ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le pene accessorie della bancarotta fraudolenta: le S.U aprono nuovi scenari del procedimento di esecuzione?
di Paola Cervo
Con sentenza depositata in data 5 dicembre 2018, n. 222/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».
Sommario: 1. L’antefatto - 2. Proporzionalità e pene accessorie - 3. Gli effetti della sentenza 222/2018. Le prime pronunce della Corte di Cassazione - 4.La remissione alle Sezioni Unite. - 5. Le ricadute pratiche in sede esecutiva. La posizione di Cass. Sez. Un. n. 6240/2014 - 6. La decisione delle Sezioni Unite del 28.2.2019, ric. Suraci. Quali ricadute?
1. L’antefatto. La sentenza in questione trova il proprio diretto antecedente nella sentenza C. Cost. 10 novembre 2016 n. 236 , emessa nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 567 co. 2 c.p., sentenza cui del resto la motivazione della decisione 222/2018 opera ripetuti e consapevoli richiami. Con il citato precedente del 2016, dunque, la Corte Costituzionale superava un proprio precedente negativo (ord. 106/2007) ed individuava la proporzionalità della pena come limite alla discrezionalità delle scelte legislative, dichiarando illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., il severo quadro edittale (reclusione da cinque a quindici anni) previsto per il delitto di cui all’art. 567, secondo comma, c.p., che incrimina l’alterazione dello stato civile di un neonato realizzato mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità; quadro edittale cui, per effetto della sentenza qui in esame, è stato sostituito quello più mite previsto dallo stesso art. 567 primo comma (reclusione da tre a dieci anni).
Si tratta di una decisione imprescindibile perché l’accoglimento della questione di costituzionalità non nasceva dalla disparità di trattamento tra la disposizione censurata e altra disposizione assunta come tertium comparationis, quanto piuttosto dal riconoscimento della irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio. Viene riconosciuto che la cornice edittale della pena prevista per la norma censurata è manifestamente sproporzionata rispetto al reale disvalore della condotta punita, alla luce del principio della funzione rieducativa della pena e – in generale – dell’esigenza di proporzionalità del sacrificio dei diritti fondamentali cagionata dalla pena rispetto all’importanza del fine perseguito attraverso l’incriminazione.
Tanto precisato sul piano concettuale, la Corte analizza poi il tema che più interessava al remittente: con quale pena punire? E’ passaggio delicato, si potrebbe sconfinare da un momento all’altro nel potere legislativo e nella discrezionalità politica che insindacabilmente consegnata al legislatore. Ma la Corte Costituzionale può intervenire, in materia di proporzionalità della pena, soltanto allorché la dichiarazione di illegittimità di un dato quadro edittale comporti la sua sostituzione, idealmente “a rime obbligate”, con altro quadro edittale già operante nell’ordinamento per fattispecie di disvalore comparabile; giacché «obiettivo del controllo sulla manifesta irragionevolezza delle scelte sanzionatorie non è alterare le opzioni discrezionali del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze».
Il quadro edittale previsto dal primo comma dell’art. 567 c.p. (reclusione da tre a dieci anni) sembra allora il più adeguato a sostituirsi a quello dichiarato illegittimo, consentendo alla Corte – testualmente – di non «sovrapporre, dall’esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea rispetto alle scelte legislative», ma di giudicare «”per linee interne”», «entro il perimetro conchiuso del medesimo articolo», «la coerenza e la proporzionalità delle sanzioni rispettivamente attribuite dal legislatore a ciascuna delle due fattispecie di cui si compone il reato di alternazione di stato». La Corte riconosce, invero, che le due fattispecie non sono identiche, né possiedono il medesimo disvalore, potendo anzi non implausibilmente argomentarsi, come fa l’ordinanza di rimessione, che i fatti previsti dal primo comma (sostituzione di neonato) siano addirittura più gravi, coinvolgendo non uno solo, ma due neonati. Dal momento però che entrambe le fattispecie sono poste a tutela del medesimo bene giuridico – la veridicità dello stato di filiazione o, più precisamente, l’interesse del minore a cedersi riconosciuto un rapporto familiare corrispondente alla propria effettiva ascendenza –, distinguendosi in definitiva soltanto per le modalità esecutive, l’equiparazione del quadro sanzionatorio previsto dal primo comma a entrambe le fattispecie appare alla Corte una soluzione non solo possibile, ma anzi «l’unica soluzione praticabile» in grado di raggiungere l’obiettivo: e cioè quello di garantire al giudice la possibilità di commisurare, muovendo dal muovo minimo di tre anni di reclusione, una pena non più sproporzionata per eccesso rispetto all’effettivo disvalore del fatto.
Così eliminata la manifesta irragionevolezza presente nel sistema, valuterà poi il legislatore – conclude la Corte – se riconsiderare funditus, e complessivamente, i quadri sanzionatori previsti dal settore normativo in esame, eventualmente reintroducendo le differenziazioni che saranno ritenute più adeguate.
2. Proporzionalità e pene accessorie. Il principio di proporzionalità deve essere declinato anche per le pene accessorie.
Vengono certamente in rilievo le precedenti pronunce della Corte Costituzionale ( C. Cost. 31/2012 e C.Cost. 7/2013) che hanno rispettivamente dichiarato la illegittimità costituzionale dell’automatismo della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale, prevista in conseguenza del delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567 co. 2 c.p. (si tratta proprio della previsione il cui trattamento sanzionatorio è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza 236/2016) nonché della analoga pena accessoria prevista in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 566 co. 2 c.p.. Tali sentenze declinano però il principio di proporzionalità rispetto all’ingerenza della pena accessoria nella vita del minore coinvolto, poiché un siffatto automatismo impedisce al giudice di valutarne l’interesse nel caso concreto.
La pronuncia 222/2018, oggetto del presente commento, si inserisce appunto in questo contesto.
La sentenza, alla luce di una attenta esegesi della motivazione dell’ordinanza di rimessione, delimita preliminarmente il petitum del giudice rimettente al solo scrutinio sulla legittimità della durata, decennale e fissa, della pena accessoria, e non si pronuncia in ordine all’automatismo che prevede inesorabilmente l’ applicazione di tale pena accessoria in caso di condanna; è importante qui notare che il meccanismo in forza del quale la Corte Costituzionale, accogliendo l’eccezione di costituzionalità, ha interpolato la norma censurata, è lo stesso cui già aveva fatto ricorso nella citata decisione 236/2016.
Disattendendo proprie precedenti decisioni del 2012 che avevano già respinto questioni analoghe, la Corte procede ad una
C. Cost. 222/2018 muove da tale principio ma lo precisa ulteriormente, affermando che << a consentire l’intervento della Corte non è necessario che esista nel sistema un’unica soluzione costituzionalmente vincolata chiamata a sostituirsi a quella illegittima […]; essenziale e sufficiente […] è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti, esse stesse immuni da vizi di legittimità, ancorchè non costituzionalmente obbligate, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata costituzionalmente illegittima; sì da consentire alla Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia>>. Dunque, la decisione qui in esame passa ad indagare il sistema dei reati fallimentari, per valutare se esso possa offrire <
In questa ricerca la Corte Costituzionale – siamo alle pagg. 14 e 15 della motivazione – afferma con chiarezza di non essere persuasa dalla soluzione suggerita dalla sezione rimettente, che proponeva di sostituire la norma ritenuta incostituzionale con l’art. 37 c.p. (<<quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria>>) ; e ciò sulla base di una approfondita disamina della funzione che il legislatore storico intendeva assegnare alla pena accessoria prevista dall’art. 216 l.f.
Riespandere il meccanismo previsto dall’art. 37 c.p. significa attingere ad una soluzione costituzionalmente legittima essa stessa, e già presente nell’ordinamento; inoltre, ancorare la durata della pena accessoria a quella della pena detentiva – che viene fissata in base ai criteri dettati dall’art. 133 c.p. – assicurerebbe un certo grado di rispetto del principio di individualizzazione delle pene accessorie. Tuttavia <
3. Gli effetti della sentenza 222/2018. Le prime pronunce della Corte di Cassazione. A tale sentenza hanno immediatamente fatto seguito pronunce discordanti della Corte di Cassazione, posta dinanzi al dubbio se annullare la sentenza di condanna per bancarotta con rinvio al giudice di merito per la nuova determinazione della durata della pena accessoria ormai divenuta illegittima nella sua misura fissa, ovvero se determinare essa stessa la durata della pena accessoria in misura pari a quella della pena detentiva inflitta.
In particolare, Cass. sez. V 7 dicembre 2018 n. 1963 ric. Piermartiri e Cass. sez. V 7 dicembre 2018 n. 1968, ric. Montolone hanno affermato che in tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. In coerente applicazione del principio, tali decisioni hanno riconosciuto d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comm., legge fall., ed hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato.
L’orientamento giurisprudenziale qui in esame, pur tenendo nel debito conto la decisione della Corte Costituzionale, evidenzia tuttavia che esso non è vincolante, e che – alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite n. 6240/2014 e della giurisprudenza che ad essa si è conformata, in termini conformi e tali da costituire ormai diritto vivente – le pene accessorie previste per il delitto di bancarotta, in quanto pene determinate dalla legge solo nel massimo (‘fino a dieci anni’, per effetto della citata pronuncia della Corte Costituzionale) sono ricondotte dal diritto vivente alla disciplina dell’art. 37 c.p.
Di diverso avviso Cass. Sez. V n. 5882 del 29/01/2019 Ud. (dep. 06/02/2019 ) Rv. 274413 - 01 , secondo cui
4.La remissione alle Sezioni Unite. Inevitabile la rimessione alle Sezioni Unite, operata ancora una volta dalla V sezione con ordinanza n. 56458 del 14 dicembre 2018, per valutare se le pene accessorie previste dalla legge fallimentare per il reato di bancarotta fraudolenta vadano considerate:
-pene accessorie di durata predeterminata, soggette alla regola dell’art. 37 c.p. (soluzione che però la sentenza C. Cost. 222/2018 sembra avere già espressamente disatteso);
- ovvero pene accessorie di durata non predeterminata, quantificabili dunque ai sensi dell’art. 133 c.p. e pertanto rimesse alla determinazione discrezionale del giudice di merito, con una valutazione in fatto che è precluso in sede di legittimità.
L’ordinanza di rimessione afferma di non poter condividere il principio di diritto enunciato dalla citata decisione del 7.12.2018 ric. Piermartiri, in quanto il dispositivo della sentenza della Corte Costituzionale deve essere letto – e compreso – alla luce della motivazione, ed in motivazione il giudice delle leggi ha esplicitato le ragioni che rendono inapplicabile il meccanismo previsto dall’art. 37 c.p.. Inoltre, ad avviso della sezione rimettente è anche legittimo dubitare del fatto che l’orientamento espresso da Sez. Un. n. 6240/14 possa essere consideraro alla stregua di diritto vivente, e ciò inquanto esso è stato <
La sezione rimettente evidenzia a questo punto che <
Tali conclusioni potrebbero però conseguire a due diversi percorsi argomentativi: l’uno, basato su una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza n. 6240/2015; l’altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell’art. 37 c.p. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell’art. 216 ult. comma legge fall., così come ridisegnato dalla Consulta>>.
5. Le ricadute pratiche in sede esecutiva. La posizione di Cass. Sez. Un. n. 6240/2014. La questione rimessa alle Sezioni Unite chiama direttamente in causa i poteri del giudice dell’esecuzione, poichè per tutte le sentenze di condanna per bancarotta fraudolenta già passate in giudicato si pone il problema di ricondurre a legalità un segmento della pena – la pena accessoria fa infatti parte a pieno titolo della pena intesa in senso ampio – dichiarato incostituzionale. Naturalmente, le considerazioni che seguono si riferiscono all’ipotesi in cui la pena debba essere ancora eseguita, pochè l’ipotesi della situazione già esaurita con l’integrale espiazione anche della pena accessoria non può più essere messa in discussione, nemeno dal punto di vista teorico.
Orbene, nella decisione n. 6240/2014 le Sezioni Unite hanno chiarito che una pena inflitta contra, o preter, legem deve essere rimossa non solo attraverso i rimedi impugnatori previsti durante il giudizio di cognizione, ma anche , dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ad opera del giudice dell’esecuzione. La legittimazione ad intervenire sulla pena è conferita al giudice dell’esecuzione dal principio di legalità della pena, che ne permea anche la fase esecutiva e dinanzi al quale anche il giudicato deve cedere; e dalla pacifica applicabilità alla pena accessoria dei principi elaborati dalla giurisprudenza per la pena principale, non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena non conforme in tutto ai parametri legali. Dunque le Sezioni Unite riaffermano l’orientamento, peraltro maggioritario, che riconosce al giudice la possibilità di intervenire in sede esecutiva per emendare una pena accessoria illegale. La questione, però, è stabilire limiti ed ambito di tale intervento.
Le linee guida di tale operazione si ricavano, ad avviso della Corte, dal sistema: innanzitutto l’intervento sulla pena accessoria in executivis va escluso quando il giudice della cognizione si sia pronunciato e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, all’applicazione di una pena illegale: in tali casi, si afferma, il rimedio consiste (o meglio avrebbe dovuto consistere) negli ordinari mezzi di impugnazione. Tale soluzione si argomenta dagli artt. 671, 630, co. 1, lett. c) e 625 bis c.p.p., i quali si compongono in un sistema che esclude l'intervento sul giudicato nell'ipotesi in cui il giudice della cognizione abbia già espresso le sue valutazioni, a meno che queste ultime abbiano dato origine ad errori macroscopici di calcolo o abbiano comportato l'applicazione di una pena avulsa dal sistema.
In secondo luogo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è ammesso sempre che non implichi valutazioni discrezionali ai sensi dell’art. 133 c.p. in ordine alla specie ed alla misura della pena. Tale specifica conclusione viene argomentata dagli artt. 183 e 187 disp. att. c.p.p. che, limitando il potere del giudice dell'esecuzione all'attuazione del dictum della sentenza, ne consentono l'interpretazione o integrazione, ma non lasciano al giudice dell’esecuzione la facoltà di determinarlo. Ad avviso della Corte la maggior limitazione , rispetto alla fase della cognizione, non è in contrasto con i parametri dell’art. 24 Cost perché i poteri del giudice dell’esecuzione sono ispirati al criterio della intangibilità del giudicato. È ironico rilevare che quale esempio di pene accessorie predeterminate dalla legge, certamente applicabili ad opera del giudice dell’esecuzione perchè non postulano l’esercizio di alcuna forma di discrezionalità, la Corte indichi proprio quelle previste dalla legge fallimentare per il caso di condanna per bancarotta.
