ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Stato e persona nell’era della paura*
di Marco Dell'Utri
1. L’accostamento dei temi del potere dello Stato e dei diritti della persona al sentimento della paura risponde ai termini di un lessico antico.
La valenza politica della paura risale, nella storia del pensiero e delle idee sull’arte di governo, alle pagine del Principe di Machiavelli, là dove le qualità dell’uomo di potere appaiono misurate sull’attitudine a procurare la soddisfazione dello spontaneo ed elementare bisogno umano di protezione dei sudditi.
Ancora più evidenti, nella prospettiva dello scambio tra la prestazione di sicurezza del sovrano e la cessione di libertà dei singoli, sono i passaggi del Leviatano di Hobbes (il terrificante mostro biblico) sul carattere simbolico del pactum subiectionis; segno di un preteso contrattualismo che, pur coattivamente imposto dall’alto, comunque si lega, idealmente, a una promessa di protezione.
Più vicina a noi nel tempo, nello sviluppo del pensiero archeologico di Michel Foucault, l’idea di fondo della pervasività costrittiva del potere finisce col travalicare i confini della riflessione dei teorici dello Stato assoluto, e si fa espressione costitutiva e identitaria del potere dello stato moderno in quanto tale, e della stessa concezione moderna della politica che rimonta fino alle catastrofi del XX secolo.
Secondo i canoni della governamentalità foucaultiana, il potere dello stato moderno è il lascito ereditario dell’antico potere pastorale della Chiesa: potere di conduzione e di cura delle anime sperse e impaurite, da guidare e dirigere secondo quegli stessi canoni che indurranno il Grande Inquisitore dostoevskiano a rimproverare, al Cristo redivivo, l’assurda parola sul libero arbitrio.
È proprio lo strutturale rapporto antinomico tra bisogno di sicurezza ed esercizio della libertà a tracciare l’orizzonte moderno della politica: nessuna prestazione di sicurezza collettiva potrà mai efficacemente adempiersi in assenza di adeguate restrizioni delle libertà individuali.
2. Dalla seconda metà del ‘900 (compiuta la parabola dello stato moderno con le follie del nazifascismo e del sovietismo malamente sopravvissuto fino al termine degli anni ‘80), il rapporto tra politica, paura e bisogno di sicurezza assume contorni nuovi.
Con la progressiva democratizzazione delle società avanzate e l’affermazione delle cosiddette costituzioni del dopo Auschwitz (secondo il parallelo percorso dei principi del codice di Norimberga e della rivoluzione del consenso informato - per cui nulla è più possibile al potere dello Stato sul corpo dell’individuo, se non legittimato dal consenso della persona), la prestazione di sicurezza del sovrano non legittima più, di per sé, la limitazione della libertà: il potere politico dev’essere in ogni caso legittimato dal consenso collettivo effettivamente espresso dall’intero corpo sociale.
Significativamente, il testo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo sottolinea (agli artt. 8-11) come eventuali limitazioni al diritto della persona al rispetto della propria vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà di espressione o alla libertà di riunione e di associazione, sono possibili solo attraverso l’adozione di misure legislative che, a loro volta, costituiscano, in una società democratica, l’unico mezzo indispensabile per la tutela della sicurezza, della difesa dell’ordine e della protezione dei diritti e delle libertà altrui.
L’imbrigliamento del potere attraverso la condizione della necessaria acquisizione del consenso collettivo sollecita il singolare ritorno delle classi dirigenti contemporanee all’impiego di tecniche antiche, che richiamano alla memoria le pratiche già sperimentate nell’esperienza della democrazia ateniese, come attesta la riscoperta della retorica o dell’arte della persuasione.
Occorrerà procurarsi o fabbricare il consenso politico attraverso il ricorso alla sollecitazione emotiva, più ancora del discorso razionale.
Il modello commerciale della pubblicità, funzionale alla più larga distribuzione dei prodotti di massa, diventa il parametro metodologico o strategico della fabbricazione scientifica del consenso politico.
Si tratta della dimensione critica più profonda e delicata dei temi imposti dalla crisi delle democrazie contemporanee.
