943 sia un’opera rara, di rilevante rappresentazione, una testimonianza significativa per la storia del collezionismo. Per questi motivi adotta il diniego.
Il Tar annulla il diniego per vizio della motivazione. Ritiene la motivazione inadeguata, perché mostra una decisione che non ha osservato il criterio della rarità, in senso qualitativo e in senso quantitativo.
È dimostrato dal ricorrente, dice la sentenza, che Morandi ha dipinto i Fiori più volte e che vi sono “moltissimi dipinti simili”, in collezioni pubbliche o in contesti privati vincolati; precisamente: “Rose (Fiori), 1917, Collezione Gianni Mattioli e ora in presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia; Fiori, 1918, conservato alla Pinacoteca di Brera a Milano e lascito di Vitali; Fiori 1924, Fiori 1950 e Fiori 1958, presso il Museo di Bologna; Rose secche (Fiori), 1940, Fiori 1941 e Fiori 1952, conservati presso la Casa Museo Boschi di Stefano a Milano; Fiori 1940, Fiori 1943, Vaso di fiori 1947, Fiori (Vaso di fiori) 1950 e Fiori (Vaso di fiori) 1951, mantenuti presso la Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi a Firenze; Fiori 1952 esposto al MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Fiori 1946 e Fiori 1957, parte della Collezione Enos e Alberto Ferri, in deposito in comodato Gratuito al Museo di Bologna; Fiori 1954 della Collezione Cerruti di Torino; Fiori 1940 e Fiori 1962 conservati presso il Museo d’Arte Moderna Mario Rimoldi a Cortina d’Ampezzo” .
Esistono, dunque, “quasi venti opere, tutte col medesimo soggetto, conservate in pubbliche collezioni, di cui sette con datazione simile a quella per cui è causa”.
Dunque, secondo il Tar, non è dimostrata la rarità del dipinto. Non c’è, in particolare, quella “rilevanza” o “diversità” del dipinto in esame rispetto alle restanti opere similari già tutelate, come invero richiesto negli indirizzi ministeriali”. D’altro canto, secondo il Tar, la motivazione del diniego enfatizza altri aspetti: la circostanza che si tratti di “fiori naturali anziché secchi”, la presenza dei Topinambur nella composizione del vaso, la firma dell’autore e la data 1943; ma questi elementi, per il Tar, non denotano alcuna rarità o “diversità”; al più, potrebbero denotare la qualità artistica dell’opera”, cioè soddisfare il primo criterio (l’elemento n. 1 dei criteri del D.M. citato), ma, conclude il Tar, per disposizione del decreto ministeriale, la qualità non può mai essere l’unico criterio di prevalenza e quindi anche in questo caso la valutazione sarebbe illegittima.
In appello questa valutazione si rovescia. Per il Consiglio di Stato, la premessa è in “linea di diritto: la dichiarazione dell’interesse culturale «accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto» dell’«interesse particolarmente importante» (combinato disposto degli articoli 10, comma 3, lett. a) e art. 68 del Codice)”.
L’importanza dell’interesse, dunque, si desume dal decreto ministeriale e dai suoi criteri, ma cambia la lettura. Mentre il Tar riteneva che quei criteri non siano osservati, perché le quasi venti opere sui Fiori possono dimostrare che non c’è rarità qualitativa del dipinto, secondo il Consiglio di Stato questo giudizio è in contrasto con i “limiti del sindacato” di legittimità e con le “risultanze degli atti”.
La sentenza del Consiglio di Stato ribadisce che il caso è in tema di “discrezionalità tecnico-valutativa” e richiama le note distinzioni con la discrezionalità amministrativa[2].
Nel caso in esame, dice il Consiglio di Stato, “l’interesse culturale dell’opera viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto <<mediato>> affidato alla valutazione dell’Amministrazione. Ne consegue che il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione”. (4.2).
Il giudice deve di regola verificare se “l’opzione prescelta dall’amministrazione rientri nella gamma delle risposte plausibili e convincenti alla luce delle scienze. È possibile, dunque, che l’interessato possa “contestare il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso”, ma ha “l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile” (4.3).
Infine, per la prova, quando si confrontano “opinioni divergenti, tutte parimenti argomentabili”, il giudice deve dare “prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla posizione <<individuale>> dell’interessato”.
La Sezione applica dunque questi principi al caso di specie (par. 5). Così, i motivi accolti dal Tar, i motivi di non rarità, si “scontrano con la sola opinabilità delle valutazioni ministeriali e non possono dirsi scientificamente inaccettabili”. Sono “diverse valutazioni di merito” e quelle ministeriali non sembrano meno pregevoli, anzi.
La sentenza passa così alla valutazione specifica della rarità (par. 6). Ritiene che la relazione storico-artistica, assunta a motivazione del provvedimento impugnato, spieghi e dimostri la rarità. Nel particolare, “Morandi, 1943”, è indicazione di un momento storico particolare e rivela il fatto inedito che l’Autore intendeva reagire alle brutture della guerra con un’espressione originale, non ripetitiva delle altre nature morte sui i fiori secchi, ma con una creazione diversa, ritraendo i Topinambur, fiori rari in botanica. Così si dimostra la rarità dell’opera e, quindi, la sua importanza storica e stilistica.
3. Osservazioni sul sindacato e sui punti di novità
Si svolgono alcune osservazioni su questo tipo di sindacato, per punti.
a. La questione della rarità costituisce il nucleo interno dell’apprezzamento, è la valutazione stessa. Resta il velo della discrezionalità tecnica, richiamata nel testo della sentenza, ma l’essenziale è che il sindacato verifica la valutazione nella sua attendibilità scientifica. Si concentra su precisi elementi: la rarità, la data del 1943, i Topinambur, inediti in botanica e nella produzione di Morandi, dunque, non la ripetizione ma il modo diverso e infinito di vedere la stessa cosa, i Fiori, con un diverso metodo stilistico; tutti motivi che designano la rarità qualitativa, e, per giunta, la differenza tra rarità qualitativa e qualità. Insomma, una diversa espressione artistica del Morandi del 1943, da cui un’attendibilità che è “specifica” e maggiore. Prevale.
In tutti i punti visti sopra, si delinea un sindacato che verte sul merito della valutazione tecnica. È un sindacato forte. Apre due problemi, la prova e la sostituzione.
b. È forte, questo sindacato, anche nella distribuzione della prova: esige che la inattendibilità scientifica della opinione dell’amministrazione sia dimostrata dal ricorrente, con una attendibilità maggiore e prevalente; e, in mancanza, davanti a opinioni parimenti argomentabili, presume che l’attendibilità che prevale sia quella dell’amministrazione. Questo perché, secondo la sentenza, l’amministrazione è il soggetto “istituzionale”, chiamato dall’ordinamento, “in forme democratiche”, a esprimere la valutazione [3].
c. Infine, il sindacato di legittimità. Nella sentenza si dice che il giudizio riguarda il presupposto del potere, per come è rappresentato nella norma attributiva del potere, ovvero l’interesse culturale e la sua importanza. La sua valutazione è alla stregua dell’art. 68 del Codice e del decreto ministeriale.
Il che è dire che l’interesse e la sua importanza, il grado più o il grado meno del merito, come direbbe Cammeo, sono entrati nella legge. Il merito vi entra sotto forma di importanza dell’interesse.
In questo caso, il passaggio è agevole perché la stessa norma dell’art. 68 prevede “l’importanza” dell’interesse e rimanda il suo apprezzamento a un decreto ministeriale. Ma, oltre questo caso – la sentenza parla di un Codice di “settore”- vi può essere un principio?
Non a caso, nella parte in diritto la motivazione della sentenza esordisce stabilendo che l‘importanza dell’interesse è anzitutto in “linea di diritto”, nella premessa maggiore, nella considerazione della norma. Senz’altro si può dire, rispettando la logica della sentenza, che la considerazione dell’interesse non è solo nel merito amministrativo.
