ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Uno sconosciuto deus ex machina
di Silvana Grasso
Dalla sua foto nell’ovale di maiolica sorride. Ha dieci anni Rossella e due trecce lunghe corrono come fiumi sul suo petto scarno, petto di bambina. Fiera delle sue trecce, nella foto in bianco e nero, tradita appena dalla vecchiaia della maiolica, sorride all’alea del futuro che non avrà. Il suo, incistato in un mite eterno presente, non subirà quelle rapine, quegli sfregi che reca con sé il futuro di chi il futuro lo vive, lo progetta, vi s’accampa, v’invecchia. Rossella è scampata al futuro, la sua lebbra non l’ha contagiata, da cent’anni vive nel catasto magico del presente, dove impossibile è invecchiare, trasfigurarsi, trasfigurare e per questo i suoi occhi per sempre avranno la luce della prim’alba sul mare. Non invecchierà Rossella e nemmeno gli altri ragazzi della sua età o poco più grandi, con cui da quasi cent’anni divide questo spicchio di cimitero, alla rampa tre, in cui fresie gelsomini giacinti gerani sbocciano tutto l’anno, concimati solo dalla pietà, innaffiati solo dal cielo, perché da tempo chi fiori vi portava è morto, di vecchiaia o di dolore, e la sua tomba è due rampe di scale sotto. Fiorisce e sboccia Natura a dispetto del tempo delle stagioni dello scirocco e persino di quella gelata che fa strazio di gemme e semi ovunque, ma non in quello spicchio di cimitero dove solo i ragazzi hanno avuto il pass, quasi un ostello della gioventù in cui condividere solo con altri ragazzi pane di semola con la marmellata di fichi fatta in casa, spremute di limoni e per dessert tanta allegria. Qui non entra Thanatos, qui, nel cimitero dei ragazzi, non detta le sue leggi e la sua Lex niente vale. Eppure per quella Lex Orfeo perse la sua amata e, sbranato e fatto a pezzi dalle femmine di Tracia che per dolore disdegnò, non smise mai d’invocarne l’amato nome Euridice Euridice. Fanno famiglia i ragazzi della rampa tre, che in vita non si conobbero mai, qualcuno è morto milite nella prima guerra mondiale, qualcuno nella seconda, da marinaio affondato assieme alla sua nave onorando la patria, come si legge sulla tomba vuota, che non consola la madre sua. Sorridono come Silvia, ragazzetta ignara delle parche, sorrideva in un giorno qualunque d’un maggio odoroso mentre Giacomo, che ragazzo non fu mai, trascinava la soma d’una vita senza vita, la zavorra di giorni mesi anni affanni e un illecito postdatato rimando di felicità. Sorridono come la ragazzetta Cretide “che tante favole sapeva e tanti bei giochi, compagna dolcissima e chiacchierina” (Antologia palatina, VII) sorrideva 2.300 anni fa. Solo nella miseria della Vita contano i giorni i mesi gli anni le ore, il veniale calcolo del tempo, nel feudo della Morte, jus naturale, conta solo l’infinito tempo del dolore della rimembranza della nostalgia, che non si sanano mai, ipoteche a vita sulla Vita. Non si guardano ma sono vicini, seppur in vialetti diversi, Rossella e Pietro, morti di malattia lo stesso anno, il 1924, solo che Pietro, morto a 15 anni, ha nella sua bella foto il viso austero di chi, adolescente, fa già sul serio. Rigenerati dalla pietà, alberi selvaggiamente cresciuti senza potatura custodiscono, numi tutelari, presenze di famiglia, i ragazzi che invece sono stati potati. Un alloro e una pomelia sono ormai tutt’uno, un albero nuovo sconosciuto alla botanica, quasi mimassero, per foglie e rami, un abbraccio di cuore e carne, ma forse questa è solo suggestione, la mia. Fa scudo alla tomba del ragazzo Pietro e, per un tratto, a quella accanto, e le due tombe vi restano quasi celate come una nave greca coi suoi tesori nei fondali del nostro mare di Sicilia, in un’eterna gravidanza aerea e liquida. Confina col cielo questo monstrum di natura, guerriero armato di giganti petunie rosse, confina col cielo, i suoi vuoti i suoi pieni, i suoi tramonti che non tramontano e, come il gigante del mito, Argo dai cento occhi, non li molla d’un istante i suoi ragazzi. Thanatos, fermo una rampa prima, non lui reclamare recidere contendere né dare ordini alle sue serve, le Parche, che grate lo ringraziano. Erinni materne e miti da furenti che furono, per ordine d’uno sconosciuto deus ex machina. Non è Atena quel deus che le sue furie le fece eumenidi, non è nemmeno Apollo che al matricida Oreste salvò la vita. E’ un cuore gigante di rami e fiori rossi, un cuore che non subisce infarti il deus ex machina, sconosciuto alle divinità d’Olimpo, alto quasi tre metri. La Natura gli ha dato forma di cuore, ma solo chi non ha fretta, chi guarda in alto, chi non teme il cielo, se ne accorge. Chissà quale furto di vento portò alla rampa tre i semi d’un alloro e una pomelia o quale rogatoria divina. Anche questo appartiene al segreto della Morte che supera il segreto della Vita, che giustizia invoca e sentenza d’assoluzione, che disperando dell’umano può solo confidare nel mito o nel divino. Osò Polissena, figlia di Priamo ed Ecuba, figlia di Troia gloriosa, osò anche Antigone, figlia d’Edipo, assolvere la Morte e quelle leggi d’Ade che “eguagliano tutti”(Antigone, Sofocle). Osò e morì, leggi divine onorando non leggi umane e transeunti né una tirannide “che poteva fare e dire qualunque cosa”(ibidem) né il pavido tiranno, Creonte, e i suoi proclami “fintanto che vivo io non sarà una femmina a comandare”(ibidem). Evertere dall’umano per il divino è esso stesso jus non scriptum, ma questo non importa ai ragazzi della rampa tre. Sono là, a due passi dal Vulcano, che da sempre legifera sulla stoltezza umana. Sono là, con le loro foto ingenue e sbiadite, nutriti di sole luna albe tramonti. Non hanno domande da fare, né aspettano un Edgard Lee Master nostrano che, pur bravo, ne vìoli la minima vita vissuta, il lungo trine dei sogni, l’avventura di quel domani che rimase foglio intonso d’un misterioso almanacco. Ricusano, come giudice infedele, anche un poeta, in buona o mala fede, comunque traditore di quel che furono, di quel che vissero, comunque contrabbandiere di menzogne spese come Arte. Ci pensano da sé a raccontarsi non come li raccontò la Vita, piccoli malati deboli ingenui e moribondi, ma come li racconta da cent’anni il miglior menestrello giocoliere trapezista clown, la Morte, siano morti soldatini in guerra, “esempio fulgido di patrio onore” o ragazzine morte di tubercolosi, cui la patria nulla chiedeva se non d’essere virtuose. E sono state virtuose Saretta, morta all’alba dell’otto dicembre, la madre disperata lo racconta sulla stele, quasi che Maria Immacolata fosse venuta a prenderla per mano la sua bimba e consegnarla immacolata a Dio Padre. La tomba racconta, la foto racconta, il dolore della madre racconta, non c’è spazio per interpretazioni suggestioni contaminazioni addizioni manipolazioni. Non c’è spazio per il troppo e il superfluo, qui detta legge l’essenziale, la Vita è logorroica, la morte no, qui detta legge il fatale: non si può derubricare il reato d’esistere.
