ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per Giustizia Insieme si chiude un anno per molti aspetti esaltante, nel quale i lettori hanno mostrato interesse per il lavoro di squadra che ha consentito non solo il coinvolgimento di giuristi di alto profilo, ai quali rivolgiamo un ringraziamento speciale per le energie profuse, ma anche l'apertura di diversi focus sul mondo, variegato e complesso, della giustizia. Ci piace ricordare, tra i tantissimi altri, i contributi che hanno iniziato a disegnare alcune "storie di tribunali" e, con esse, le esperienze dei giovani che tirano avanti il carro giustizia con fresco entusiasmo e dedizione. Non meno importante ci è sembrato "fare memoria" su alcuni tragici fatti della nostra storia, in una prospettiva in movimento di ricerca della verità che ha coinvolto anche il mondo forense.
L'anno che si apre sarà dunque certamente complesso, non solo per tentare di mantenere lo stesso entusiasmo attorno a Giustizia Insieme e consolidare l'interesse dei lettori, ma anche per sperimentare nuove strade di comunicazione sulla scia della fortunata formula delle interviste a più voci, in modo da arricchire le occasioni di dialogo anche con altre riviste di settore che condividono le istanze di base di questa piazza virtuale.
Buon anno nuovo dal Comitato scientifico e dal Comitato di redazione ed appuntamento al 7 gennaio 2020 per la ripresa delle pubblicazioni.
Il Comitato scientifico
Alfonso Amatucci, Corrado Caruso, Giorgio Costantino, Mariella De Masellis, Giacomo Fumu, Gabriella Luccioli, Dino Petralia, Oreste Pollicino, Giuseppe Santalucia, Giorgio Spangher.
Il Comitato di redazione
Ernesto Aghina, Cristina Amoroso, Marta Agostini, Gabriele Allieri, Giuseppe Amara, Andrea Apollonio, Elisa Asprone, Marcello Basilico, Beatrice Bernabei, Chiara Bicchielli, Raffaella Calò, Franco Caroleo, Carlo Citterio, Marco Dell'Utri, Costantino De Robbio, Valentina Gallo, Bruno Giordano, Riccardo Ionta, Giovanni Liberati, Lorenzo Miazzi, Luca Marzullo, Werner Mussner, Morena Plazzi, Alessandro Nastri, Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Elisabetta Pierazzi, Laura Reale, Federica Salvatore, Filippo Ruggiero, Sandro Saba, Giuseppe Santalucia, Lucia Spirito, Assunta Tillo, Luigi Tirone, Enrico Villani.
Roberto Conti e Paola Filippi
Associazione italiana
fra gli studiosi del processo civile
Al signor Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede
PARERE DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL'ASSOCIAZIONE ITALIANA FRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO CIVILE
in relazione al d.d.l. di riforma del processo civile
Con il presente parere saranno sviluppate, da un lato, considerazioni di carattere generale e preliminare; dall'altro lato, riflessioni specifiche relative ai singoli articoli del progetto di legge. Ciò, peraltro, non senza avere tenuto in debita considerazione i principi enunciati dalla relazione di accompagnamento al d.d.l.
Prendendo avvio dal primo profilo, si deve evidenziare, preliminarmente ad ogni altra valutazione, come sia inutile, per non dire dannoso, intervenire ancora sulle regole del processo, quando invece è noto che i problemi, che incidono sull'efficienza della macchina della giustizia civile, emergono, quasi esclusivamente, sul piano strutturale e organizzativo. La ragionevole durata del processo - obiettivo che il legislatore delegante intende dichiaratamente perseguire - non si ottiene con interventi sulle norme, i quali potrebbero tutt'al più comportare una qualche utilità sul piano del chiarimento o della semplificazione di singoli istituti, ma non certo avere ricadute positive sul versante della celerità dei processi.
Infatti, è generalmente condiviso che la ragione dell'eccessiva durata del processo risiede non tanto nelle norme che lo regolano, quanto in fattori di carattere organizzativo, e in particolare nel rapporto assolutamente inadeguato tra il volume complessivo del contenzioso civile ed il numero dei magistrati, togati e non, sui quali esso grava. A ciò si lega anche il problema della composizione/organizzazione degli uffici e della formazione dei dirigenti. Prova ne è, a tacere d'altro, che il fattore principale di efficienza, com'è dimostrato nell'attuale assetto, è costituito dalle pratiche virtuose adottate e applicate da taluni uffici giudiziari.
Si deve ancora rilevare come l'incessante moto riformatore, che ha interessato la giustizia civile nell'ultimo decennio, non solo non ha prodotto risultati positivi in termini di durata e di efficienza del processo, ma ha comportato un senso di diffuso disagio tra gli operatori, in quanto è principio pacificamente riconosciuto che la stabilità delle regole processuali costituisce fattore primario per una più virtuosa attività degli avvocati e del giudice.
Di tutto questo, inoltre, è convinta non soltanto la generalità degli studiosi del processo civile, ma
anche la stragrande maggioranza degli avvocati, dei magistrati e più in generale degli operatori.
Sempre in termini generali, in secondo luogo, la proposta di predisporre un unico rito di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica è, probabilmente, obiettivo condivisibile. Tuttavia, suscita non poche perplessità - anche rispetto all'idoneità a perseguire l'obiettivo della ragionevole durata - la scelta ipotizzata nel progetto legislativo, che sembra contemplare un rito sommario per così dire spurio o, secondo altra definizione, un rito ordinario semplificato, destinato a governare tutte la cause (eccetto le poche affidate al collegio), a prescindere dal grado della loro complessità. In particolare, il rito immaginato nel d.d.l. rappresenta una sorta di combinazione tra l'attuale procedimento sommario di cognizione, il procedimento ordinario davanti al tribunale e il rito del lavoro; esso si caratterizza per un rigido sistema di preclusioni.
Pur nell'ottica di semplificazione delle regole e di perseguimento dell'obiettivo della ragionevole durata, è necessario assicurare la predeterminazione delle regole del processo, il quale, come afferma la Carta costituzionale, è "giusto" se "regolato dalla legge"; d'altro canto, non è irrigidendo il sistema delle preclusioni che si riescono a conciliare le esigenze della celerità con quelle legate ai diritti di difesa delle parti; un inasprimento in tal senso, viceversa, comporta il rischio di un allontanamento dell'esito del processo da quello che dovrebbe essere il suo sbocco naturale, ossia la maggior approssimazione possibile alla verità materiale. Ancora: il sistema di preclusioni anticipate e rigorose può realizzare forse un'economia endoprocessuale, ma porta con sé, quasi inevitabilmente, conseguenze negative dal punto di vista dell'economia extraprocessuale, posto che quelle modificazioni e quei mutamenti delle domande, che il meccanismo preclusivo vieta di svolgere nel corso del processo, per forza di cose, restano suscettibili di valorizzazione in successivi e ulteriori giudizi. È perduto il riferimento "alla vicenda sostanziale", che, invece, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza n. 12310/2015, hanno posto ad oggetto del contraddittorio delle parti e dell'accertamento giudiziale.
D'altronde, non sembra avvertita né in dottrina, né dagli operatori giudiziari, l'esigenza di un radicale mutamento dell'attuale rito di cognizione ordinaria, peraltro già semplificato con la riforma
del 2006 con risultati comunemente valutati in modo positivo, rito che oggi ha regole e principi consolidati, anche alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali intervenute, e costituisce un punto di equilibrio tra il sistema delle preclusioni e quello imperniato sul pieno sviluppo del diritto di difesa alle parti. Forse, la sola modifica opportuna potrebbe essere costituita dal prevedere maggiore flessibilità circa le memorie e i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., in considerazione delle specificità del caso concreto.
Infine, si è ritenuto opportuno evitare di proporre modifiche e interventi diversi da quelli individuati nel d.d.l. in commento; l'unico suggerimento che si può avanzare attiene alla opportunità di un intervento legislativo, per così dire, di adeguamento periodico, che recepisca ogni anno, nella nostra materia, le novità derivanti dal diritto dell'Unione europea e dalle sentenze della Corte costituzionale.
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Passando ora alla disamina dei singoli articoli che compongono il d.d.l., appare opportuno effettuare le considerazioni che seguono.
1)Sull'art. 2 (strumenti di risoluzione alternativa delle controversie)
Ciò detto, è da auspicare un intervento più incisivo, che passi dall'eliminazione dell'obbligo della mediazione di cui al d.lgs 28/201O e dalla incentivazione di forme di mediazione volontaria ovvero delegata; parallelamente o alternativamente, negli ambiti nei quali si ritenesse di dover conservare il meccanismo della mediazione obbligatoria, occorre sopprimere la rilevabilità d'ufficio del mancato esperimento e inserire una previsione che consenta alle parti di optare, in alternativa al
procedimento di mediazione, per un procedimento di negoziazione assistita. A tale riguardo, può apparire utile, da un lato, la previsione di una fungibilità trasversale e totale tra l'utilizzo dell'uno o dell'altro strumento di ADR, nel senso che, una volta che sia stato attivato l'uno, si deve considerare integrata l'eventuale condizione di procedibilità prevista in relazione all'altro; dall'altro lato, l'inserimento di strumenti di risoluzione delle controversie affidati ad organi terzi e imparziali e
dotati di specifica competenza nella materia.
2) Sull'art.3 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica).