4. Il sindacato di legittimità e la sua estensione
Questa apertura della sentenza fa sentire che nel sindacato di legittimità sulla discrezionalità tecnica vi sia la prospettiva dell’interesse e del suo valore. Sembra la zona meno esplorata e più interessante. Si svolgono qui alcune osservazioni, che riflettono il pensiero di scrive e l’intento di dare alcuni spunti.
Come indicato dalla sentenza, il punto di partenza è il diritto e non solo il fatto complesso. Da tempo, si va considerando l’estensione del sindacato al fatto complesso, nel senso che la valutazione tecnica sul fatto è ritenuta parte integrante del fatto stesso. Ma, per la sentenza, prima viene il diritto e poi il fatto complesso. È un’inversione di metodo notevole, che rievoca, così sembra al lettore, quel passo della sentenza Baccarini, quando la tecnica è inserita nella struttura della norma giuridica… [4]
Qui si potrebbe determinare l’estensione del sindacato, e anche il suo limite.
Intanto, in estensione, si può fare un’osservazione in più: se l’interesse entra “dentro la struttura della norma giuridica”, la conseguenza non è marginale e, aggiungiamo, non è solo nell’art. 68. Difatti, l’interesse è anche in tutte le altre norme attributive del potere amministrativo, e, in generale, è nel principio stesso di legittimità amministrativa, se si rilegge l’art. 1 della legge n. 241 del 1990 come principio che impone di perseguire i “fini determinati dalla legge”. È una legittimità funzionale e finalistica[5].
Per completare, sul lato del diritto, si osserva che l’amministrazione contemporanea, che è amministrazione della scienza e della tecnica, non vive isolata e ha un suo ordinamento, che resta ordinamento giuridico, a partire dal principio di legittimità funzionale e a finire nelle norme tecniche e nelle norme interne[6].
Una risposta- e un passo avanti- può dunque venire dalla legittimità funzionale. Il passo avanti è già visibile nel caso in esame, nel metodo di giudizio messo in pratica: come detto dal giudice, “l’importanza dell’interesse” è anzitutto nella legge, nella stessa norma dell’art. 68 del codice dei beni culturali, anche se, in questo caso, la volontà della norma non predetermina un assetto degli interessi e lo affida all’amministrazione. Eppure, qui il giudice non si ritrae e fa un passo in più rispetto agli orientamenti precedenti[7]. Questi orientamenti poggiavano la soluzione su una distinzione teorica che ha due ipotesi opposte: la norma assume il concetto indeterminato, ma impone un assetto preferenziale degli interessi e quindi il sindacato è possibile; la norma lascia il concetto indeterminato e non delinea un assetto preferenziale e quindi, almeno per una parte della dottrina, che riprende una parte della giurisprudenza, il sindacato non è possibile, perché equivarrebbe a sostituzione nel merito[8].
Sul piano della teoria delle norme, si tratterebbe di una “rarefazione deduttiva”[9], o, meglio, di una “potenza espressiva delle norme” non ben sviluppata e forse troppo debole[10]; dunque, in teoria, davanti al concetto giuridico che lasci indeterminato l’interesse prevalente, il sindacato forte o si ferma o va avanti, ma qui si espone ai pericoli della sostituzione nel merito.
Nella sentenza in esame il giudice non si ferma, svolge il sindacato di legittimità, pur se in questo caso il concetto giuridico, l’interesse, resta indeterminato.
Si tratta, a parere di chi scrive, di un progresso del sindacato di legittimità e della tutela giurisdizionale. Potrebbe riflettere non solo la norma dell’art. 68, ma il carattere funzionale della legittimità stessa, ove si ritenga che l’interesse e il suo valore siano insiti nella legittimità cui la tecnica soggiace, secondo la teoria autorevole di Ledda[11], che forse ha ispirato la sentenza Baccarini e gran parte della dottrina contemporanea[12], e che, aggiungiamo, si riflette oggi nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 e nel principio di legittimità funzionale.
5. Il problema della sostituzione
A questo punto, in un sindacato che tende a estendersi al merito della valutazione tecnica, che ne è del limite e della sostituzione, nel punto specifico, e inedito, affrontato dalla sentenza?
Su questo punto, per una sensazione di chi legge la sentenza, la preoccupazione del limite si vede nel seguente passo della motivazione (par. 4.1): “Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie”.
Dunque, resta il limite del merito amministrativo e della sostituzione, ma si apre una possibilità di “definizione” della fattispecie. Pone un interrogativo: non è forse vero che, in fondo, il Consiglio di Stato entra nel giudizio di valore della rarità, come aveva fatto il Tar, solo che rovescia la questione e ritiene che gli indici di valore denotino rarità e che l’amministrazione abbia ragionato bene?
Il che serve a porre il vero interrogativo di fondo: un sindacato forte è possibile – e non viola il limite- solo nel caso in cui l’appello confermi la legittimità del provvedimento amministrativo, come in questo caso, o il sindacato forte è possibile anche nel caso inverso, in cui l’appello annulli il provvedimento ammnistrativo, sostituendo il suo giudizio, e il suo motivo giuridico, a quello dell’amministrazione? E questo è possibile quando il concetto sia indeterminato al punto che la norma non detta un assetto preferenziale, un interesse prevalente?
La risposta resta aperta. Seguendo e sviluppando la soluzione della sentenza, in teoria, si può dire che nel primo caso, in cui vi è conferma della legittimità del provvedimento amministrativo e conferma che l’amministrazione è attendibile, il sindacato può essere forte[13] e, invece, nel secondo caso, illegittimità del provvedimento e amministrazione inattendibile, il problema resta aperto. Dipende molto dal concetto indeterminato, se lasci o meno trasparire un interesse prevalente, come visto sopra; e dipende dal giudice stesso, perché, è chiaro, il rischio è che nel secondo caso la valutazione la faccia il giudice. Quindi, aggiungendo qualcosa al dictum della sentenza, la soluzione, almeno per una parte della dottrina, potrebbe essere quella di mantenere, nel solo caso della illegittimità- inattendibilità, un sindacato senza indicazioni, senza soluzioni finali[14].
In definitiva, senza prendere una posizione, nel caso del concetto indeterminato, si delinea un sindacato double face, ora forte e ora debole, a seconda della legittimità o della illegittimità del provvedimento amministrativo, e a seconda del concetto d’interesse insito nella norma, determinato o indeterminato. Nella sentenza, in questo secondo caso, il sindacato di legittimità è possibile.
Quella della sentenza è dunque una risposta coraggiosa e pragmatica[15]. Tutta la soluzione, così definita, si può esporre alle note obiezioni teoriche che la dottrina solleva, e, solo per accennare alle difficoltà maggiori, ricordiamo la gamma dei problemi: resta il problema del giudicato debole dopo l’annullamento[16]; il sindacato debole sulla inattendibilità, sotto il velo ineccepibile del suo aspetto logico-formale, può nascondere gravi errori di valutazione tecnica[17]; infine, il limite dà adito al problema, più ampio, della giustizia negata[18]. Problemi, questi, di ordinamento, visibili nel noto triangolo che si forma tra legge, giudice e amministrazione, immagine di una relazione quasi insolubile a priori, se non prendendo posizione per uno di quegli angoli[19].
E allora, anche nel caso del concetto indeterminato che non indichi un interesse prevalente, si può dire, considerando l’esperienza storica, che molto, quasi tutto, è nell’idea stessa di giurisdizione, nell’idea che la giurisdizione di legittimità ha di sé stessa e dei suoi limiti, secondo la sensibilità del giudice, secondo la sua cultura giuridica. Dunque, si pone una domanda finale: se in origine tutto era nell’idea che la Sezione IV ebbe di sé stessa e dei suoi limiti verso la Sezione V, e in fondo nella positiva idea di sintesi di legittimità e giustizia, che già era visibile nei principi dell’ordinamento[20], non si può risolvere allo stesso modo la questione contemporanea della tecnica e del concetto giuridico indeterminato ?