Più problematico il caso in cui la pena accessoria sia indicata con un limite minimo o con un limite massimo di durata. Si tratta della situazione che, per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 222/2018, viene a crearsi per le pene accessorie che conseguono alla condanna per bancarotta, la cui durata massima risulta stabilita
Le Sezioni Unite danno atto della creazione di due orientamenti in materia: uno, che afferma che in tali casi la determinazione della durata della pena accessoria spetta al giudice con gli ordinari criteri di cui all’art. 133 c.p. e dunque non trova applicazione l’art. 37 c.p.; l’altro, secondo cui in simili casi la durata della pena non può dirsi ‘espressamente determinata’ e dunque trova applicazione l’art. 37 c.p., con la conseguenza che la pena accessoria acquista la stessa durata della pena principale.
Le Sezioni Unite hanno accolto tale secondo orientamento, evidenziando che ‘pena espressamente determinata’ è solo quella che sia stata indicata nella specie e nella durata, e che la predeterminazione per legge presuppone che non vi sia margine di discrezionalità nell’applicazione della pena , situazione che non si verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare. A sostegno di tale conclusione la sentenza indica un argomento testuale - l'inciso finale dell’art. 37 c.p. non avrebbe ragion d'essere se il principio di uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria non trovasse applicazione anche nell'ipotesi in cui venga indicato solo un minimo o un massimo di durata della pena accessoria – ed un argomento sistematico, in forza del quale l’art. 37 c.p., collocato al termine del capo dedicato alle pene accessorie, funge da norma di chiusura che trova applicazione in ogni ipotesi in cui il legislatore non abbia diversamente stabilito, attraverso una indicazione precisa della durata della pena accessoria da applicare. Pertanto, le Sezioni Unite ritengono ammissibile l’intervento del giudice dell’esecuzione anche nelle ipotesi riconducibili all'art. 37 c.p., poiché senza esercitare il potere discrezionale che gli è precluso egli determinerà automaticamente la pena accessoria in base alla durata della pena principale inflitta dal giudice della cognizione.
Conclusivamente, la Corte affermava il seguente principio di diritto: "l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione".
Come si è visto analizzando la motivazione di C. Cost. 222/2018, con la esplicita confutazione della validità del meccanismo previsto dall’art. 37 c.p. la Corte Costituzionale assume una posizione apparentemente inconciliabile con quella assunta invece dalle Sezioni Unite e dalla successiva giurisprudenza di legittimità in ordine alla determinazione della durata della pena accessoria che consegue alla condanna per bancarotta fraudolenta. All’indomani della nuova remissione della questione alle Sezioni Unite, da più parti si è osservato – e lo ha fatto anche la V Sezione con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, poc’anzi sintetizzata - che la posizione assunta da Cass. Sez. Un. 6240/2014 necessitava una riflessione, poichè allo stato essa non consente di dare piena attuazione alla sentenza C. Cost. 222/2018.
6. La decisione delle Sezioni Unite del 28.2.2019, ric. Suraci. Quali ricadute? All’udienza del 28.2.2019 le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno deciso la questione rimessa dalla V Sezione. Alla data in cui viene scritto questo contributo è nota solo l’informazione provvisoria, che di seguito si riporta testualmente: <
In altre parole, nei giudizi attualmente pendenti in fase di legittimità, tutte le sentenze di condanna per bancarotta fraudolenta cui consegue l’applicazione delle pene accessorie previste dalla legge dovranno essere annullate con rinvio, per consentire al giudice di merito la determinazione della durata della pena accessoria secondo le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale e secondo i criteri indicati dall’art. 133 c.p.. Come detto, tale operazione potrà condurre alla determinazione di una durata della pena accessoria maggiore rispetto a quella della pena principale; oppure si potrebbe pervenire alla determinazione di una durata identica a quella della pena principale, ma in tal caso occorrerà una dettagliata ed esaustiva motivazione che, se adeguatamente argomentata in punto di fatto, sarà insuscettibile di sindacato in sede di legittimità.
Resta da comprendere la sorte della pena accessoria irrogata nei procedimenti per i quali la sentenza di condanna sia ormai passata in giudicato.
Non essendo ancora nota la motivazione della decisione delle Sezioni Unite del 28 febbraio 2019, qualunque speculazione rischia di degradare a pura illazione; tuttavia alcune considerazioni possono essere formulate.
In primo luogo, pare innegabile che le Sezioni Unite non abbiano raccolto il suggerimento, proveniente dall’ordinanza di rimessione, volto a considerare le pene accessorie del delitto di bancarotta fraudolenta come genus autonomo: stando all’informazione provvisoria, il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione riguarda in ugual misura tutte le pene accessorie la cui durata non sia predeterminata dal legislatore.
Per altro verso, l’art. 37 c.p. non ha perso vigore, e dunque occorre attendere la motivazione per verificare in che termini il principio di diritto riportato dall’informazione provvisoria possa essere armonizzato con il tenore letterale della citata norma, che invece espressamente prevede che la pena accessoria della quale la legge non predetermini la durata <
La questione più interessante, naturalmente, pare essere proprio quella che concerne i processi definiti con sentenza già passata in giudicato. Non è detto che essa sia stata affrontata esplicitamente, atteso che il caso da decidere riguardava un giudizio pendente in fase di legittimità; tuttavia quantomeno per i reati di bancarotta la pena accessoria di durata fissa e decennale è divenuta ‘pena illegale’, e dunque almeno in tali casi il giudice dell’esecuzione potrà essere adito per ricondurre a legalità tale parte della pena.
Il punto saliente è verificare se la decisione qui in commento consenta o meno un simile intervento: si è già visto che nel precedente contesto interpretativo- in cui la pena accessoria conseguente alla condanna per bancarotta sarebbe stata determinabile senza discrezionalità alcuna in misura pari a quella della pena principale, in forza del meccanismo dell’art. 37 c.p.- qualora il giudice della cognizione avesse omesso di pronunciarsi sul punto , il giudice dell’esecuzione avrebbe potuto integrare la sentenza applicando la pena accessoria ‘dimenticata’. Nel nuovo quadro che si va delineando, la pena di durata fissa decennale va rimossa, in quanto pena divenuta illegale; ma le coordinate tracciate dalle Sezioni Unite nel 2014 imporrebbero di affermare che in sede esecutiva non è possibile sostituire la pena di durata fissa con quella discrezionalmente quantificata ex art. 133 c.p., per cui il giudice dell’esecuzione, una volta revocata la pena accessoria, dovrebbe lasciare aperto un vuoto sanzionatorio. Si tratta di conclusione che presterebbe il fianco a più di una obiezione.
Un diverso , possibile scenario è quello in cui la Corte, valorizzando il principio per cui la pena accessoria è parte integrante della pena, estenda ad essa i principi elaborati in ordine alla rideterminazione in executivis della pena principale, in tal modo consentendo al giudice dell’esecuzione di esercitare anche la discrezionalità normalmente affidata al giudice della cognizione nella quantificazione della pena. Si aprirebbe così un nuovo capitolo della progressiva erosione del giudicato ; ma non essendo ancora nota la motivazione della sentenza appare più corretto fermarsi qui.
La Favorita
A siderale distanza dall’invisibile guerra anglofrancese per l’egemonia del nordamerica, nella reggia inglese degli Stuart si consuma il palpabile conflitto gentilizio tra due donne infatuate del potere.
Abigail, cugina blasonata ma decaduta di Lady Sarah Churchill duchessa di Marlborough, torna a corte infangata di un fetido e popolare letame che gradatamente scrolla da sé nella perversa sequenza della sua scalata alla regina, spodestando l’ambiziosa cugina.
Due donne (anche) acusticamente forgiate in cadenze filmiche dal ritmo ossessivo (alla Nik Bärsch) di due sole note di fondo, come misero registro sonoro di un opificio metallico che annunci ostilità.
Anna, malata di gotta e capricciosamente sovrana del suo sfarzoso nulla d’imbarazzi e umorali bizzarie, eterodiretta da Sarah che la vincola a sè con cure e lusinghe, realizza il suo regio disagio popolandosi l’anima (e la stanza) di diciassette conigli, surrogato animale dei diciassette figli perduti, e compensando il corpo disfatto con overdose culinarie e improbabili trucchi del viso.
A sua volta Lady Marlborough, vera e astuta governatrice di tutto, fautrice con i whig e contro i tory della guerra in corso, attratta e poi contrariata da Abigail fino alla violenza fisica e verbale, ingaggia con questa un duello smaccato e raffinato che la vedrà solo apparentemente soccombere.
Un duello scandito da parole e mosse d’ambiguità tagliente, patinate di un’aristocratica eleganza non per questo meno lesiva; un duello calibrato sul transito, cinico, carnale e sanguigno, di quel favore che la regina accorda, prima a Sarah e poi ad Abigail, che con candida ferocia l’irretisce nel corpo e nella mente.
Lo iato tra l’aristocrazia maschile e le dame di corte, dipinto e rimarcato dal regista greco con tratti rappresentativi estenuati dal fascino dell’estremo (i ridondanti parrucconi, la gara delle oche, il lancio degli agrumi sul cortigiano nudo e sorridente, simboli tutti di leziosa e grossolana mascolinità), segna il confine ironico del film e ne rilancia il senso verso una generale ammirazione del mondo femminile, colorando, in un abile mixaggio filmico che lascia traccia nello spettatore, gli attributi di ferocia delle due contendenti in virtù splendenti di arguta e intelligente belligeranza, che lo stesso Lanthimos celebra con la distintissima bellezza estetica, uguale e contraria, della mora Sarah e della bionda Abigail e del loro autosufficiente erotismo (l’intuita distratta masturbazione di Samuel Masham, che sposando Abigail la fa baronessa, ha il pregio di incoronare in un solo simbolo il primato femminile, proiettando l’universo dell’uomo nel ghetto della più ridicola subalternità).
Così, ridiventata nobile e ascesa virtualmente al trono regio per la preferenza accordatale dalla regina Anna, la nuova Favorita tuttavia, per eccesso di potere e sicumera, ne discenderà presto.
L’ingaggio di una scena allegorica che il regista elegge a seducente finale - la sorpresa in flagranza che la sovrana fa di Abigail alle prese con atti di sevizie sui suoi conigli - ricompone ruoli e ranghi: costretta per i capelli giù per terra a massaggiarle le gambe inferme, Abigail, nel medesimo gesto dapprima erotico adesso umiliante, ridiventa serva; mentre la regina, al riflesso immaginifico e geniale di un grembo materno brulicante di conigli, con nobilissimo vigore e muto dolore innalza la testa in segno di triste ma inflessibile comando.
L’esistente goffo e malato di Anna, il ripudio di Sarah esiliata dal regno, la rovinosa sorte di Abigail ripiombata nel gorgo dell’inferiorità sociale allineano, ciascuno per il suo verso, i destini delle tre donne in un incubo irrisolto, dove non c’è spazio né tempo per l’amore insincero e dove fasto e miseria si mescolano confondendosi nella volgarità dei loro eccessi.
Attorno al conflitto al femminile storie di mollezze, trame cospiratorie, grandezze effimere e sontuosi cedimenti che in un’apprezzabile sapienza filmica consacrano della perfida Albione l’anima cinica ed eterna.
La difesa è sempre legittima? No.
di Giuseppe Amara
Il presente breve scritto si pone l’obiettivo di inquadrare le recenti modifiche normative di cui alla proposta di legge C1390-A in tema di legittima difesa, approvata, in testo unificato, lo scorso 6 marzo 2019 dalla Camera dei Deputati, individuando possibili spunti di riflessione per la quotidiana applicazione giurisprudenziale, in attesa della conclusione dell’iter legislativo in corso, per cui è prevista una seconda votazione del Senato della Repubblica, per il prossimo 26 marzo 2019.
Sommario: 1. Premessa.- 2. Lavori preparatori.- 3. Modifiche normative.- 4. Spunti di riflessione.-
1. Premessa.
Lo scorso 6 marzo 2019, la Camera dei Deputati, a larga maggioranza (373 voti favorevoli, 104 contrari e 2 astenuti), ha approvato, con modifiche, la proposta di legge in tema di legittima difesa C. 1309-A, già trasmessa dal Senato il 25 ottobre 2018. Il voto del Senato della Repubblica, in sede di seconda lettura, è previsto per il prossimo 26 marzo. Alla Camera, la proposta di legge 1309 risulta abbinata alle proposte 274 – 580 – 607 – 1303 ed approvata, in testo unificato, dopo una prima presentazione avvenuta lo scorso 23 marzo 2018.
2 . Lavori preparatori.
Dalla lettura dei lavori preparatori della proposte di legge, cui risulta abbinata la 1309-A approvata lo scorso 6 marzo, si evince come la genesi della riforma, fortemente criticata anche dalla Dottrina[1], è da rinvenire nel filone della produzione normativa emergenziale[2] e spesso compulsiva, correlata alla necessità di dare una risposta di natura politica ad esigenze securitarie, sollecitate da fatti di cronaca nera e relativi esiti giudiziari.
Del tutto chiarificatori, in tal senso, sono taluni passaggi dell’introduzione alla proposta C-274, passaggi che si ritiene di riportare in virgolettato, stante l’eloquente messaggio espresso. Si legge infatti come: « recenti fatti di cronaca relativi a violente aggressioni in abitazioni private a scopo di furto e a rapine presso attività commerciali quali la rivendita di tabacchi, di prodotti petroliferi o di preziosi che vengono sempre più di frequente perpetrate ai danni di nostri concittadini, ci impongono, nella nostra responsabilità di legislatori, di verificare che il nostro ordinamento sia adeguato per contrastare e prevenire tali fenomeni », con l’ulteriore chiara affermazione del principio della privata difesa, integrativo/sostitutivo all’intervento dello Stato, per cui « La repressione e la prevenzione dei reati spettano innanzitutto allo Stato, ma è necessario predisporre strumenti adeguati di tutela, nei casi in cui ci sia un pericolo imminente e l’impossibilità di scongiurarlo attraverso il tempestivo intervento delle Forze dell’ordine ».
Ripercorrendo ancora le dichiarazioni d’intenti dei firmatari della proposta, si evince la ritenuta non adeguatezza dell’attuale configurazione della scriminante di cui all’art. 52 c.p., peraltro già significativamente riformulata nel 2006, con la legge n. 59, nella misura in cui prevede, ai fini del riconoscimento della stessa, la necessaria proporzionalità tra offesa ed azione difensiva: « La norma dell’articolo 52 del codice penale appare, infatti, insufficiente a garantire una possibilità di difesa da aggressioni violente, soprattutto nella parte in cui richiede, affinché ricorra la legittima difesa, la proporzionalità tra difesa e offesa ».