Tra le maglie della disciplina stabilita dalla disposizione in esame, debbono essere denunciate alcune criticità, in particolare:
la forma del ricorso dell'atto introduttivo: la proposta di generalizzare l'adozione del ricorso, se può essere apprezzata sul piano della semplificazione, soprattutto con riferimento al processo telematico, non sembra essere in grado di incidere realmente sulla ragionevole durata del processo; la previsione del d.d.l. - secondo cui l'udienza di prima comparizione deve essere fissata entro quattro mesi - rischia di determinare una dilatazione dei tempi rispetto al quadro attuale, nel quale, con l'utilizzo della citazione a udienza fissa, in molti casi - ad es. allorché la notifica della citazione può essere effettuata a mezzo pec - è effettivamente possibile che la prima udienza si svolga nel termine di novanta giorni dalla notifica stessa. Non possono neppure essere sottaciuti i timori circa, per così dire, la sensibilità degli uffici giudiziari ad attenersi alle indicazioni relative al termine entro cui fissare l'udienza, ritenendosi necessaria in tale ottica l'individuazione di strumenti in grado di rendere effettivo e cogente il rispetto del termine.
le preclusioni: rinviando a quanto già rilevato in precedenza, occorre ora rimarcare come sia da valutare negativamente, con riferimento in specie all'economia extraprocessuale, la previsione - lettera b, n. 5) - che limita la possibilità di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni e conclusioni a quanto necessario in conseguenza delle domande ed eccezioni proposte dalle altre parti; l'esclusione dello ius variandi, oltre a porsi in netto contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, non incide in senso positivo sulla semplificazione, poiché conduce a limitare la portata preclusiva del giudicato.
la fase decisoria: desta perplessità anche la previsione di cui al comma l, lettera c) [valevole, ai sensi dell'art. 4, comma l, lettera d), pure per le decisioni collegiali], che contempla una udienza finale di discussione, tenuto conto della difficoltà di individuare apposite udienze in termini ragionevoli, soprattutto allorché si tratta di causa collegiale. Non si può infine non rilevare come sia discutibile la proposta di modifica della disciplina dei rapporti tra collegio e giudice monocratico, nella parte in cui (lettera d, punto 2) non contempla la possibilità di richiesta di discussione orale dinanzi al collegio, nel caso in cui il giudice monocratico rilevi che una causa già riservata per la decisione davanti a sé debba invece essere decisa dal tribunale in composizione collegiale.
3) Sull'art. 4 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale).
Pur riconoscendosi l'opportunità del ricorso a un differente criterio e metodo di individuazione dei casi in cui il tribunale decida in composizione collegiale, non convince, anche in ragione della sua genericità, la previsione volta a ridurre i casi di decisione collegiale (ferma restando l'esigenza di una razionalizzazione delle ipotesi previste dall'art. 50-bis c.p.c.); le cause particolarmente complesse - e non solo quella davanti alle sezioni specializzate - richiedono uno scambio di opinioni possibile solo nella camera di consiglio collegiale.
Inoltre non si avverte la necessità di un intervento sul rito applicabile, specie se realizzato nella direzione di un appiattimento del procedimento dinanzi al tribunale collegiale su quello davanti al tribunale monocratico.
Infine, l'intervento sull'art. 50-bis c.p.c. dovrebbe essere coordinato con la disciplina prevista per le sezioni specializzate in materia di impresa, immigrazione, nonché con il modello processuale contemplato per la tutela collettiva.
4) Sull'art.5 (processo di cognizione di primo grado davanti al giudice di pace).
È da valutare positivamente quanto stabilito alla lettera b), ossia l'eliminazione della previsione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, mentre è reputata inopportuna la proposta di cui alla lettera a), ossia di uniformare il processo dinanzi al giudice di pace al procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, ritenendosi che, per le controversie trattate e per la costituzione del giudice, l'attuale procedimento maggiormente deformalizzato sia da preferire.
5) Sull'art.6 (giudizio di appello)
Opportuna è la scelta di eliminare il c.d. filtro in appello, dunque non solo l'art. 348-bis, ma anche gli artt. 348-ter; la previsione dovrebbe essere completata mediante il riferimento all'art. 436-bis c.p.c.
Con riguardo alla lettera b), è forse da auspicare una riformulazione dell'art. 346 c.p.c. con la conseguente precisazione dei termini e dei modi per la riproposizone delle questioni e per la proposizione dell'appello incidentale, con riferimento vuoi ai casi di assorbimento, vuoi a quelli di decisione della questione. Non è agevole comprendere le conseguenze e dunque gli eventuali vantaggi di quanto previsto alla lettera c), mentre sono da valutare positivamente le modifiche in punto di inibitoria [lettera f)].
Per quanto poi concerne la lettera e), pare opportuno modificare la previsione nella parte in cui: i) attribuisce al collegio la facoltà di fissare altra udienza per la discussione anche laddove le parti non ne facciano richiesta (in evidente spregio del principio di ragionevole durata); ii) sembra subordinare il dovere del collegio di concedere alle parti richiedenti termine per note soltanto al previo esercizio della predetta facoltà, salva l'ipotesi in cui sia stato proposto appello incidentale.
6) Sull'art.7 (disposizioni per l'efficienza dei procedimenti civili).
Relativamente al processo telematica, occorre prevedere una specifica disciplina, che contempli anche i profili per così patologici; inoltre, si fa presente che l'estensione a tutti gli atti e documenti può apparire eccessiva e inopportuna per quei documenti il cui deposito è pressoché impossibile (vuoi per il numero dei documenti, vuoi per la natura degli stessi). In parte qua, allora, deve essere prevista la possibilità per il giudice di autorizzare, in presenza di giustificati motivi, il deposito cartaceo dei documenti.
7) Sull'art.8 (notificazioni).
Per quanto riguarda la lettera b) dell'articolo in esame, al fine di non penalizzare irragionevolmente la parte il cui avvocato non sia riuscito a notificare a mezzo posta elettronica, costringendo lo stesso a fare affermazioni sfavorevoli alla parte da esso assistita, si ritiene opportuno sostituire le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario» con le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause che potrebbero non essere imputabili al destinatario». Appare infatti irragionevole subordinare il diritto della parte ad ottenere l'effettuazione della notifica a mezzo ufficiale giudiziario alla dichiarazione di fatti verificatisi al di fuori della sua sfera di dominio, tanto più se si tratta di fatti favorevoli all'altra parte, la cui attestazione finirebbe soltanto per avvantaggiare quest'ultima.
8) Sull’art.10 (procedimento di espropriazione immobiliare)
L'intervento non è apprezzabile perché rischia di sortire effetti divergenti rispetto a quelli perseguiti, specialmente in punto di tutela del debitore debole. Infatti, la possibilità del debitore di chiedere al giudice dell'esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell'immobile pignorato per un prezzo non inferiore al suo valore di mercato, da un lato, si presta ad essere utilizzato in modo fraudolento delle ragioni del creditore, e, dall'altro lato, potendo comportare un danno per il creditore, e in particolare per quello ipotecario, rischia di indurre il sistema bancario a restringere la concessione di mutui ipotecari, in specie prima casa, necessari invece per i cittadini meno abbienti.
9) Sugli artt. 9 (giudizio di scioglimento delle comunioni) e 11 (doveri di collaborazione delle parti e dei terzi).
Si tratta di interventi da ritenere per lo più condivisibili, nell'ottica di chiarimento e di risoluzione di aspetti discussi e discutibili, sebbene non in grado di incidere sulla durata del processo.
Bologna, 18 novembre 2019
di Giuseppe Amara
Il presente contributo è inteso ad esaminare il contenuto della recente pronuncia della Consulta n. 68/19 dello scorso 29/3/19, redattore Viganò, afferente il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, dell’art. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e dell’art. 657-bis del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 12 aprile 2018. La pronuncia si ritiene di particolare interesse, cristallizzando ratio e funzioni dell’istituto della messa alla prova minorile, in un raffronto con l’omologo istituto del rito dei maggiorenni.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Istituto della messa alla prova minorile.- 3. Vicenda processuale.-- 4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale.-5. Soluzione del Giudice delle Leggi.- 6. Conclusioni.