[1] La letteratura sulla discrezionalità tecnica è immensa e quindi conviene limitarsi ai soli riferimenti pertinenti al ragionamento svolto nel testo ed ivi citati. In ogni caso, un quadro ricostruttivo completo si può leggere in P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica, Dig. Disc. pubbl., vol. aggiornamento, IV, 146 ss.; F. CINTIOLI, Discrezionalità tecnica (dir. amm.), Enc. dir., vol. aggiornamento, II, 471 ss. Sul punto specifico affrontato dalla sentenza, in materia di discrezionalità tecnica e interesse culturale v. A. MOLITERNI, Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice. Concrete dinamiche dell’ordinamento, Napoli, 2021, spec. 159 ss., nella parte dedicata ai vincoli storico-artistici (a cura di M. Bray); G. TROPEA, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità: "relazione pericolosa" o "attrazione fatale", Dir. proc. amm., 2021, 714; P. L. PORTALURI, Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini, in questa Rivista, maggio 2021; A. ROTA, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002.
[2] Secondo la sentenza, la valutazione dei fatti complessi riguarda la discrezionalità tecnica, che è “differente dalla discrezionalità amministrativa, che implica “ponderazione di interessi diversi e non previamente selezionati dalle norme”. In particolare, la discrezionalità tecnica è oggetto di “particolari competenze ed è vagliata dal giudice con riguardo a una “specifica <<attendibilità>> tecnico-scientifica”.
[3] Ci si chiede: se un’opinione prevalente non è raggiungibile, è possibile ragionare presumendo che sia prevalente l’opinione dell’Amministrazione, solo perché è istituzionale, per posizione data?
La domanda si pone, è chiaro, non per la posizione assunta nella sentenza, ma perché la sentenza stessa spinge il sindacato più in là, e nella scienza, e quindi ha bisogno di nuove definizioni della prova. Una prima risposta si può trovare leggendo la dottrina, che da sempre, e di più negli ultimi tempi, afferma il principio di effettività della tutela, come principio adatto a risolvere anche la questione dell’onere della prova. In questa luce potrebbero sciogliersi i problemi della presunzione, in senso logico e in senso relativo, senza posizioni a priori. Sulla questione, per esempio, cfr. D. GRANARA, Sindacato pieno della discrezionalità tecnica e principio di effettività della tutela giurisdizionale: dialogo tra le Corti, in www . Giustizia amministrativa, sito istituzionale, anno 2021. La questione è ripresa nelle conclusioni.
[4] Cfr. il risalto del passo in M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, Dir. proc. amm., 2000, 185 ss., 198.
[5] ALB. ROMANO (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2022, spec. 179-180, nel collegamento funzionale visibile tra art. 10 del codice dei beni culturali e principio di legalità ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990.
[6] L’idea della incorporazione della norma tecnica nell’ordinamento giuridico è di P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica … cit., 156 ss. L’idea che la norma interna possa assumere una sua rilevanza giuridica oltre il limite interno, nell’ordinamento generale, è efficacemente argomentata nelle dottrine contemporanee: cfr. F. FRACCHIA- M. OCCHIENA, Le norme interne: potere, organizzazione e ordinamenti. Spunti per definire un modello teorico-concettuale generale applicabile anche alle reti, ai social e all’intelligenza artificiale, Napoli, 2020; M. ROVERSI MONACO, Le norme interne nel sistema amministrativo italiano. Uno studio introduttivo, Milano, 2020. Per uno sviluppo ulteriore di queste teorie, v. G. BOTTINO, Norme interne e discrezionalità della pubblica amministrazione, Il dir. dell’economia, n. 1 /2023, 273 ss.; A. CIOFFI, La norma interna nell’ordinamento giuridico, ibidem, 287 ss. Infine, di recente, su scienza, tecnica e diritto, v. G. TROPEA, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, Napoli, 2023.
[7] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019 n. 1321; Cons. St., sez. VI, 19 luglio 2019 n. 4990; Cons. St., Sez. III, Ordinanza 11 dicembre 2020 n. 7097.
[8] Per questa distinzione cfr. A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? Riflessioni a margine di una recente “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale… cit. 358-360.
[9] Cfr. S. COGNETTI, Sindacato giurisdizionale tra discrezionalità amministrativa e indeterminatezza della norma, in www. Giustizia amministrativa, sito istituzionale, anno 2020, 1 ss., 13.
[10] Così E. CANNADA BARTOLI, Giustizia amministrativa, Dig. Disc. pubbl., VII, 3 ss., 41: nel pensiero di Spaventa, il termine giurisdizione era assunto in due significati: “l’uno forte, riferibile al giudice civile o a quello penale; l’altro debole, riferito alla norme che, se non hanno raggiunto una <<potenza di espressione giuridica da servire di base a veri e propri giudizi di un’autorità indipendente dall’amministrazione, possono bastare al sindacato che questa deve esercitare gli atti dei suoi organi, e questa è anche giurisdizione>>”.
[11] Cfr. F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, Dir. proc. amm., 1983, 371 ss.
[12] Per esempio, v. M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, Dir. proc. amm., 2000, 185 ss., 198; P. LAZZARA, <<Discrezionalità tecnica>> e situazioni giuridiche soggettive, Dir. proc. amm., 2000, 212 ss.
[13] “Forte”, nelle dottrine contemporanee, significa che il sindacato ha ad oggetto la valutazione stessa e fa uso di massime non di esperienza comune ma di leggi scientifiche- v. M. DEL SIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche … cit., 200-201 e, di recente, fra i numerosi contributi in materia, A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? Riflessioni a margine di una recente “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale, Dir. proc. amm., 2021, 335 ss.; A. MOLITERNI, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecnico-scientifiche e l’instabile confine tra amministrare e giudicare, Dir. proc. amm., 2021, 398 ss.
[14] A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica … cit., 359.
[15] Però, a completare la soluzione, e a ripresa di un altro punto della sentenza sulla prova, pensiamo che si dovrebbe evitare ogni rischio di collateralità istituzionale, evitando che la prova della inattendibilità sia orientata dal giudice creando una presunzione a favore della amministrazione, per una sua posizione istituzionale, data a priori, sciogliendo invece la prova in una situazione alla pari e non precostituita V. nota 2.
[16] Cfr. F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 106-110; 613 ss.; M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 80 ss.
[17] Così F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, Dir. proc. amm., 1983, 371 ss., 422.
[18] Per tutti v. F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro, in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Id, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 2020 e Id., Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, ibidem, 2022; nonché M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 30 novembre 2020.
[19] Cfr. S. COGNETTI, Sindacato giurisdizionale tra discrezionalità amministrativa e indeterminatezza della norma … cit., 4.
[20] Così E. CANNADA BARTOLI, Giustizia amministrativa… cit., 16 e 41-65.
Sommario: 1. Il fondamento costituzionale del parlamentarismo inglese - 2. Il Committee of privileges della House of Commons – 3. L’indagine devoluta al Committee of privileges: conclusioni e proposte – 4. Le implicazioni politiche, giuridiche ed etiche del rapporto del Committee of privileges: un insegnamento ed un esempio finale.
Abstract: Lo studio prende le mosse dall’indagine portata a termine il 15 giugno 2023 dal Committee of Privileges della House of Commons inglese in merito all’effettiva osservanza, durante il recente periodo pandemico, da parte del Primo Ministro in carica Boris Johnson delle regole varate dal governo da lui presieduto dirette a prevenire la diffusione del Covid 19. L’accertata violazione di tali regole nel corso di riunioni non consentite svoltesi nei locali della sede governativa del numero 10 di Downing Street e la severità delle conclusioni (a schiacciante maggioranza approvate in sede di assemblea plenaria il successivo 20 giugno) cui il Committee è pervenuto rendono agevole una breve analisi della condizione giuridica del parlamentare inglese alla luce dei principi elaborati in dottrina e costantemente aggiornati dalla prassi. La conclusione è nel senso dell’esistenza di un severo apparato di regole, dalle evidenti e coerenti ricadute nel terreno dell’etica pubblica, che governa il funzionamento del parlamento ed il comportamento dei suoi componenti ispirate al senso di onore e disciplina. Apparato di tale solidità da costituire un esempio imitabile in altri contesti geografici.