Chiara espressione di sfiducia nell’operato della Magistratura è la successiva precisazione formulata dai firmatari della proposta di legge, ovvero l’opportunità di modifica del testo legislativo, non già sottesa all’introduzione di un’area di impunità di condotte da ritenersi “reazioni spropositate per attacchi privi di una reale offensività”, bensì motivata dal bisogno di reagire alla sostanziale disapplicazione giurisprudenziale dell’esimente. Si legge: « tale norma si è nei fatti tradotta, anche attraverso la sua interpretazione giurisprudenziale, in una sostanziale inapplicabilità dell’esimente in esame. Si è perciò fatta avanti nell’opinione pubblica la convinzione che difendersi possa paradossalmente far passare l’aggredito dalla parte del torto ».
Evidente, quindi, il dichiarato intento di limitare l’area di discrezionalità nell’interpretazione dell’autorità giudiziaria, in un’ottica di sfiducia del suo operato, ponendo paletti alla valutazione del fatto da parte del Giudice ed introducendo una serie di presunzioni legali che possano, in via preventiva, perimetrarne la decisione.
3. Modifiche normative.
Venendo al testo della riforma, all’articolo 52 del codice penale sono apportate le seguenti modifiche: a) al secondo comma, dopo la parola: « sussiste » è inserita la seguente: « sempre », avverbio che qualifica, in termini di assolutezza, il rapporto di proporzione come precisato al primo comma della disposizione, ogni qual volta si procede per fattispecie di reato poste in essere con violazione di domicilio (nella sua estensione ricomprendente anche gli esercizi commerciali) ed ai fini difensivi ivi indicati (difesa della propria o altrui incolumità, nonché di beni propri o altrui, quando non vi è desistenza del reo e vi è pericolo di aggressione); b) al terzo comma, le parole: « La disposizione di cui al secondo comma si applica » sono sostituite dalle seguenti: « Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma (di nuova introduzione) si applicano »; c) dopo il terzo comma è aggiunto il seguente quarto comma: « Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone ». Con tale ulteriore previsione si intende introdurre, di fatto, una presunzione di sussistenza della scriminante, già rimarcata con l’introduzione dell’avverbio “sempre” di cui al secondo comma, ma che, nei casi indicati, sembrerebbe prescindere da una verifica della necessità della difesa e, soprattutto, come parrebbe desumersi anche dai lavori preparatori, del rapporto di proporzione con l’offesa, sul punto, si tornerà in seguito.
Ancora, si interviene sulla disciplina dell’eccesso colposo, introducendo, dopo il primo comma dell’articolo 55 c.p., quella che si ritiene essere una nuova causa di non punibilità, peraltro dall’incerta applicazione, ovvero: « Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, numero 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto ».
Contestualmente, si incide sui profili risarcitori civilisti correlati al fatto illecito, modificando l’art. 2044 c.c., in particolare, prevedendo un’esclusione assoluta di responsabilità nei casi in cui l’agente ha agito, in presenza dei presupposti di cui all’art. 52 c.p., commi 2, 3 e 4, precisando inoltre come, nel caso di cui all’articolo 55 c.p. comma 2, « al danneggiato è dovuta una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato ».
Che detta proposta sia fortemente correlata all’esigenza di contrasto alla diffusa percezione di insicurezza è confermato anche dalla contestuale modifica di altre fattispecie di parte speciale poste a tutela del patrimonio, intervenendo con un ulteriore, significativo, inasprimento delle cornici edittali, già ritoccate in precedenti interventi normativi (anche questa tecnica normativa è esemplificativa di quella “legislazione compulsiva” di origine simbolica[3], funzionale a soddisfare il bisogno di rigore percepito dalla comunità e la sequenziale ricerca di sicurezza, quanto meno apparente).
Ed in particolare: all’articolo 614 c.p. sono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, le parole: « da sei mesi a tre anni » sono sostituite dalle seguenti: « da uno a quattro anni »; b) al quarto comma, le parole: « da uno a cinque anni » sono sostituite dalle seguenti: « da due a sei anni ».
Ancora, all’art. 624bis c.p. (norma che, negli ultimi anni, assurge a campo di gioco elettivo per cercare consenso, cavalcando le diffuse esigenze securitarie), vengono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, le parole: « da tre a sei anni » sono sostituite dalle seguenti: « da quattro a sette anni »; b) al terzo comma, le parole: « da quattro a dieci anni e della multa da euro 927 a euro 2.000 » sono sostituite dalle seguenti: « da cinque a dieci anni e della multa da euro 1.000 a euro 2.500 ».
Infine, all’art. 628 c.p., sono apportate le seguenti modifiche: a) al primo comma, la parola: « quattro » è sostituita dalla seguente: « cinque »; b) al terzo comma, alinea, la parola: « cinque » è sostituita dalla seguente: « sei » e le parole: « da euro 1.290 a euro 3.098 » sono sostituite dalle seguenti: « da euro 2.000 a euro 4.000 »; c) al quarto comma, la parola: « sei » è sostituita dalla seguente: « sette » e le parole: « da euro 1.538 a euro 3.098 » sono sostituite dalle seguenti: « da euro 2.500 a euro 4.000 ».
Contestualmente, inoltre, vengono previsti correttivi in tema di sospensione condizionale, ammissione al gratuito patrocinio e formazione ruoli d’udienza. In particolare: si modifica, in caso di condanna, l’articolo 165 c.p., prevedendo che la sospensione condizionale della pena per il reo sia subordinata al pagamento integrale alla parte offesa del risarcimento del danno; ancora, si interviene sulla disciplina del patrocinio a spese dello stato, con l’introduzione dell’art. 115bis d.p.r. 115/02, prevedendolo in favore di colui che sia stato assolto, prosciolto o il cui procedimento penale sia stato archiviato per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo di legittima difesa.
In conclusione, si prevede una nuova ipotesi (comma ater) di priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza (art. 132bis disp.att. c.p.p) in relazione ai processi « relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi in presenza delle circostanze di cui agli articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma, del codice penale ».
4. Spunti di riflessione.
Il testo, così come formulato, prospetta una serie di dubbi interpretativi.
Innanzi tutto, l’inserimento dell’avverbio “sempre”, al secondo comma dell’art. 52 c.p., nel rafforzare la disposizione introdotta con la legge n. 59/06, introduce, sostanzialmente, una presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione di cui al primo comma della disposizione, ogni qual volta si procede per fattispecie di reato poste in essere con violazione di domicilio (e luoghi equiparati, quali gli esercizi commerciali) e con i fini difensivi ivi indicati (propria o altrui incolumità, beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione).
Invero, tale presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione si ritiene non possa prescindere, nell’applicazione concreta, dalla previa verifica degli ulteriori presupposti dell’esimente, con peculiare riferimento al bilanciamento dei contrapposti beni giuridici che vengono in gioco. È questo un percorso ermeneutico già adottato dalla recente giurisprudenza[4] e dal quale, con ogni probabilità non ci si discosterà anche in futuro. Risulta, infatti, del tutto necessario procedere in tale direzione, al fine di salvaguardare una norma che, diversamente, allontanandosi da un’interpretazione costituzionalmente orientata (in ossequio all’art. 2 CEDU – 117 comma 1 Cost.), presenta aspetti di potenziale – seppur marcato – contrasto con il rispetto dei diritti fondamentali della persona, ed in particolare dei beni giuridici della vita e dell’incolumità fisica, con sequenziali profili di evidente incostituzionalità. Si pensa, in particolare, alle ipotesi ove vengono in gioco i fini difensivi di cui alla lettera b del comma 2 dell’art. 52 c.p. (beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione).
Per taluno[5], invece, acutamente, questa modifica sarebbe una “non modifica”, nel senso che, aldilà del valore volutamente simbolico che assume, non è comunque idonea ad incidere sulla disposizione di cui al secondo comma, così come giudizialmente interpretata ed applicata negli ultimi anni, dopo la sua introduzione nel 2006, in quanto: « Dire che il rapporto di proporzione sussiste “sempre”, senza modificare le situazioni, normativamente descritte, in relazione alle quali la presunzione opera, non sposta di un millimetro, a me, pare, il problema sul tappeto ».
Ancor più problematica, è l’introduzione del successivo comma 4 ove si inserisce, in sostanza, una presunzione di sussistenza di legittima difesa nella condotta di colui che compie un « atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone ».
Oltre l’utilizzo di formule indeterminate che destano significativi dubbi interpretativi se portate alla loro massima espansione, non può non segnalarsi come un’interpretazione letterale ed apodittica del testo, lungi dall’escludere la legittimità di reazioni spropositate a condotte non offensive, porterebbe ad ampliare a dismisura l’ambito di operatività dell’esimente, ritenendo comunque legittimo “l’atto” oppositivo a condotte tipiche (624bis c.p. – 624, 625 c.p.) di frequentissima applicazione nella quotidiana prassi giurisprudenziale, non differenziando, in alcun modo, la natura della reazione, la sua proporzione con l’offesa ed introducendo, pertanto, una presunzione di legittimità dell’operato del privato – che, peraltro, potrà trovare applicazione ancor più ampia, a mente il disposto di cui al comma 4 dell’art. 59 c.p.
La norma, così come strutturata, si presta a profili di dubbia costituzionalità che si ritiene potranno essere superati soltanto grazie al doveroso accertamento della sussistenza dei requisiti della necessità della difesa e della proporzione tra la difesa e l’offesa, presupposti che comunque permangono indefettibili per l’accertamento dell’operatività della scriminante di cui all’art. 52 c.p. Attività interpretativa costituzionalmente orientata della Magistratura che, senz’altro, presterà il fianco a critiche, spesso slegate dal doveroso attento studio delle carte processuali, ma che potrà garantire il pieno rispetto della Carta, a mente il doveroso bilanciamento tra beni di rango costituzionale.
Una soluzione interpretativa diversa pare francamente improbabile e, con buona verosimiglianza, condurrebbe a tensioni costituzionali della norma che introdurrebbe, nell’ordinamento, un precetto contrario a principi costituzionali e sovranazionali.
Venendo poi alla modifica in tema di eccesso colposo, innanzi tutto, è evidente come anche questa previsione sia funzionale a circoscrivere ulteriormente l’ambito di valutazione del Giudice, sostanzialmente sottraendogli la verifica dell’assenza di colpa dell’agente che, nei casi indicati (aver agito nelle condizioni di cui all’art. 61 n. c.p., ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto), si presume, pertanto, non esservi. L’interpretazione letterale del testo, peraltro, conduce ad evidenti profili di indeterminatezza applicativa; invero, se il richiamo alle condizioni di cui all’art. 61 n. 5, non desta particolari problemi, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale già consolidata, di converso, alquanto problematico si ritiene l’accertamento in concreto dell’ulteriore ipotesi, ovvero quella di aver agito in uno stato di “grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”: l’indagine soggettiva di tale stato d’animo non può che preannunciarsi particolarmente ardua, stante l’assoluta genericità dell’ipotesi normata – grave turbamento – e l’imperscrutabilità del campo di studio. Gli elementi del fatto, pur potendo qualificare l’elemento psicologico che sorregge la condotta – peraltro con le note difficoltà –, si dubita potranno acquisire una connotazione talmente individualizzante, tale da aiutare l’investigatore a provare qualcosa che va ben oltre la prova dell’elemento soggettivo e che trasfonde nelle più intime e remote convinzioni dell’agente. Definizione normativa, peraltro, che richiama possibili tensioni con la norma di cui all’art. 90 c.p. che espressamente nega la rilevanza, ai fini dell’esclusione, ovvero dell’attenuazione dell’imputabilità, degli stati emotivi o passionali, intesi quali « fattori che non attengono alla sfera intellettiva o volitiva del soggetto ma a quella sentimentale o affettiva (es. collera; gioia, paura, ansia) »[6], ricomprendendo, per l’appunto, quello che parrebbe essere il concetto di “grave turbamento”). Infine si ritiene che, anche tale nuova disposizione, qualora approvata senza modifiche, dovrà necessariamente andare incontro ad un’interpretazione che sia costituzionalmente orientata, non ritenendo possa trovare spazio, nel nostro ordinamento, una presunzione tout court di assenza di colpa, di fronte a condotte che, dalle emergenze processuali, si evince chiaramente siano censurabili in punto di colpa, diversamente creando aree di impunità incompatibili con il sistema.
[1] Si vuol far riferimento, in particolare, al comunicato emesso dall’AIDP, nel luglio 2018, in relazione alle differenti proposte di legge, all’epoca sul tavolo, ovvero: nn. 274, 308 e 580, comunicato dagli intenti chiaramente esplicitati nel titolo: “La riforma della legittima difesa deve essere conforme ai principi costituzionali e sovranazionali e non può ingannare i cittadini. Nessuna riforma potrà impedire indagini e processi, che si svolgono anche quando si uccide il cane del vicino”,
[2] AA.VV., I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, a cura di S. Moccia, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009; M. DONINI, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei?, in Diritto Penale Contemporaneo, 4/2013, p. 4 e ss. ed amplissima bibliografia ivi menzionata; R. BARTOLI, Legislazione e prassi in tema di contrasto al terrorismo internazionale: un nuovo paradigma emergenziale?, in Diritto Penale Contemporaneo, 3/2017, p. 233 e ss.
[3] A. MANNA, Alcuni recenti esempi di legislazione penale compulsiva e di ricorrenti tentazioni circa l’utilizzazione di un diritto penale simbolico in LA SOCIETÀ PUNITIVA Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; F. SGUBBI, Presentazione, in Insolera (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Cedam, 2006;
[4] A titolo meramente esemplificativo Cass. Sez. IV pen., 20 giugno 2018, n. 29515; Cass. Sez. III pen., 9 luglio 2018, n. 30910; Cass. Sez. 1 pen., 8 marzo 2007 n. 16677; ed ancora: Cass. Sez. V pen., 30 marzo 2017, n. 44011, ove si legge in un inequivoco passaggio della motivazione: « La giurisprudenza di questa Corte ha, però, precisato che non ogni pericolo che si concretizza nell'ambito del domicilio giustifica la reazione difensiva, atteso che, come suggerito all'interprete dalla collocazione della norma di nuovo conio dopo quella di cui all'art. 52, comma 1, cod. pen., restano fermi i requisiti strutturali stabiliti dalla disposizione generale: il pericolo attuale di offesa ingiusta e la costrizione e la necessità della difesa, dai quali scaturisce l'inevitabilità dell'uso delle armi come mezzo di difesa della propria o dell'altrui incolumità o, alle condizioni date, dei beni propri o altrui »;
[5] G. Gatta, Sulla legittima difesa "domiciliare": una sentenza emblematica della Cassazione (caso Birolo) e una riforma affrettata all'esame del Parlamento, in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[6] M. Romano – G. Grasso, Commentario Sistematico del Codice Penale – II art. 85 – 149, Giuffrè. 1996 p. 44;
PROVA DEL LICENZIAMENTO ORALE LA CASSAZIONE TORNA SUI SUOI PASSI Cassazione sentenza 8 febbraio 2019 n. 3822.
di Silvia Casarino
Quando un lavoratore viene licenziato senza un atto scritto, chi deve provare che c’è stata una violazione del requisito di forma e che il licenziamento è pertanto inefficace? L’orientamento della Corte di Cassazione pareva essersi assestato attribuendo al lavoratore l’onere di provare solo che il rapporto contrattuale era cessato; spetterebbe pertanto al datore di lavoro la dimostrazione del fatto che la cessazione sia dipesa da un licenziamento scritto o dalle dimissioni del dipendente. Con la sentenza in commento (3822/2019) questo criterio di riparto probatorio torna in discussione.