Respingimenti illeciti e diritto d’asilo:è sufficiente il risarcimento in denaro? Nota a Trib. Roma 28.11.2019 n. 22917.
di Rita Russo
1.- Il fatto.
Un gruppo di cittadini eritrei in fuga dal proprio paese raggiunge la Libia e da qui si imbarca verso l’Italia. Il 30 giugno del 2009, a poche miglia da Lampedusa, ma ancora in acque internazionali, il motore dell’imbarcazione entra in avaria e una nave della Marina italiana provvede a soccorrere i naufraghi che, una volta a bordo, manifestano l’intenzione di chiedere asilo. Nonostante ciò e malgrado le loro proteste, il comandante della nave li consegna ad una nave libica che nel frattempo ha affiancato la nave italiana. Dopo un periodo di detenzione in Libia, i profughi, una volta liberati, si mettono nuovamente in viaggio, via terra, e giungono in Israele. Qui subiscono altri periodi di detenzione, e, una volta ritornati in libertà, nel timore di un ulteriore respingimento verso l’Eritrea, inoltrano una citazione contro lo Stato italiano, il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa e il Ministero degli affari esteri, chiedendo il risarcimento del danno per l’ingiusto respingimento ed anche di poter fare ingresso in Italia, al fine di inoltrare domanda di protezione internazionale.
Le amministrazioni convenute si difendono deducendo che il salvataggio è avvenuto in acque internazionali e che nessuno tra le persone soccorse ha fatto richiesta di protezione internazionale. Deducono inoltre che la consegna è avvenuta in esecuzione del Trattato di amicizia firmato con la Libia nel 2008.
La vicenda non è un caso isolato: alcune agenzie internazionali e tra queste anche Human Rights Watch e UNHCR denunciano che, nel corso del 2009, l’Italia avrebbe effettuato nove operazioni in alto mare, rinviando in Libia 834 persone di nazionalità somala, eritrea e nigeriana. Una di queste operazioni, avvenuta il 6 maggio 2009, di poco precedente a quella esaminata dal Tribunale romano, riguardava undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, che, raccolti in mare da navi italiane e consegnati alla autorità libiche senza alcuna preventiva identificazione, hanno presentato ricorso alla Corte EDU (primo ricorrente Hirsi Jamaa); la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per averli respinti collettivamente, senza neppure identificarli, verso un paese dove non erano protetti dai rimpatri arbitrari, poiché la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra[1].
Due diverse questioni sono quindi sul tappeto: la prima è la richiesta risarcitoria per la violazione del divieto di respingimento; la seconda è quella dell’accesso alle procedure per il riconoscimento del diritto di asilo.
2.- Il divieto di respingimento.
Il divieto di respingimento o non refoulement è enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, ma anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “Le espulsioni collettive sono vietate. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La norma fonde ed armonizza i principi enunciati dalla Convenzione EDU rispettivamente nell’art. 4 prot. 4 (divieto di espulsioni collettive) e negli artt. 2 e 3 (diritto alla vita; divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). Nella nostra Costituzione questo divieto è connesso al disposto dell’art. 10 (diritto di asilo) ma ancora prima agli artt. 2 e 3, trattandosi della protezione di un diritto fondamentale dell’uomo, e in ultima analisi della tutela della sua dignità, fondamento stesso di tutti i diritti fondamentali[2].
Di recente, anche la Corte di giustizia dell’UE si è soffermata sul concetto di dignità, con particolare riferimento ai diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (proibizione di tortura e trattamenti degradanti, corrispondente all’art 3 CEDU) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte UE rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) e che raggiungono livelli di gravità tali da integrare trattamento degradante[3].
Nel diritto nazionale, il principio è recepito dall’art. 19 del D.lgs. 286/1998 il quale prevede che “in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. La norma è stata di recente ampliata e rafforzata con l’inserimento del comma I bis, aggiunto dall’art. 3 della legge 110/2017: “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Questa integrazione normativa allinea la legislazione nazionale ai principi della Carta di Nizza e alle sentenze rese dalla CGUE, e restringe il residuo margine di discrezionalità accordato in materia agli Stati membri; correlando infatti il divieto di respingimento alla tutela contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti lo si definisce in termini di inderogabilità[4]. Inoltre la norma contiene un interessante riferimento alla necessità di tenere conto delle “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani” richiamando in sostanza, in un testo di diritto positivo interno, quella equivalenza, più volte predicata dalle Corti internazionali, tra la tortura e i trattamenti gravemente lesivi della dignità umana.
Si comprende quindi perché il divieto di respingimento è applicabile non soltanto ai rifugiati o ai richiedenti asilo, ma anche a coloro che non hanno avuto ancora la possibilità di fare domanda per ottenere lo status, ovvero non hanno intenzione di presentarla[5].
La norma deve essere rispettata anche in alto mare, giacché in tale zona gli Stati non sono esenti dai propri obblighi giuridici, ivi compresi quelli derivanti dal diritto internazionale[6]. Il divieto è rigoroso, e non va incontro ad eccezioni[7]; tuttavia non comporta l’obbligo per lo Stato di accogliere nel proprio territorio la persona, dal momento che lo Stato interessato può optare per la soluzione dell’avvio verso un paese terzo sicuro, cioè un paese dove il soggetto non corre il rischio di pena di morte, tortura o trattamenti degradanti o di un respingimento verso paesi ove è esposto a tale rischio.
In questo quadro normativo, rileva il giudice romano, gli obblighi derivanti da un eventuale accordo bilaterale sono recessivi: in ogni caso non pare potersi desumere dall’esame del “Trattato di amicizia” con la Libia, invocato dallo Stato a giustificazione della consegna, una espressa autorizzazione ad operare respingimenti verso questo paese. Del resto anche la Corte EDU, nella già citata sentenza Hirsi, sottolinea che le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti dalla Convenzione.
Ciò posto, la prima questione, anche in virtù della sostanziale assimilabilità con il caso Hirsi, non presenta particolari difficoltà in punto di diritto, trattandosi piuttosto di una questione di fatto: si deve accertare se le persone salvate in mare sono state respinte verso un paese dove vi è il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, e che lo Stato italiano fosse di ciò consapevole.
Dopo una articolata istruttoria, il Tribunale accerta che effettivamente il salvataggio è avvenuto in acque internazionali e che gli attori, una volta compreso che stavano per essere riconsegnati alle autorità libiche, hanno espresso la intenzione di chiedere la protezione internazionale, dichiarandosi rifugiati, esposti al rischio di persecuzioni e danni gravi nel loro paese di origine. In questa parte dell’istruttoria il giudice escute testimoni ed esamina documenti, seguendo le regole proprie del processo civile ordinario, quale è in effetti quello intentato dai cittadini eritrei. Si tratta infatti non già di una domanda di protezione internazionale, che segue il rito camerale speciale disegnato dal D.lgs. 25/2008 e dell’art. 737 c.p.c., ma di una ordinaria azione di risarcimento del danno. Anche la richiesta di ottenere l’ingresso in Italia per presentare la domanda di protezione interazionale segue il rito ordinario, in quanto presentata come domanda risarcitoria in forma specifica, e diretta, nella prospettazione degli attori, alla rimessione in pristino della situazione precedente alla condotta contestata. Il Tribunale la qualificherà come domanda di accertamento del diritto a chiedere la protezione internazionale, con il che, tuttavia, essa non perde la sua natura di azione di cognizione ordinaria.