Non casualmente, nel cuore tenebroso del Novecento, Martin Heidegger selezionerà, tra le diverse passioni mirabilmente descritte da Aristotele nel secondo libro della Retorica, la paura (il Φόβος) – e dunque l’emozione dettata da una minaccia incombente – come la disposizione dell’animo collettivo tra le più propizie su cui far leva a fini di persuasione e di consenso.
Da qui il mutamento di strategia del potere, attraverso l’uso politico della paura: la paura rende docili e il bisogno di sicurezze induce più agevolmente il consenso alle limitazioni della libertà.
La risposta politica al bisogno di sicurezza, là dove si materializza attraverso la coazione fisica nelle società civilmente involute e in quelle totalitarie, si risolve, nelle società democraticamente più sofisticate, nella surrettizia e massificata induzione di modelli o stili di vita disponibili alla conformazione, e dunque nell’organizzazione strutturale del controllo sociale dei comportamenti, che lega l’idea carceraria del Panopticon di Jeremy Bentham alla riflessione foucaultiana della sorveglianza generalizzata.
Si tratta del consolidamento della c.d. società della sorveglianza ritratta dai capolavori di un genere letterario (quello delle c.d. distopie politiche) che con lungimirante sensibilità restituisce il tratto, mostruoso e nascosto, della vita collettiva delle contemporanee società di massa.
Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley propone, negli anni ’30, la descrizione futuribile dell’uniformazione materiale dell’uomo (della produzione in serie, fordista, dell’umano) attraverso la cancellazione della sua storia, delle sue memorie culturali e di una qualunque idea della diversità.
È l’oscura prefigurazione del tempo a venire (quella che alimenterà i sogni, o gli incubi, di una certa letteratura o di una certa cinematografia al confine tra fantascienza e orrore) ribadita da un altro capolavoro distopico – il 1984 di Orwell, composto a ridosso degli anni della seconda guerra mondiale – che apre allo sguardo comune il carattere perverso dei legami tra il potere politico e la sorveglianza totale del Grande Fratello.
La sorveglianza di cui si parla è propriamente il controllo sul rispetto di standard e di uniformità di stili di vita; lo stato controllante è lo stato che induce l’idea dell’esistenza conformata come l’unica modalità di realizzazione della prestazione di sicurezza: una modalità che necessariamente nega o rifiuta le differenze.
Con il termine differenza occorre qui intendere, non solo (o non tanto) il dissenso o la protesta – che pure possono essere consentite o tollerate, al fine di propagandare l’idea di una (superficiale) apertura al dialogo democratico – ma, più in profondità, il rilievo negativo delle difformità dei valori o degli stili di vita di individui e di minoranze.
Il limite positivo che il costituzionalismo interno o sovranazionale impone alla codificazione formale del controllo sociale dei comportamenti, non impedisce che questo avvenga surrettiziamente, o di fatto, attraverso gli strumenti della tecnologia informatica, con la raccolta e l’indicizzazione di masse di dati personali (la vicenda del c.d. scandalo Cambridge Analytica costituisce solo una pallida idea del tema) e della comunicazione sociale (dalla televisione, al cinema, alla stampa, fino alla frequentazione scolastica e universitaria, ai dialoghi sul posto di lavoro, allo scambio sui social networks), attraverso i processi di normalizzazione culturale che preludono all’omologazione e al conformismo nei modi di conduzione e di realizzazione della vita delle persone.
Si tratta dei temi che, nel discorso esistenzialista di metà secolo, venivano traducendosi nella denuncia del conformismo come rischio proprio della convivenza e dell’heideggeriana dittatura del ‘si’ (si fa, si dice, si pensa...), ossia della tirannia dell’opinione o della chiacchiera fugacemente scambiata nel tratto superficiale della quotidianità.
Circolano, in queste forme di scambio (profittando della distrazione, della pigrizia o anche solo della stanchezza intellettuale), modelli di costruzione di senso e paradigmi simbolici che sono conseguenza di una drastica e ben selezionata riduzione dei temi del dialogo pubblico e, insieme, degli stereotipi comunicativi destinati a diffonderli.
Esemplificando, non è difficile, esponendo con studiata metodologia la frequenza delle incursioni furtive nei luoghi privati, unita al rilievo dell’inefficienza degli apparati statali, indurre il tema della legittimità dell’autodifesa, anche armata.