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, affronta approfonditamente la questione della ripartizione dell’onere probatorio nelle controversie relative al licenziamento orale.
Si tratta di controversie piuttosto frequenti, nelle quali, a fronte della cessazione del rapporto di lavoro (e quindi della circostanza che il lavoratore ha smesso di eseguire la propria prestazione), normalmente si contrappongono due versioni incompatibili: da una parte quella del lavoratore che afferma di essere stato licenziato oralmente dal datore di lavoro; dall’altra quella del datore di lavoro che deduce che, invece, il rapporto si è estinto per dimissioni rassegnate dal lavoratore (per lo più oralmente o con comportamento concludente) o per una risoluzione consensuale.
Poiché le rispettive prospettazioni sono basate esclusivamente su comportamenti materiali e non su atti giuridici, è immediatamente intuibile che la risoluzione della controversia dipenda dalle risultanze istruttorie. Da ciò deriva la necessità di stabilire quale sia l’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ. su ciascuna delle parti, capitando sovente che la decisione dipenda dal mancato assolvimento di detto onere, sicché la parte che non ha dato prova del fatto che è onerata di dimostrare risulterà soccombente.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte era pacifico che il rapporto di lavoro fosse cessato, ma mentre la Corte d’Appello aveva ritenuto che con detta allegazione il lavoratore avesse adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto, la Cassazione giunge a conclusioni opposte.
Osserva la Cassazione che sulla questione si contrappongono due diversi orientamenti.
Un primo secondo il quale, essendo il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e alla reintegrazione attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro ed alla sua sfera volitiva (il licenziamento), cui non corrisponde un’identica iniziativa del lavoratore, quest’ultimo deve soltanto dimostrare l’estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento, collegando l’estromissione a dimissioni del lavoratore, costituisce un’eccezione in senso stretto, con onere, quindi, a carico del datore di lavoro (la Suprema Corte cita Cass. n. 2853/1995 e numerose sentenze successive).
Dunque, da una parte prova dell’estromissione (in capo al lavoratore), sostanzialmente coincidente con la prova della cessazione del rapporto di lavoro, e, dall’altra, prova delle dimissioni (a carico del datore di lavoro).
Il secondo orientamento ritiene invece che il termine “estromissione” sia sinonimo di “espulsione” e quindi di “licenziamento”, di talché la prova del licenziamento deve essere fornita dalla parte che propone l’impugnazione, integrando il licenziamento il fatto costitutivo della domanda.
Ne deriva che il datore di lavoro, che ben può opporre un diverso fatto estintivo del rapporto (quale le dimissioni del lavoratore), può anche limitarsi a negare detto fatto costitutivo (così Cass. n. 12520/2000 e altre pronunce menzionate dalla Suprema Corte).
La sentenza in commento dichiara di aderire al secondo orientamento ed enuncia il seguente principio di diritto per il giudice del rinvio: “Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.
Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, co. 1, cod. civ., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.
L’“estromissione” dal rapporto, per la Suprema Corte, non coincide con la mera circostanza di fatto della cessazione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la non contestazione di detta circostanza fattuale – ossia che il lavoratore abbia smesso di prestare la propria attività – non ha alcuna conseguenza a livello probatorio.
Quindi l’allegazione del lavoratore ricorrente in merito alla cessazione del rapporto di lavoro non fa scattare in capo al datore di lavoro convenuto l’onere di dimostrare un fatto estintivo diverso dal licenziamento, in particolare le dimissioni.
Il punto fondamentale della sentenza è dunque la riconduzione del licenziamento, ancorché intimato in forma diversa da quella prevista dalla legge ai fini della sua validità, al fatto costitutivo della domanda di impugnazione dello stesso.
E’ quindi netta la diversità di prospettiva rispetto all’indirizzo secondo cui sarebbe sufficiente la semplice allegazione, da parte del lavoratore, della cessazione del rapporto, quale conseguenza della considerazione per cui il licenziamento verbale, atto unilaterale del datore di lavoro, costituisce manifestazione di un atto volitivo il cui onere probatorio non può essere posto a carico di chi di detto atto si limita a subire gli effetti.
L’impostazione della sentenza in commento è più aderente alle categorie processuali, che, soprattutto in tempi recenti, fanno procedere di pari passo gli oneri di allegazione e quelli probatori, come è accaduto, per esempio, anche in materia di repechage.
E’ tuttavia innegabile che l’indirizzo dalla Suprema Corte, sintetizzato in modo chiaro nel principio di diritto formulato per il giudice del rinvio, pone oneri probatori molto difficili in capo al lavoratore.
Essendo il licenziamento verbale ricondotto al fatto costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento, neppure la contumacia del datore di lavoro di per sé dispensa il lavoratore dal fornirne la prova, come espressamente osservato dalla Suprema Corte.
Troverà in questo caso applicazione l’art. 232 cod. proc. civ., e pertanto laddove il convenuto contumace non renda l’interrogatorio formale, il giudice potrà ritenere provata la circostanza storica del licenziamento verbale, allegata dal lavoratore, ciò tuttavia “valutato ogni altro elemento di prova”, non consentendo la contumacia alcuna deroga alla ripartizione dell'onere della prova.
Il datore di lavoro convenuto che si costituisca in giudizio semplicemente negando di avere licenziato verbalmente il lavoratore non è quindi neppure tenuto a fornire una sua diversa ricostruzione dei fatti, essendo le dimissioni o altra causa estintiva del rapporto (come la risoluzione consensuale) un’eccezione, la cui rilevanza a livello probatorio sorge soltanto laddove risulti provato il licenziamento verbale.
Questo principio è enunciato dalla Cassazione nella sentenza n. 3822/2019 mediante richiamo all’art. 2967 cod. civ. che disciplina la distribuzione degli oneri probatori dei fatti costitutivi da una parte e dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi dall’altra, ponendoli a carico, rispettivamente nel primo e nel secondo comma, sulla parte che propone la domanda fondata su quei fatti costitutivi e sulla parte che sollevi eccezioni, dirette a contrastare le altrui deduzioni, basate a loro volta sui fatti da essa dedotti.
Di tali difficoltà probatorie è consapevole la Cassazione, che, nella pronuncia in commento, ritiene che esse possano essere mitigate da una parte mediante un utilizzo appropriato delle presunzioni, oggetto, ex art. 2729 cod. civ., del prudente apprezzamento del giudice, e, dall’altra, facendo uso dei poteri officiosi a livello istruttorio, che caratterizzano il processo del lavoro.
La fattispecie esaminata dalla Cassazione, come da essa precisato, e a cui si applicano i principi enunciati nella sentenza, è tuttavia ben delimitata e non coinvolge tutte le possibili questioni in cui si controverta sull’esistenza di un valido atto estintivo del rapporto di lavoro.
E’ di per sé estranea alla questione della prova del licenziamento verbale la tematica della validità delle dimissioni (e della risoluzione consensuale), oggi sottoposte ad una particolare procedura, contenuta nell’art. 26 d. lgs. 151/2015.
D’altra parte, laddove tra le parti sia incontroverso che il rapporto si sia risolto per licenziamento, ma si discuta con quali forme e modalità esso sia stato intimato, non viene in questione la tematica del licenziamento verbale e della sua dimostrazione.
Si pensi, per esempio, ai casi di licenziamento comunicato tramite sms, WhatsApp, o a mezzo dei social media: in questi casi (recentemente esaminati nella giurisprudenza di merito) si tratta eventualmente di valutare se sia rispettata la forma scritta richiesta dall’art. 2 comma primo legge 604/1966, con la conseguenza che, laddove dette forme non dovessero essere ritenute valide, vi sarebbe un profilo di illegittimità del licenziamento per violazione della forma prescritta, senza che si debba indagare sulla comunicazione di un licenziamento orale. In altri termini, in questi casi il licenziamento è validamente comunicato oppure non lo è; ma se non è validamente comunicato, il mezzo utilizzato per intimare il licenziamento non può essere “degradato” a licenziamento verbale con le connesse tematiche di riparto dell’onere della prova.
Il principio affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 3822/2019, pertanto, riguarda soltanto le fattispecie in cui sia controverso l’atto risolutivo del rapporto di lavoro, e quindi se vi sia stato un licenziamento, intimato oralmente, rispetto al quale venga opposto (o comunque sia astrattamente opponibile) la risoluzione per dimissioni.
Si può osservare che, secondo il primo dei due indirizzi citati dalla Cassazione, anche un’allegazione generica del lavoratore ricorrente faceva scattare sulla controparte un onere di contestazione. Era pertanto sufficiente che il lavoratore deducesse di essere stato licenziato verbalmente, senza alcuna ulteriore specificazione spazio-temporale, in ciò consistendo l’allegazione circa l’“estromissione” dal rapporto di lavoro, ossia, in sostanza, in merito alla cessazione del rapporto.
Se il datore di lavoro restava contumace si riteneva che il lavoratore avesse assolto al proprio onere probatorio, e prima ancora di allegazione, con conseguente soccombenza del datore di lavoro onerato di fornire la dimostrazione di un fatto estintivo diverso dal licenziamento verbale allegato dal lavoratore.
Applicando il principio affermato da Cass. n. 3822/2019, invece, a fronte di una simile generica allegazione attorea, il licenziamento verbale non può ritenersi dimostrato, né il datore di lavoro convenuto è tenuto a contestare le deduzioni del lavoratore. Un onere di specifica contestazione, infatti, sorge soltanto rispetto a circostanze a loro volta specificamente allegate.
Quando, invece, il lavoratore formuli un’allegazione storica specifica (indicando il giorno e le circostanze in cui si sarebbe verificato il licenziamento verbale, la persona che l’avrebbe comunicato e il suo ruolo nell’azienda, le parole da questa utilizzate, ecc.), seppure egli sia onerato della prova del licenziamento verbale, rileverà comunque il comportamento processuale del convenuto, tenuto, ai sensi dell’art. 416 comma terzo cod. proc. civ. - a rischio, altrimenti, del consolidarsi a livello probatorio dei fatti come incontroversi in virtù del principio di non contestazione -, a prendere posizione, nella memoria di costituzione ex art. 415 cod. proc. civ., “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”.
Quindi la negazione dell’asserito licenziamento verbale con formule generiche o di mero stile, senza offerta di una diversa ricostruzione fattuale, pur applicando i principi espressi nella sentenza in commento potrebbe condurre ad un giudizio di non contestazione, ai sensi degli artt. 115 primo comma e 416 terzo comma cod. proc. civ., delle circostanze di fatto affermate dal lavoratore, pur onerato della prova del licenziamento verbale.
La soluzione delle controversie potrà quindi dipendere anche dalle prospettazioni difensive delle parti e dal comportamento processuale di ciascuna.
Più precisamente, se è vero che, secondo il principio enunciato dalla Cassazione, il licenziamento verbale dev’essere provato dal lavoratore che lo alleghi e che il datore di lavoro può limitarsi ad una mera negazione dei fatti affermati dal lavoratore, un qualche rilievo, nella valutazione complessiva del giudice, potrà assumere la verosimiglianza della diversa deduzione del datore di lavoro in merito alle circostanze fattuali che, secondo la sua prospettazione difensiva, hanno condotto alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Si può, per esempio, pensare ad una fattispecie, anch’essa ricorrente nella pratica, di licenziamento per fatti concludenti, come nel caso in cui il lavoratore alleghi di non avere più potuto, a un certo punto, prestare la propria attività per aver trovato l’azienda chiusa o comunque non operativa.
A fronte di un’allegazione precisa, relativa ad un fatto storico individuato e collegato alla sfera dell’azienda, il datore di lavoro, per evitare che i fatti (la cui prova incombe sul lavoratore) vengano considerati processualmente incontestati, dovrà prendere una posizione specifica, contestando le affermazioni attoree, e quindi deducendo che l’azienda era invece aperta e attiva.
Soltanto a fronte di una simile specifica allegazione del lavoratore e di una altrettanto specifica contestazione del datore di lavoro, verrà in questione la distribuzione dell’onere probatorio sull’una e sull’altra parte, in applicazione del principio enunciato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento.
Come osservato, la particolare difficoltà probatoria conseguente al regime di distribuzione dell’onere della prova affermato nella sentenza n. 3822/2019 è avvertita dalla stessa Cassazione, che sottolinea che essa può essere temperata dall’uso delle presunzioni e dei poteri istruttori officiosi previsti dall’art. 421 comma secondo cod. proc. civ..
In effetti la prova diretta, in particolare quella testimoniale, del licenziamento verbale (essendo alquanto rara la confessione nel contesto di un interrogatorio formale) è statisticamente infrequente, salvo che nelle ipotesi di licenziamento asseritamente comunicato per telefono con riferimento al quale sovente si afferma che abbiano assistito altre persone, magari con inserimento del dispositivo “viva voce”, così sentendo le parole pronunciate dal datore di lavoro.
Nella pratica giudiziaria recentemente capita spesso che vengano prodotte registrazioni di conversazioni, essendo le parti in ciò agevolate dalla diffusione di telefoni cellulari, smartphone o altri dispositivi elettronici, che consentono di effettuare registrazioni in modo agevole.
In questo caso si tratterà di una prova documentale del licenziamento verbale, il cui valore in giudizio dipenderà dall’atteggiamento difensivo del datore di lavoro, in particolare se quest’ultimo disconoscerà o meno, ai sensi dell’art. 2712 cod. civ., la conformità della registrazione ai fatti rappresentati.
La situazione più onerosa dal punto di vista probatorio si verifica quando, secondo la prospettazione dello stesso lavoratore ricorrente, il licenziamento verbale è stato intimato senza che alcuno vi abbia assistito.
In questo caso, salvo un’improbabile confessione, potranno essere utilizzate unicamente le presunzioni e i poteri istruttori officiosi ex art. 421 cod. proc. civ..
Potrà assumere rilievo, a livello presuntivo, il comportamento tenuto dalle parti nell’immediatezza rispetto al momento dell’asserito licenziamento verbale, come l’offerta del lavoratore della propria prestazione nei giorni successivi all’asserito licenziamento verbale, per iscritto (seppur per il licenziamento verbale non occorra l’impugnazione entro i termini di decadenza ex art. 6 legge 604/1966) o mediante presentazione presso l’azienda.