1. Premessa
Dietro ogni fascicolo processuale si cela la storia degli autori del fatto che lo hanno generato. La storia dell’indagato e del suo disagio che lo ha condotto a trasgredire ad un precetto penale e la storia della persona offesa che, da detta trasgressione, ha subito una lesione, più o meno tangibile, della propria sfera di interessi. Ciò nondimeno, nel rito ordinario, in ossequio al principio di materialità del reato, il fatto rimane attore principale e pressoché unico protagonista del procedimento, dall’iscrizione alla definitività della pronuncia che quel fatto deve valutare. Ogni sforamento nella vita dell’autore è funzionale all’applicazione – o meno – di istituti processuali, quali possono essere le misure cautelari, piuttosto che l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, piuttosto che la concessione di benefici correlati alla pena. Di qui “l’invidia” del Pubblico Ministero ordinario che, chiamato a determinarsi sul fascicolo processuale, potrà e dovrà senz’altro farsi carico della soggettività delle vicende, ma si troverà comunque a percorrere una traccia segnata, esclusivamente, dal codice sostanziale e da quello di rito, ove le sorti processuali della vicenda, pur nella difficoltà correlate al permanere di aree di interpretazione del fatto, specie nei reati complessi, prescindono dall’analisi personalistica dell’autore. Di qui la previsione di cui all’art. 90 c.p. che esclude la rilevanza, ai fini dell’imputabilità, degli stati emotivi e passionali, piuttosto che il divieto di cui al comma 2 dell’art. 220 c.p.p. di svolgere approfondimenti di natura tecnica, evidentemente facendo ricorso alle scienze psicologiche, per stabilire l’abitualità, piuttosto che la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche se indipendenti da cause patologiche. Il rito minorile è un processo a ruoli invertite, il fatto retrocede e lascia il ruolo da protagonista all’autore. Il Tribunale è per il Minorenne ed il procedimento non può che essere incentrato sulla sua figura. Il senso dell’intervento dell’autorità giudiziaria è quello della rieducazione e della risocializzazione, nel presupposto, non sempre valido, di un’immaturità che può essere corretta, guidata, verso uno sviluppo rispettoso dei limiti imposti dalla convivenza civile. Ormai da venticinque anni, con la riforma del processo minorile che fonda la sua matrice in atti sovranazionali (Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, O.N.U., New York, 29 novembre 1985, anche note come “Regole di Pechino”, Convenzione dei diritti del fanciullo dell’ONU del 20/11/89, Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dell’infanzia di Strasburgo del 25/1/96), la finalità del legislatore è stata quella di positivizzare l’intervento pedagogico, anche con finalità correttive, funzione a cui cede il passo un “modello giurisdizionale di tipo cognitivo”[1]. In termini chiarissimi, Pazè: “Lo Stato dunque processa un giovane per definire la sua responsabilità per un reato e, anche, per stimolarlo a cambiare la sua condotta e a orientare diversamente la sua vita”[2]. Questo è un obiettivo che va di pari passo con quello, egualmente meritorio, di addivenire alla composizione del conflitto con la vittima, attraverso un processo che passa dalla mediazione, alla riparazione del danno arrecato, previo riconoscimento interiore del disvalore dell’offesa causata. Entra in gioco, in questa fase, ove possibile, il nucleo familiare del minore, secondo il metodo noto come quello della Family group conference, nel quale la famiglia allargata (comprese persone ritenute significative indicate dal minore) può elaborare il progetto della misura rieducativa e condividerlo con il minore.[3]
2. Istituto della messa alla prova minorile
Tutti gli istituti del rito minorile sono funzionali alla realizzazione del fine sopra indicato. Non fa eccezione quello della sospensione con messa alla prova, regolamentato dagli artt. 28-29 d.Pr. n. 448/88 e ripreso dall’art. 27 del d.lgs. 272/89, norma che ne disciplina, in via attuativa, i contenuti, valorizzando il ruolo dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e quello, ineludibile, dei servizi socio-assistenziale degli enti locali.
Con la messa alla prova, ammissibile per tutti i reati, l’educazione entra nel processo: oggetto del processo non è più il fatto-reato, ma la persona, si assiste alla “possibilità che davanti all’esigenza del recupero sociale del minore, la stessa realizzazione della pretesa punitiva possa arretrare”[4].
L’istituto della probation è esemplificativo del superiore interesse del minore, in un’ottica di proporzionalità e minimo intervento, quali criteri privilegiati di tutte le decisioni che riguardano la privazione della libertà, in ossequio anche alle Regole Europee per i minori autori di reato adottate dal Consiglio d’Europa nel 2008. Anche la messa alla prova, come altri strumenti peculiari del rito minorile (si pensi, ad esempio, all’irrilevanza del fatto – art. 27 d.Pr. 448/88, alla disciplina delle misure cautelari – art. 19 e ss. d.Pr. 448/88, regime dell’udienza preliminare – art. 31 d.Pr. 448/88, ai provvedimenti in materia di libertà personale art. 16 e ss. d.Pr. 448/88, all’accertamento della personalità minore di cui all’art. 9 d.Pr. 448/88), mira a realizzare l’idea di un processo penale che sia un “modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale (c.d. diversion) e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima (c.d. mediation)”[5]. Sul punto, Pricoco: “Le finalità rieducative e riparative, in sostanza, non riguardano soltanto una rielaborazione della condotta e la conseguente responsabilizzazione del minore autore di reati rispetto alla vittima ma, si ribadisce, sono dirette al cambiamento dell’atteggiamento del detto minore rispetto alla società nel suo complesso, alle ragioni della legge, alle regole della convivenza civile, cambiamento che dalla occasione del processo può derivargli”[6].
La collocazione sistematica dell’istituto e la sua piena convergenza con i principi fondanti il rito minorile trovano ulteriore conferma dai dati. Nel rimandare alle interessanti statistiche redatte dal Dipartimento per la Giustizia minorile ed comunità del Ministero della Giustizia e consultabili sulla rete[7], si vuole evidenziare come, dal 1992 al primo semestre 2019, vi sia stato un aumento pressoché costante, sia in termini di valori assoluti che in termini di variazioni percentuali, ovvero dai 788 provvedimenti ammissivi del 1992, si è passati ai 3653 del 2018 ed ai 2.382 del primo semestre 2019, con speculare aumento percentuale per ogni annualità.
Venendo ora alla pronuncia qui in esame, si segnala come la stessa, ripercorrendo la ratio dell’istituto e la sua sostanziale diversità dell’omologa previsione per gli imputati maggiorenni, si sofferma sul tema del rilievo – o meno – del presofferto, ai fini della determinazione pena, in caso di esito negativo della messa alla prova. Infatti, mentre per la sospensione per i maggiorenni l’ipotesi è espressamente disciplinata dall’art. 657 bis c.p.p. che, come noto, prevede, in caso di revoca o esito negativo della messa alla prova, una rideterminazione della pena che tenga conto del periodo corrispondente a quello di prova eseguita, indicando, quale criterio di “conversione” quello per cui tre giorni di messa alla prova corrispondono ad un giorno di reclusione o di arresto, ovvero ad euro 250 di multa o di ammenda, non vi è analoga disciplina per l’istituto della sospensione minorile.
3. Vicenda processuale
Con ordinanza del 12 aprile 2018, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 31 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e 657 bis c.p.p., “nella parte in cui non prevedono che, in caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova”[8].
La Suprema Corte aveva sollevato la questione in occasione della disamina di un ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano che, in veste di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta, formulata da un condannato, di riconoscimento in suo favore dello scomputo di pena prevista dall’art. 657 bis c.p.p. Ed in particolare: il minore, imputato in due distinti procedimenti (uno per ricettazione ed uno per violenza sessuale), era stato originariamente ammesso alla probation in entrambi i casi ma, dopo un periodo di iniziale adesione all’articolato programma predisposto ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 272/89[9], si era allontanato dai progetti, incorrendo, di conseguenza, nella declaratoria di esito negativo della messa alla prova, con sequenziale ripresa del giudizio. I due processi si concludevano con la condanna dell’imputato minorenne (7 mesi e 4 giorni, per i fatti di ricettazione e 2 anni e 6 mesi, per i fatti di violenza sessuale). Le due condanne erano unificate con provvedimento di cumulo da parte del Procuratore del Tribunale per i Minorenni di Milano, con pena da espiare determinata complessivamente in tre anni, un mese e quattro giorni di reclusione. Il difensore dell’indagato, dopo aver avuto un diniego su analoga istanza avanzata al Procuratore minorile, proponeva incidente di esecuzione, richiedendo, ai sensi dell’art. 657 bis c.p.p., un ricalcolo della pena applicata al minore, previa decurtazione del presofferto di due anni e mezzo di messa alla prova effettivamente svolta (seppur con esito negativo). Il Tribunale per i Minorenni di Milano in funzione, appunto, di giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta, ritenendo che la disposizione invocata non fosse applicabile nel caso di specie. Avverso tale ordinanza, il Difensore del condannato proponeva ricorso per cassazione, ove veniva poi sollevata la questione di legittimità costituzionale, discussa dalla Consulta.
4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale
In estrema sintesi, la Corte di Cassazione, pur traendo le mosse dalla distinzione fra l’istituto della messa alla prova nel processo ordinario, ove prevale la funzione afflittiva che si sostanzia nella necessità di svolgere lavori di pubblica utilità, da quello omologo del processo minorile, ove, di converso, prevale la finalità educativa del minore, con sequenziale inapplicabilità a quest’ultimo dell’art. 657 bis c.p.p., riteneva, comunque, che escludere il conteggio del presofferto per il minore, equivale ad una sostanziale violazione dell’art. 3 Cost., trattandosi di un regime ingiustificatamente deteriore rispetto all’assetto regolativo che caratterizza l’omologo istituto per gli imputati maggiorenni. Tali considerazioni, peraltro, muovevano anche da una valutazione del regime particolarmente afflittivo delle modalità esecutive della messa alla prova minorile (vedasi, ad esempio, inserimento comunitario all’interno di una struttura, con significative limitazioni alla libertà di movimento).
Un altro profilo di ipotizzata illegittimità costituzionale era quello relativo all’art. 31 Cost.; in particolare, il Giudice rimettente, lo argomentava richiamando la giurisprudenza della Consulta secondo cui: “il processo minorile deve essere ispirato alla prevalente esigenza educativa del minore (sentenza n. 222 del 1983), da attuarsi mediante la «specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 109 del 1997)”[10].
Ancora, un ulteriore profilo di criticità sarebbe quella derivante dalla violazione del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 comma 3 Cost., principio che: “impone l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, al fine prioritario della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato minorenne all’epoca del fatto (così, ancora, sentenza n. 222 del 1983)”[11].