Neppure è difficile, attribuendo un calibrato rilievo formale alla comunicazione giornalistica delle periodiche follie terroristiche (malamente legate a confuse ispirazioni confessionali di matrice estera), insieme alla descrizione degli esiti fallimentari delle politiche di integrazione urbana degli stranieri, indurre l’idea dell’immigrazione come la fonte di pericolo par excellence per l’ordine e la sicurezza collettivi.
Ancora agevole, legando la cronaca civile all’happening di genere, risulta l’insinuazione del sospetto che la procreazione assistita, come una più realistica disciplina dell’adozione o la parità omosessuale, valgano a preludere alla catastrofica dissoluzione della famiglia tradizionale.
In breve, la gestione politica della paura tende a far leva sul naturale sentimento di inquietudine che inevitabilmente accompagna il rapporto con la diversità, nella misura in cui la diversità rappresenta il simbolo di ciò che non è noto, di ciò di cui non sono conosciuti, né i termini, né le forme.
E le espressioni più profonde, e ultimative, di ciò che non è noto sono proprio le conseguenze dell’esercizio della libertà (la paura delle responsabilità) e il pensiero stesso del futuro, rispetto ai quali occorrerebbe saper assumere una posizione capace di scorgere – oltre la sconfitta della chiusura o della conservazione – i segni di una possibile apertura critica.
All’astratta declamazione della varietà del catalogo dei diritti della persona (dal diritto all’informazione, a quello di manifestazione del pensiero, alle libertà associative, di riunione, di professione di fede, dalle forme di esplicazione della sessualità fino alle espressioni della libertà nell’esercizio delle preferenze di consumo) corrisponde, in senso largamente riduttivo, l’insinuazione di modelli culturali inclini a favorire un esercizio il più possibile conformato (o conformistico) delle prerogative individuali: finalità che pericolosamente si saldano con l’esigenza di uniformazione del gusto proprio del sistema della produzione di massa.
Il carattere paradossale del fenomeno può essere misurato se solo si rifletta come, tutto al contrario, il riconoscimento dei diritti comparve, tra i principi fondamentali della Costituzione italiana del 1948, come la solenne celebrazione dell’originalità della persona, affidata all’esercizio delle proprie libertà e delle prerogative di autodeterminazione (lo svolgimento della personalità di cui all’art. 2) fuori da ogni forma di controllo eteronomo.
La scelta adottata dall’Assemblea costituente (con riguardo alla tutela della salute sancita dall’art. 32 della Costituzione) di imporre al legislatore il limite assoluto costituito dal rispetto (non già della dignità, ma) della persona umana, nella sua integralità e originalità, volle significare il riconoscimento della libertà di ciascuno di costruire la propria nozione di dignità in funzione delle proprie scelte personali e dei valori individualmente perseguiti; l’identificazione dello spazio di praticabilità di quell’esistenza libera e dignitosa (dignitosa in quanto libera) che l’art. 36 della Costituzione andava legando ai temi del lavoro e della retribuzione.
Il vero tema politico degli anni a venire è dunque il tema (eterno) – oggi destinato a rinnovarsi con accenti di drammaticità – dello spazio riservato all’edificazione dell’autenticità della persona.
Volendo ridurre ai termini di uno slogan il senso ultimo del discorso, può affermarsi la necessità di coltivare, da parte di ciascuno – vorrebbe dirsi cartesianamente – una sorta di capacità dubitativa, un’attitudine a sospettare criticamente dei propri consensi pubblici e privati, cercando di sorvegliare con cura le ragioni che animano le adesioni prestate o i dissensi opposti alle continue offerte del mondo circostante.
3. Ci si può allora interrogare sui rischi cui è esposto il lavoro del giudice (o, più in generale, dell’interprete di testi giuridici) quando è richiesto di contribuire (com’è suo dovere, secondo il vincolante imperativo costituzionale) a garantire la praticabilità di quegli spazi riservati all’edificazione dell’autenticità della persona.
La vita dei testi giuridici (il diritto vivente) è ciò che risulta da quell’eterno dialogo tra le memorie culturali di una comunità (i principi e i valori sperimentati e filtrati dal suo tempo storico) e le emergenze del tempo presente; dall’incontro di tradizione e innovazione; dalla combinazione dinamica (talora tragica) tra cultura e politica.