1. Il fondamento costituzionale del parlamentarismo inglese.
Uno dei padri del costituzionalismo inglese, Albert Venn Dicey, nella sua fondamentale opera[i], dedicò allo studio del funzionamento, delle attribuzioni e delle prerogative delle due camere del Parlamento del suo paese riflessioni di duratura importanza. Egli, infatti, sublimò la teoria della tripartizione dei poteri costituzionali ponendo a suo fondamento l’idea assoluta e centrale della sovranità del parlamento in quanto espressione del potere legislativo, da nessun altro potere statale usurpabile o menomabile. L’altro grande teorico del diritto parlamentare inglese considerato in chiave costituzionale, Walter Bagehot, si era già a propria volta soffermato sulla definizione delle funzioni della House of Commons, tutte contraddistinte con l’aggettivo “dignified”, meglio traducibile come “nobili”, in quanto esercitabili in forma solenne (“stately”) ed allo scopo non di intimorire il popolo ma di utilizzare il proprio potere allo scopo di dare alla nazione governo ed indirizzo[ii]. Tali funzioni consistono: a) in quella propriamente legislativa, la più importante ed anche quella soggetta al più attento controllo popolare circa la sua efficienza; b) in quella rappresentativa del pensiero e delle opinioni dei cittadini; c) in quella di orientamento e di informazione nei confronti del corpo elettorale; d) in quella consultiva a favore della Corona nelle materie al Parlamento stesso devolute al fine di prevenire la possibilità di emanazione di atti illegittimi o pregiudizievoli. La costruzione del diritto costituzionale inglese nel cavaliere tra i secoli diciannovesimo e ventesimo ha proceduto ovviamente di pari passo con la edificazione di una nozione di costituzione sufficientemente nitida da assorbire il vuoto formale dipendente dalla sua mancata verbalizzazione in un documento modellato su quello delle esperienze di altri ordinamenti europei. Fu così che se ne enucleò una composizione in termini funzionali, ossia di raccolta di ogni regola destinata a governare direttamente o indirettamente le materie riflettenti la distribuzione o l’esercizio dei poteri attinenti alla sovranità statale[iii]. Al tempo stesso Dicey si preoccupò di elaborare uno statuto critico ed interpretativo basato sull’autorità degli storici, dei giuristi, dei filosofi. Si fece così ricorso al pensiero dei maggiori pensatori giuridici della storia del diritto inglese, di cui si sfruttò la profonda capacità intuitiva dell’evoluzione dell’intero common law britannico. Edward Coke[iv] venne accreditato[v] del merito di aver dipinto il potere e la giurisdizione del Parlamento in termini di elevatezza ed assolutezza di tale vastità da non poter essere confinati, per ragioni oggettive o personali, entro alcun genere di limitazione[vi]. Conseguenza diretta di questa opera conformatrice del contesto costituzionale entro il quale si svolge l’opera del Parlamento fu la puntuale identificazione delle ulteriori attribuzioni delle sue Camere rispetto a quelle prima illustrate, tra le quali spicca il diritto alla designazione, ai fini dell’incarico conferibile dal Monarca, della persona del primo ministro e degli altri membri del Gabinetto ministeriale[vii]. Più esattamente l’opera dottrinaria dei pionieri del costituzionalismo inglese si estrinsecò nel coniare istituti da affiancare con efficacia concorrente alle norme costituzionali in senso stretto[viii]. È il caso delle convenzioni, le quali, pur non ascendendo al livello di queste, ne possiedono caratteri comuni quale quello della vincolatività[ix]: proprio il potere di designazione del governo va ascritto a tale ambito. Il passo successivo ed indefettibile nella esplicazione di una teoria parlamentare fu quello diretto a munire le due camere di uno statuto regolamentare, nonché, per le ragioni prima indicate, convenzionale, che ne preservasse la funzione e la dignità e, al contempo, proteggesse i loro componenti nella rispettiva libertà di determinazione. Gli albori del diritto parlamentare inglese, inteso come corpus normativo autosufficiente, dovettero, pertanto, fare i conti con il tema dell’area di autonomia delle sue due camere, la House of Commons e la House of Lords (quest’ultima costituita, fino al 2009, anno di entrata in funzione della Supreme Court, anche in Appellate Committee, ossia nel supremo e finale organo giurisdizionale). Tema di scottante rilevanza sia per la chiara determinazione della struttura del parlamento in quanto organo costituzionale che si inserisce nel quadro della tripartizione dei poteri statali sia per la non meno essenziale questione della condizione giuridica dei suoi componenti. Ai fini del presente studio va ricordato il fondamentale principio di autodichia secondo il quale ognuna delle due camere è dotata di competenza esclusiva con riguardo ai propri lavori ed alla tutela delle proprie prerogative nei confronti di chiunque, anche parlamentare, vi attenti o commetta atti di disprezzo (contempt, inteso quale lesione del generale statuto delle camere): in tal caso sarà la stessa camera destinataria di condotte disdicevoli, e non un’ordinaria corte di giustizia, ad esercitare i propri poteri di indagine e sanzionatori[x]. Si contrappongono così i concetti di privilegio parlamentare, inteso come immunità da misure restrittive della libertà personale nonché come insindacabilità delle opinioni espresse, e di offesa al parlamento[xi]. Esso resta giudice di entrambe le situazioni che possano interessare un suo membro. Ed è sempre stato affermato che, nel perseguire i propri compiti nel campo delle prerogative parlamentari, ciascuna camera non agisce alla stregua di un organo giurisdizionale ma in virtù di un attributo ad essa intrinseco. Il delicato concetto fu lucidamente rappresentato in un caso del 1840[xii] il cui valore fondativo dell’immunità parlamentare traspare immediatamente dalle circostanze del suo svolgimento. Si trattava di una pronuncia direttamente collegata a quella dell’anno precedente nel caso Stockdale v Hansard. Ed infatti, il presidente della House of Commons, lo Speaker, aveva tratto in arresto lo sceriffo incaricato dell’esecuzione della condanna pecuniaria pronunciata da una ordinaria corte di giustizia, la Queen’s Bench, nei confronti dell’editore dei lavori parlamentari. L’intervento del presidente dell’assemblea parlamentare, che portò all’arresto dello sceriffo, solo colpevole di aver obbedito ad un ordine giudiziale, fu disposto a tutela dell’immunità parlamentare, estesa anche all’editore dei lavori della camera dei comuni. Fu lo stesso giudice Stephen ad assoggettarsi al provvedimento parlamentare ed a chiarire che le risoluzioni di una delle due camere non sono sottoposte a revisione giurisdizionale, seppur non provengano da un organo di giustizia. Ed infatti, l’effetto del privilegio parlamentare trova la sua più compiuta espressione nel potere di ciascuna camera di regolare i propri affari interni attraverso provvedimenti di efficacia equivalente a quella delle pronunce giudiziarie[xiii]. Un corollario di questa concezione molto spiccata della sovranità parlamentare si deduce considerando il rapporto fiduciario che deve legare il governo ed i suoi ministri al parlamento: ciò comporta la rimozione dal rispettivo ufficio di quello dei ministri che non goda più della fiducia del parlamento stesso[xiv].