L’istruttoria, dunque, inizia come di consueto, con la escussione dei testi e l’esame di documenti; ciò consente di accertare che gli attori sono effettivamente le persone salvate dalla nave italiana, che hanno manifestato a bordo la loro condizione di persone in fuga dalla persecuzione e la intenzione di richiedere asilo, e che, nonostante ciò, sono stati consegnati alla nave libica. I testi escussi riferiscono inoltre che in Libia gli attori sono stati incarcerati subendo torture.
A questo punto, tuttavia, manca un tassello, e cioè la prova che lo Stato italiano fosse -o poteva diligentemente essere- consapevole del rischio di trattamenti inumani e di rimpatrio forzato. Qui si verifica uno switch dell’istruttoria verso le regole proprie dei procedimenti di protezione internazionale e cioè il ricorso alle country of origin information (COI). Nella procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, infatti, vige la regola del dovere di cooperazione da parte del giudice e una specificazione di questa regola è la acquisizione d’ufficio delle COI, secondo quanto dispone l’art. 8 comma 3 del D.lgs. 25/2008[8]. Si utilizza dunque una regola prevista per un procedimento speciale, derogatoria del principio previsto dall’art. 2697 c.c., all’interno di un procedimento ordinario. La ratio della deroga è però la medesima: la condizione degli attori è quella di persone in fuga dal paese di origine, che hanno manifestato l’intenzione di richiedere asilo, e a cui si può richiedere che facciano ogni sforzo per circostanziare e documentare la domanda, ma non anche che possano dare prova nella loro interezza dei fatti politici, sociali ed economici del loro paese d’origine, dei paesi di transito e di rinvio e delle relazioni tra l’Italia e questi paesi.
In siffatti casi la Corte EDU tiene conto della situazione reale di persone in fuga, temendo per la loro salute o addirittura per la loro vita: non si può pretendere che tali persone abbiano con loro tutti i documenti e tutti i rapporti ufficiali per provare ogni dettaglio della loro storia. Così la Corte EDU fa riferimento – e a sua volta lo pretende dalle autorità interne – a rapporti ufficiali internazionali facilmente reperibili[9].
Il giudice romano osserva che al momento dei fatti erano già stati diffusi dei rapporti, realizzati da accreditate organizzazioni internazionali, nei quali venivano denunciate e condannate le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia, peraltro richiamati anche nella sentenza Hirsi. Pertanto le autorità italiane erano nelle condizioni di sapere che la Libia, Stato che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e nel quale non è previsto un sistema nazionale di asilo, non potesse considerarsi, all’epoca dei fatti di causa, approdo sicuro, con concreto rischio che i migranti venissero arrestati, sottoposti a violenze, nonché respinti verso l’Eritrea.
Accertato l’illecito, il risarcimento del danno non patrimoniale subìto, per il respingimento collettivo e per essere stati avviati ad un paese non sicuro, è liquidato in via equitativa in euro 15.000,00 ciascuno, in linea con le liquidazioni operate dalla Corte EDU nel caso Hirsi.
2.- La richiesta di protezione internazionale.
La questione più spinosa è tuttavia quella relativa alla richiesta di protezione internazionale.
Gli attori, questo è il dato che emerge dalla istruttoria, sono stati salvati in acque internazionali e già sulla nave hanno dichiarato la loro qualità di rifugiati e hanno espresso l’intenzione di richiedere asilo, deducendo che in Eritrea sono esposti a gravi persecuzioni.
Con l’atto di citazione chiedono una “restituzione in pristino” e cioè l’ingresso nel territorio italiano per presentare la domanda di protezione internazionale; il Tribunale ritiene però che non si tratti di un risarcimento del danno in forma specifica, quanto di accertare se i richiedenti asilo abbiano diritto a presentare allo Stato italiano la domanda di protezione internazionale pur trovandosi all’estero.
L’ingresso in Italia è considerato necessario dalla difesa perché, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 del D.lgs. 25/2008, la domanda deve essere presentata personalmente presso l'ufficio di polizia di frontiera all'atto dell'ingresso nel territorio nazionale o presso l'ufficio della questura competente in base al luogo di dimora del richiedente. La norma non prevede altre modalità di presentazione della domanda, presupponendo che il soggetto sia presente sul territorio nazionale e prenda contatto diretto con l’autorità. In tal senso anche l’art. 3 della Direttiva 2013/33/UE (La presente direttiva si applica a tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro) e l’art. 20 della Regolamento UE n.604/2013 (La procedura di determinazione dello Stato membro competente è avviata non appena una domanda di protezione internazionale è presentata per la prima volta in uno Stato membro) considerano la presenza sul territorio come presupposto di fatto della presentazione della domanda.
Di contro, essere a bordo di una nave italiana, per effetto di un salvataggio in acque internazionali, non significa, quantomeno ai fini che qui ci interessano, essere entrati in Italia, né essere automaticamente avviati all’ingresso nel territorio.
Come si è detto, lo Stato non ha obbligo di accoglimento perché potrebbe, senza violare il divieto di respingimento, avviare le persone soccorse verso un paese terzo sicuro, anche non appartenente alla UE, purché non si tratti di un paese ove si rischia il rimpatrio forzato[10]. Le persone salvate in acque internazionali, nel momento in cui salgono su una nave italiana non maturano il diritto all’ingresso sul territorio italiano, ma allo sbarco in luogo sicuro[11]; hanno quindi diritto a non subire respingimento. Della tutela di questi diritti assume la responsabilità lo Stato che ha prestato i soccorsi, tanto che, come si è visto nel caso Hirsi, può essere condannato se non rispetta queste regole.
Il divieto di respingimento, per quanto connesso con il diritto di asilo, copre un area parzialmente diversa di tutela dei diritti umani e in certo qual modo più vasta: ne possono fruire ad esempio anche coloro che non hanno diritto né al riconoscimento dello status di rifugiato, né alla protezione sussidiaria perché attinti da una delle cause di esclusione di cui agli artt. 10 e 16 del D.lgs. 251/2007[12]. L’art. 32 comma 3 del D.lgs. 25/2005, nel testo riformato dal D.L. 113/2018 dispone infatti che “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all’articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura “protezione speciale” salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga”. In precedenza, il DPR n. 394/1999 consentiva in questi casi un rilascio di soggiorno per motivi umanitari.
La Corte EDU, inoltre, ha più volte precisato che la finalità del divieto di espulsioni collettive è quella di prevenire la possibilità che si verifichino espulsioni di stranieri sulla base della loro mera appartenenza ad un gruppo e senza la necessaria attenzione per le peculiarità del caso concreto, e che ciò può avvenire anche nel caso di persone che non hanno interesse a presentare domanda di protezione internazionale, ma a cui deve essere data la possibilità reale ed effettiva di far valere gli argomenti contrari all’espulsione, e che questi siano esaminati in modo adeguato dalle autorità[13]. Analogamente, l’art. 4 comma 3 del Reg. UE 656/201 dispone che, durante una operazione di soccorso, prima che le persone siano sbarcate si deve informarle della loro destinazione in un modo per loro comprensibile e dar loro l’opportunità di esprimere le eventuali ragioni per cui ritengono che uno sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non respingimento.