Il tema dell’edificazione dell’autenticità della persona è valore compreso e conquistato nel tempo storico; si è imposto dalle pagine dei filosofi (dal sapere aude kantiano) alla violenza politica dei rivoluzionari americani e francesi, fino a percorrere il deserto delle drammatiche evoluzioni dello stato moderno caduto ad Auschwitz.
Le implicazioni dei processi di Norimberga, divenute materia di normazione costituzionale, sono la parte dove si colloca il diritto democratico e la cultura che spetta al giudice di difendere e garantire.
Quando si afferma che l’esercizio della discrezionalità politica, nell’ambito dei rapporti internazionali tra Stati, può avvenire legittimamente senza alcuna adeguata considerazione delle condizioni minime di rispetto della dignità delle persone e dei loro corpi ristretti, in assenza di un quadro definito di legalità, si fanno affermazioni che, pur quando possano trovar riscontro sul piano formale, insinuano veleni di cui è dubbio si siano intuiti con chiarezza le implicazioni e i pericoli.
Quando si afferma che il riconoscimento di un diritto a una morte dignitosa si porrebbe in palese contrasto con lo spirito della Carta costituzionale e con diverse norme della legislazione vigente, si rischia di assolutizzare in modo improprio una lettura del tutto opinabile del sistema, peraltro interpretato in termini diametralmente opposti dalle più recenti prese di posizione della Corte Costituzionale.
Sono passaggi che pure hanno trovato un’eco in taluni testi formali della nostra giurisprudenza e di cui sfuggono le ragioni o i motivi di coerenza con i principi della cultura democratica chiamata a opporsi alle ricorrenti forzature della politica.
Lungo gli itinerari dei diritti della persona capita di annoverare le occasioni del conflitto e della reciproca incompatibilità delle pretese: si ripropone, in questo contesto, un tratto caratteristico dell’esperienza giuridica del nostro tempo, che è quella dell’impossibilità di individuare ragioni assolute di prevalenza, là dove si rende opportuna la comparazione, il confronto e il dialogo tra prospettive differenti od opposte in vista di una possibile conciliazione.
Il modello dell’obiezione di coscienza è quello in cui, nel modo più esemplificativo, a una tecnica propria della società pluralista (qual è il diritto dell’obiettore di difendere, dallo strapotere dell’etica dei più, la fedeltà al sistema di valori cui è informata la propria coscienza morale) può accadere di incontrare, in termini di tragica contraddizione, l’esercizio di fondamentali prerogative altrui.
È un confronto per cui dallo stesso contesto pluralistico da cui muove il senso dell’obiezione di coscienza occorre si tragga anche l’indispensabile attitudine al bilanciamento delle istanze incompatibili, in nome della convivenza possibile e sul presupposto che il principio di autodeterminazione, per sua stessa natura, non può che ripudiare un esercizio delle proprie facoltà con effetti diretti di eterodeterminazione.
Anche nell’ambito delle forme di esercizio dell’obiezione di coscienza varrà imparare a smascherare l’abuso opportunistico, che risale all’iniziativa di singoli, così come l’ideologia che ne alimenta il ricorso strumentale da parte di minoranze fortemente organizzate a fini di sabotaggio di provvedimenti legislativi non condivisi.
Un approccio consapevole alla difficile attività di interpretazione dei testi giuridici richiede, nella prospettiva contemporanea dell’emancipazione di individui e di gruppi, la capacità di calare il formante legislativo in un contesto di formanti diversi, talora di livello anche superiore all’ordine legislativo, e di valorizzare gli aspetti di una normatività debole, flessibile o mite, suscettibile di insinuarsi in modo compatibile ed efficace nella disciplina dei singoli casi concreti.
La caratteristica verosimilmente più salente del diritto contemporaneo è quella di essere un diritto a vocazione giurisprudenziale, per cui è richiesta al giudice la capacità di svolgere un’adeguata riflessione a fini di coordinamento, di consolidamento e di sistematizzazione, per l’immanente necessità di rendere compatibili le diverse fonti che incidono contestualmente all’interno di un medesimo ambito collettivo.
Si è in precedenza accennato – ricordando i nomi di Aldous Huxley e di George Orwell – a talune tra le più note distopie letterarie del Novecento.