Nel giudizio di costituzionalità interveniva, per il Consiglio dei Ministri, l’Avvocatura dello Stato che argomentava la propria tesi sull’inapplicabilità dell’art. 657 bis c.p.p. alla probation minorile, rappresentando che: “Tale mancata previsione sarebbe giustificata dalla preminenza dell’esigenza di recupero del minore, che non consentirebbe di attribuire natura sanzionatoria all’istituto; natura sanzionatoria che, invece, sarebbe propria della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, cui si riferisce la sentenza n. 343 del 1987 invocata dal rimettente”[12]. Interessante, inoltre, quanto precisato successivamente dall’Avvocatura che, nel chiedere il rigetto per inammissibilità del ricorso, riteneva come, un eventuale accoglimento, si sarebbe concretizzato in un’additiva non consentita alla Corte, dal momento che il giudice a quo invocherebbe l’introduzione di un sistema di computo della pena ulteriore e diverso da quello regolato per gli adulti, ovvero “un intervento additivo mirante ad introdurre nell’ordinamento giuridico una disciplina non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata”[13].
5. Soluzione del Giudice delle Leggi
Preliminarmente, la Consulta rigettava l’eccezione di inamissibilità dell’Avvocatura dello Stato ritenendo come, quanto richiesto dal Giudice remittente, non era una diretta estensione della disciplina dell’art. 657 bis c.p.p. al rito minorile bensì la: “attribuzione al giudice di un potere discrezionale, in forza del quale egli dovrebbe essere posto in grado di determinare la residua pena da espiare «tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova»: al di fuori, dunque, di ogni automatismo.”[14], attribuendo, pertanto, analoga estensione al potere interpretativo della Corte di quello utilizzato nella sentenza n. 343 del 1987 in tema di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova, per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova e relativi poteri del Tribunale di sorveglianza in punto di determinazione della residua pena detentiva da espiare.
Venendo al merito della pronuncia, si evince come, sin dai primi passaggi della motivazione, la Consulta rimarchi la differenza strutturale che intercorre tra la probation del rito minorile e l’omologo istituto previsto per imputati maggiorenni, nonché la misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova al servizio sociale, citata dalla Corte rimettente (con il richiamo alla sentenza n. 343 del 1987), ed indicata quale: “strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)”[15]. Queste due misure, pur mirando alla risocializzazione del condannato, non possono rimanere scollegate dalla connotazione prettamente sanzionatoria che le ancora al fatto di reato per cui si procede.
La Consulta prosegue esaminando l’istituto della messa alla prova per i maggiorenni, citando il precedente della Corte n. 91/18 che ha richiamato, affermandola, la duplice natura, processuale e sostanziale, dell’istituto[16] che, in ogni caso, assume la valenza di un vero e proprio “trattamento sanzionatorio” che persegue lo scopo della risocializzazione del reo, in ossequio al disposto di cui all’art. 27 comma 3 Cost.. Trattamento la cui esecuzione è rimessa allo spontaneo adempimento dell’interessato e che si colloca in via anticipata rispetto all’ordinario accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato; infatti, per ammetterlo, esaminati gli atti del fascicolo del Pubblico Ministero, il Giudice, in base all’art. 464 quater c.p.p., dovrà soltanto verificare che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.
A conferma della valenza sanzionatoria della probation per gli imputati maggiorenni, la Corte rimarca la presenza di elementi di peculiare afflittività che la connotano, quale l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – art. 168 bis c.p. – di prestare lavoro non retribuito di pubblica utilità cui si affianca la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno.
La Consulta poi ritorna sulla messa alla prova per i minorenni, istituto radicalmente diverso dall’omologo previsto per gli imputati maggiorenni. In modo tranchant, viene detto, nella sentenza qui in commento che, alla stessa “non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria”. Tale assunto si evidenzia da numerose considerazioni: innanzi tutto, una volta accertata – seppur sommariamente – l’esistenza del fatto di reato attribuibile all’imputato, la messa alla prova è consentita in relazione a qualsiasi tipo reato (in astratto anche quelli puniti con l’ergastolo[17]), variando solo la durata (da dodici mesi, sino a tre anni).
Ancora, altro argomento di interesse sottolineato dalla Consulta è quello per cui, all’art. 27 comma 2 d.lgs. 272/89 non si rinviene alcun obbligo di prevedere prestazioni di lavoro di pubblica utilità, né “compare alcun riferimento, qui, ai criteri generali di commisurazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen. per orientare la discrezionalità del giudice e dei servizi sociali nella definizione delle prescrizioni, a differenza di quanto si è visto accadere nella disciplina della messa alla prova per gli adulti”[18].
Una sintesi delle argomentazioni svolte dalla Consulta, conduce ad individuare il significato delle prescrizioni contenuto nel programma della messa alla prova come stimolo ad un percorso rieducativo del minore, in un’ottica di sviluppo della personalità. Anche le prescrizioni che limitano la sfera di agire del minore (si pensi alla frequenza a corsi scolastici e/o professionali, ovvero ai momenti terapeutici) non possono essere considerate a carattere sanzionatorio, ma fungono da “occasioni educative” funzionali a stimolare il cambiamento e la revisione critica della propria condotta; il loro contenuto precettivo-impositivo è espressione proprio della finalità educativa e, pertanto, in alcun modo potranno essere intese come sanzioni anticipate rispetto alla pena per il fatto di reato commesso, bensì come vere e proprie occasioni di riscatto e formazione.
6. Conclusioni
Questo passaggio conclusivo della pronuncia, richiama alla mente un’interessante considerazione letta in un contributo edito su Cassazione Penale, elaborato dal gruppo di lavoro sulla giustizia penale minorile milanese, passaggio che qui si vuol riportare e che, sostanzialmente, si ritiene racchiudere il senso del condivisibile assunto della pronuncia della Consulta, in questa sede esaminata: “L’obbiettivo centrale della messa alla prova per l’adolescente antisociale è la progressiva acquisizione di un apparato per pensare i pensieri che consenta di elaborare le esperienze emotive per tradurle in significato come cibo per la mente, piuttosto che relegarle in un accumulo di disagio destinato ad essere estroflesso ed evacuato con l’agito delinquenziale. Lo sviluppo della capacità pensante è la condizione necessaria e preliminare al superamento delle difficoltà maturative manifestate nella tendenza all’agire. In altre parole è l’acquisizione di una compiuta capacità simbolica che consente di trasferire dal registro operatorio-concreto brutale ed invasivo dell’azione criminosa, al registro linguistico e condiviso, la negoziazione del soddisfacimento degli stati del Sé, dove l’Altro può essere considerato nella sua separatezza e nella sua integrità. È possibile con ciò il raggiungimento di una dimensione etica, dove la preservazione e il benessere dell’Altro possono essere percepiti anche come benessere per il sé, e dove è possibile la fuoriuscita dalla dimensione depauperativa del “mors tua vita mea” per orientarsi in quella reciprocamente valorizzante del “vita tua vita mea”, foriera di una crescita autentica e reciproca”[19].
[1] Giostra G., Il processo penale minorile. Commento al D.PR. 448/1988, Milano, Giuffrè, 2009;
[2] Pazè, Il sistema della giustizia minorile in Italia, Rassegna Italiana di Criminologia, 4/2013, p. 210;
[3] I. Maci, Per un penale minorile partecipato: il modello delle Family group conference, in Minorigiustizia, 2013, 1, pp. 128-138;
[4] E. Fraccarollo, Intervista a Piercarlo Pazè, direttore della rivista minorigiustizia, sulla pratica della messa alla prova in Italia, in www.minoriefamiglia.it;
[5] L. Fadiga, Le origini del processo penale minorile: i lavori preparatori del dpr 448/1988, in rivista Diritto Minorile, n. 1/2009, p. 2
[6] Pricoco Maria Francesca, Il processo penale minorile: educare e riparare, in XXVIII Convegno nazionale "Infanzia e diritti al tempo della crisi: verso una nuova giustizia per i minori e la famiglia”, Milano, 13 -14 novembre 2009;
[7] http://www.centrostudinisida.it/Statistica/index.html
[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[9] In relazione al processo per fatti di ricettazione, erano previsti interventi quali: orientamento formativo e lavorativo, sostegno per il conseguimento del patentino per il ciclomotore, per il mantenimento della frequenza di uno sport di squadra, per lo svolgimento di attività di utilità sociale, colloqui di monitoraggio con l’assistente sociale e di sostegno psicologico dell’équipe penale; in relazione al secondo processo per fatti di violenza sessuale, di converso, erano previsti interventi quali: mantenimento della frequenza scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui di sostegno psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale, finalizzati anche alla rielaborazione dei reati e dei sottesi stili di vita e relazionali con i pari; svolgimento di attività socialmente utili inizialmente presso un oratorio e successivamente presso altri contesti al fine di incentivare “sentimenti di condivisione e di empatia”, attività di servizio alla persona, con l’inserimento, ove possibile, in gruppi rivolti alla presa in carico di minori coinvolti in reati di stampo sessuale, nonché colloqui di verifica e di sostegno con l’assistente sociale, con il coinvolgimento dei familiari – evidentemente, nell’ottica della Family group conference cui prima si faceva riferimento;
[10]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[11]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[12]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[13] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[14] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[15] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[16] Istituto che:“«[d]a un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)” - Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[17] L. Camaldo, Sospensione del processo e messa alla prova del minore imputato di omicidio : una recente decisione del Tribunale per i minorenni di Milano, Cass. Pen., 2006, pp. 1589-1598.