Si è visto che la violazione del divieto di respingimento comporta delle conseguenze patrimoniali, ma da essa discende anche il diritto all’ingresso nel territorio dello Stato?
Prima di esaminare la risposta data dal Tribunale di Roma è bene rammentare una particolarità del caso di specie e cioè che gli attori prima di essere consegnati alle autorità libiche hanno dichiarato la loro qualità di rifugiati ed espresso la loro intenzione di presentare domanda di protezione internazionale, e ciò è stato impedito dal respingimento.
Se avessero reso questa dichiarazione in territorio nazionale, alla frontiera ovvero in acque territoriali, ciò avrebbe avviato le procedure per la verifica e il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale.
Il diritto alla protezione internazionale comprende, infatti, anche il diritto ad essere informato sulle relative procedure e ad essere agevolato nella presentazione delle domande di asilo (Direttiva 2013/32/UE) dalle persone che per prime entrano a contratto con lo straniero o con l’apolide presente sul territorio, alla frontiera o in acque nazionali. La stessa Direttiva prevede, al considerando 27, che “i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che hanno espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale sono richiedenti protezione internazionale” e che “gli Stati membri dovrebbero registrare il fatto che tali persone sono richiedenti protezione internazionale” pur se l’art 6 par. 3 prevede che “gli Stati membri possono esigere che le domande di protezione internazionale siano introdotte personalmente e/o in un luogo designato”. Di conseguenza, l’art. 2 del D.lgs. 142/2015, sulle procedure di accoglienza, attuativo delle Direttive 2013/33/UE e 2013/32/UE, dichiara che richiedente asilo non è soltanto la persona che ha presentato la domanda, ma anche colui che ha manifestato questa intenzione. Ma ancor prima che queste Direttive fossero recepite dalla legislazione nazionale, la Corte di Cassazione ha ritenuto che sussistendo anche la semplice “indicazione” che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire loro informazioni sulla possibilità di farlo, e di agevolare l'accesso alla procedura di asilo[14]. In questa sentenza è importante il riferimento, oltre che alle Direttive in parola anche a quanto osservato dalla Corte EDU nel caso Hirsi: « la mancanza di informazioni costituisce uno dei principali ostacoli all'accesso alle procedure d'asilo. Ribadisce quindi l'importanza di garantire alle persone interessate da una misura di allontanamento, le cui conseguenze sono potenzialmente irreversibili, il diritto di ottenere informazioni sufficienti a consentire loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi».
Si può quindi affermare che oggi si è raggiunto, tramite questi arresti giurisprudenziali e la correlativa apertura legislativa, un punto fermo: manifestare, in territorio nazionale o alla frontiera, l’intenzione di richiedere la protezione internazionale pone il soggetto nella stessa posizione di chi ha presentato formalmente la domanda; egli deve considerarsi un richiedente asilo e quindi ha diritto alla collaborazione dello Stato per l’accesso alle procedure di riconoscimento. Non a caso, la giurisprudenza di merito ha spesso tutelato in via d’urgenza il diritto alla ricezione della domanda di protezione, escludendo che le questure o altre autorità ammnistrative possano sottoporla a vaglio preliminare di ammissibilità ovvero subordinarla a condizioni[15].
Ponendo questi principi in relazione con il divieto di respingimento, e tenendo presenti le responsabilità che assume il soggetto soccorritore, ne consegue che se la richiesta di asilo è fatta, sia pure con una semplice dichiarazione, fuori dal territorio nazionale ma a un soccorritore tenuto al rispetto degli obblighi internazionali, quest’ultimo dovrebbe assicurarsi che la richiesta informale possa trasformarsi in un ricorso effettivo, nel proprio territorio o avviando i profughi verso uno Stato che tutela il diritto di asilo.
Riproponiamo adesso la domanda di cui sopra, specificandola meglio: quid iuris se, manifestata l’intenzione di chiedere asilo ad una autorità che ha la scelta tra accogliere nel proprio territorio i profughi o avviarli in un paese sicuro, ove parimenti i profughi possono fare valere i diritti connessi alla loro condizione, l’autorità vanifica questo diritto operando un illecito respingimento?
Il Tribunale di Roma risolve la questione facendo diretta applicazione dell’art.10 comma 3 della Costituzione: riconosce ed accerta il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, ma rimette alla competente autorità amministrativa nell’ambito della propria discrezionalità il compito di individuare “le forme” per attuare questo diritto.
Il giudice richiama, nella motivazione della sentenza, la corrente interpretazione, data dalla Corte di Cassazione ma anche dalle Corti sovranazionali, per la quale il diritto alla protezione internazionale è un diritto “pieno e perfetto”; il procedimento non incide sull’insorgenza del diritto ma serve ad accertarlo e riconoscerlo come diritto fondamentale ad esso preesistente[16]. Il riconoscimento dello status di rifugiato, come prevede il considerando 21 della Direttiva 2011/95/UE, è un atto ricognitivo e la qualità di persona avente diritto alla protezione e non dipende dal riconoscimento [17].
Rese queste premesse, il giudice romano osserva che qualora un richiedente protezione internazionale non possa presentare la relativa domanda, in quanto non presente sul territorio italiano per circostanze allo stesso non imputabili ed anzi riconducibili ad un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, sarebbe in contrasto con l’art. 10 comma 3 Cost. limitare il suo diritto a richiedere protezione. Si configurerebbe in questi casi un vuoto di tutela inammissibile, in un sistema che, a più livelli, riconosce e garantisce il diritto di asilo nelle diverse declinazioni volte a tutelare (anche) la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione di principi costituzionali e della Carta dei Diritti dell’Unione Europea.
La diretta applicazione dell’art. 10 della Costituzione non è una novità nel panorama della giurisprudenza italiana. Prima ancora della piena attuazione delle direttive europee in materia di protezione internazionale, poiché l’attribuzione dello status di rifugiato si riteneva non esaustiva rispetto alle molteplici esigenze di tutela, era data attuazione diretta all’asilo costituzionale, configurato dalla giurisprudenza come un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento»[18]. Le sezioni unite della Corte di Cassazione avevano così affermato il carattere precettivo e l'immediata operatività dalla norma costituzionale in quanto essa, seppure necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo, individuando nell'impedimento all'esercizio delle libertà democratiche la causa di giustificazione del diritto medesimo e indicando l'effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata[19].