Da un’altra di queste – il Farheneit 451 di Ray Bradbury (composto nei primi anni ’50) – varrà trarre l’invito o lo spazio per una comune riflessione.
Il libro sull’incendio dei libri suggerisce, al termine del racconto, la speranza in una salvezza possibile, attraverso la custodia della memoria e del pensiero critico come servizio da offrire all’emancipazione di ciascuno e della collettività intera.
Chi, nel tempo presente, ha il privilegio di svolgere una funzione intellettuale, ha il dovere di non dimenticare mai, per la fruttuosità di quell’impegno, accanto alla dolente ricapitolazione delle miserie umane, il senso vivo di una responsabilità comune.
* Il testo riprende l’intervento svolto nel corso dell’Assemblea Nazionale di Area Democratica per la Giustizia, in Roma, il 23 novembre 2018, nell’ambito della Sessione dedicata a I diritti nell’era securitaria e della paura.
L’applicazione pratica del nuovo art. 360, n. 5, c.p.c. conferma che l’ambito del sindacato della Corte di Cassazione sui «fatti» non sia limitato alle sole ipotesi della mancanza formale della motivazione e dell’omesso esame di un dato materiale, garantendosi tuttora un controllo di legittimità sulla coerenza logica e sulla plausibilità delle conclusioni della decisione impugnata.
Sommario: 1. Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito – 2. Un controllo solo formale? - 3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - 4. L’omesso esame degli elementi istruttori - 5.Conclusioni.
1.Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito - Sono trascorsi già più di sei anni dall’entrata in vigore del nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, e risale ad oltre quattro anni fa la prima interpretazione che di tale norma diede Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053.
La formulazione del vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» ha, in sostanza, ripristinato nel nostro ordinamento l’originario parametro di censura adottato dal Codice del 1942, fatta salva l’apparente innocua sostituzione della preposizione «circa» alla preposizione «di», niente più di un “solecismo” imputabile al legislatore del 2012, a dire delle Sezioni Unite.
Il testo del 1942 venne spiegato nella stessa relazione al Re del Ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi come un segnale da dare alla pratica giudiziaria, che aveva adattato le disposizioni del codice del 1865 (il quale, di per sé, non contemplava uno specifico motivo di ricorso in cassazione per vizio di motivazione) arrivando a delineare, accanto al vizio formale di motivazione, il cosiddetto «vizio logico» di motivazione, consistente nella mancanza di adeguate argomentazioni idonee a dimostrare che fosse «giusta» la soluzione delle questioni di fatto raggiunta nella sentenza. Poiché i limiti dell’«omesso esame di un fatto» vennero presto agevolmente elusi dai protagonisti del processo censurando la nullità della sentenza mal motivata per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, e 156 c.p.c., già nel 1950 il legislatore reagì modificando l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ed adottando il testo «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio», dettato rimasto immutato fino al d.lgs. n. 40 del 2006, allorché il «punto» divenne, piuttosto, «un fatto».
La prima lettura della Riforma del 2012, data dalla pronuncia del 2014 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, intese, allora, la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, limitata alle fattispecie nelle quali sia ravvisabile la nullità della sentenza per «mancanza della motivazione», ai sensi dell’art. 132, n. 4, c.p.c.
Ciò fece dubitare parte della dottrina della compatibilità del sistema così delineato con l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 111, comma 6, Cost., imputandosi alla Corte di Cassazione di aver ridotto a quattro i numeri dell’art. 360[1]. E’ vero che si richiede al giudice di merito la ricerca e la valutazione dei fatti, mentre “in Cassazione ciò che conta è il diritto”[2], ma sarebbe certamente inesatto pretendere che la Suprema Corte giudichi solo in diritto, dovendo essa comunque rilevare gli “errori di fatto” che abbiano causato errori di giudizio, in quanto l’errore che interessa la definizione della premessa minore dei vari sillogismi in cui si struttura una sentenza è errore che di regola ne inficia anche la conclusione[3].
Il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza di merito è, allora, l’unico mezzo attraverso il quale è possibile controllare la giustificazione giuridica e razionale della decisione giudiziale.
2. Un controllo solo formale?- Per Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, rimane oggetto del sindacato di legittimità la sola mancanza della motivazione intesa come «contenitore documentale», mancanza perciò percepibile dalla lettura del testo della sentenza impugnata, senza necessità di alcun raffronto con le risultanze processuali. Venivano individuate in tale pronuncia come fattispecie di inesistenza della motivazione, peraltro, anche quelle della «motivazione apparente», del «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», e della «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile».