[18] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[19] Gruppo di Lavoro del Tribunale per i Minorenni di Milano, Il trattamento dei minori sottoposti alla messa alla prova: griglia per i servizi psico-sociali, Cass.Pen., 5/2012, p. 729 e ss.
La procedura civile in italia nei primi anni del xx secolo di Paolo Spaziani
Recensione a cura di Irene Ambrosi
Il bel saggio di Paolo Spaziani ci consente di ripercorrere una grande stagione, trascorsa ma non dimenticata, della scienza italiana del processo.
Il volume è dedicato ai protagonisti di quell’epoca leggendaria, alle cui venture e sventure l’Autore si accosta con rigoroso metodo scientifico e con venerazione e profonda umanità, perché dentro queste pagine, non soltanto storico-giuridiche, può dirsi che, come accade nelle opere letterarie, si aggirano persone vive, che con le loro gioie e dolori appartengono alla vita interiore di chi le ha scritte e che suscitano nel lettore, allo stesso tempo, l’interesse a conoscerne il genio e una malinconia struggente per ciò che, umano, è inesorabilmente perduto.
Il tempo che ci viene raccontato è quello del primato di Lodovico Mortara, giurista insigne, uomo «dalla ridondante personalità» e dal «non facile carattere», al quale, come ci rammenta Paolo Spaziani, dobbiamo una visione assolutamente
innovativa e moderna dell’ordinamento giuridico, al cui centro viene a trovarsi «con oltre mezzo secolo di anticipo, la persona umana”.
Mortara ebbe una carriera prestigiosissima: come presidente di Corte d’appello, nel 1906, riconobbe il diritto di voto alle donne, come ministro della giustizia, nel 1919, abrogò l’autorizzazione maritale e infine, come primo presidente della Cassazione di Roma, nel 1922, attribuì all’autorità giudiziaria il potere di controllo dei presupposti di urgenza dei decreti-legge, escludendo che potesse essere esercitata l’azione penale per un reato previsto in un decreto del governo prima della sua conversione in legge.
Paolo Spaziani ci restituisce la concezione di Mortara in tutta la sua originalità, consegnandoci in proposito le riflessioni di due illustri giuristi; da una parte, Piero Calamandrei che osservò come Mortara, diversamente dagli altri processualisti, fosse «arrivato allo studio del processo non salendovi dal diritto privato, ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti, ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia»; dall’altra, Salvatore Satta che ipotizzò come Mortara avesse scelto la missione del giudice proprio in ragione del nobile obiettivo di rendere giustizia attraverso il processo, obiettivo che non si esauriva soltanto in ciò, bensì nell’anelito di renderla in uno Stato libero, e dunque in un processo circondato delle più ampie garanzie delle libertà e dei diritti delle parti, come costante della vita professionale e scientifica di Mortara e, verosimilmente, la stessa ragione del suo abbandono della cattedra universitaria per la magistratura.
«Mentre Mortara ascendeva al primato», Carlo Lessona e Giuseppe Chiovenda, «due giovani studiosi piemontesi» facevano il loro ingresso nel mondo della procedura civile. Nel tratteggiarne le diverse personalità, le opere e i riconoscimenti accademici, l’Autore li descrive come appartenenti a due scuole contrapposte, l’una riconducibile a Lodovico Mortara, costituendo Lessona «il valoroso scrittore» cui si riferiva la recensione anonima, ma facilmente riconducibile al suo Direttore (appunto, Mortara), apparsa sulla Giurisprudenza Italiana nel 1894, l’altra riconducibile a Vittorio Scialoja, potentissimo preside della facoltà giuridica romana, con il quale si laureò Giuseppe Chiovenda nel 1893, a soli 21 anni.
Alle due scuole corrispondevano due concezioni opposte sia per carattere ideologico-politico sia per carattere metodologico- scientifico: «Mortara aveva compreso che anche il piccolo e affatto peculiare mondo della procedura avrebbe risentito della reazione degli studiosi del diritto romano (e in particolare di uno di loro, Vittorio Scialoja)». Da un lato, quindi, Mortara fu portatore di una concezione progressista volta a rafforzare la funzione del processo come strumento di giustizia sociale, dall’altro, Scialoja, difensore di una concezione liberale post-unitaria, si batté per la riaffermazione della perdurante attualità del diritto romano e per la costruzione di un nuovo sistema giuridico ispirato dalla scienza giuridica tedesca.
La ricerca di Paolo Spaziani prosegue nel racconto delle vicende professionali e personali di Giuseppe Chiovenda e Carlo Lessona, descrivendone le diverse fortune: «trionfi» per Chiovenda, «sventure» per Lessona.
Trionfi accademici per il primo, se sol si pensi alla celeberrima prolusione di Chiovenda a Bologna su L’azione nel sistema dei diritti, ricordata dalla dottrina delle successive generazioni come il «manifesto» della nuova scienza del diritto processuale civile tanto che il giorno in cui essa fu tenuta - il 3 febbraio 1903 - è considerato il giorno della sua «fondazione».
Sventure accademiche per il secondo, cagionategli improvvidamente dal suo Maestro Mortara, il quale sferrando un attacco contro uno scritto di Chiovenda, nell’estate del 1903, proprio nello stesso periodo in cui veniva indetto dalla facoltà giuridica di Napoli il concorso per coprire la cattedra già da lui occupata, ne danneggiò gravemente la candidatura; infatti, la cattedra, all’esito di un concorso protrattosi tra alterne vicende per quasi due anni, fu assegnata a Chiovenda, sebbene Lessona fosse già professore ordinario rispetto al suo concorrente, ancora straordinario, ed autore di un trattato sulle prove in cinque volumi. In proposito, Paolo Spaziani con termini illuminanti spiega: «ciò che si stava per consumare non era soltanto la gara tra due sommi studiosi ma lo scontro tra due contrastanti concezioni sul modo di condurre lo studio e l’insegnamento della scienza processuale - e poiché tra queste due concezioni quella di cui era espressione Chiovenda era molto più potente, tanto in sede accademica quanto in sede politica, rispetto a quella di cui era espressione Lessona - non bisognerà stupirsi nell’apprendere che il concorso avrebbe preso una piega tale da elidere il vantaggio iniziale di cui godeva quest’ultimo e da consentire al primo di salire trionfalmente sulla cattedra che era stata di Mortara, permettendo alla scuola di stampo roman-germanista e di ispirazione scialojana di estendere il suo dominio sull’Università italiana.». L’ultimo atto della sconfitta di Lessona si consumò nel 1906, quando Chiovenda venne chiamato all’Università di Roma per chiara fama.
Nelle pagine dedicate alla grave malattia che colpì Carlo Lessona dopo la sconfitta professionale, troviamo l’umanità sincera e la commozione dell’Autore che traspare a proposito della dedica formulata da Lessona al proprio medico, posta nella prima di copertina del particolarissimo volume Giurisprudenza animalesca, apparso nel 1906, ove si legge: «Illustre e caro collega, un anno fa tu mi hai salvato la vita con la tua scienza, con la tua arte. Io ti offro un lavoro mio che non né di scienza né di arte. Ma te lo offro con l’affetto e con la riconoscenza d’un risorto. Sei stato così buono con me! Siilo ancora accettando il dono».
Davvero arguto e divertente è il racconto delle schermaglie ironiche che Lessona riservò a Chiovenda negli anni a seguire: definendolo, parlando agli studenti durante le sue lezioni, come la «vetta dell’Himalaya» oppure inviandogli i propri «rallegramenti» per il premio ricevuto dall’accademia dei Lincei per le scienze giuridiche, appena quarantenne nel 1912, sebbene si trattasse, come chiosa a ragione l’Autore, di una «malcelata insolenza» e di «un’alluvione di insulti».
Il volume si chiude con le vicende legate alla comparsa sulla scena della scienza del processo di Piero Calamandrei e alla prematura scomparsa di Lessona, a 56 anni, il 16 aprile 1919.
La ricostruzione di quelle vicende nella riflessione di Paolo Spaziani è inedita nell’attribuire all’intervento di Calamandrei un valore di intervento pacificatore tra l’affetto per Lessona, indimenticato suo Maestro, e l’avvicinamento a Chiovenda, detentore del primato di studioso di procedura civile.
L’Autore dedica le ultime pagine alla Prefazione di Chiovenda al Trattato delle prove di Lessona del 1922 e alla «misteriosa recensione» di Calamandrei apparsa nell’anno successivo e spiega che la Recensione era soltanto formalmente dedicata a Lessona e che, viceversa, era diretta a replicare alla Prefazione di Chiovenda il quale «aveva colto quell’occasione per affermare, contrariamente al vero, che Lessona aveva riconosciuto il valore della sua scuola e persino la superiorità delle sue idee».
La reazione di Calamandrei, «uomo di studio, ma anche di azione», come lo definì Salvatore Satta, non si fece attendere e nello stilare la Recensione difese la memoria di Lessona con un’estrema abilità polemica.
Difatti, come già ipotizzato da Franco Cipriani, il misterioso bersaglio degli strali di Calamandrei non poteva che essere lo stesso Chiovenda, che mentre veniva ringraziato personalmente per aver riportato Lessona nel posto che gli spettava incarnando «il vanto più alto e il più fecondo fermento della scuola giuridica italiana», veniva a costituire il reale bersaglio dell’attacco misterioso rivolto a «qualche inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi» che avrebbe ostentato «balorda indifferenza» verso l’opera di Lessona.