2. Il Committee of privileges della House of Commons.
L’affinamento dell’esperienza parlamentare inglese ha portato nel tempo all’istituzione di organismi interni alle camere indirizzati alla tutela dei “privileges” ed al perseguimento dei casi di “contempt”. Dal gennaio 2013 convivono all’interno della House of Commons due distinte commissioni (unificate nel periodo 1995-2013), il Committee on standards (composto anche da membri estranei alla camera e competente a fissare i modelli comportamentali che i parlamentari sono tenuti ad adottare) e il Committee of privileges. Quest’ultimo è titolare di un potere delegato dall’intera camera diretto a svolgere indagini, riferirne i risultati e proporre misure conseguenti all’autorità delegante. È composto esclusivamente da parlamentari, siede in permanenza durante l’intera legislatura e viene convocato con riferimento a specifiche vicende relative alla materia dei “privileges”: i suoi poteri di indagine hanno ad oggetto tutte le questioni afferenti alla fattispecie ad esso devoluta. Nel corso del tempo ed in virtù dei doviziosi approfondimenti condotti dal primo esperto di diritto parlamentare inglese[xv] si sono andati stabilizzando principii non più revocati in dubbio in ordine alle immunità parlamentari, via via arricchitesi di nuove figure in aggiunta a quelle tradizionali, prima menzionate, riguardanti la libertà personale[xvi] e quella di espressione del pensiero. Ad esempio, si annovera quella di autorizzare un parlamentare a lasciare la camera prima del termine di una specifica sessione di lavori (“privilege to license Mps to depart from the House before the end of the session”); allo stesso modo si è consolidata la potestà delle camere di procedere alla convalida dell’elezione dei propri membri, in attuazione delle disposizioni del Parliamentary Elections (Returns) Act del 1965[xvii]. Ed ancora, la lista delle violazioni dei privilegi parlamentari (“breaches of privileges”) contempla ipotesi disparate quali la notificazione di mandati di accompagnamento per comparire come testimoni davanti ad una corte di giustizia[xviii]. Tuttavia, nel 1999 il Joint Committee on Parliamentary Privilege suggerì l’abolizione di questa prerogativa: la proposta fu respinta quattro anni dopo dal Committee of Privileges della House of Commons. Corrispondentemente, anche l’elenco delle condotte disdicevoli dei parlamentari idonee a recare offesa alla camera di appartenenza e risolventisi in comportamenti tendenti ad impedire o ostruire, direttamente o indirettamente, il funzionamento del Parlamento si è infittito, fino ad includere, secondo una comunemente accettata formula definitoria, tutte le azioni il cui effetto sia quello di recare discredito all’autorità dell’istituzione[xix]. In questa cornice si innesta il fatto - che, come si vedrà, ha assunto notevole rilievo nel caso Partygate - di divulgare i rapporti provvisori, di natura strettamente e dichiaratamente riservata, fatti circolare agli interessati dal Committee of Privileges. Naturalmente appartengono alla casistica delle condotte costituenti “contempt” e come tali rientrano nella competenza esclusiva del Committee of Privileges, quelle che danno vita a gravi illeciti penali quali la corruzione ed il traffico illecito di influenze[xx]: il disvalore di siffatte azioni, come ricorda Erskine May[xxi], era già stato duramente evocato in una risoluzione della House of Commons del 1695 che le aveva definite come un gravissimo delitto[xxii].
Come è apparso chiaro l’intera materia della condizione giuridica del parlamentare inglese (rispetto alla quale si dispiega la competenza del Committee of Privileges) copre uno spazio aperto al cui interno si colloca la sua generale posizione funzionale e personale. In sostanza, i termini antagonisti “privilege” e “contempt” non vengono utilizzati nella prassi quali sinonimi rispettivamente di singolari prerogative d’ufficio o di disdicevole abuso delle stesse. Essi sembrano, piuttosto concorrere a formare lo “status” di parlamentare, inteso come sintesi coordinata di situazioni attive e passive che allo stesso fanno necessariamente capo e la cui concreta valutazione spetta ad un organo delegato, quale il Committee of Privileges. In particolare, la dottrina si esprime nel senso che i cosiddetti “privileges” garantiscono al titolare determinate immunità all’espresso scopo di consentirgli di adempiere i propri doveri senza interferenze esterne[xxiii]. È incontroverso che essi facciano parte integrante del generale ordinamento giuridico e non siano intesi a porre il parlamentare al di sopra della legge. Tra essi, la prerogativa della libertà d’espressione ha un’origine particolarmente prestigiosa in quanto ascende al Bill of Rights approvato nel 1689. A propria volta il Parliamentary Papers Act del 1840, emanato all’indomani del dibattuto caso Stockdale v Hansard, attribuì la completa immunità, sia civile sia penale, agli editori dei resoconti parlamentari nonché a quanti, esterni al parlamento, ne pubblichino in buona fede estratti[xxiv]. Non può, peraltro, disconoscersi che già un semplice sguardo alla casistica prodottasi sul tema consente di ravvisare un profondo fondamento etico in ogni regola che circonda la vita del Parlamento e quella dei suoi componenti. Ed infatti, non può sfuggire che già dal punto di vista lessicale “contempt” addita condotte che sfuggono ai correnti criteri di moralità pubblica che sempre devono informare il funzionamento delle Camere. Il compito che attende l’osservatore delle varie vicende, come quella oggetto della presente ricerca, lo obbliga a verificare se il giudizio su comportamenti individuali abdichi alla propria, necessaria valutazione in termini di puro diritto, per deviare verso incontrollabili approdi extragiuridici, o se, viceversa, si spieghi lungo un virtuoso itinerario di compenetrazione di diritto e morale pubblica.
Con questo costruttivo spirito laico è opportuno accostarsi alla vicenda che ha riguardato le numerose dichiarazioni rese davanti alla House of Commons, nella qualità di Primo Ministro in carica, da Boris Johnson nel periodo compreso tra il primo dicembre 2021 ed il 25 maggio 2022 relative allo svolgimento presso la sede governative del numero 10 Downing Street di affollate riunioni svoltesi tra il 20 maggio 2020 ed il 14 gennaio 2021 durante la vigenza delle misure per prevenire la diffusione del Covid 19 e delle relative linee guida, entrambe emanate dal governo da lui presieduto.
3. L’indagine devoluta al Committee of privileges della House of Commons: conclusioni e proposte.
Nel proprio corposo rapporto (integralmente approvato dalla House of Commons il 20 giugno 2023, ossia 5 giorni dopo la sua pubblicazione, con 354 voti a favore e 7 contrari) oltre un centinaio di pagine, includenti 3 appendici ed i verbali delle sedute, il Committee of Privileges spiega dettagliatamente la genesi dell’indagine, il suo oggetto, lo scopo, le regole applicate, le conclusioni alla luce delle complessive risultanze istruttorie, le proposte finali sottoposte all’assemblea plenaria.
In particolare, il mandato che la commissione (con una maggioranza di membri del partito conservatore, lo stesso di Boris Johnson) ha ricevuto unanimemente dalla camera riguarda l’accertamento e la qualificazione della condotta tenuta in ripetute occasioni davanti all’assemblea plenaria in qualità di Primo Ministro da Boris Johnson, eletto alla House of Commons nel collegio londinese di Uxbridge e South Ruislip. Ciò che era stato chiesto al Committee of Privileges di appurare era se egli avesse reso dichiarazioni fuorvianti (ma nella sostanza ingannevoli) e se, pertanto, si fosse reso responsabile di un’offesa al Parlamento[xxv]. Il riferimento è proprio alla veridicità delle reiterate affermazioni fatte da Johnson circa il costante rispetto della normativa antipandemica in occasione di plurimi incontri sociali nella sede governativa effettuati con la partecipazione di molte persone, anche suoi collaboratori.
Dal punto di vista dell’inquadramento del lavoro della Commissione si rivela senz’altro maggiormente stimolante il preambolo del rapporto, che, per il suo alto esempio simbolico, merita di essere riportato per esteso: “Questa inchiesta si dirige al cuore stesso della nostra democrazia. Fuorviare la House of Commons non è una semplice questione tecnica, ma un tema di grande importanza. La nostra democrazia si fonda sull’elezione popolare di parlamentari non solo per consentire la formazione di un governo che goda del sostegno delle camere ma anche per sottoporre ad un giudizio critico il processo legislativo e chiedere all’esecutivo il conto del suo operato. La nostra democrazia dipende dalla fiducia che i parlamentari possono prestare alla veridicità delle dichiarazioni rese alle camere dai ministri. Se manca la fiducia nella veridicità delle dichiarazioni dei ministri la camera non è in grado di assolvere la propria funzione e la fiducia del popolo nella democrazia è incrinata. La democrazia funziona al meglio quando un ministro commette un errore in buona fede e successivamente lo corregge”[xxvi]. È evidente già da questa premessa introduttiva che il mandato si traducesse nella valutazione circa il corretto uso da parte del primo ministro della propria prerogativa, in quanto parlamentare, di non rispondere delle dichiarazioni e delle affermazioni rese davanti la House of Commons. È altrettanto palese che l’accertamento negativo sulla fedeltà al vero delle parole pronunciate in assemblea si sarebbe automaticamente convertito in una condotta offensiva (un “contempt”) tale da privare l’oratore dello scudo immunitario, solo disponibile a favore di chi non tenda a fuorviare, ingannandola, la camera. In questa esigenza di conformità alla verità delle dichiarazioni parlamentari si è comprensibilmente reputato risiedere l’alto valore dell’indagine, indirizzata ad impedire comportamenti capaci di comportare l’impedimento dell’attività parlamentare: in altri termini, capaci di attentare alla democrazia. Non deve, quindi, apparire enfatico o ridondante il preambolo prima riportato, perché nella semplicità e nettezza delle espressioni utilizzate spicca l’idea che un componente il governo, ancor di più chi lo guida, debba quotidianamente meritare e mantenere la fiducia del parlamento, senza tradirla con comportamenti contrari ai doveri di lealtà e verità. Perché, in fondo, ingannare il Parlamento è una sorta di inganno esponenziale al popolo che lo ha eletto.