Il successivo recepimento delle direttive europee, tuttavia, e la emanazione di una legislazione di dettaglio che ha previsto anche, quali misure complementari al riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria, ha portato la giurisprudenza ad affermare che, una volta resa esaustiva la tutela normativa, non sussiste più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui al citato art.10[20]. Sembrava così raggiunto un punto fermo, con il definitivo abbandono della tesi della applicazione diretta del diritto di asilo, ma le recenti riforme legislative, ed in particolare il c.d. decreto sicurezza (D.L. 113/2018) con la abrogazione legislativa della misura della protezione umanitaria, atipica e di chiusura del sistema, hanno riaperto il dibattito e portato giurisprudenza e dottrina ad esplorare nuovamente questo territorio[21]. L’operazione nasce per neutralizzare gli effetti della forzata tipizzazione del sistema di tutela, ed anche per evitare ingiustificate disparità di trattamento, dal momento che il fatto costitutivo del diritto del richiedente non è la domanda, né il provvedimento dell’autorità, bensì il verificarsi delle condizioni del diritto al permesso di soggiorno[22]; la tesi però ruota su un concetto di carattere generale e cioè che l’incompletezza del quadro normativo lascia spazio alla tutela realizzata mediante una diretta applicazione della norma costituzionale.
In altre parole, il sistema patisce l’horror vacui, e se non si riesce a proteggere un diritto fondamentale a rilevanza costituzionale tramite una norma di diritto positivo, si ricorre alla diretta applicazione della norma costituzionale che salvaguarda quel bene della vita.
Anche il caso odierno ci mette di fronte ad un vuoto di regolazione normativa, perché non è espressamente previsto quale sorte debba avere la richiesta di protezione internazionale non inoltrata a causa di un comportamento illecito dell’autorità, se il soggetto non è presente sul territorio nazionale per effetto di questa condotta illecita.
Da qui il richiamo al diritto costituzionale d’asilo inteso non come forma di protezione riconosciuta ed applicata direttamente alla persona, ma declinato nei termini di diritto di ingresso nello Stato italiano al fine di accedere alla procedura di riconoscimento, e quindi condizionato dal successivo riconoscimento del diritto, come peraltro affermato, in passato, dalla Corte di Cassazione, in una sentenza citata dallo stesso Tribunale: “in assenza di una legge organica sull'asilo politico (che ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e concessione), attuativa del dettato costituzionale, può affermarsi che il diritto di asilo deve intendersi non tanto come un diritto all'ingresso nel territorio dello Stato, quanto piuttosto, e anzitutto, come il diritto dello straniero di accedervi al fine di essere annesso alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico”[23]. Deve però notarsi che la sentenza della Cassazione richiamata ha la sua peculiare ragion d’essere in un contesto storico in cui la giurisprudenza si sforzava di adeguare il sistema alle regole sovranazionali non interamente recepite ed attuate e non sembra che possa utilizzarsi per predicare una generalizzato obbligo di accoglimento o di ingresso, né è in questi termini utilizzata dal Tribunale romano, che individua un rimedio alle conseguenze di un illecito, per neutralizzarne gli effetti demolitori del diritto di asilo, pur precisando che il diritto di ingresso non è un risarcimento in forma specifica e cioè una sorta di rimessione in pristino stato, come la difesa delle parti lo qualifica.
Si nota qui la cura di delimitare l’ambito di operatività del decisum, nei termini rigorosi delle conseguenze dell’accertamento di un atto illecito, impeditivo dell’effettivo esercizio del diritto; sarebbe quindi erroneo interpretare la sentenza come riconoscimento di un illimitato diritto di accesso al territorio dello Stato italiano esteso a tutti coloro che, ovunque si trovano, versino in una condizione di fatto idonea a fondare la domanda di protezione internazionale.
Sono possibili ulteriori considerazioni.
Nella fattispecie è stato violato anche (forse in primo luogo) il diritto ad un ricorso effettivo (art. 6 e 13 CEDU), o, per dirla con le parole dell’art 24 della Costituzione, il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e ciò a causa del comportamento di soggetti che erano invece tenuti alla cooperazione, nella consapevolezza che i naufraghi avevano manifestato l’intenzione di chiedere la protezione[24]. Nella sentenza in esame è infatti sottesa la considerazione che, senza (l’illegittimo) respingimento, i cittadini eritrei, secondo l’id quod plerumque accidit, avrebbero varcato la frontiera dello Stato italiano o di un altro Stato ove avrebbero potuto presentare la domanda di asilo e non solo manifestare l’intenzione. Più probabilmente, la frontiera dello Stato italiano: non sembra infatti prospettata l’ipotesi che, in alternativa alla consegna alla Libia, gli attori avrebbero potuto essere indirizzati in un pase terzo sicuro.
Immaginiamo ora che lo straniero presente alla frontiera, o dopo avere varcato il confine, manifesti verbalmente la intenzione di chiedere asilo alla autorità competente e nonostante questo venga respinto: la sua istanza non dovrebbe essere considerata validamente formulata e quindi avviate le procedure per formalizzare la richiesta e portarla all’esame del giudicante? Ove si consideri ciò che oggi dispone il D.lgs. 142/2015 la risposta non può che essere positiva; nello stesso momento in cui ha manifestato l’intenzione, il cittadino straniero ha maturato il diritto all’esame individuale della sua domanda, che deve essere verbalizzata e inoltrata, e alle procedure di accoglienza (art 2,3,4, del D.lgs. 142/2015; art. 26 D.lgs. 25/2008). Ma, se illecitamente respinto dopo l’ingresso, come potrebbe il cittadino straniero far valere, oltre confine, il suo diritto al completamento delle procedure di accoglienza ingiustamente negate? Potrebbe invero richiedere il risarcimento del danno con una ordinaria citazione, ma per insistere nella domanda di asilo, posto che la procedura non prevede un accesso diretto al giudice, non avrebbe altra scelta che rivolgersi alla autorità nazionali per via indiretta, e cioè inoltrando una istanza a mezzo posta o presentandosi alla rappresentanza diplomatica, non diversamente da quanto avviene avviene per il soggetto che, trovandosi all’estero, intende impugnare le decisioni della Commissione territoriale, ai sensi dell’art. 35 bis comma 2 del D.lgs. 25/2008.
Tornando quindi al caso che ci riguarda, è vero che in ipotesi del soccorso in alto mare lo straniero non ha ancora varcato la frontiera, ma è indubbio che l’illecito respingimento ha impedito di conseguire il risultato utile e cioè l’accesso ad un equo processo in un paese che riconosce il diritto di asilo.
Se così è, si potrebbe dire che il risultato utile e cioè la tutela del diritto violato potrebbe perseguirsi anche tramite una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata, -non solo dall’art. 10 ma anche dagli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nonché delle norme sovranazionali prima richiamate- degli artt. 6, 26 e 35 bis del D.lgs. 25/2008, ritenendo che la domanda di protezione possa presentarsi anche per posta o tramite la rappresentanza diplomatica, se la sua regolare presentazione è stata impedita, dopo la chiara manifestazione della volontà di chiedere asilo, da un illecito respingimento.
Questo peraltro consentirebbe alla autorità amministrativa di non fare entrare lo straniero nel territorio dello Stato prima della presentazione della domanda. Non è da escludere infatti che, nonostante l’ampio il margine di discrezionalità che la sentenza romana accorda alla autorità amministrativa competente sulla attuazione della tutela, possano crearsi delle difficoltà per questo ingresso anticipato nello Stato italiano. Ritenendo regolare e accettando una domanda presentata tramite rappresentanza diplomatica, o per posta, sempre sul presupposto che sia prima accertato l’illecito respingimento, e che alle sue conseguenze non sia stato altrimenti posto rimedio (ad esempio con la successiva accoglienza in un paese sicuro), si posticiperebbe l’ingresso nello Stato italiano, subordinandolo alla effettiva presentazione della domanda, a seguito della quale può rilasciarsi il permesso di soggiorno per richiesta di asilo.