Paolo Spaziani, nel dedicare il volume «alla memoria del Prof. Franco Cipriani, «esempio animatore», ci ha dato affidamento che il racconto delle vicende della procedura civile in Italia continui per il tramite della sua felice penna anche per i secondi anni del ventesimo secolo.
Noi ce lo auguriamo e glielo auguriamo.
*recensione già pubblicata su Giudice donna on line n.1/2019.
Dalla “Sapienza” alla “Giustizia”. Esperienza di un “merito insigne”, ex art. 106 comma 3 della Costituzione.
Maria Enza La Torre
Sommario: 1. La nomina di consigliere di cassazione per “meriti insigni”: un percorso accidentato. 2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica. 3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
1. La nomina di consigliere di cassazione “per meriti insigni”: un percorso accidentato.
L’art. 106, terzo comma, della Costituzione, prevede la chiamata all’ufficio di consigliere di cassazione, per “meriti insigni”, di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con quindici anni di esercizio e iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori: quindi la possibilità dell’accesso al ruolo di consigliere di cassazione – di norma magistrato “per concorso” – anche alle altre categorie di giuristi.
Questa modalità di ingresso nella magistratura non è da tutti conosciuta; anzi, come ho potuto constatare, lo è solo da pochi, al di fuori della Corte di cassazione, dei docenti di diritto pubblico e di parte dell’avvocatura.
Forse perché l’attuazione della norma costituzionale si è fatta molto a lungo attendere, sebbene già prima della sua emanazione l’innesto di giudici laici per una limitata entità di posti, ex art. 106, 3° comma Cost., si riteneva non dovesse trovare “ostacoli nella magistratura, smentisce la diceria secondo cui l’ordine dei togati è una casta chiusa, è gradito all’avvocatura, è oggettivamente importante per l’osmosi di esperienze professionali. Eppure, non diventa legge!”[1]
Solo nel 1998 – e non senza contrasti[2] - (con la l. 5 agosto n. 303), dopo cinque decenni di quiescenza, sono stati alfine esplicitati i requisiti per la chiamata degli indicati soggetti per “meriti insigni” (già “meriti eminenti”, nell’abrogato art. 122 dell’ordinamento giudiziario del 1941). Essa, si legge all’art. 2 co. 2 l. 303/1998, riguarda persona che, per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale. Ed aggiunge che “a tal fine, costituiscono parametri di valutazione gli atti processuali, le pubblicazioni, le relazioni svolte in occasione della partecipazione a convegni”.
Tale specificazione della norma costituzionale, ritenuta opportuna da alcuni[3], era stata avversata dal CNF[4], che temeva il rischio di una cristallizzazione dei criteri di valutazione, come tali snaturanti la ratio legis, di cui credeva opportuno lasciare arbitro il CSM. Ma criticata anche da chi[5] riteneva l’intervento del legislatore ordinario per un verso pleonastico - nella misura in cui la legge ordinaria dovesse parafrasare il testo della norma costituzionale - per altro verso incostituzionale, ove se ne discostasse[6].
Oggetto di ampia discussione anche la durata della carica, per la quale la Commissione giustizia del Senato aveva proposto la riammissione in servizio del professore dopo cinque anni di effettivo servizio delle funzioni giudiziarie: l’esclusione di questa possibilità, pur sperata da alcuni (Bonifacio, Giacobbe) è stata tuttavia considerata un vulnus “alla probabilità di successo della legge”[7] [8].
Per il versante forense (Osservatorio del CNF, 1988) il “modello” proposto coniugava eminenza di preparazione culturale a dirittura morale e spirito di servizio; modello che escludeva la nomina di deputati, già ipotizzata da Alfredo Rocco all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, e rifiutata dal foro, per voce di Alfredo De Marsico, che così offriva la prima manifestazione di “fedeltà indissolubile alla professione forense”[9].
L’ingresso in Cassazione dei laici, professori e avvocati, era stata auspicata dal CSM quale compimento di una importante finalità democratica[10], per un sia pur limitato “apporto prezioso di esperienze professionali che potrebbero contribuire a correggere gli eccessi formalistici spesso riscontrabili nella giurisprudenza delle giurisdizioni superiori”[11], secondo uno schema di disegno di legge predisposto nell’ambito della cassazione e poi sottoposto al Ministro della giustizia: schema che si proponeva di recepire “una ragione politica di rilievo costituzionale destinata ad incidere sul lavoro della Corte”[12].
La particolare e rigorosa qualificazione richiesta agli indicati “laici” per l’ingresso in cassazione - pur nella interpretazione più elastica che il CSM ha dato nel segno di una visione più aderente (o conformata) alle pressanti esigenze di efficienza dell’attività della Corte - non era stata prescritta dal costituente neppure per la nomina a giudice della Corte costituzionale, considerata premiale per “cinque cittadini altamente meritevoli, benemeriti della comunità nazionale, con l’onore di entrare a far parte della vita del senato”[13]. S’intendeva con essa sottolineare il requisito della capacità tecnico-giuridica correlata alle competenze proprie della Corte di cassazione, alla quale, come giudice supremo, spetta assicurare l’esatta interpretazione delle norme dell’ordinamento.
Il che impone di configurare in modo autonomo la funzione di legittimità affidata alla Cassazione, quale organo supremo della giustizia che assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 Ord. Giud. del 1941): tre valori che, in sequenza progressiva, culminano nel risultato finale dell’unità del diritto nazionale, ma che trovano il loro fulcro nella interpretazione, sulla quale si regge la funzione nomofilattica della Corte[14].
In questo contesto va collocata la nomina del professore di diritto o dell’avvocato all’ufficio di consigliere di cassazione, che è cosa diversa da una nomina a magistrato.
La particolarità di tale nomina - a componente di un organo che non è un giudice di terza istanza ma è preposto alla enunciazione di “principi di diritto” o controllo di legittimità - va ricercata nelle origini della Corte, come risulta a seguito della unificazione (con la riforma del 1923) delle varie Corti esistenti negli stati preunitari (Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo) e con l’attribuzione delle sue funzioni, indicate nell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario del 1941 sopra citato, anche in relazione all’art. 111 della Costituzione.
Ne emerge il profilo di una Corte di legittimità cui “è sempre ammesso il ricorso per violazione di legge” (art. 111, comma 7 Cost.), così affidando sempre e soltanto a quest’organo il compito definitivo di dicere ius; che prevede, nell’inerzia delle parti interessate alla controversia la facoltà per il Procuratore generale di proporre autonomo ricorso per chiedere che la sentenza sia cassata nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.); che esclude l’annullamento della sentenza giusta, ma erroneamente motivata in diritto, stabilendo che in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione (art. 384 ult. co. c.p.c.).
Elementi, questi, che delineano la funzione nomofilattica, “compito specifico della Corte di cassazione, espressione non di un predomino gerarchico ma della sua centralità” (Borré), alla quale sono chiamati a far parte anche soggetti estranei alla magistratura.
Funzione nomofilattica, va aggiunto, per ragioni di onestà intellettuale e completezza, che l’ipertrofia crescente, data dall’enorme numero di ricorsi pendenti, rischia di relegare a posizioni residuali, nella deriva quantitativo‐efficientistica che ha travolto la Corte.
2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica.
Già nelle fonti romanistiche[16] si affermava che il diritto non può star saldo se non c’è qualche giurista attraverso cui, giorno dopo giorno, possa venire condotto innanzi, verso il meglio. Più recentemente[17] è stato sottolineato il carattere dinamico, che discende dalla relatività del diritto, quale risposta a bisogni che mutano nel tempo nella ricerca di una coesione sociale che deve continuamente riscoprirsi, nella polarità fra legge e giustizia. Dinamicità dell’ordinamento, aggiunge Violante, affidata alla forza persuasiva della democrazia e alle dinamiche del pensiero giuridico, non limitabili, aggiungo, a categorie predeterminate di giuristi.
È centrale nel diritto, come già riscontrato dai romanisti e confermato dai giuristi contemporanei, il concetto della mobilità, della “invenzione” del diritto, come dice Paolo Grossi, critico delle mitologie giuridiche della modernità oltre che storico del diritto; diritto che va cercato all’interno della legge - che essa sì è “certa”, perché precostituita, e quindi statica – dal giurista, che nella storicità del diritto, e quindi nei cambiamenti sociali, individua una certezza legata al mutamento, proprio attraverso l’interpretazione.
Questo perché il testo normativo non ha una realtà autosufficiente, ma ha compiutezza solo nell’interpretazione.
Ma a chi è riservata l’attività dell’interpretazione?
Il giurista, uno dei mestieri più antichi del mondo, interpreta il diritto con diversità di esperienze e di ruoli: giudici, avvocati, professori, notai. E lo fa di professione. La cooperazione dei diversi attori è fruttuosa nella elaborazione dei principi e nella loro applicazione al caso; nella attualizzazione storico-sociale in cui viene realizzata. Ciò perché per la reale attuazione del diritto non basta la legge, non basta il giudice, ci vuole il giurista nella sua accezione più completa, nel superamento, ormai accettato, della distinzione fra teorico e pratico[18].
Certo, i ruoli – intesi sia come modelli di comportamento attesi che come contenuti di una attività che caratterizza chi la svolge - sono diversi.
Centrale, per la vita dei cittadini e la stabilità delle istituzioni, è certamente l’amministrazione della giustizia.