La lettura delle successive decisioni della Suprema Corte conferma, però, come i giudici abbiano data «sostanza» a tale controllo dichiaratamente solo formale della motivazione, attuando, nei fatti, tuttora una verifica di intima coerenza della decisione di merito, e cioè di connessione tra le parti di cui essa si compone.
Si è così ritenuta nulla, per mancanza del requisito dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., la sentenza che motivi l’accoglimento della pretesa sostanziale sulla base della lettura dei motivi esposti nell’atto introduttivo della domanda, dei documenti ad essa allegati e di una consulenza tecnica, senza riprodurre la parte di tali atti giustificativa della valutazione espressa[4]; parimenti nulla per “mancanza della motivazione” è stata dichiarata la sentenza che non consenta di cogliere le ragioni giuridiche della decisione[5].
E’ stata poi definita «apparente» la motivazione che consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento «di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice»[6].
La motivazione è, invece, intrinsecamente contraddittoria quando è strutturata su proposizioni successive che affermano che una stessa circostanza sia e non sia, ovvero su fatti reciprocamente escludentisi[7]. La verifica di non contraddittorietà attiene, allora, innegabilmente alla plausibilità del giudizio finale, ovvero proprio a quell’intima coerenza argomentativa della decisione che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - Pure l’elaborazione di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, preserva un sindacato della Corte di cassazione sulla «coerenza» della motivazione, sotto il profilo della «plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze».
D’altro canto, la verifica di non «implausibilità delle conclusioni» difficilmente può spiegarsi come controllo “esterno”, dimostrandosi, piuttosto, il frutto di un’analisi intrinseca dei contenuti della sentenza, a meno di non forzare l’assimilazione tra motivazione strutturalmente mancante nel “documento-sentenza” e “motivazione ineffettiva”.
Per Cass. 5 luglio 2017, n. 16502, ad esempio, senza remora alcuna, il controllo della Corte di cassazione sul procedimento logico inferenziale seguito dal giudice di merito, «pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità – o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità – della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente».
4. L’omesso esame degli elementi istruttori - Seguendo l’insegnamento di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, il mancato esame di un mezzo di prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omesso esame circa un fatto storico decisivo della controversia e, segnatamente, quando la prova non esaminata offra la dimostrazione di una circostanza di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento.
Eppure, il riformato art. 360, n. 5, c.p.c., come visto, adopera la preposizione «circa» (un fatto decisivo), invece che «di».
Si fanno allora strada, anche su questo profilo, interpretazioni giurisprudenziali meno restrittive: altresì l’esame incompleto, incoerente o illogico di un mezzo di prova finisce talvolta per equivalere all’omesso esame del fatto che quella prova dovrebbe dimostrare[8].
Un «fatto» non può, del resto, dirsi insindacabilmente esaminato dal giudice di merito sol perché egli abbia esaminato una delle tante risultanze probatorie che di quel fatto dimostrano l’esistenza o l’inesistenza. Se un medesimo fatto è oggetto di più prove, il giudizio su quel fatto non può che essere l’esito di una valutazione combinata che includa tutte le prove che lo riguardano. Tale valutazione va operata considerando e comparando le diverse possibili versioni del fatto, per poi stabilire quale tra queste versioni risulti logicamente confermata da un grado più elevato di attendibilità. Chiedere alla Corte di cassazione di verificare la logicità della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie significa, dunque, non implorare da essa una nuova valutazione della ricostruzione della vicenda concreta, quanto invocare un controllo di legalità della decisione in riferimento all’applicazione delle norme di diritto che regolano l’accertamento dei fatti e la formazione del convincimento giudiziale.
In definitiva, l’omessa valutazione di una delle prove che verte sullo stesso fatto può rendere quel fatto non esaminato, agli effetti del vigente art. 360, n. 5, c.p.c.
5.Conclusioni.
La lettura della applicazione pratica che la giurisprudenza sta dando al nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., dovrebbe acquietare coloro che avevano manifestato il timore che la Suprema Corte, col concorso del legislatore del 2012, avrebbe cancellato la rilevanza del vizio di motivazione quale oggetto del sindacato di legittimità.