[1] Corte EDU, Grande Camera, Hirsi Jamaa e altri c. Italia (ricorso n. 27765/09) 23.2.2012
[2] RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità̀ dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in Rivista AIC 2011,1
[3] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre.
[4] Si veda la storica sentenza della Corte EDU 10 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito,
“il divieto è assoluto e, secondo il diritto internazionale, non può esserci alcuna giustificazione per azioni contrarie alle disposizioni che proibiscono la tortura o altri trattamenti inumani”. Si vedano anche, Corte EDU, 11 luglio 2000, Jabari c. Turchia, causa n. 40035/98; 5 maggio 2009, Sellem c. Italia, causa n. 12584/08; 24 marzo 2009, O. c. Italy, causa n. 37257/06; 24 febbraio 2009, Ben Khemais c. Italia, causa n. 246/07; 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, causa n. 37201/06.
[5] Corte EDU, 21 ottobre 2014, Sharifi and Others v. Italy and Greece.
[6] Si veda il Reg. (UE) n. 656/2014, e in particolare i considerando 8, 12, 13,
[7] CGUE grande sezione, cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, 14 maggio 2019.
[8]Cass. Sez. un 27310/2008; Cass. Sez. VI 17929/2016; Cass. Sez. I 29056/2019
[9] V. A. De Gaetano Immigrazione e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo: Breve panoramica della giurisprudenza della CEDU, relazione al seminario Il diritto dell’immigrazione nella giurisprudenza delle Corti europee., Roma, Corte di Cassazione 14 aprile 2016, http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RELAZIONE_DE_GAETANO_1.pdf
[10] Corte EDU, Hirsi c. Italia cit.
[11] Convenzione SAR di Amburgo, 27 aprile 1979 ratificata con legge 3 aprile 1989 1n. 47
[12] Cass. civ sez. I, n. 5358/2019
[13] Si veda Corte EDU Grande Camera, 15.12. 2016, Khlaifia e altri c. Italia
[14]Cass. civ. sez. VI n. 5926/2015 e Cass. civ. sez. VI n. 10743/2017
[15] Trib. Trieste 22.6.2018, in Questione Giustizia 5.9.2018; Trib. Roma 25.11.2019, in www.meltingpot.org
[16] Cass. Sez.. Un. n. 29460/2019
[17] CGUE, Grande sezione, 14.5.2019, cause C- 391/16, C.77/17 e C-78/18
[18] Cass. civ. sez. un. n. 4674/1997; Cass. civ. n. 10686/2012.
[19] Cass. Sez. un. N. 907/1999
[20] Cass. civ. n. 10686/2012.
[21] BENVENUTI in Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri, in Dir., Imm., Citt. 1/2019, parla di un possibile “grande ritorno” nelle aule giudiziarie del diritto di asilo costituzionale.
[22] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire, cit.
[23] Cass. civ. n. 25028/2005
[24] Il diritto di agire in giudizio implica che i tribunali devono essere accessibili e le persone non devono essere ostacolate nelle loro richieste; v. Corte EDU, Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975, ove la Corte ha precisato che il diritto ad un equo processo implica il diritto di accesso alla giustizia. Nella specie si trattava di un detenuto cui era stato negato un colloquio con un avvocato dopo avere manifestato l’intenzione di intentare causa nei confronti di un funzionario dei servizi penitenziari.
Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici
di Davide Galliani e Lello Magi*
1. La Corte cost., con sent. 23 ottobre 2019, n. 253, ha dichiarato incostituzionale la presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto che, potendolo fare, non collabora con la giustizia. Da questa presunzione assoluta derivava l’impossibilità di accedere ad ogni benefico penitenziario (e quindi al permesso premio, oggetto della pronuncia) e ad ogni misura alternativa alla detenzione (come l’affidamento in prova, la semilibertà e la liberazione condizionale, non toccate dalla decisione). Altro non rimaneva al detenuto, se non il differimento della pena per infermità fisica e, dopo la sent. 99/2019 della stessa Corte, anche per grave infermità psichica (e della grazia da parte del Capo dello Stato non serve dare conto)[1].
2. La sentenza contiene nel dispositivo anche una parte additiva: la relativizzazione della presunzione comporta la necessità di acquisire elementi tali da escludere, non solo l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino. Prima di radiografare la sentenza sia consentita qualche considerazione introduttiva.
Da un lato, almeno per chi conosce la materia, non si è alle prese con una sentenza rivoluzionaria. Magari per alcuni inattesa, ma non un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, in riferimento alle presunzioni assolute, l’orientamento della Consulta è stato chiarissimo. La decisione individualizzata, caso per caso, affidata al giudice, è la pietra costituzionale intorno alla quale la Corte è intervenuta per smontare le presunzioni assolute e valorizzare l’obbligo di motivazione. Il giudice costituzionale interviene a difesa del ruolo del giudice e della sua attitudine a inverare la ragionevolezza e la proporzionalità degli interventi limitativi dei diritti di libertà, a dispetto di un legislatore che, con le presunzioni assolute, ne paralizza il mestiere[2].
Dall’altro lato, nessuna rivoluzione anche perché la pronuncia non è una monade isolata. È solo per questioni temporali che le due ordinanze di remissione, della Cassazione (caso Cannizzaro) e del Tribunale di sorveglianza di Perugia (caso Pavone), non hanno utilizzato il parametro di cui all’art. 117, I c., Cost.: la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte di Strasburgo è stata depositata il 13 giugno 2019, troppo tardi per le due ordinanze, rispettivamente, del 20 novembre 2018 e del 28 maggio 2019. Ed anche se divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, prima dell’udienza pubblica della Corte costituzionale (22 ottobre 2019), la sentenza della Corte di Strasburgo non poteva avere un ruolo dei più rilevanti: non tanto per il differente punto di partenza, la liberazione condizionale e non il permesso premio, quanto (appunto) per la mancanza, negli atti di promovimento, del parametro costituzionale di cui all’art. 117, I c., Cost.[3].
Questo tuttavia non significa che la Consulta sia stata indifferente alla sentenza Viola, anzi, in alcuni passaggi motivazionali della n. 253 chiunque può scorgere riflessioni molto simili a quelle sviluppate a Strasburgo, pur nell’ambito di un percorso argomentativo che – già in premessa e quasi a tacitare le ricorrenti manifestazioni di dissenso basate sul mero comunicato stampa – esclude che l’oggetto del giudizio ricomprenda – in quanto tale – la legittimità costituzionale del cd. ergastolo ostativo e sottolinea come del solo permesso premio “si fa questione”[4].