Nel mondo greco la giustizia esercitata dal tribunale dell’Areopago e affrancata dalla antica vendetta ha consentito alla polis di acquisire un nuovo status (Eschilo, Eumenidi); parallelamente nella Bibbia si ricorda che Mosè (Bibbia, Esodo, 18,18) ha delegato ai capi delle tribù, ma solo a quelli fidati e incorruttibili, la funzione del giudicare.
La lunga storia delle riflessioni sulla giustizia, che ha accompagnato come un’ombra lo sviluppo delle società umane, oscilla fra un ideale irraggiungibile e un criterio pratico, imperfetto e rivedibile. Amartya Sen[19], premio nobel per l’economia, uno dei più influenti pensatori del nostro tempo, indica nella razionalità lo strumento privilegiato per la realizzazione della giustizia. Non può dirsi in astratto cosa sia giusto, ma scegliere per via comparativa tra valutazioni alternative e argomentazioni concorrenti, cioè vagliare sotto la lente dello spettatore imparziale i molti punti di vista. Solo aprendoci a una pluralità di voci potremo guardare su scala globale alle ingiustizie che possono venire eliminate o ridotte senza ricadere in sterili chiusure mentali.
Peraltro i meccanismi di reclutamento dei giudici nei regimi democratici prevedono, accanto al pubblico concorso – elitario strumento di selezione per i paesi di civil law- la nomina (da parte del potere esecutivo o del legislativo o di entrambi) e l’elezione diretta.
In Francia [20] l’Ècole national de la magistrature (ENM, amministrata da un consiglio di amministrazione - di cui il presidente è il primo presidente della Corte di cassazione e il vicepresidente è il procuratore generale -e da un direttore), recluta circa cinquecento allievi magistrati per anno di cui la metà sono professionisti in riconversione (anziani avvocati, quadri della funzione pubblica, giuristi), prevalentemente per concorso[21], anche se non mancano casi di reclutamento, anche temporaneo, senza concorso.
Anche in Germania esiste la nomina diretta di professori universitari in materie giuridiche, avvocati e funzionari del pubblico ministero e della pubblica amministrazione che abbiano superato gli esami di stato. La nomina dei giudici della Corte suprema è operata dal Ministro federale per la giustizia e da una commissione.
In Spagna la magistratura (carrera judicial)[22] è disciplinata all’interno della Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial (LOPJ)[23]. L’ingresso in magistratura “basato sui principi del merito e della capacità per l’esercizio della funzione giurisdizionale”, avviene mediante il superamento di un concorso pubblico (oposición libre), che consente l’accesso ad un successivo corso teorico-pratico di selezione, presso la “Scuola Giudiziaria” (Escuela Judicial), dipendente dal Consiglio Generale del Potere Giudiziario[24]. La nomina a magistrato della Corte suprema è decisa da quest’ultimo fra i magistrati con più di quindici anni di anzianità, dei quali dieci nella categoria di magistrato, e un quinto scelto fra giuristi di nota competenza con almeno quindici anni di esperienza.
In Inghilterra la preparazione dei futuri magistrati viene affidata agli stessi magistrati. Nelle Università si studiano le regole di diritto, ma l’insegnamento della tecnica giuridica spetta ai giudici[25]. Conseguenza di questo tipo di reclutamento è che in Inghilterra si diventa giudici di solito dopo avere svolto una brillante carriera nel foro, tanto che la magistratura inglese viene considerata una emanazione del corpo dei barrister (al contrario di quelle continentali in cui la separazione delle professioni legali è molto più accentuata). Quindi nel Regno unito giudici e professionisti si formano insieme. E questo ha conseguenze anche sullo stile delle sentenze: in esse mancano rigidi canoni formali e la discussione della causa avviene in forma orale ed è fortemente personalizzata.
Negli USA i giudici della magistratura federale vengono nominati dal Presidente e devono essere confermati dal senato. Vi è poi, con varianti, il reclutamento per via elettorale[26]. Per la nomina a giudice della Corte suprema non sono richiesti requisiti formali, anche se, di regole, i giudici americani, come quelli inglesi, posseggono una notevole esperienza professionale e politica [27].
Questa visione comparatistica dà il segno di come, specie per le Corti supreme, la nomina di componenti laici sia prassi diffusa[28]. Non è uno scandalo, dunque, che anche in Italia un limitato numero di consiglieri di cassazione possa provenire dai ranghi dell’avvocatura o dell’Università. Peraltro per il reclutamento dei magistrati a seguito di concorso, senza precedenti esperienze professionali, si è avvertita la necessità sia della formazione permanente – per assicurare un alto grado di qualificazione professionale, che è anche garanzia di indipendenza della magistratura[29] - sia delle valutazioni di professionalità, al fine di superare il gap della mancanza di esperienza pratica, presente negli altri operatori del diritto.
3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
Infine una riflessione personale.
Scrivere della mia esperienza è stata l’occasione per un’analisi, che negli ultimi cinque concitati anni, non avevo avuto modo di approfondire.
Un cambiamento di lavoro ma anche di relazioni, di luoghi, di vita.
E questo dopo un lungo e proficuo periodo, nel quale ho contribuito a formare tante generazioni di studenti, ho partecipato intensamente alla vita dell’Accademia nelle sue articolazioni scientifiche e organizzative.
Quando ho ricevuto la comunicazione che il CSM mi aveva designato come consigliere di cassazione ne sono stata felice: per il prestigio di poter far parte della magistratura, non disgiunto dal fascino di un cambiamento di vita, con la voglia di mettersi in gioco. Non ultima l’influenza paterna, che sento presente nelle aule del Palazzo e il cui rigore mi guida nella mia attività.
Gli inizi non sono stati certo facili: per la mancanza di un’attività formativa mirata ad introdurmi al giudizio di legittimità, ma soprattutto perché un consigliere non proveniente dai ranghi della magistratura è considerato, se non come un corpo estraneo, comunque con sospetto. Il sospetto di non essere adatto al compito, di non avere le competenze adeguate, di non avere la mentalità del giudice.
Per superare questa diffidenza, che la vicinanza di colleghi affettuosi e disponibili ha consentito, ci sono voluti anni di impegno gravoso, sia per la difficoltà di trovare il giusto equilibrio fra studio della controversia e redazione della sentenza nella sintesi e nei tempi richiesti; sia per la necessità di integrarsi con in un contesto lavorativo e personale di tipo diverso da quello lungamente frequentato, in cui il dibattito e lo scambio delle idee era quotidiano.
Dopo il faticoso rodaggio, oggi può essere fatto un bilancio, bilancio per il quale mi avvarrò dei simboli delle due funzioni: la toga del docente e quella del giudice. Apparentemente diverse, ma emblematiche della solennità del ruolo.
La toga del giudice simboleggia la Giustizia e l’imparzialità di chi “è soggetto soltanto alla legge” e in tutti i momenti rispetta il principio, scritto nelle aule in cui si celebrano i processi, secondo cui “la legge è uguale per tutti”.
Giustizia e imparzialità, sottesa l’indipendenza necessaria per attuarle, costituiscono anche il fil rouge del comportamento del docente universitario, che verifica e valuta la preparazione degli studenti dagli esami di profitto a quello di laurea; e lo fa con l’indipendenza da influenze esterne e con l’imparzialità che prima ancora che caratteristiche del docente sono valori della persona.
In questa prospettiva ho accolto la nomina a consigliere di cassazione, più come evoluzione che come trasformazione: dal diritto segnato al diritto conclamato.
Peraltro, a ben vedere, gli elementi di affinità non sono pochi.
Il docente universitario, si sa, ha la tradizionale competenza di trasmettere il “sapere” del diritto: e cioè le nozioni, stratificate da studi svoltisi nel tempo che, dotandosi di un proprio statuto epistemologico, si erigono in scienza. Scienza però, avverte Pugliatti, rivolta a fini pratici, per non dimenticare - e non far dimenticare- che funzionale alla conoscenza è l’attuazione concreta dell’insegnamento teorico, che non può essere disgiunto dall’addestramento alle abilità, che servono per sapere usare le nozioni apprese. Ciò perché la padronanza delle abilità (il sapere procedurale) consente di mettere in relazione la conoscenza con le caratteristiche ambientali e di autoregolare i processi mentali implicati nell'esecuzione di un compito[30].
Già Carnelutti avvertiva che L’insegnamento dovrebbe fornire al discente quella somma di cognizioni e di esperienze che si riferiscono non tanto al sapere quanto al saper fare; insomma insegnargli ad applicare le regole che costituiscono il sapere; gli si presenta il caso e gli si mostra come si fa; sarà, per esempio, un contratto o un reato, un accordo o un contrasto tra due uomini. Qui occorre al maestro non soltanto il sapere ma anche il saperfare e così far bene e insieme scoprire e mostrare le ragioni del ben fare, il che esige il compiuto dominio della scienza e dell’arte[31].
Aggiungeva Pugliatti: Tutto quello che può dirsi, dunque, è che si ha scienza quando l’attività è orientata verso la conoscenza; tecnica, quando l’attività è legata al presupposto della conoscenza. La scienza opera ed è orientata verso il conoscere; la tecnica opera sulla base del conoscere; così che tra le due attività non solo vi è connessione, ma addirittura reciproca coordinazione funzionale... Basterà considerare la tecnica come applicazione o utilizzazione pratica della scienza[32].