Oppure, nell’ipotesi di un colloquio avvenuto all’interno dell’ufficio del datore di lavoro a cui non ha assistito alcun testimone, potrebbero essere oggetto di valutazione, quale elemento di prova nell’ambito del complessivo quadro processuale, le affermazioni fatte nell’immediatezza dal lavoratore ai propri colleghi in merito a quanto accaduto. Infatti, pur non avendo la testimonianza "de relato ex parte actoris", di per sé sola, alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, essa può tuttavia essere valutata come elemento di prova quando sia suffragata da ulteriori risultanze probatorie, che concorrano a confermarne la credibilità.
D’altra parte, laddove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto non per licenziamento verbale ma per dimissioni, sempre sotto il profilo della valutazione del comportamento successivo delle parti, può assumere rilievo l’esperimento o meno, da parte sua, delle procedure previste dalla legge ai fini della validità delle dimissioni, che il datore di lavoro, se in buona fede sulle dimissioni da lui affermate, dovrebbe espletare.
Eventualmente simili circostanze potranno essere indagate anche d’ufficio ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. (per esempio mediante acquisizione di informazioni presso il Centro per l’Impiego), secondo quanto enunciato da Cass. n. 3822/2019, che, citando la nota pronuncia n. 11353/2004 delle Sezioni Unite, sollecita detto utilizzo anche nel caso in cui si siano verificate preclusioni o decadenze in danno delle parti.
Ciò, tuttavia, avendo presente che – ed è questo il punto più rilevante dell’orientamento espresso dalla sentenza in commento –, applicando il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte non è più necessario che il datore di lavoro fornisca la prova delle dimissioni, potendo, si ritiene, comunque assumere rilievo, nella valutazione complessiva delle rispettive prospettazioni difensive, la verosimiglianza o meno della ricostruzione storica proposta dal datore di lavoro anche come conseguenza della contestazione, più o meno specifica ex art. 416 comma secondo cod. proc. civ., delle deduzioni fattuali del lavoratore.
Restano i casi, definiti dalla pronuncia in commento “residuali”, in cui, nonostante l’utilizzo delle presunzioni e dei poteri istruttori officiosi, permanga comunque “una non superabile incertezza probatoria”, in cui – anche a prescindere dalla prova delle dimissioni eccepite dal datore di lavoro –, non raggiunta la prova del licenziamento verbale, fatto costituivo della domanda di impugnazione proposta dal lavoratore, quest’ultimo, ai sensi dell’art. 2697 comma primo cod. civ., dovrà essere considerato soccombente.
Si tratta, secondo la Suprema Corte, di casi, appunto, “residuali”, nel senso che, nonostante tutti i mezzi probatori esperibili, anche in via officiosa, non sia possibile raggiungere la prova del licenziamento verbale.
A conclusione di queste brevi considerazioni si deve osservare che, secondo l’esperienza giudiziaria, i casi residuali ricorrono in realtà assai frequentemente: i licenziamenti verbali, invero, si verificano (o comunque vengono dedotti) nel contesto, per lo più, di aziende di piccole dimensioni (non particolarmente strutturate, prive, per esempio, di un ufficio del personale), ed in cui, per dette caratteristiche, i rapporti personali sono più accentuati, sicché frasi, magari pronunciate d’impeto nell’ambito di un semplice diverbio, possono essere interpretate in modo polivalente, così come il comportamento successivo delle parti non sempre può fornire significativi elementi presuntivi da fare oggetto di valutazione in ambito processuale.
GIUSTIZIA E PREDIZIONE: L'ALGORITMO CHE LEGGE IL FUTURO
di ELENA QUARTA
“ Le parti, un giorno, di fronte ad una disputa,
potranno sedersi e procedere ad un calcolo”.
(G. Leibniz, Dissertatio de arte combinatoria, 1666)
Il saggio affronta l'affascinante tematica della giustizia predittiva, che realizza l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici .Si parte dalla nascita del sistema giuridico che si colloca tra mito greco e tradizione romanistica, per poi addivenire alla consapevolezza - impressa negli scritti senza tempo di Francesco Galgano - che “il diritto nasce come un sistema di regole per la soluzione non violenta dei conflitti fra gli uomini”. Altresì il diritto, come lo definisce il prof. A. Schiavone, è una forma che ha invaso la modernità, diventandone presto un carattere insostituibile. In tale contesto, la possibilità di utilizzare i metodi delle scienze esatte nel campo giuridico riemerge in tutto il suo splendore dagli studi logico-filosofici del passato, grazie al recente testo del Prof. Avv. Luigi Viola intitolato “Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva”. Questo volume è il risultato finale di vari studi di ricerca condotti dal docente , che a partire dall'art. 12 delle Preleggi è giunto ad elaborare una formula la cui applicazione alle vicende processuali consente di prevederne l'esito. Questa formula è stata già applicata in via sperimentale su alcune vicende processuali che sono state poste all'attenzione della Suprema Corte giungendo con successo a prevedere esattamente il contenuto delle decisioni.
Sommario: 1. L'intramontabile fascino del diritto: dalla nascita sotto il segno del mito greco fino al segreto legame con la logica.- 2. La frontiera della giustizia predittiva 3 Il Giano bifronte della giustizia predittiva : il modello della Corte d'Appello di Brescia .-4 Il giudice nel labirinto delle interpretazioni ed il modello del Prof. Avv. Luigi Viola come moderno “filo di Arianna” 4.1 L'equazione per interpretare la legge 4.2 Studi avveniristici: un modello matematico dell’intero processo 5.Conclusioni
1. L'intramontabile fascino del diritto: dalla nascita sotto il segno del mito greco fino al segreto legame con la logica
Per gli antichi Greci i numi ed il fato rappresentavano la forma ai due lati del rapporto con la trascendenza, Questo tema in Omero si sviluppa nell'idea di un livello superiore , sancito dalla volontà di Zeus, che prestabilisce i vari momenti della vicenda epica e i ruoli assegnati ai protagonisti. La divinità e il destino diventavano termini equivalenti quando si trattava di attribuire la causa delle rovine o delle fortune umane. Talemaco, nell'Odissea, così apostrofa la madre che vorrebbe far tacere un aedo: “Madre mia, perchè vieti che il gradito cantore diletti come la mente lo ispira? Non certo i cantori son causa, Zeus è la causa. Lui dà sorte agli uomini industri, come vuole a ciascuno” L'uomo non può che riconoscere e accettare l'inclusione del proprio destino in un piano superiore e immodificabile che è fatale e divino insieme. La pressochè totale interscambiabilità di significato tra divinità e destino rappresenta uno degli aspetti centrali della visione arcaica del mondo: “Nessuno è causa della propria rovina o della propria sfortuna-avverte Teognide-entrambe sono doni degli dei” La tragedia greca, nelle sue espressioni più elevate, rappresenta il dramma del non-sapere. Anche quando l'uomo crede di conoscere, il suo sapere ha sempre qualcosa di sfasato, di equivoco, di inadeguato. Il sapere effimero dell'uomo si contrappone al sapere divino di Zeus. Tuttavia nel momento in cui più intenso si materializzerà il pessimismo greco, cioè nel circolo tragico, l'onnipotenza degli dei non esimerà l'uomo dal tentativo di contribuire a determinare il proprio destino. Questa elaborazione, che rappresenta una evoluzione nella semantica del concetto di destino, si accompagna all'idea che Zeus punisca, prima o poi, i colpevoli e garantisca la prosperità a coloro che si comportino onestamente. L'intervento degli dei nelle cose umane si chiarisce e diventa espressione di una logica afferrabile e comprensibile. La ridefinizione in termini razionali dell'agire divino si accompagna all'apparizione sulla scena mitologica, di una nuova dea, Dike, la Giustizia, che ha il compito di sorvegliare le azioni degli uomini e di comminare le adeguate sanzioni per le loro colpe. A questo punto non è più possibile dislocare nell'idea di destino il carico di incertezza nei confronti del futuro che l'individuo porta con sé. L'immagine di una dea che, insieme a Zeus, impone la legge rappresenta un momento fondamentale nell'elaborazione della concezione arcaica della giustizia. Il mondo omerico, infatti, non possedeva il concetto di legge, ma solo quello di sentenza. In Omero Zeus è il giudice[1] In questo suggestivo dipinto mitologico è racchiusa simbolicamente la nascita di quel sistema che in maniera semplicistica etichettiamo come Diritto. Il diritto, come lo definisce il prof. A. Schiavone, è una forma che ha invaso la modernità, diventandone presto un carattere insostituibile: ed è una forma inventata dai Romani. In tal senso fu soltanto a Roma che l'inevitabile disciplinamento presente in ogni aggregazione comunitaria venne riservato in modo precoce ad un severo e specialissimo ceto, poi trasformatosi in una tecnologia sociale con uno statuto forte, che avrebbe isolato per la prima volta e per sempre la funzione giuridica e i suoi esperti , i “giuristi” ( una parola sconosciuta a qualunque lingua antica tranne il latino), staccandoli da ogni altra produzione culturale o centro istituzionale- dalla religione, dalla morale, dalla stessa politica- permettendone un'identificazione autonoma, netta e definitiva. Da allora in poi il diritto si sarebbe presentato in ogni sua immagine, anche la più semplice e povera, come un oggetto a parte- un corpo compatto, duro e impenetrabile e si sarebbe sempre riconosciuto attraverso il dispiegarsi di dispositivi dotati di una razionalità speciale e potente. La sua separazione sarebbe apparsa come una peculiarità dell'Occidente; intorno ad essa sarebbe presto incominciato, sin quasi dalle origini, uno straordinario discorso ideologico, volto a rielaborarla come “indipendenza” e “neutralità”- delle norme , delle procedure, dei giudici- e a farne uno dei valori fondanti della nostra civilità. Ebbene da più di mille e cinquecento anni, quanto si conosce di questo lascito decisivo si trova riunito in larga misura in un'unica raccolta , che durante il Rinascimento si prese a chiamare Corpus Iuris civilis: nome che è rimasto ancora oggi[2]. Il diritto (oggettivo) – ius, droit, derecho, Recht, e così via nelle verie lingue -possiamo identificarlo approssimativamente come uno degli ordinamenti sociali ( sociali nel senso che regolano la vita di un aggregato umano). La regolamentazione è data da un insieme di norme ( ossia prescrizioni di tenere o di astenersi da un certo comportamento: quindi comandi e divieti); le norme giuridiche tendono ad essere generali ed astratte , cioè sono rivolte a tutti i consociati e regolano una serie indefinita di casi; la loro caratteristica precipua sta poi in ciò, che a differenza di quelle di altri ordinamenti sociali sono normalmente di attuazione coercibile, vale a dire che possono essere fatte rispettare dalla comunità (generalmente da qualche autorità che rappresenta lo Stato) con la forza, o che quanto meno la loro inosservanza determina reazioni negative che vanno dall'imposizione di una decurtazione patrimoniale o dalla limitazione della libertà personale alla irrilevanza dell'atto compiuto in dispregio del comando/divieto e così via ipotizzando (queste reazioni le chiamiamo sanzioni)[3].