Pur dovendosi riconoscere l’obiettiva maggiore complessità della formulazione del motivo di ricorso per ‹‹omesso esame circa un fatto››, i provvedimenti richiamati dimostrano come la Corte di Cassazione non stia svolgendo una pigra verifica burocratica dell’assolvimento soltanto formale dell’obbligo di motivazione, ed anzi spinga ancora il proprio controllo fino al riscontro che la decisione sia altresì apparentemente ”giusta”, ovvero razionalmente giustificata ed intimamente coerente.
Resta l’ostacolo selettivo della necessaria “decisività” del fatto non esaminato, ove intesa come connotazione di prognosi certa (e non solo possibile o probabile) di un diverso esito della controversia, atteso che la percorribilità di una diversa ricostruzione inferenziale della quaestio facti non appartiene per sua natura alla cognizione propria del giudice di legittimità. Con riguardo all’omesso esame di un fatto secondario, come anche alla mancata ammissione di un’istanza istruttoria, il filtro preliminare di decisività rischia, anzi, di gravare la Corte di Cassazione di un inesigibile riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa e di una riformulazione del giudizio di fatto affidato al giudice del merito, ovvero di un improprio vaglio sull’ingiustizia di fondo della sentenza impugnata.
[1] L. Passanante, Le Sezioni unite riducono al « minimo costituzionale » il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 179 ss..
[2] P. Calamandrei, La Cassazione e i giuristi, in Studi sul processo civile, III, Padova 1934, 274.
[3] F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, IV, Padova 1931, 244 ss.
[4] Cass. 23 marzo 2017, n. 7402.
[5] Cass. 22 giugno 2015, n. 12864.
[6] Cass., sez. un., 3 novembre 2016, n. 22232.
[7] Cfr. Cass. 21 maggio 2018, n. 12527; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4367; Cass. 9 novembre 2017, n. 26538.
[8] Cass. 27 luglio 2016, n. 15636, ha equiparato all’omesso esame di un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il giudizio «non radicato in un critico esame della documentazione prodotta»; per Cass. 31 maggio 2018, n. 13770, come per Cass. 29 maggio 2018, n. 13399, il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio integra un vizio che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; secondo Cass. 12 aprile 2017, n. 9356, l’‹‹errore di percezione››, in cui sia incorso il giudice di merito nell’esaminare il contenuto delle prove offerte dalle parti, è invece censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c. Afferma, infine, Cass. 5 novembre 2018, n. 28174, che il travisamento della prova, e cioè la verifica che un’informazione probatoria utilizzata in sentenza sia contraddetta da uno specifico atto processuale, esclude che possa vertersi in ipotesi di cosiddetta ‹‹doppia conforme››, preclusiva del ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., giusta l'art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.
Ci sono persone che non vanno mai in pensione. Le schiene dritte, quelle dritte davvero, così rimangono sempre, che abbiano o meno la toga sulle spalle. Armando la toga non la toglierà mai, perché è davvero un tutt’uno col suo essere più profondo: la tutela dei diritti, l’indipendenza e l’autonomia, il rispetto vero per le istituzioni.
Le passioni non vanno mai in pensione. Non è un augurio, ma una certezza, che Armando sarà sempre in prima fila nel difendere le ragioni degli altri, nel parlare con competenza e con l’esempio di diritti e principi, nel ricordare a tutti che non si deve mai smettere di parlarne.
Certo, tanti gli vogliono bene e tanti con lui hanno litigato, e le due categorie si sovrappongono: Armando non litiga con le persone di cui non condivide il modo di essere, queste si limita a colpirle con una frase tagliente, con un commento preciso.
Ha litigato e litiga con quelli come lui, quelli a cui vuole bene e che gli vogliono bene, perché a volte la si può pensare diversamente su strategie politiche, su passaggi correntizi, ma avendo la coscienza di essere dalla stessa parte.
Conosciamo la sua grande passione per la musica, il suo amore viscerale per Bob Dylan. Ci sembra bello dedicargli una strofa di una delle canzoni più belle, per quanto poco conosciute, di Francesco De Gregori, “Sempre e per sempre”:
Pioggia e sole
cambiano la faccia alle persone,
fanno il diavolo a quattro nel cuore
e passano
e tornano
e non la smettono mai.