Una sintesi fra teoria e pratica, trasmissione del sapere e del saper fare è rappresentata dalla presenza – ormai stabile – in Cassazione dei tirocinanti affidati ai magistrati formatori, che consente una continuazione di quell’attività che così non subisce interruzioni. Anzi la rende ancor più feconda: perché i giovani laureati “formati” nell’attività di tirocinio imparano quel saper fare e sono più pronti di altri ad affrontare i concorsi prima e l’attività professionale poi. Ne è la riprova il numero di tirocinanti che superano l’esame di avvocato e i concorsi per le professioni legali.
E devo aggiungere che anche l’attività dei magistrati ne ha un positivo riscontro: in una delle ultime camere di consiglio il presidente del collegio ha invitato i relatori a chiarire le problematiche in modo sistematico, per assicurare ai giovani in formazione una esatta cognizione delle tematiche trattate. Si è creato insomma un piccolo circolo culturale, una palestra dove tutti, in armonica partecipazione, hanno tratto benefici effetti.
Anche l’aspetto scientifico e di ricerca, che come molti colleghi continuo a coltivare, è incentivato dai numerosi convegni e incontri di studio di alto livello organizzati dalla Scuola di formazione della magistratura, che non fanno mancare occasioni di riflessione e di studio.
Una sorta di continuità ritrovata, dunque, pur nella diversità dei compiti e delle funzioni.
All’Università parlavo di diritto; in Cassazione continuo a parlare di diritto.
[1] L. Scotti, I sette disegni di legge del secondo pacchetto giustizia, in Documenti giustizia, 1996, 1648.
[2] F. Cipriani, La chiamata in cassazione per meriti insigni (appunti per la bicamerale), in Foro it., 1997, c. 57 ss., ripercorre la storia della magistratura dopo l’unità d’Italia, le titubanze del CSM e la pressione del CNF, i disegni di legge Martelli, Bondi e Flick e infine la laboriosa approvazione dell’art. 103, comma 3 Cost.. V. anche L. Scotti, I sette disegni di legge, loco cit..
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La magistratura, in Comm. della cost., a cura di Branca, 1986, 138
[4] CNF, Osservazioni, in Rass. Forense, 1988, 72.
[5] E. Gallo, L’avvocatura nella magistratura e il terzo comma dell’art. 106 cost., in Documenti giustizia, 1993.
[6] M. Pisani, I meriti insigni (art. 106, 3° comma Cost.) per la nomina dei laici in cassazione, in Foro it., 1999, 74 ss..
[7] I. Volpe, Dagli organismi universitari e forensi la segnalazione delle disponibilità al CSM, Guida al diritto, 1998.
[9] A. De Marsico, Avvocatura: ricordi e speranze, in Dialectica, 1981, 54.
[10] V. Sgroi, La questione cassazione, in Foro it., 1988, V, 4.
[11] S. Chiarloni, Avvocatura e magistratura nella giurisdizione. Per una cultura e un linguaggio comuni, in Documenti giustizia, 1988, 1127.
[12] A. Brancaccio, Problemi attuali della corte suprema di cassazione, Foro it. 1989, V, 216.
[13] V. amplius A. Sandulli, Corte costituzionale, Enciclopedia del novecento, 1975, I, 1046.
[14] Così A. La Torre, Nomofilachia, in Dizionario di pensieri intorno al diritto, Milano, 2012, p. 177 ss..
[16] Pomponio, Dig., I, 2, 13: “Constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit, cottidie in melius produci”.
[17] M. Cartabia M., Nuovi diritti e leggi imperfette, in Iustitia, 2016, 153 ss.
[18] S. Pugliatti, Diritto civile. Metodo, teoria e pratica, Milano 1951, ora in Salvatore Pugliatti, Scritti giuridici, Milano, 2011.
[19] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, 2010.
[20] Philippe Astruc, Devenir magistrat aujourd'hui. Le recrutement et la formation des magistrats de l'ordre judiciaire, Paris, Lextenso éditions, 2010.
[21] Requisiti d'accesso sono diversi per le tre classi di concorso: per tutte è prevista la nazionalità francese; per la prima classe la laurea in giurisprudenza, età massima 31 anni; per la seconda classe lo stato di dipendente pubblico con almeno 4 anni di servizio, età massima 45 anni e sei mesi; per la terza classe di concorso, 8 anni di attività professionale privata, o di mandati elettivi in assemblee rappresentative o di svolgimento di funzioni giudiziarie onorarie; età massima 40 anni. I concorsi d'accesso all'ENM sono selettivi: nel 2011, su 1.486 candidati alla prima fase, ne sono stati ammessi solo 153 (10,3%). La formazione iniziale, realizzata nella sede di Bordeaux riguarda la formazione degli auditeurs de justice, secondo il quadro della rete formativa europea. Nell'insegnamento si privilegiano gli aspetti pratici: simulazioni d'udienza, stage. Nel periodo formativo di trentuno mesi gli auditeurs hanno modo di confrontare la teoria e la metodologia con la pratica professionale e con le realtà sociali, economiche ed umane.
[22] Distinta dalla carriera nel pubblico ministero (carrera fiscal): v. amplius sul tema F. Molinari, Il reclutamento e la formazione dei giudici in Spagna, Roma, 1982, 182 ss,
[23] L’art. 299 LOPJ, distingue tre livelli all’interno della magistratura: magistrato del Tribunale Supremo (magistrado del Tribunal Supremo), che è organo assimilabile alla Corte di Cassazione italiana; magistrato (magistrado), facente parte di altre corti e tribunali o operante almeno a livello provinciale; giudice (juez), operante fino al livello distrettuale.Il Tribunal Supremo, competente quale "Corte di cassazione", è l'organo posto al vertice dell'ordinamento giudiziario spagnolo (per ciascuno dei quattro diversi segmenti della giurisdizione ordinaria: civile, penale, amministrativo e sociale), eccetto per ciò che concerne la materia costituzionale (di competenza della Corte costituzionale, non integrata nel sistema giudiziario). Il Tribunal supremo che ha sede a Madrid e competenza estesa a tutto il territorio nazionale, costituisce il vertice del sistema delle impugnazioni ed è quindi il massimo responsabile dell'unità e uniformità dell'interpretazione della giurisprudenza in Spagna. Fonte: Servizio studi del Senato, Elementi di legislazione comparata in tema di mezzi di impugnazione, Dossier n. 171, 2013...
[24] Consejo General del Poder Judicial , organo di autogoverno; cfr. art. 301 Lopj, nella versione approvata nel 2003.
[25] Quindi la procedura giudiziale viene insegnata solo nelle INNS OF COURT, organizzazioni professionali proprie del common law, esistenti sin dal XIV sec., che uniscono al loro interno giudici e avvocati e controllano l'accesso all'avvocatura (bar); nel medioevo erano dei convitti in cui risiedevano studenti e giudici che svolgevano le loro attività e studiavano insieme. Per entrare nelle Inns of Court è necessario superare un esame, e al termine degli studi gli apprendisti si avviano ad esercitare il barrister. Il barrister ha la possibilità di accedere anche alla carriera giudiziaria, poiché i giudici della High Court sono scelti tra i barristers, e una volta entrati nel sistema giudiziario si può aspirare alla House of Lords, e quindi diventare giudice supremo.
[26] Ad oggi sono trentanove gli Stati che selezionano i giudici di primo grado e (solo in sede di conferma) quelli di appello mediante elezioni pubbliche in cui tutti i cittadini del territorio servito sono chiamati a scegliere. Va detto che il dissenso culturale e politico verso questa forma di reclutamento sembra essere in crescita, motivato dai rischi che il sistema comporta e dalla asserita non congruità del metodo rispetto ai cambiamenti sociali.
[27] La Corte suprema degli stati uniti d’america (SCOTUS) istituita il 24 settembre 1789 come la più alta corte federale degli Stati Uniti, è l'unico tribunale specificamente disciplinato dalla Costituzione. I nove membri della Corte (un presidente, Chief Justice of the United States, e otto membri, gli Associates Justices) sono nominati a vita. Quando un seggio diviene vacante, il Presidente degli Stati Uniti provvede alla nomina del giudice con il consenso del Senato. Cfr. Timothy R. Johnson, Oral Arguments and Decision Making on the United States Supreme Court (American Constitutionalism), State University of New York Press 2004;Garrison Nelson, Maggie Steakley, James Montague, Pathways to the US Supreme Court: From the Arena to the Monastery, Palgrave Macmillan, US, 2013.
[28] Cfr. per la descrizione dello sviluppo delle strutture giudiziarie nei paesi democratici. C. Guarnieri, La giustizia in Italia, Bologna, 2011.
[29] G. Di Federico, L’indipendenza della magistratura in Italia: una valutazione critica in chiave comparata, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2002, 125 s., mette in stretta relazione il valore dell’indipendenza con quello della eccellenza professionale, “che rende i giudici meno proni all’accettazione di influenze esterne”.
[30] Il tema è fortemente sentito nelle Università che si interrogano sulla fisionomia da imprimere ai Corsi di giurisprudenza per renderli attuali e attrattivi. Cfr. B. Pasciuta, L. Loschiavo, a cura di, La cultura giuridica. Testi di scienza, teoria e storia del diritto. La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, Romatrepress 2018.
[31] F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1935, I, 169.
[32] S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, in id., Grammatica e diritto, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 103-147. Amplius sul tema G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Bologna, Zanichelli, 2013
Dalla “Sapienza” alla “Giustizia”. Esperienza di un “merito insigne”, ex art. 106 comma 3 della Costituzione.
Sommario: 1. La nomina di consigliere di cassazione per “meriti insigni”: un percorso accidentato. 2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica. 3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
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