3. Vediamo i quattro più importanti passaggi a fondamento della sentenza. In primo luogo, dietro il ridimensionamento della portata della presunzione di pericolosità (non più superabile solo attraverso la scelta collaborativa, dunque non più assoluta in assenza della medesima) si coglie una nettissima differenziazione tra opzioni di politica investigativa e finalismo del trattamento penitenziario. Parole taglienti: se correlato alla centralità della scelta collaborativa il regime ostativo “prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario” (§ 8.1, II cpv., cons. dir.). La detenzione non ha questo scopo. Il legislatore può premiare una scelta collaborativa del detenuto, mentre non è consentita la “inflizione” (§ 8.1, V cpv.) di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante. Un concetto che taglia la testa ad ogni pretesa vetero-retribuzionista, spalancando le porte alla ragionevolezza, unico moderno portato – costituzionalmente ammissibile – della retribuzione: la gravità della pena deve essere proporzionale alla gravità del reato, pertanto, in fase di esecuzione, non può esistere una ulteriore “afflizione” per via di una scelta, quella di non collaborare, che non può porsi come antecedente fattuale di un trattamento peggiorativo ricollegato ad una presunzione, non altrimenti vincibile, di pericolosità. La scelta di non collaborare non può – di per sé – rappresentare il presupposto di un trattamento deteriore, proprio in ragione del fatto che non può imporsi al detenuto quello “scambio” avente finalità diverse (progressione investigativa) rispetto a quelle strettamente e costituzionalmente trattamentali.
3.1. Questo il secondo passaggio da evidenziare. Non un vero e proprio diritto al silenzio, che riguarda il processo, ma di certo la libertà di non collaborare, che deve essere riconosciuta in fase di esecuzione, senza alcuna distinzione. Ti premio se collabori, ma non ti posso sanzionare (rectius: affliggere) se non lo fai[5].
3.3. In terzo luogo, restando agli esiti, la Corte – ferma restando la sottolineatura della riferibilità della pronunzia alla sola frazione del trattamento rappresentata dal permesso premio – ha gioco facile nel dichiarare l’illegittimità costituzionale consequenziale, estendendo gli effetti della pronuncia dalla partecipazione/agevolazione alle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p. a tutti i reati previsti nel I c. dell’art. 4 bis o.p. Stiamo sempre parlando di richiesta di permesso, non di meno non sarebbe stato sostenibile abbattere la presunzione assoluta di pericolosità sociale per la partecipazione/agevolazione mafiosa e mantenerla in piedi ad es. per il peculato. La Corte non le manda a dire: se non intervenisse con una ablazione generalizzata si avrebbe una “paradossale disparità”, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali “possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza” (§ 12, VI cpv.). Parole cristalline: nell’elenco del I c. dell’art. 4 bis o.p. (che, secondo la Corte, è frutto di scelte di politica criminale “non sempre tra loro coordinate”) vi sono reati per i quali la collaborazione “è priva di giustificazione” per accedere ai benefici e non vi è niente da dimostrare riguardo all’attualità dei collegamenti…dato che il sodalizio non è mai esistito. Si colgono evidenti segnali di critica verso la eterogeneità dei reati raggruppati all’interno della disposizione di legge[6].
3.4. Infine, in quarto luogo. In tutta la motivazione della sentenza si ragiona solo di due funzioni della pena, entrambe speciali, una positiva, la risocializzazione, una negativa, prevenire la commissione di nuovi reati. Anche in questo caso, si percorre un sentiero già tracciato in precedenza, in particolare, anche se con toni più vistosi, nella 149/2018. Nella sentenza qui in commento ci si spinge a sostenere “il carattere necessario alla luce della Costituzione” (§ 9, XI cpv.) della funzione di prevenzione speciale negativa. Non vi è nulla sul punto da obiettare, se non qualche appunto rispetto alle conseguenze che la stessa Corte ne fa derivare.
4. Come abbiamo detto in apertura, la Corte dichiara sì incostituzionale – per come strutturata – la presunzione assoluta di pericolosità sociale oggetto di scrutinio, ma in motivazione (nell’intero § 9) e nel dispositivo scende in modo creativo sul terreno delle regole probatorie, finendo con il sostituire al precedente statuto regolativo – di cui afferma la contrarietà ai principi evocati dai giudici remittenti – un diverso criterio di ripartizione e, per il vero, di particolare peso dell’onere probatorio gravante sull’aspirante al permesso. La premessa logica di tale intervento additivo è chiara: non si nega la validità, sul piano delle massime di esperienza, di una presunzione semplice, correlata alla dimensione storico-sociologica del fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, tale qui da legittimare, sul fronte della attualità della pericolosità, una inversione delle ordinarie dinamiche dimostrative che porti alla acquisizione, a fini di superamento di detta presunzione, di “congrui e specifici elementi”[7]. Si richiede, al contempo, che la valutazione del giudice tenga conto delle possibili evoluzioni della personalità del soggetto ristretto, in ciò valorizzando non solo il percorso individuale e le eventuali mutazioni degli scenari esterni, ma soprattutto un fattore per nulla estraneo alle precedenti pronunzie della Corte sul tema generale della pericolosità: il tempo trascorso[8]. Rispetto a tale profilo la coerenza è massima: dato che in discussione vi è la partecipazione all’associazione mafiosa (da qui parte la Corte, “assorbendo” l’agevolazione); dato che, per valutare il superamento di ciò che resta una presunzione relativa, ossia l’attualità dei collegamenti, vi devono essere criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio; ebbene, dato questo, la Corte introduce un ulteriore criterio, oltre alla verifica della non attualità dei collegamenti, prevista sin dall’introduzione del regime ostativo.
Un nuovo necessario criterio, dice la Corte, perché derivante dalla Costituzione, che consiste nella necessaria esclusione – a fini concessori – del pericolo di ripristino dei collegamenti “tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Difficile non avvertire, sul punto, una qualche perplessità. Il giudice costituzionale indossa le vesti del legislatore, peraltro come se intendesse anticiparne eventuali interventi. Ma, al di là di tale – pur significativo – aspetto, ci si chiede quale sia la dimensione effettuale e concreta di simile peripezia probatoria, che tende a differenziare la prova di un “fatto” (presenza o meno di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata) dalla prova negativa (inesistenza) di un semplice pericolo. Evidente che, in tale dimensione, non soltanto si inverte legittimamente – sulla base della presunzione relativa – la dinamica probatoria (con onere di allegazione gravante sull’aspirante), ma si innova l’oggetto della prova, ossia la proposizione da provare. La modifica non è di poco momento, sia per il suo oggetto sia per l’ambito ove si colloca. Se è vero che ci si trova – pur sempre – nel campo delle valutazioni di pericolosità soggettiva (il permesso si nega per questo e la attualità dei collegamenti è antecedente logico di una perdurante pericolosità), è anche vero che siamo già nell’ambito di un giudizio prognostico che – per logica comune – contiene margini di preoccupante soggettivismo, ove non rigidamente basato sull’analisi delle pregresse condotte della persona, cui si unisce la considerazione dei possibili mutamenti (interni e di contesto) intervenuti medio tempore[9]. In simile scenario, la Corte tende a valorizzare, in chiave di rafforzamento della presunzione, il contenuto delle informazioni ricevute dalle autorità competenti affermando che, se le informazioni pervenute, in specie dal comitato ordine e sicurezza pubblica, depongono in senso negativo allora “incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno” (così si chiude il § 9). Non si tratta, dunque, esclusivamente di una diversa ripartizione dei pesi dimostrativi figlia della presunzione, quanto dell’adozione di un criterio dimostrativo che sembra ricollegare alla concessione del “semplice permesso” la constatazione (in funzione di riequilibrio della assenza di scelta collaborativa) da parte del giudice di un mutamento profondo della persona e del contesto, tale da escludere anche un semplice pericolo di riattivazione di contatti orientati alla manifestazione di pericolosità.