E la peculiarità del caso, ben si può aggiungere, risiede collateralmente nella futilità delle occasioni generatrici dell’indagine, ossia lo svolgimento di manifestazioni sociali molto partecipate nei locali del numero 10 di Downing Street durante un prolungato periodo di contenimento dei contatti interpersonali che, in alcuni, dolorosi casi, ha precluso la possibilità di porgere l’estremo saluto a familiari in punto di morte[xxvii]. Sbaglierebbe chi pensasse che la relazione del Committee of Privileges costituisca un arretramento sul piano delle guarentigie parlamentari. È, infatti, puntualmente e nuovamente enunciato, al punto 15, il principio tradizionale secondo cui i privilegi parlamentari costituiscono una forma di protezione dei deputati in relazione ai lavori della camera di appartenenza (dibattiti, commissioni, audizioni, voti, etc.) e solo indirettamente ridondano a vantaggio dei singoli che vi prendono parte. In sostanza si è in presenza di una sorta di salvaguardia tesa ad assicurare che i parlamentari, in quanto rappresentanti eletti dal popolo, siano posti in condizione di adempiere i propri doveri al meglio delle loro possibilità e, al tempo stesso, che le vitali funzioni costituzionali assegnate al parlamento vengano espletate alla stregua dei più elevati criteri possibili[xxviii]. Il rapporto prosegue aderendo alla nozione di “contempt” stratificata nel tempo, individuandola, alla luce della prospettiva dei curatori dell’ultima edizione di Erskine May[xxix], in quelle condotte che, pur non dando origine in sé a violazioni di specifici privilegi (“breaches of any specific privilege”), causino ostruzioni o impedimenti al funzionamento del parlamento o ne offendano l’autorità o la dignità, ad esempio disobbedendo ad ordini legittimamente dati ovvero recando ingiuria alla camera di appartenenza, ai suoi membri o funzionari. Viene citata, onde rendere tipiche e nominate le condotte ascrivibili a fattispecie di “contempt” la lista redatta nel 1999 dal Joint Committee on Parliamentary Privileges che nel proprio rapporto comprende il disturbo ai lavori della camera di appartenenza, l’ostacolo frapposto all’attività di un membro o di un funzionario, il deliberato fuorviamento del parlamento stesso, l’alterazione o la falsificazione di documenti parlamentari, il rifiuto, privo di legittima giustificazione, di comparire davanti ad una commissione o di rispondere alle domande da essa poste, la corruzione, consumata o tentata, di un altro parlamentare, la subornazione di testi, la diffusione di documenti riservati provenienti da una commissione.
Sulla base di queste premesse teoriche e dei precedenti consegnati dall’esperienza la Commissione ha proceduto ad una serrata disamina della complessiva condotta dell’ex Primo Ministro, scomponendola nei vari segmenti corrispondenti alle molteplici dichiarazioni rese alla House of Commons, specialmente in occasione delle risposte alle domande formulate dagli altri parlamentari nel settimanale appuntamento del mercoledì durante il Prime Minister’s Questions.
Ridotta alla sua essenza la questione che aveva sollecitato l’inchiesta parlamentare era riconducibile all’acclarato svolgimento durante il tempo di massima diffusione pandemica, nel quale erano in vigore (come in molti altri paesi europei), severe disposizioni in materia di distanza sociale e di divieti di assembramenti, di parecchie riunioni festive (veri e propri “parties”), a base di alcoolici e di cibo, all’interno ed all’esterno degli uffici del primo ministro cui lo stesso aveva preso parte con numerosi collaboratori. Nel corso dei vari interventi alla camera Johnson aveva sempre negato che quelle riunioni avessero infranto le previsioni amministrative in atto ed asserito che durante le stesse fossero state osservate, in quanto possibile, le proibizioni. Man mano che pervenivano le contestazioni politiche (anche da rappresentanti del proprio partito ed in particolare dalla sua dante causa alla guida del governo, Theresa May, che in suo intervento si era sarcasticamente chiesta se per Johnson valessero o meno le regole che egli stesso aveva imposto al resto della popolazione) l’ex Primo Ministro aveva pubblicamente affermato di essere stato rassicurato dai suoi collaboratori (dei quali, con un’unica eccezione, non aveva fornito alla commissione il nome) circa la perfetta rispondenza degli incontri ai canoni normativi.
Al termine di una lunga attività istruttoria, corroborata da materiale documentario delle medesime riunioni, da dichiarazioni testimoniali scritte rese in forma di affidavits, da un prolungato esame (esacerbato da frasi molto polemiche rivolte all’indirizzo dell’imparzialità dei commissari) di Johnson da parte di tutti i componenti il Committee, questo ha depositato le proprie articolate e perentorie conclusioni, corredate dalla proposta di sospendere l’accusato dalle funzioni parlamentari per la durata di 30 giorni, che di seguito vengono riassunte.
Triplice è stato l’accertamento compiuto dalla Commissione in ordine: alla piena conoscenza da parte di Johnson delle disposizioni relative al Covid e delle relative linee-guida; alla sua consapevolezza della loro violazione durante lo svolgimento dei parecchi incontri; all’effettivo, deliberatamente ingannevole fuorviamento della House of Commons nel corso dei vari interventi svolti sul tema. Particolarmente duro suona il rapporto nel delineare con precisione le occasioni e le modalità del “misleading” posto in essere da Boris Johnson a danno della camera. In primo luogo l’attività decettiva si è concretizzata: nell’aver dato false assicurazioni circa l’effettiva osservanza delle regole sulla prevenzione del Covid; nell’aver taciuto la propria conoscenza della violazione delle regole durante i parties; nella reticenza circa l’identità di chi gli aveva garantito che quegli incontri si svolgevano in conformità alle regole valevoli per ogni cittadino; nell’aver dato l’inveritiera impressione che, prima di rispondere alle interrogazioni parlamentari durante i pubblici dibattiti, dovesse essere previamente esperita un’indagine interna da parte dei suoi uffici; nell’aver disatteso la promessa della successiva correzione delle proprie dichiarazioni; nell’aver capziosamente interpretato le proprie pubbliche dichiarazioni allo scopo di mistificare il loro chiaro significato letterale; nell’aver proposto letture giuridicamente insostenibili della legittimità degli incontri. La condotta dell’ex premier è stata aggravata, a giudizio del Committee of Privileges, dalla circostanza che egli, ricevuta per le sue osservazioni in forma espressamente riservata e con l’ammonimento della non divulgabilità, la versione preliminare del rapporto ne abbia fatto ampia diffusione mediatica, al tempo stesso utilizzando pesanti e diffamatori commenti critici sul lavoro e l’imparzialità della Commissione. A tale stregua è stata proposta la sospensione dalle funzioni parlamentari per 90 giorni. Poiché, nelle more della pubblicazione della versione definitiva del rapporto e dopo la ricezione di quello preliminare e provvisorio, Johnson aveva pubblicamente rassegnato le proprie dimissioni, la commissione, rigettata la richiesta di due suoi membri di adozione del massimo provvedimento espulsivo, ha suggerito che fosse negato a Johnson l’accesso (“former Members’ pass”) ai locali della House of Commons che viene generalmente riconosciuto ai parlamentari cessati dalla carica. Come ricordato, tutte le proposte istruttorie sono state approvate dall’assemblea plenaria con una larghissima maggioranza. Conclusivamente e riassuntivamente gli addebiti mossi ed accertati a carico dell’ex Primo Ministro possono così rappresentarsi: intenzionale inganno della camera di appartenenza; violazione dei doveri fiduciari nei confronti di essa; strumentale discredito propalato nei confronti dell’operato della Commissione e conseguente messa in pericolo del processo democratico parlamentare; complicità nella campagna denigratoria ed intimidatrice in pregiudizio del Committee.