Nelle pagine senza tempo scritte da Francesco Galgano, uno degli intramontabili Maestri della civilistica italiana , si legge: “Ogni moderna concezione del diritto muove da un dato di esperienza storica, la perenne contesa che caratterizza la convivenza umana, per definire il diritto come un sistema di regole per la soluzione non violenta dei conflitti fra gli uomini”. Nel prosieguo precisa altresì che “queste regole stabiliscono quale fra gli interessi in conflitto sia degno di protezione e debba prevalere e quale non sia degno di protezione e debba soccombere; esse compongono, nel loro insieme, un sistema: non provvedono, isolatamente , a questo o a quel possibile conflitto; ciascuna concorre con le altre ad assolvere una funzione complessiva, che è di adeguare i rapporti tra gli uomini, in tutta la loro varietà e complessità, ad un dato modello di ordinata convivenza , di realizzare un equilibrio generale e, il più possibile , stabile fra i diversi interessi in conflitto nella società.” La cultura giuridica del XIX secolo era propensa ad identificare il diritto in null'altro che in questo sistema di regole Nel XX secolo il sistema di regole è stato, piuttosto, concepito quale elemento di una più complessa organizzazione giuridica [4]” Nel 1946 Norbert Wiener padre fondatore della cibernetica accennava ad una possibile applicazione della teoria dei servomeccanismi al funzionamento del diritto e, nello stesso anno, un manager giurista americano Lee Loevinger, proponeva esplicitamente di sfruttare i vantaggi offerti dalle tecniche elettroniche per studiare e risolvere i problemi giuridici; con questo nuovo ambito di indagine, a cui fu dato il nome di Giurimetria, si intendeva indicare la scientific investigation of legal problem. Inizialmente la ricerca giurimetrica non coinvolge tutto il dominio giuridico ma si concentra prevalentemente su 3 aree: l'archiviazione e il reperimento elettronico delle informazioni giuridiche; la previsione delle decisioni giuridiche sulla base di analisi comportamentali e la formalizzazione del diritto e della scienza giuridica mediante la logica simbolica. I tre approcci giurimetrici sviluppatisi negli Stati Uniti risentono fortemente dell'ambiente giuridico culturale anglosassone dove il diritto giurisprudenziale, basato sul principio dello stare decisis gioca un ruolo predominante. Questo spiega il forte impulso che riceve negli anni '50 l'ambito di applicazioni behavioristico-decisionale; la previsione computerizzata dei comportamenti decisionali dei giudici appare al mondo giuridico americano come uno strumento di fondamentale utilità pratica e teorica. Ad incrementare queste prospettive contribuì, verso la fine degli anni '50 la nascita ufficiale di una nuova disciplina , l'intelligenza artificiale[5], che si proponeva di studiare la possibilità di riprodurre su calcolatore i meccanismi intellettuali tipici della mente umana. Il filone di studi che ne deriva verrà chiamato informatica giuridica decisionale o metadocumentaria. Il periodo delle applicazioni giurimetriche va dalla fine degli anni '40 agli inizi degli anni '60; dal punto di vista della letteratura scientifica il momento iniziale è segnato dall'articolo di Loevinger pubblicato sulla “Minesota Law Review” del 1949, il momento finale è segnato dall'opera collettiva , curata da H. Baade, intitolata “Jurimetrics” ed edita nel 1963, Questo volume rappresenta la consolidazione scientifico -sistematica delle varie applicazioni giuridiche sviluppatesi in modo frammentario fino a quell'epoca. Intorno alla metà degli anni '60 si diffonde anche in Europa l'idea di utilizzare i calcolatori nell'area giuridica. Da quel momento si diparte il lungo itinerario che l'informatica giuridica ha percorso e percorre ancora oggi [6]. Tuttavia, nella storia la possibilità di utilizzare i metodi delle scienze esatte nel campo giuridico ha da sempre suscitato interesse presso i giuristi. Basti ricordare, per l'epoca antica , gli approcci logici dei giuristi romani di cultura stoica, per il periodo medievale, il modo combinatorio di Raimondo Lullo. Questi riteneva di costruire i concetti giuridici attraverso una tabula instrumentalis costituita da cerchi concentrici che davano vita a concetti diversi a seconda delle varie combinazioni. Nell'umanesimo giuridico ricordiamo la ricostruzione sistematica del diritto elaborata da Melantone e il metodo ramistico di Pietro Ramus che sarà sviluppato in particolare da Althusius. Ma è dopo la cesura galileana che i metodi scientifici vengono largamente utilizzati anche nelle scienze giuridiche. Si pensi al metodo euclideo di Faber e di Vivianus ai metodi razionalistici tipici dei giusnaturalisti e agli studi di Leibniz dove il meotodo logico è considerato il metodo per eccellenza per rappresentare e produrre diritto[7]. Il filosofo di Lipsia così descrive i suoi primi contatti con la logica: “Prima ancora di essere arrivato alla classe dove è insegnata, ero completamente sommerso nelle storie e nei poeti; infatti avevo cominciato la lettura della storia appena ebbi imparato a leggere, e nelle poesie avevo trovato molta gioia e felicità. Ma appena avevo cominciato a frequentare le lezioni di logica fui profondamente colpito dalla distribuzione e dall'ordine dei pensieri che qui osservavo! Cominciai subito a notare che in essa doveva trovarsi qualcosa di grande, per quanto un ragazzo tredicenne può accorgersi di cose simili” Il progetto di carattistica universale nel pensiero di Leibniz doveva essere una scrittura la quale sarebbe stata una specie di algebra generale che avrebbe fornito i nessi per ragionare in modo che invece di disputare si sarebbe potuto calcolare. Anche nelle questioni di diritto, secondo Leibniz , una volta impostato correttamente il problema per stabilire chi avesse torto e chi avesse ragione sarebbe bastato procedere alle operazioni di calcolo[8]. Il pensiero giuridico formalista raggiunge un nuovo momento culminante nei lavori degli esponenti della giurisprudenza dei concetti (Puchta, Windscheid e Jhering)[9] Puchta svincola il sistema del diritto da istanze legittimanti, e perviene alla totale purificazione come metodologia della dogmatica e alla affermazione della sua autonomia e completezza, avendo individuato come oggetto esclusivo della scienza il sistema del diritto positivo nel suo isolamento, nella sua chiusura logico -concettuale, cioè nella sua razionalità. Per Puchta infatti la conoscenza scientifica è conoscenza sistematica del diritto: solo quest'ultima è “una conoscenza completa[10]”[11]. Jhering è consapevole delle difficoltà nelle quali è incorso Puchta ; egli è consapevole che la giurisprudenza può stabilizzarsi come metodologia solo se il suo oggetto è pervenuto ad un livello di autonomia tale da non temere e da non subire più condizionamenti che, sulla base delle acquisizioni di Puchta , manifestamente ormai derivano dall'istanza materiale e non più da principi metafisici. Per Jhering :”attraverso combinazioni dei diversi elementi la scienza può produrre nuovi concetti e nuove proposizioni, i concetti sono produttivi, si accoppiano e ne producono di nuovi. Le proposizioni giuridiche in quanto tali non hanno questa capacità di fruttificare, esse sono e restano solo se stesse, fino a che non sono ridotte ai loro elementi più semplici e attraverso questa riduzione non entrano in relazioni di parentela con altre, sia in linea ascendente che in linea discendente; cioè rivelano la loro origine da altri concetti, mentre esse stesse a loro volta ne lasciano uscire da sé altri”. Questa superiore giurisprudenza, che è metodologia della costruzione giuridica del diritto, della produzione, delle astrazioni giuridiche implicite nei superiori aggregati di astrazioni , negli istituti giuridici e nei concetti che li definiscono, si distingue dalla giurisprudenza inferiore, perchè al carattere puramente recettivo di quella, oppone la sua profonda capacità produttiva, la sua capacità di estrarre dai corpi, dalle essenze giuridiche nuovo e più elevato diritto[12]. A livello di essenza sono analogiche all'informatica tutte le teorie normative formalistiche che definiscono il diritto come “legge dello Stato”, come “ comando della volontà sovrana” (teoria imperativistica di Hobbes), come “norma munita di sanzione” , come “norma prescrittiva” (Kelsen)[13]. Il fondamento di validità dell'intero sistema di qualificazioni normative è costituito da una norma la cui validità stessa non può essere derivata da altra norma, che non può essere messa in discussione, che non è posta, in quanto deve essere assunta come condizione di possibilità della posizione di norma, e che pertanto è presupposta e contiene soltanto “l'istituzione di una fattispecie produttiva di norme”. Dalla norma fondamentale (Grundnorm) il sistema di norma non deriva il fondamento del suo contenuto, ma il fondamento di validità, a quello indifferente, il quale determina soltanto le condizioni formali della produzione di qualificazioni normative e costituisce il presupposto logico-trascendentale della interpretazione del senso soggettivo delle qualificazioni normative come il loro senso oggettivo, come norme giuridiche oggettivamente valide[14].
Il problema dell'insicurezza nei confronti del futuro è un tema sentito e dibattuto fin dall'antichità. Aristotele rifletteva che rispetto all'avvenire è impossibile emettere giudizi fondati sul sapere, in quanto il futuro è inosservabile. Eppure, secondo gli antropologi, il tentativo di rendere meno oscuro il futuro è rinvenibile già in età molto antica, anche se con presupposti e modalità certamente molto differenti rispetto ad oggi[15].
Il desiderio di razionalizzare l'incertezza del futuro e dunque di dominare il rischio si traduce nella creazione della scienza del ragionamento giuridico, e che si accompagna all'antico sogno di predire il futuro. Di quest'ultimo sogno troviamo la trasposizione in particolare nel culto apollineo di Delfi. Un culto che, come noto, ispirava gli antichi greci a recarsi presso il tempio di Delfi, ponendo domande ad Apollo che rispondeva per il tramite dei responsi dati dalla sacerdotessa Pizia. I responsi, come noto, influenzarono tutta la storia della Grecia Classica. Tutti questi dati si pongono quali elementi di un complesso mosaico che è giunto fino ai nostri giorni determinando nuove prospettive giuridiche[16]. Ed invero la giustizia predittiva si pone in linea di continuità con l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici. Per "giustizia predittiva" deve intendersi la possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli; non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi. Il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri[17].
Lo stesso Max Weber in Economia e società, nel lontano 1947, asseriva che il diritto è basato su regole scritte e la certezza del diritto altro non è se non la prevedibilità dell’esito giudiziale; in fondo, sarebbe pur sempre un diritto razionale formale[18]
Sulla stessa linea di pensiero, come poc'anzi affermato (v. paragrafo 1) , già nel 1666, Leibniz affermava che bisognasse ricondurre il linguaggio a semplicità, così poi da riuscire a calcolare torti e ragioni (c.d. ars combinatoria): le parti, affermava, un giorno, di fronte ad una disputa, potranno sedersi e procedere ad un calcolo; ipotizzava una simbolizzazione del pensiero con cui operare calcoli logico-matematici. Di recente anche parte della magistratura italiana ha guardato con favore alla giustizia predittiva; è stato detto: “quello della giustizia predittiva è un terreno inevitabile che dovremo attraversare. E siamo già molto vicini … Ci sono molteplici aspetti positivi laddove si ritenga che la prevedibilità di un giudizio sia un valore per tutta la società. Da una parte potrebbe verificarsi un effetto virtuoso sulla domanda di giustizia, perché cadrebbe man mano quella pretestuosa. In secondo luogo i magistrati potranno decidere con consapevolezza maggiore quando andranno ad assumersi la responsabilità di un cambio di giurisprudenza”: i meccanismi predittivi sono “l’unica risposta seria alla demagogia di cui spesso la magistratura è vittima riguardo agli errori giudiziari, alla detenzione ingiusta etc.”; sono “processi a cui non è possibile sottrarsi”(C. Castelli[19], Presidente della Corte d'appello di Brescia)[20]..
3 Il Giano bifronte della giustizia predittiva : il modello della Corte d'Appello di Brescia
La giustizia predittiva, di cui già oggi si discute in molti Paesi e che viene presentata come un Giano bifronte, un grande rischio di riduzione ad una gestione automatizzata degli small claims ovvero di una differenziazione delle risposte giudiziarie che ha profili di potenziale discriminazione, è un orizzonte non più soltanto futuribile anche nel nostro Paese. Discuterne, darsi gli strumenti conoscitivi e quindi di governance per potere volgere quella che è una opportunità di cambiamento in una reale condizione di potenziamento della prevedibilità della trasparenza e del coordinamento fra sedi giudiziarie, nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali di autonomia del giudice, è una priorità che questo lavoro mette al centro del dibattito della magistratura italiana e di tutti i protagonisti del mondo della giustizia (C. CASTELLI, D. PIANA ) [21].
Quello del predictive coding, ovverosia la giustizia predittiva risulta essere un affascinante ambito Il termine, lungi dall'avvicinarsi al sistema di giustizia ventilato nel noto film Minority Report, richiamerebbe la capacità di sfruttare degli algoritmi di IA per predire l'esito dei giudizi. [22] .In verità la giustizia predittiva, elaborata su base di algoritmi è già in uso in Usa, specie per la valutazione del rischio di recidiva, e di recente è stata sperimentata in Francia[23]. In riferimento agli Usa normalmente il programma Compas è stato utilizzato ai fini della determinazione della cauzione, della valutazione dell'eventuale definizione del procedimento con una sentenza di probation (simile al nostro istituto della messa alla prova) ed in fase esecutiva per la valutazione della concessione della parole. Di recente, per la prima volta, il programma Compas è stato utilizzato dalla Corte distrettuale quale elemento determinante per quantificare (inasprendola) la pena inflitta all'imputato. La Corte suprema del Wisconsin, nel luglio 2016, ha ritenuto legittimo l'uso di algoritmi a tali fini, specificando tuttavia che lo strumento non potrebbe essere l'unico elemento su cui fondare una pronuncia di condanna. Sulla giustizia predittiva, di recente, l'University College di Londra e l'Università di Sheffield hanno sperimentato un algoritmo, testandone la capacità di predire i verdetti della Corte europea dei diritti dell'uomo, raggiungendo un grado di precisione pari al 79>#span class="MsoFootnoteReference"###. Mentre in Francia la giustizia predittiva è in fase di sperimentazione mediante la piattaforma online Predictice.com che consente di prevedere le probabilità di successo di un procedimento giudiziario e ottimizzare la strategia processuale degli avvocati [24]. In Italia, invece, iniziano ad aversi sbocchi in tal senso, sia attraverso aperture normative alla profilazione dei soggetti in campo penale , sia attraverso veri e propri studi che tendono a costruire algoritmi in grado di predire i futuri orientamenti della giurisprudenza[25] .
In Italia , infatti, è in fase di attuazione un modello di giustizia predittiva su base essenzialmente statistica presso la Corte d'appello di Brescia[26]; per tale corrente di pensiero (C. CASTELLI, D. PIANA) la giustizia predittiva è dunque in verità una label molto sintetica con cui si descrive un ventaglio di opzioni che hanno in comune la applicazione di sofisticate tecnologie sia con finalità di carattere analitico/induttivo (si scoprono pattern decisionali o pattern comportamentali analizzando e processando dati che riguardano casi e decisioni già avvenuti) sia con finalità prospettico-predittivo [si individuano propensioni e su questa base vengono valutate le probabilità con le quali si può prevedere che la decisione del giudice – in caso di soluzione giudiziale delle controversie – o del mediatore – in caso di attivazione di meccanismi di Adr (Alternative dispute resolution) – converga su un punto che possiamo definire focale]. In altri termini non si tratta di predire con esattezza puntuale il dispositivo di una sentenza, ma di individuare l’orientamento del ragionamento del giudice. Poiché tale ragionamento non ha mai la natura di un sillogismo lineare, ma si compone di passaggi analogici deduttivi induttivi, la predizione sarà focale e non puntuale[27].
4 Il giudice nel labirinto delle interpretazioni ed il modello del Prof. Avv. Luigi Viola come moderno “filo diArianna”
Autorevole dottrina (V. MANES) pone in evidenza che, con una produzione normativa così policentrica e reticolare, l'interprete è ormai costretto ad una costante opera di ricostruzione, mediazione , persino individuazione del corretto gradino gerarchico e del grado di forza vincolante della fonte, o del rapporto di prevalenza tra diverse fonti confliggenti[28]. Già nel lontano 2004, il Presidente Aggiunto onorario della Corte di Cassazione e docente di informatica giuridica, Renato Borruso nel testo L'informatica nel diritto asserì che la legge ben può essere informatizzata e costruita mediante algoritmi[29]. E sulla scorta di tale affermazione è possibile affermare che il geniale ed avveniristico modello elaborato dal Prof. Viola, può essere collocato, come un moderno filo di Arianna, nel contesto labirintico che si erge di fronte al giudice ogni qualvolta si deve confrontare con una questione interpretativa. Fermo restando, che il modello qui proposto non intende essere autonomo e sostitutivo dell'attività del giurista, ma solo integrativo, così differendo sensibilmente dai sistemi di intelligenza artificiale[30]. Ma al fine di comprendere il ragionamento alla base di questa acutissima intuizione procediamo con ordine [31].
In tal senso, pregevole dottrina ( G. CANZIO) ha posto in rilievo che “La legge si rende protagonista del criterio decisorio per risolvere, non più il dubbio logico sulla ricostruzione probatoria del fatto (dubium facti) ma talora, il dubbio giuridico (dubium iuris). Il giudice trova così nella legge il filo per uscire dal labirinto ermeneutico delle oscurità, ambiguità, polisemie, stratificazioni orizzontali delle fonti regolatrici del caso, sia normative (art. 12 disp. prel. cod. civ.), nazionali o internazionali, sia contrattuali (art. 1367 ss. cod. civ.)”[32] Ed infatti, il dato di partenza per qualsiasi interpretazione , di certo, è la legge soprattutto per il nostro sistema, che è di civil law
( seppur de facto sempre più orientato al common law), visto che tutti sono soggetti alla legge- che è la fonte principale del diritto ex art. 1 Preleggi- ivi compresi i giudici ( art. 101 Cost.) che rappresentano i soggetti istituzionalmente deputati all'interpretazione giuridica. L’interpretazione, per l’ordinamento giuridico, non è totalmente discrezionale, ma deve ancorarsi a criteri ben precisi, fissati dallo stesso legislatore all’art. 12 Preleggi (Disposizioni sulla legge in generale, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262). L’art. 12 Preleggi è l’unico rubricato espressamente “interpretazione della legge”, con la conseguenza logica-deduttiva che rappresenta l’unica certezza metodologica da seguire; non è legittimo prescinderne in quanto, in difetto, si opterebbe per un’interpretatio abrogans in aperto contrasto con la voluntas legis sottesa. L’art. 12 citato così recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.”.Nella sostanza l’art. 12 serve a trovare il significato all’interno della disposizione di legge oppure, detto in altri termini, serve a trovare la norma all’interno della disposizione (la disposizione è l’enunciato letterale, mentre la norma è il risultato a cui si giunge dopo l’attività interpretativa)[33].