Sempre e per sempre tu:
ricordati
dovunque sei
se mi cercherai
sempre e per sempre
dalla stessa parte mi troverai.
Caro Armando, dalla stessa parte, sempre e per sempre.
Il Direttivo del Movimento per la Giustizia
Andrea, Angelo, Daniela, Dino, Gianni, Giovanni, Giuseppe, Maria Teresa, Mino, Pier Luigi, Stefano
POLITICA E MAGISTRATURA: FERMATE L’ANDIRIVIENI
(Criticità di una contaminazione da superare)
Se il rispetto della politica per la magistratura può considerarsi un affidabile termometro della salute democratica di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerare le inchieste giudiziarie “sacrosante” o “persecutorie” a seconda che riguardino, rispettivamente, gli avversari o i militanti del proprio schieramento. È una tentazione questa, cui pochi nostri rappresentanti hanno saputo resistere. Preoccupante è il manifesto proposito di delegittimare la magistratura: irridendone l’azione, disconoscendole l’autorità di pronunciarsi in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparzialità per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionando sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinderne.
Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritarismo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudini del Pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinamentali predisponenti. Risulta assai difficile non rispondere affermativamente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanziale impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettabile pendolarismo dall’ufficio giudiziario ad attività di natura politico-amministrativa, che non può non ripercuotersi sulla credibilità della funzione giurisdizionale svolta.
Sul primo versante. La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione. Si è pensato di sostituirla con un sindacato della Camera di appartenenza dell’indagato sulla esperibilità di determinati atti investigativi: «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto» a perquisizione personale o domiciliare, ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni, a sequestro di corrispondenza (art. 68 Cost.). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilità di una fonte così autorevole come la Costituzione. L’autorità giudiziaria, prima di procedere al compimento di atti investigativi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire –oltre all’indagato- più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivamente a fini investigativi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercettare le conversazioni di un parlamentare dovrebbe ottenere prima il disco verde alla Camera di appartenenza; dopodiché, verosimilmente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controproducenti potrebbe sortire una intercettazione con preavviso.
Ma anche là dove la guarentigia costituzionale è in sé ineccepibile, la prassi si è incaricata di trasfigurarla in insopportabile privilegio. La Costituzione giustamente pretende che l’autorità giudiziaria, per poter privare della libertà personale un parlamentare, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenenza esclude l’esistenza di un intento persecutorio vòlto ad alterare il fisiologico atteggiarsi degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativa negli eccezionalissimi casi in cui l’iniziativa giudiziaria avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzare l’arresto come insuperabile riparo ordinario del parlamentare contro l’azione giudiziaria, strumentalmente adducendo – tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste – l’asserita presenza del fumus persecutionis. Insomma: tanto fumus, poco arresto.
Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare ad indossare i panni di sindaco o di assessore in un comune viciniore rispetto alla circoscrizione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometrica consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzioni politiche che lo hanno indotto ad assumere determinate decisioni amministrative e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialmente le funzioni di magistrato. E’ ancor più improbabile che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazione, specie se la loro attività o la res iudicanda abbia collegamenti più o meno diretti con la politica.
Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità, come di solito si sottolinea. Politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire ad un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato ed opera secondo lo schema «se è accaduto questo… allora…». Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della propria decisione. Ebbene. il magistrato che “torna” ad esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi estremamente opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizionali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamentare o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri).
In sintesi: la promiscuità di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparzialità dell’azione giudiziaria; più spesso incrina la fiducia della collettività nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziaria ad attacchi ed insinuazioni strumentali. Impedire tali contaminazioni tra magistratura e politica forse può frustrare qualche comprensibile aspirazione dei magistrati, ma fa bene all’autorevolezza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati ad un tal punto di analfabetismo democratico che un ministro ritiene di poter contestare ad un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccabile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferimento condiviso, senza il quale si schiuderebbero orizzonti poco rassicuranti. Screditata ed esautorata la giurisdizione, i cittadini cercherebbero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgerebbero ad altri poteri (politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazione delle loro rivendicazioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenza.
(da “La lettura”, supplemento del “Corriere della Sera” del 16.12.2018)
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