4. Le implicazioni giuridiche, politiche ed etiche del rapporto del Committee of privileges: un insegnamento ed un esempio finale.
Il peso, destinato a lasciar indelebile traccia di sé in futuro, della capillare attività espletata dal Committee va innanzitutto colto nel già richiamato preambolo in cui è stato gettato l’espansivo seme
dell’insopprimibile raccordo tra la condotta dei membri del governo e la fiducia di cui essi devono godere agli occhi delle Camere. Fiducia, a propria volta, insuscettibile di una concezione restrittiva e formale, ossia circoscritta al merito dell’azione politica, ed improntata, piuttosto alla presupposta certezza della lealtà e sincerità delle dichiarazioni governative davanti alle camere. In altri termini, nulla ripugnerebbe maggiormente al senso dell’etica pubblica del tradimento della ragionevole aspettativa che, un componente del governo, nell’affrontare un pubblico dibattito al cospetto dei rappresentanti eletti del popolo, non si esprima in termini di sincerità ed aderenza alla verità e che, in ogni caso, si astenga dal rettificare le proprie dichiarazioni una volta resosi conto della loro involontaria erroneità. A ben vedere, la pesante censura mossa a Johnson coinvolge negativamente un doppio profilo della sua condotta: il carattere fuorviante (e quindi ingannevole) sia della rappresentazione dei fatti rilevanti sia della rispettiva interpretazione ed il mancato, successivo ristabilimento della verità dinanzi alle insuperate contestazioni avanzate dalla Commissione. Ed è sicuro che, secondo il metro valutativo adottato da questa, la perseveranza ostinata nell’errore si sia risolta in un’autonoma lesione al prestigio degli organi parlamentari. La statuizione del Committee costituisce un faro di orientamento dell’etica pubblica. Di essa si pretende la riferibilità a parametri di oggettiva verificabilità con riguardo ai comportamenti individuali che da essa devono trarre ispirazione. Sfugge, pertanto, ai coefficienti propri della morale pubblica non solo il comportamento ingannevole commissivo ma anche quello omissivo per mancata resipiscenza rispetto all’errore. È una considerazione, questa, che combina in sé gli aspetti politici ed etici della presenza in Parlamento, quale viene percepita dal pubblico che ad essa ha il fondamentale diritto di matrice costituzionale di guardare con fiducia. Mentire al Parlamento consapevolmente, o astenersi dal correggere la dichiarazione fuorviante resa in assenza di dolo, spezza il filo di comunicazione tra Parlamento, quale luogo di rappresentanza popolare, ed esecutivo su cui si regge il principio democratico ed ideale della separazione dei poteri. C’è da chiedersi retoricamente se a questa basilare massima comportamentale si assoggettino quei governanti e quei parlamentari che, ad ogni latitudine, trascurino il proprio dovere pubblico di agire con onore e disciplina rispondendo, ad esempio, ad interrogazioni o interpellanze o durante il “question time”. Ma il delicato tema esibisce con eguale intensità profili di esclusivo interesse giuridico. E questo, sebbene il Committee of Privileges della House of Commons non eserciti, come già detto, funzioni giurisdizionali in senso stretto e tradizionalmente si avvalga con molta parsimonia della prerogativa, riconosciutale da una risoluzione assembleare del 1978, di avvalersi della propria giurisdizione penale nell’ipotesi in cui si riveli necessario allo scopo di tutelare la Camera, i deputati ed i funzionari da condotte illecite dirette ad impedire od ostruire il funzionamento dell’organo parlamentare, o ad interferirne nell’attività.
Ed invero, il principale “thema decidendum” affidato al Committee era quello di stabilire se il complessivo contegno di Johnson realizzasse gli estremi del “contempt of Parliament”, ossia di quella figura la quale ricorre nel caso di condotte biasimevoli ostative al regolare funzionamento del Parlamento. A tal riguardo la commissione ha attinto all’autorevole opinione del Clerk of the Journals, ossia la maggior fonte di conoscenza delle procedure parlamentari e di consulenza per le camere e per i relativi componenti in materia di “privileges”. Egli, infatti, ha osservato in un allegato al rapporto della stessa commissione che le dichiarazioni fuorvianti dei Ministri costituiscono di per sé prevedibili impedimenti ai lavori parlamentari[xxx]. Muovendo da questo dato di fatto, il Committee si è dato un doppio criterio qualificativo della condotta di Johnson come di un “contempt”: la sua compatibilità con i parametri adottati in materia dalla House of Commons ed il grado dell’elemento soggettivo del suo autore. L’organo delegato ha motivatamente ritenuto che entrambe le condizioni fossero soddisfatte nella fattispecie. E ciò perché, da un canto, le dichiarazioni fuorvianti hanno precluso al Parlamento di svolgere il proprio centrale compito di scrutinare l’attività del governo e, d’altro canto, esse erano di natura tutt’altro che secondaria in quanto avevano un notevole impatto su una questione di salute pubblica, quale quella della costante obbedienza da parte del vertice governativo alle complesse ed inderogabili misure volte alla riduzione dei rischi di propagazione della pandemia che già aveva stroncato un altissimo numero di vite umane. Tenendo conto di queste circostanze il Committee si è proposto di graduare la sanzione da suggerire all’assemblea plenaria, individuandola nella penultima della scala desumibile dai precedenti della consorella Standards Committee, ossia la sospensione delle funzioni e dallo stipendio per un periodo di 30 giorni[xxxi]. Particolarmente abrasivo è il passaggio conclusivo della parte dosimetrica del rapporto. In essa, infatti, si dà atto della cospicuità delle offese inferte al Parlamento per la prima volta nella storia costituzionale inglese dal la massima figura del governo. Egli, dopo aver mentito circa la legittimità del proprio operato ed artificiosamente difeso contro ogni evidenza la tesi dell’ignoranza della perpetrata violazione delle regole, ha perfino ricusato la possibilità offertagli dal Committee di ritrattare le precedenti dichiarazioni di fronte alla House of Commons. Può giovare a gettare ulteriore luce sull’atteggiamento mostrato nel tempo da Johnson il ricordo, pur non evocato nel rapporto della commissione ma rimasto saldamente impresso nella mente degli osservatori di ogni provenienza, che egli fu impietosamente censurato nel settembre 2019 da una Supreme Court unanime che dichiarò l’invalidità del suo provvedimento di sospensione dei lavori parlamentari con chiari intenti elettorali[xxxii]. Non è difficile scorgere una disarmante continuità di atteggiamento sprezzante nei riguardi del baluardo della democrazia inglese che sembra lasciar trasparire una sorta di insofferenza verso le sue prerogative ed una plateale trascuratezza della sua funzione amplificatrice e rappresentativa della volontà popolare. Un autentico schiaffo a quell’elevato pensiero fondativo della democrazia liberale e costituzionale inglese che vede riconosciuta da parte del Sovrano del tempo nel parlamento inglese la suprema autorità legislativa del paese[xxxiii]. In diretta proporzione con tale elevato ruolo deve misurarsi il comportamento di chi con esso, in ogni qualità costituzionalmente rilevante, e massimamente in quella di capo del governo, intrattenga rapporti istituzionali: perché, a causa di deviazioni, non venga disperso lo spirito che anima la funzione di controllo sull’esecutivo svolta dalle Camere.