4.1 L'equazione per interpretare la legge
Essenzialmente l’art. 12 delle Preleggi individua 4 tipologie di interpretazioni:
interpretazione letterale (IL);
interpretazione per ratio (IR);
interpretazione per analogia legis (AL);
interpretazione per analogia iuris (AI)[34].
La formulazione dell’art. 12 citato esprime una disequazione (di primo grado), in cui si ipotizzano valori diversi, ma si fissa la supremazia di uno; esattamente, l’interpretazione letterale appare posta su una posizione gerarchica superiore rispetto alle altre, pur legittime, interpretazioni; ciò vuol dire che l’interpretazione letterale (IL) è maggiore delle altre interpretazioni che, per comodità espositiva, possono essere considerate secondarie (IS).
Tra l'altro la “superiorità” dell’interpretazione letterale[35] rispetto alle altre è confermata anche dalla giurisprudenza (Cassazione civile, Sez. lavoro, sentenza del 26.1.2012, n. 1111, in Ced Cassazione, 2012.), secondo cui la norma giuridica deve essere interpretata, innanzi tutto e principalmente, dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", pertanto, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente[36] ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, merce l'esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma, così come inequivocabilmente espressa dal legislatore[37].
Sulla scorta di tale assunto:
Interpretazione Letterale (primo criterio) è criterio MAGGIORE >
IL > IR Interpretazione per ratio c.d. interpretazione teleologica (secondo criterio)
IL > AL Analogia legis (terzo criterio)
IL> AI Analogia iuris, principi generali (quarto criterio)
Considerando che l'Interpretazione Letterale (IL) è posta su una posizione gerarchica superiore rispetto alle altre, si avrà IL > IS (Interpretazioni secondarie)
Pertanto, l’art. 12[38] esprime la seguente disequazione:
IL > IS.
Dove con l'espressione “interpretazioni secondarie” si intende la somma di tutte le interpretazioni diverse da quella letterale pertanto: = IR (interpretazione per ratio) + AL ( interpretazione per analogia Legis) + AI (interpretazione per analogia Iuris)
Si può tradurre :
IR + AL + AI = IS [39]
In altri termini per maggiore intelligibilità si afferma che l’art. 12 delle c.d. Preleggi[40] esprime la seguente disequazione di primo grado: IS ≤ IL in quanto:
Interpretazione letterale (IL) = interpretazione corretta (IL)
Interpretazione secondo ratio legis (IR) = interpretazione meno corretta (IR≤IL)
Interpretazione per analogia legis (AL): interpretazione meno meno corretta (AL≤IR≤IL)
Interpretazione per analogia iuris (AI): interpretazione meno meno meno corretta (AI≤AL≤IR≤IL)
In sostanza si può affermare che, se le interpretazioni subordinate (quelle per ratio e per analogia) non sono coerenti con l’interpretazione letterale, allora vuol dire che c’è contraddizione con la conseguenza che l’interpretazione prospettata non è perfetta perché il sistema giuridico, almeno per materia, non può tollerare contraddizioni (principio di non contraddizione come desumibile dall’art. 3 Cost. e dall’interpretazione per analogia di cui all’art. 12 cit.)[41].
Detto in altri termini:
IR + AL + AI ≤ IL
In sostanza la somma dell’interpretazione per ratio legis (IR), dell'interpretazione per analogia legis
(AL) e dell'interpretazione per analogia iuris (AI) ossia le Interpretazioni secondarie non possono
valere più di quella letterale (IL), a pena di probabile incostituzionalità
Pertanto l’art. 12 delle c.d. Preleggi esprime la seguente disequazione di primo grado:
IS ≤ IL [42].
Partendo da questo dato, il Prof. Viola è giunto ad elaborare una formula [43] la cui applicazione alle vicende processuali consente di prevederne l'esito. Questa formula è stata già applicata in via sperimentale su alcune vicende processuali che sono state poste all'attenzione della Suprema Corte giungendo con successo a prevedere esattamente il contenuto delle decisioni [44]
Si comprende bene che partendo da IS = IR+AL+AI l'Interpretazione Perfetta (IP) è solo quella esistente se e solo se (<=>) IL = IS; più chiaramente:
IP = IL + IS <=> IL = IS.
Questo avviene quando la disposizione legislativa è talmente chiara da non richiedere attività di interpretazione. Poiché per l’art. 12:
- sono possibili 4 interpretazioni (comprensive di interpretazioni composte tra loro);
-l’interpretazione letterale prevale su quella per ratio (IL>IR);
- l’analogia legis prima e iuris dopo sono utilizzabili sono in assenza di una “precisa disposizione” (<=>IL=0);
- l’interpretazione analogica non può mai prevalere su quella letterale (IL>IR>>AL>AI);
- in caso di contraddizione tra interpretazioni letterali, il risultato non può ritenersi pari ad una “precisa disposizione”, così da legittimare l’analogia legis ed, in caso di dubbio, l’analogia iuris;
- il numero di possibili interpretazioni dello stesso tipo non è fissato in modo rigido (per cui possiamo assegnare la lettera n per indicare tale variabile);
Tanto premesso, deve evidenziarsi che la formula dell’EQUAZIONE dell’ INTERPRETAZIONE PERFETTA (eQuIP), basata principalmente sulla lettura dell’art. 12 delle c.d. Preleggi si prospetta come disequazione di primo grado
(AI ≤ AL ≤ IR ≤ IL).
Successivamente, lo studio dell’equazione sull’interpretazione perfetta è stato inglobato in quello sull’interpretazione giuridica, comprensivo di tutti i dati previsionali giungendo a prospettare il seguente ALGORITMO PER L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA [45]:
IP: (IL ± ILn) ^(IR ± IRn) ° [IL = 0 => (AL ± ALn)] °[AL ≈ 0 => (AI ± AIn)]
Con la precisazione che in assenza di uno dei dati sotto indicati potrà essere inserito il valore 0 (zero) :
- IP corrisponde all’interpretazione di una data disposizione di legge;
- IL corrisponde all’interpretazione letterale ex art. 12 Preleggi;
- IR corrisponde all’interpretazione per ratio o teleologica ex art. 12 Preleggi;
- AL corrisponde all’interpretazione per analogia legis ex art. 12 Preleggi;
- AI corrisponde all’interpretazione per analogia iuris (“principi generali dell’ordinamento giuridico”) ex art. 12 Preleggi;
- ± corrisponde a più (somma) oppure meno (sottrazione), in dipendenza dal modello di interpretazione se volta ad affermare (+) oppure a negare (-);
-^ vuol dire and, inteso come “e”, pensato qui come un'unione (o sintesi)
- ∘ corrisponde alla composizione che in matematica vuol dire l'applicazione di una funzione al risultato di un'altra funzione, ovvero più semplicemente la composizione è una forma di “miscelamento” (non corrispondente alla somma aritmetica) tra più dati;
- => corrisponde al significato di se…allora (IL=0=> vuole dire se IL è uguale a 0,allora…);
- ≈ corrisponde al significato di circa;
- n è una variabile corrispondente al numero di possibili interpretazioni del medesimo tipo.
In sostanza, quanto appena scritto equivale a dire: l'interpretazione della legge (IP) è uguale (=) all'unione (^) tra somma o sottrazione di più interpretazioni letterali (IL ± Iln) con la somma o sottrazione di più interpretazioni per ratio (IR ± Irn); se manca una precisa disposizione di legge (IL=0), si procede a sommare o sottrarre interpretazioni per analogia legis ( => (AL± Aln); nel caso in cui il caso sia ancora dubbio (AL ≈ 0), si può procedere a sommare o sottrarre interpretazioni per analogia iuris ( => (AI± Aln)
Per maggiore precisione possiamo sostituire ± con la sommatoria (∑ ), la quale ammette sottrazioni tramite il meccanismo di somma tra valori negativi; per esempio: 7-3 diviene 7 + (-3)=4; fissiamo poi che il valore n può andare da 0 ad infinito (∑∞ n=0) per ammettere solo valori positivi
IP =( ∑∞ n=0 IL (n) ^ ∑∞ n=0 (n) IR) ∘ [ IL =0 => ∑∞ n=0 AL (n) ] ∘ { AL ≈ 0 => ∑∞ n=0 AI (n) }
Convenzionalmente :
IP = ( ∑∞ n=0 IL (n) ^ ∑∞ n=0 (n) IR) ∘ [ IL =0 => ∑∞ n=0 AL (n) ] ∘ { AL ≈ 0 => ∑∞ n=0 AI (n) } = ∑i (n)
Pertanto :
IP = ∑i (n)[46]
4.2 Studi avveniristici: un modello matematico dell’intero processo
Ma gli studi avveniristici non si fermano qui. Infatti dopo i successi scaturiti della creazione dell'equazione sull'interpretazione perfetta, la nuova frontiera in cui il Prof. Viola sta conducendo i suoi studi attiene all'elaborazione di un modello matematico dell’intero processo ed in tal senso l'equazione è in fase di sperimentazione[47]
Riguardo a quest'ultima, il dato di partenza è la presa d'atto che il processo è essenzialmente la composizione di fatto e diritto, per ottenere un provvedimento giudiziale (PG); tuttavia:
- per fatto si intende il complesso di prove (FP), poiché rileva solo il fatto provato ai fini di un provvedimento positivo (o negativo);
- per diritto non si può intendere la legge applicabile al caso, ma l’interpretazione della legge (IP).
Ne segue che il processo è
FP ^ IP = PG
In sostanza, il modello matematico finalizzato all’interpretazione qui proposto, completato da un calcolo probatorio sul fatto, potrà permettere di giungere ad un modello matematico dell’intero processo Questo modello certamente può rappresentare un valido ausilio per l'amministrazione della Giustizia che attualmente è al collasso[48], In tal senso autorevole dottrina (F. VIGANO') in riferimento all'applicazione del principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale[49] ha posto in rilievo che : “Se la prevedibilità della decisione giudiziale[50] è un valore – funzionale alla tutela dell’intero fascio di diritti e principi, costituzionali e convenzionali,–, allora è del tutto consequenziale che tutti gli attori istituzionali dell’ordinamento si debbano far carico della difesa e della promozione di tale valore: a cominciare per l’appunto dai giudici comuni, di legittimità e di merito, sui quali incombe in definitiva la maggiore responsabilità nell’assicurare, nella pratica, che il diritto penale abbia contorni certi e, pertanto, ragionevolmente prevedibili da parte dei suoi destinatari[51]”.
In ambito processuale civile si si ritiene che tanto più il processo diventa prevedibile, anche nel suo esito, tanto più gli strumenti a.d.r. potranno svilupparsi:
- per la mediazione ex d.lvo 28/2010 e negoziazione perché, sapendo il probabile esito del processo, le parti saranno maggiormente indotte a concludere un accordo, al fine di risparmiare tempi e spese processuali, così discutendo direttamente del quantum e non più dell’an (dato per pacifico);
- per l’arbitrato perché, utilizzando modelli matematici, si potrà ridurre il rischio di parzialità, in uno con maggiore celerità e trasparenza[52].
5. Conclusioni
L’equazione esposta ben può funzionare in modo integrativo dell’attività dell’interprete, che resta l’unico soggetto capace di inserire le corrette variabili, date dalle argomentazioni; la correttezza del risultato dell’equazione dipende unicamente dalla disposizione di riferimento che si è inteso utilizzare data dall’art. 12 preleggi, nonché dall’esattezza e completezza degli argomenti utilizzati[53].
Tuttavia, a parere della scrivente, la scoperta rivoluzionaria del Prof. Viola porterà presto il settore dell'ingegneria all' elaborazione di un software che traduca questa equazione, e questa sinergia dipingerà gli scenari avvenistici delle aule di giustizia.
[1] G. PELLERINO, Le origini dell'idea del rischio, Pensa multimedia, Lecce, 2007, pag. 70 e ss
[2] A. SCHIAVONE, Ius. L'invenzione del diritto in Occidente, Einaudi Torino, 2005, Pag. 5 e ss.
[3] V. GIUFFRE', Il diritto dei privati nell'esperienza romana, I principali gangli, Jovene editore, Napoli, 2002, pag. 1
[4] F. GALGANO, Trattato di diritto civile, vol I, 2010, CEDAM, Padova, pag. 3-4
[5] Si può affermare che nel 1956 nasce ufficialmente un nuovo approccio informatico : quello dell'intelligenza artificiale. L'occasione è fornita da un famoso congresso tenutosi a Darmouth dove si ritrovarono insieme informatici, psicologi e filosofi accomunati dall'intento di mettere a punto un metodo interdisciplinare per studiare la possibilità di riprodurre attraverso i calcolatori, le attività intellettuali proprie dell'uomo. I paradigmi metodologici che si confrontarono furono fondamentalmente due : quello razionalista o simbolico-mentale e quello empirico o neuronale-cerebrale. Il primo si poneva come obiettivo la costruzione di una teoria dell'intelligenza indipendente dallo studio del funzionamento dei meccanismi cerebrali, mentre il secondo partiva dall'assunto che non era possibile descrivere i processi intellettuali senza partire dall'analisi dei reali processi cerebrali. Il primo approccio considerava come modello dell'intelligenza la « mente », il secondo prendeva come modello dell'intelligenza il « cervello ». (G.TADDEI ELMI, Corso di Informatica Giuridica, Napoli, 2007 pag. 87-88); Per un approfondimento della tematica si conceda il rinvio a E. QUARTA, Soggettività dei robots e responsabilità, La Nuova Procedura civile, 5, 2018 consultabile al seguente indirizzo url https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2018/11/quartasoggettivitàROBOT.pdf
[6] G. TADDEI ELMI, op. cit., pag. 15 e ss.
[7] G. TADDEI ELMI, Informatica e diritto: un binomio irreversibile in G. TADDEI ELMI ( a cura di), “Abilità informatiche per il diritto” Giuffrè Milano 2006, pag. 1-2
[8] A. MONIELLO, Leibniz e Boole tra logica e metafisica,Guida Editori, 1998 pag. 9 e ss.