La vicenda che ha condotto all’esito qui descritto si carica certamente di tinte cupe quanto al totale deragliamento dai doveri istituzionali, politici e morali di un Primo Ministro sfrontato e protervo che non ha esitato a mettere a repentaglio molte vite solo per non rinunciare all’ebbrezza (in senso etilico) di una festa imprudente ed illegale ed, ulteriormente, ha preteso dalla stragrande maggioranza dei cittadini timorosi del comando normativo il sacrificio più crudele, quello di astenersi dal rendere il saluto d’addio ai familiari morenti.
Ma la stessa vicenda ha saputo, altresì, offrire uno spunto rassicurante in termini di prontezza di reazione da parte dell’istituzione ferita, insorta contro l’oltraggio patito anche a difesa della sovranità popolare.
In sostanza, una vicenda, forse replicabile in altri contesti politici ma altrettanto probabilmente con esiti differenti e più addomesticati, da incorniciare nel contesto di una democrazia costituzionale matura, tale, cioè da essere in grado di risollevarsi dal baratro contingente per riaffermare l’intramontabile primato della “rule of law”. Sta ad altre esperienze ed altri ordinamenti emularla, non sottraendosi, tramite infingimenti o parrocchiali difese di bandiera, al dovere di difendere l’integrità dell’istituzione parlamentare ed impedendo futili e mendaci scorribande ministeriali. Proprio ora, il tempo e l’occasione imminenti drammaticamente incalzano. Sarà quello il momento propizio per elevare il livello della comparazione giuridica fino alla soglia della sorveglianza diffusa sull’etica pubblica.
[i] An introduction to the study of the Constitution, l’ultima edizione della quale, dall’autore direttamente curata, fu pubblicata nel 1915. Sempre stimolanti e ricchi sono gli studi di Torre sul pensiero del grande giurista britannico. Si veda, ad esempio, Albert Venn Dicey: un constitutional lawyer al tramonto dell'età vittoriana, in Giornale di storia costituzionale, 2007, pag. 11 ss.)
[ii] Bagehot, The English Constitution, 2°ed. 1873, pag. 117 ss.
[iii] An introduction, cit., pag. 22.
[iv] Fourth part of the Institutes of the laws of England, 1644, pag. 36.
[v] Da Blackstone nei suoi Commentaries 1765-1769.
[vi] “The power and jurisdiction of Parliament is so transcendent and absolute that it cannot be confined, either for causes or persons, within any bounds”: Coke, cit. Sul tema della “parliamentary sovereignty” merita di essere ricordata la più recente polemica tra Wade (autore del seminale The legal basis of sovereignty, in Cambridge Law Journal, 1955, pag. 172 ss.) in Sovereignty - Revolution or Evolution, in The Law Quarterly Review, 1996, pag. 568 ss. e Allan, Parliamentary Sovereignty: Law, Politics, and Revolution, nella medesima rivista, 1997, pag. 443 ss. a proposito della permanente rilevanza della teoria costituzionale in materia, dal secondo strenuamente difesa.
[vii] Dicey, op. cit., pag. 269.
[viii] Un importante dibattito si sviluppò in un caso del 1670, Craw v Ramsay, in cui si controverteva circa l’applicabilità nel territorio inglese delle leggi approvate dal Parlamento irlandese. La questione è attentamente esaminata da Baker, Collected papers on English legal history, vol. II, Cambridge, 2013, pag. 907 ss., che diffusamente tratta del periodo cosiddetto della Anglo-Hibernian constitution, per riferirsi agli effetti dell’unione alla maggiore, dell’altra, più piccola nazione in posizione di sostanziale subordinazione.
[ix] Dicey, op.cit., pag. 293.
[x] Dicey, cit., pag. 52.
[xi] Il principio fu sancito in conseguenza del precedente del 1839 nel caso Stockdale v Hansard in cui quest’ultimo, storico editore dei lavori parlamentari, era stato ritenuto responsabile di diffamazione nei confronti di una persona alla quale si era rivolto un parlamentare, le cui frasi erano state appunto pubblicate dall’editore.
[xii] The case of the Sheriff of Middlesex.
[xiii] The House of Commons is not a court of justice; but the effect of its privilege to regulate its own internal concerns, practically invests it with a judicial character when it has to apply to particular cases the provisions of Acts of Parliament.
[xiv] Dicey, cit., pag. 300.
[xv] Erskine May, Treatise on the Law, Privileges, Proceedings and Usages of Parliament, la cui prima edizione risale al 1844 e, l’ultima la 25°, al 2019: l’opera costuisce ancora l’imprescindibile punto di riferimento per i lavori della House of Commons, come emergerà dal testo.
[xvi] È opinione comune e ricevuta da casi del passato, a partire da Barnard v Mordaunt del 1754, che l’immunità dall’arresto si protragga fino ai 40 giorni successivi alla sospensione dei lavori della camera o al suo scioglimento. In ogni caso, dell’avvenuto arresto lo Speaker deve informare la camera di appartenenza e la relativa comunicazione va inserita nei resoconti ufficiali: Erskine May, op.cit., par. 14.3.
[xvii] Erskine May, cit., 25° ed, par. 12.8.
[xviii] Op.ult.cit., par. 14.10.
[xix] Erskine May, par.15.11.
[xx] Negli anni 2008 e 2009 la House of Commons ha approvato un codice di condotta per i parlamentari (Code of conduct) ed una guida alle regole relative ai loro comportamenti (Guide to the rules relating to the conduct of Members).
[xxi] Treatise, cit., par. 15.28, nota 1.
[xxii] “The offer of money or other advantage to any Member of Parliament for the promoting of any matter whatsoever, depending or to be transacted in Parliament, is a high crime and misdemeanour”.
[xxiii] Erskine May, 22° ed., 1997, pag. 65.
[xxiv] Trattandosi di un’immunità per così dire esterna al Parlamento la dottrina suole parlare al riguardo di “qualified immunity”.
[xxv] “Whether he had misled the House and whether that conduct amounted to a contempt”.
[xxvi] “The inquiry goes to the very heart of our democracy. Misleading the House is not a technical issue, but a matter of great importance. Our democracy is based on people electing Members of Parliament not just to enable a government to be formed and supported but to scrutinise legislation and hold the Executive to account for its actions. Our democracy depends on Mps being able to trust that what Ministers tell them in the House of Commons is the truth. If Ministers cannot be trusted to tell the truth, the House cannot do its job and the confidence of the public in our democracy is undermined. When a Minister makes an honest mistake and then corrects it, that is democracy working as it should”.
[xxvii] Drammatica è la testimonianza finale di Jonathan Coe nel suo struggente Bournville a proposito del mancato commiato alla madre.
[xxviii] Parliamentary privilege is a protection for the proceedings of Parliament-debates, committees, hearings, votes and so on- and only indirectly for the individuals who participate in them. It is a safeguard to ensure that parlamentarians, including the public’s elected representatives, are able to carry out their duties to the best of their ability, and that all of parliament’s vital constitutional functions can be carried out to the highest possible standards.
[xxix] 25a edizione datata 2019 del Treatise on the Law, Privileges, Proceedings and Usages of Parliament, curata da Limon e McKay.
[xxx] “Misstatements by Ministers are inherently likely to obstruct or impede the House”.
[xxxi] Le altre possibili misure a disposizione del Committee sono: l’accertamento dell’infrazione senza irrogazione di sanzione; l’ammonizione o il rimprovero; la privazione temporanea di stipendio ed indennità, pur in assenza di sospensione; l’espulsione.
[xxxii] Si può vedere sul punto, Serio, Prime impressioni relative alla sentenza 41/2019 della Supreme Court sulla (il)legittimità della sospensione dei lavori del Parlamento inglese, nell’edizione di questa Rivista del 30 settembre 2019.
[xxxiii] Così si esprime in The rule of law, Londra, 2010, pag. 160, suo canto del cigno biologico ma imperituro testamento culturale e morale, Lord Bingham, illuminato giudice e Presidente dell’Appellate Committee della House of Lords: “If asked to identify the predominant characteristic of our constitutional settlement in the United Kingdom today, most of us would, I think, point to, or at any rate include in any list, our commitment to the rule of law and our recognition of the Queen in Parliament as the supreme law-making authority in the country”.
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