[9] G. TADDEI ELMI, Informatica giuridica. Presupposti, storia, disciplina , insegnamento , esiti in G. TADDEI ELMI (a cura di), Corso di Informatica Giuridica, Simone editore Napoli, 2016, pag. 7 e ss
[10] E questo per due motivi, spiega Puchta, uno esterno e l'altro interno. Da una prospettiva esterna , solo la conoscenza sistematica ci dà la sicurezza di comprendere tutte le parti del diritto, come le parti di una connessione organica, e non come elementi di un puro aggregato, sì che la mancanza di uno di essi si rivela come lacuna, e non resta impercettibile alla osservazione. Da una prospettiva intgerna , perchè “il diritto stesso è un sistema, così che solo chi lo conosce come tale afferra in maniera completa la sua natura”. Conoscenza sistematica significa appunto conoscenza della connessione delle proposizioni giuridiche, delle loro reciproche relazioni di parentela; conoscenza che segue “ verso l'alto e verso il basso la derivazione di ogni concetto attraverso tutti gli elementi che hanno avuto parte alla sua formazione” Conoscenza sistematica significa conoscenza della razionalità interna al diritto. La razionalità del sistema giuridico si esprime nella interna necessità delle connessioni organiche tra le parti del sistema che la scienza rileva. ( R. DE GIORGI, Scienza del diritto e legittimazione, Pensa Lecce, 1998, pag. 54-55)
[11] Ibidem
[12] R. DE GIORGI, op. cit., pag. 60 e ss.
[13] G. TADDEI ELMI Informatica giuridica. Presupposti, storia, disciplina , insegnamento , esiti in G. TADDEI ELMI (a cura di), ult. op. cit., pag. 7 e ss
[14] R. DE GIORGI, Scienza del diritto e legittimazione, Pensa Lecce, 1998, pag. 75
[15] G. PELLERINO, op. cit., pag. 13
[16] Si conceda il rinvio a E. QUARTA. L'algoritmo giuridico che realizza l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici : la giustizia nell'era 4.0 .in Personaedanno.it, 21.2.2019 consultabile al seguente indirizzo url
https://www.personaedanno.it/articolo/l-algoritmo-giuridico-che-realizza-l-antico-sogno-dell-uomo-di-visualizzare-scenari-avveniristici-la-giustizia-nell-era-4-0-elena-quarta
[17] L. VIOLA, voce Giustizia predittiva, in Enc. Giur. Treccani (treccani.it), 2018
[18] L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 33
[19] C. CASTELLI, Presidente della Corte d'appello di Brescia in un'intervista fatta da Claudia Morelli, in Altalex.com. 2017
[20] L. VIOLA, ult. op. cit., pag. 167 e ss
[21] C. CASTELLI, D. PIANA, Giustizia predittiva, La qualità della giustizia in due tempi in Questione Giustizia, 15 maggio 2018 consultabile al seguente indirizzo url http://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-predittiva-la-qualita-della-giustizia-in-due-tempi_15-05-2018.php
[22] S. CRISCI, Intelligenza artificiale ed etica dell'algoritmo, Foro Amministrativo (Il), fasc.10, 1 ottobre 2018, pag. 1787
[23] Per una puntuale analisi della casistica in materia di giustizia predittiva a partire dal 2013 si rinvia al testo L. VIOLA, ult. op. cit., pag. 171 e ss.
[24] L. BREGGIA, Giustizia diffusa e condivisa: la collaborazione nella gestione dei conflitti,Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, fasc.1, 1 marzo 2018, pag. 391
[25] S. CRISCI, op. loc. ult. cit. (Il presente contributo scientifico richiama il modello elaborato dal Prof. Avv. Luigi Viola).
[26] Un inizio di Giustizia predittiva in Giustiziabrescia.it, 2018 ( url http://www.giustiziabrescia.it/giustizia_predittiva.aspx)
[27] L. VIOLA, ult. op. cit., pag. 169 e ss.
[28] V. MANES, Il giudice nel labirinto, Profili di intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, 20 ; L. VIOLA ult. op. cit., pag. 31
[29] R. BORRUSO, L'informatica nel diritto, Milano, 2004, pag. 316
[30] L. VIOLA, ult. op. cit., pag. 174
[31] Si conceda il rinvio a E. QUARTA. L'algoritmo giuridico che realizza l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici : la giustizia nell'era 4.0 . in www.personaedanno,it, 21 febbraio 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.personaedanno.it/articolo/l-algoritmo-giuridico-che-realizza-l-antico-sogno-dell-uomo-di-visualizzare-scenari-avveniristici-la-giustizia-nell-era-4-0-elena-quarta
[32] G. CANZIO, Relazione tenuta in occazione dell’incontro sul tema “Il dubbio e la legge”, nell’ambito del festival Milanesiana (Milano, 19 luglio 2018), Diritto penale contemporaneo, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it/upload/4371-canzio2018c.pdf
[33] L. VIOLA, ult. op. cit., , pag. 49 e ss.
[34] Ivi, pag. 118
[35] Si conceda il rinvio a E . QUARTA , Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase,. L'art. 238-bis T.U spese giustizia tra Mondo omerico, Spada di Damocle e Logos Eraclitèo Key editore 2018, pag. 88 e ss
Richiamato come citazione scientifica del testo, insieme a Giuseppe CORASANITI, Diritto nella società digitale, Milano, 2018. et al. al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/2018/07/13/viola-interpretazione-della-legge-con-modelli-matematici-dirittoavanzato-milano-2018/
[36] “Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, cosicché il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare. Può accadere anche che l’interpretazione letterale sia conforme a quelle secondarie (uguaglianza), per cui avremo che l’interpretazione letterale è maggiore o uguale alle secondarie: IL ≥ IS”. (L. VIOLA, Alla ricerca dell’equazione interpretativa perfetta (commento all’art. 12 Preleggi), in La Nuova Procedura Civile, http://www.lanuovaproceduracivile.com/, 1, 2017, pag. 4
[37] L. VIOLA, op. loc. ult. cit.A livello esemplificativo si segnala l’applicazione della suddetta teoria all’art. 2929-bis c.c. ed in tal senso mi si conceda il rinvio a E. QUARTA, Un Nuovo approdo per Astrea: il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti, futuri …… e passati. L’innovazione della revocatoria semplificata ex art. 2929 bis c.c., una nuova tutela per il ceto creditorio 11 anni dopo CASS. SS.UU. 18 maggio 2004 n.9440, in La Nuova Procedura Civile, 5. Aprile 2017, consultabile al link http://www.lanuovaproceduracivile.com/quarta-revocatoria-semplificata-ex-art-2929-bis-c-c/ Si conceda, altresì il rinvio ad E. QUARTA, La logica del giudice di fronte alla complessa equazione dell'art. 35-ter o.p. Congedo, Galatina, 2017, pag.55-57
[38] Per una puntuale esposizione di argomenti contrari alla centralità dell'art 12 delle Preleggi si rinvia a L. VIOLA interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione), pag. 55 e ss
[39] L. VIOLA , Equazione dell'interpretazione perfetta versione 1.2, 8 gennaio 2017, scuola diritto avanzato, consultabile al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2016/11/Equazione_interpretazione4PERFETTA.pdf
[40] Per una puntuale esposizione di argomenti contrari alla centralità dell'art 12 delle Preleggi ed il relativo superamento si rinvia a L. VIOLA interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione), pag. 55 e ss
[41] L. VIOLA , Equazione dell'interpretazione perfetta versione 1.2, op. loc. ult. cit.
[42] Ibidem
[43] Una formula che è ormai giunta alla versione 1.6 ed è in fase di studio la versione 1.7
[44] Una delle prime decisioni di cui si è giunti a prevedere esattamente l'esito è stata la sentenza della Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. n. 16601 del 5 luglio 2017. Per consultare i passaggi che hanno portato a prevederne esattamente l'esito si rinvia al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2017/05/dannipunitivialgoritmo.pdf
Per un commento della sentenza si conceda il rinvio a E. QUARTA. Le Sezioni Unite scrivono l'ultimo capitolo del romanzo intitolato “punitive damages”: un revival della concezione sanzionatoria della responsabilità civile nell'era 4.0 (Nota a Cassazione civile Sezioni Unite n. 16601 del 5 luglio 2017), Obiettivo Magistrato, n. 8/2017, pag.3 e ss.
Tutte le previsioni centrate sono liberamente consultabili a seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/05/26/algoritmo-sullinterpretazione-giuridica/ Ma più dettagliatamente si rinvia al testo di L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello “matematico” che risolverebbe i problemi, su Studio Cataldi, 30/07/2018 consultabile dall'indirizzo url https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp
[45] L'algoritmo per l'interpretazione pubblicato nel testo L. VIOLA, ult. op. cit.
[46] Pertanto : IP = ∑i (n)
((L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 149 e ss )
Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello “matematico” che risolverebbe i problemi, su Studio Cataldi, 30/07/2018 consultabile dall'indirizzo url https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp , oltre che dal sito della Scuola Diritto Avanzato http://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/07/02/viola-interpretazione-della-legge-con-modelli-matematici-milano-2017/
[47] Il Prof. Luigi Viola sta elaborando un secondo volume focalizzato interamente su questo nuovo modello
[48] Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello “matematico” che risolverebbe i problemi,op. loc. ult. cit.
[49] L. BREGGIA, Giustizia diffusa e condivisa: la collaborazione nella gestione dei conflitti,Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, fasc.1, 1 MARZO 2018, pag. 391 pone in evidenza che “ La questione più difficile resta quella di come conciliare la funzione creativa della giurisprudenza con l'esigenza di prevedibilità delle decisioni. Non nel senso della calcolabilità giuridica, di cui parla Natalino Irti — in senso weberiano, funzionale al capitalismo moderno — e nemmeno nel senso della giustizia predittiva, elaborata su base di algoritmi (già in uso in Usa, specie per la valutazione del rischio di recidiva , di recente sperimentata in Francia ), bensì come ragionevole prevedibilità: ne parlammo negli anni passati facendo riferimento alla riscoperta dell'argomentazione giuridica che rende trasparente e quindi controllabile la giustificazione delle decisioni e consente una cultura del precedente”. Si rinvia a G. FIDELBO, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in Diritto penale contemporaneo 29 gennaio 2018, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it/d/5829-verso-il-sistema-del-precedente-sezioni-unite-e-principio-di-diritto Si rinvia altresì ai contributi richiamati in C. CASTELLI, D. PIANA, Giustizia predittiva, La qualità della giustizia in due tempi in Questione Giustizia, 15 maggio 2018 : V. Zagrebelsky, Dalla varietà della giurisprudenza alla unità della giurisprudenza, in Cass. pen. 1988, 1576; G. Gorla, Precedente giudiziario, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXXVI, 1991; U. Mattei, Precedente giudiziario e stare decisis, in Dig. Disc. Priv.-Sez. civile, vol. XIV, 1996; M. Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. Trim. Dir. e proc. civ., 2007, p. 712; A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale, Giappichelli, Torino, 2007; A. Cadoppi, Giudice Penale e giudice civile di fronte al precedente, in Indice penale, 2014, pp. 14 ss.; G. Costantino, La prevedibilità della decisione tra uguaglianza e appartenenza, Relazione all’XI assemblea degli osservatori civili, 2016; L. Salvaneschi, Diritto giurisprudenziale e prevedibilità delle decisioni: ossimoro o binomio, Relazione all’XI assemblea degli osservatori civili, 2016
[50] Relativamente alla imprevedibilità della sentenza amministrativa si rinvia a F. PATRONI GRIFFI Tecniche di decisione e prevedibilità nella sentenza amministrativa in A CARLEO ( a cura di) Calcolabilità giuridica, Il Mulino, Bologna, 2017, 184 Si segnala F. PATRONI GRIFFI, La decisione robotica ed il giudice amministrativo, Intervento al Convegno “Decisione robotica”, organizzato nell’ambito dei Seminari ‘Leibniz’ per la teoria e la logica del diritto – Roma, Accademia dei Lincei, 5 luglio 2018 consultabile al seguente indirizzo url https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/147941/Patroni%20Griffi%20-%20La%20decisione%20robotica%20e%20il%20giudice%20amministrativo%20-%2028%20agosto%202018.pdf/24218a2e-47b7-1c0a-b2ee-c1b670347f95/Patroni+Griffi+-+La+decisione+robotica+e+il+giudice+amministrativo+-+28+agosto+2018.pdf
Poco più possibilista è S. RUSCICA, Relazione tenuta al I° Congresso nazionale de LaNuovaProceduraCivile, sulla Giustizia Predittiva, Roma, 26.'4.2'18. almeno con riferimento alle attività ad esito vincolato.
Per una compiuta e puntuale disamina dell'argomento con conclusione aperta si segnala il testo della relazione di Luigi Viola ( Magistrato Tribunale amministrativo Regionale della Toscana), dal titolo "L'intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo amministrativo: lo stato dell'arte" nell'ambito del convegno “Ex-Machina . L’intelligenza artificiale tra azione amministrativa e giustizia 4.0” tenutosi a Catania il 3 ottobre 2018 ad iniziativa della Camera Amministrativa Siciliana. In particolare lo scritto affronta le seguenti tematiche: - l’atto amministrativo ad elaborazione elettronica; l’I.A. nella sistematica amministrativa: (la limitazione agli atti vincolati).; l’inserimento del programma informatico nella sequenza di emanazione del provvedimento amministrativo. (senza trascurare in particolare, partecipazione, motivazione e teorica dell’invalidità); limiti e possibilità dell’aggancio all’attività amministrativa vincolata; il legame con la teoria dell’autolimite della p.a.
Altresì si affronta l'interessante tematica dell’estensione dell’automazione al processo amministrativo con accurata disamina delle teorie a «corto raggio»: in particolare, l’automazione per fasi e l’estensione alla discrezionalità tecnica. Si tratta la tematica dell’estensione ai territori della discrezionalità e la necessità di un cambio di prospettiva pervenendo infine ad una conclusione necessariamente aperta. Il suddetto intervento è stato trasposto in articolo di dottrina L. VIOLA, L'intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo amministrativo: lo stato dell'arte, federalismi.it, 7 novembre 2018 , scaricabile al seguente indirizzo url https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=37334&dpath=document&dfile=06112018220520.pdf&content=L%27intelligenza%2Bartificiale%2Bnel%2Bprocedimento%2Be%2Bnel%2Bprocesso%2Bamministrativo%2B%2D%2Bstato%2B%2D%2Bdottrina%2B%2D%2B
[51] F. VIGANO', Il principio di prevedibilità della decisione in materia penale, in Diritto penale contemporaneo, 19 dicembre 2016, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it/d/5118-il-principio-di-prevedibilita-della-decisione-giudiziale-in-materia-penale
[52] L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 206 e ss.
[53] L. VIOLA, L'interpretazione della legge ex art. 12 Preleggi si basa su un algoritmo, Giustizia Civile. Com, 22 febbraio 2019, consultabile al seguente indirizzo url http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/approfondimenti/linterpretazione-della-legge-ex-art-12-preleggi-si-basa
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