Probabilmente, non resta che attendere il diritto vivente e la elaborazione collettiva di canoni dimostrativi compatibili con la logica dimostrativa di fatti, anche se assunti quali meri indicatori del richiamato pericolo. Formuliamo solo due auspici. In primo luogo, l’adozione di forme procedimentali (e ritocchi ordinamentali) che, data la necessaria ampiezza delle attività cognitive da svolgersi, siano rispettosi del contraddittorio sulle particolari fonti informative valorizzate nella decisione della Corte. In secondo luogo, va detto che andrebbe meditata, in simile contesto, l’estensione di regole o principi che, tipici della cognizione, hanno una così sicura copertura costituzionale che meriterebbero di essere utilizzati anche altrove, appunto in sorveglianza, nei momenti cognitivi da cui dipenda il mantenimento di una forma di afflizione aggiuntiva. Non è certo estranea al tema dei giudizi di pericolosità, pur se governati da presunzioni relative, la necessità di andare oltre formule stereotipate, con apprezzamento in concreto del portato probatorio di elementi di fatto, lì dove ciò incida sulle aspirazioni al godimento di frammenti di libertà, il che rimanda a principi generali della valutazione della prova, sia pure modellati sul particolare oggetto da provare.
* Il testo rappresenta il frutto del dialogo che da molto tempo intercorre tra i due autori, senza possibilità di scinderne la responsabilità, che pertanto va attribuita ad entrambi. Una versione ridotta di questo scritto è in corso di pubblicazione per Quaderni Costituzionali.
[1] Il riferimento alla liberazione condizionale – che non è misura alternativa alla detenzione ma causa di estinzione della pena – è qui operato sul piano esclusivamente funzionale, ben consapevoli del fatto che il regime della ostatività deriva – in tal caso – da autonoma previsione di legge (l’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991) che estende a tale istituto lo statuto particolare di cui all’art. 4 bis o. p.
[2] Ci sarebbe molto da scrivere a questo proposito, non fosse altro perché il nostro ordinamento è ancora affollato di automatismi legislativi, che condividono con le presunzioni assolute la volontà di togliere il giudice dalla scena che invece per Costituzione gli spetta. E non pochi automatismi riguardano proprio la pena perpetua, la massima pena prevista nel nostro ordinamento. Per fare tre esempi: l’automatica perdita della potestà genitoriale per chi è condannato all’ergastolo, l’automatica libertà vigilata di cinque anni per l’ergastolano che ottiene la liberazione condizionale, l’imposizione dell’isolamento diurno, ancora una volta automatico, per chi è condannato per due o più delitti ciascuno punito con la pena perpetua. Ad ogni modo, è davvero innegabile che il sentiero ora percorso dalla sentenza 253/2019 assomiglia ad un’autostrada più che ad una viuzza.
[3] Parametro invocato da una delle parti private (il ricorrente in Cassazione) nell’atto di intervento, atto che tuttavia – come evidenziato in sentenza – non può determinare l’ampliamento dell’oggetto del giudizio incidentale, tramite addizione di un parametro di potenziale illegittimità non recepito nella ordinanza di rimessione.
[4] Vi sarebbero altre notazioni introduttive di particolare importanza, ma, per ragioni di spazio, non possiamo soffermarci. Solo quattro velocissime considerazioni: 1) l’ordinanza di rimessione della Cassazione è stata sollecitata da una penetrante requisitoria della Procura Generale, il che valorizza anche il senso del contraddittorio in sede di legittimità; 2) nelle more delle due decisioni, prima di Strasburgo e ora della Consulta, la dottrina ha “affiancato” i giudici, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione (amicus curiae, libri, articoli, convegni); 3) la Corte evidenzia come ad essere tecnicamente rilevante è la restrizione del potere valutativo del giudice, che nei casi portati a scrutinio non può soppesare le ragioni della scelta di non prestare collaborazione, in quanto basata sul mero titolo di reato, confermando che in tali casi la rilevanza della questione deriva, di per sé, dalla eventuale rimozione del limite valutativo, al di là della concreta utilità di cui le parti potrebbero beneficiare in caso di accoglimento della quaestio ; 4) non possiamo non evidenziare che il legislatore tende, di recente, a percorrere sentieri ben diversi – quanto alla sottostante considerazione dei principi fondamentali in gioco –, e ciò non tanto nelle uscite pubbliche da parte di alcuni esponenti politici quanto nelle leggi approvate. A nulla sono serviti gli appelli alla cautela: nel momento in cui il legislatore ha esteso il regime ostativo di prima fascia ad una ennesima serie di altre fattispecie, questa volta in materia di reati contro la pubblica amministrazione, erano già pendenti a Strasburgo e alla Consulta il caso Viola e il caso Cannizzaro. La divaricazione tra gli approdi delle Corti – in punto di ragionevolezza e valorizzazione degli obiettivi rieducativi – e la rincorsa verso l’idea di “fissità” della pena è del tutto evidente e non può non destare preoccupazione, quantomeno tra i giuristi.
[5] Solo un piccolo appunto. La Corte – pur se in aderenza alla descritta dimensione della rilevanza della quaestio in termini di idoneità alla mera rimozione del limite valutativo – non approfondisce i motivi che possono spingere una persona a non collaborare con la giustizia. Ne indica solo due, ma senza approfondire: “un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi, ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati” (§ 8.1, XII cpv.). Sul punto è comprensibile il self restraint della Corte, che peraltro non manca di evidenziare che la presunzione assoluta impedisce al giudice valutare ogni cosa, comprese le ragioni della mancata collaborazione. Non di meno, qualche parola in più sarebbe stata utile. Quel che la Corte non dice è bene comunque ricordarlo: non sempre, ma in molti casi la non collaborazione dipende dalla paura di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei famigliari. Di certo vi è una cosa: se esiste il diritto al silenzio (rectius, la libertà di non collaborare), ogni motivo dietro a questo diritto-libertà potrà ora essere valutato dal giudice. E da questo punto di vista l’esperienza insegna che uno dei problemi principali non è tanto la denuncia a carico di terzi (in fin dei conti, questo significa collaborare) e nemmeno il rischio di autoincriminazioni per fatti non ancora giudicati (in questi casi, in effetti, la chiamata in correità può determinare la “uscita” dal regime ostativo), quanto la paura che genera la scelta di collaborare.
[6] Pende, sul tema, questione relativa all’avvenuto inserimento del reato di peculato nel catalogo di cui all’art.4 bis I c., sollevata dalla Corte di Cassazione (ord. n. 31853 del 2019). Così come la sentenza n. 253 ha pesato rispetto alla successiva n. 263, che ha dichiarato incostituzionale l’estensione del regime ostativo ai minori, allo stesso modo avrà un indubbio rilievo in riferimento alla giurisprudenza successiva riguardante il regime ostativo, sul versante – di certo diverso ma affine – della ragionevolezza della selezione delle fattispecie cui attribuire un effetto di “accentuata pericolosità” dell’autore.
[7] In tale assetto si intravede convergenza con recenti arresti dell’organo nomofilattico in tema di prevenzione personale (Cass. Sez. Un. 2018, Gattuso), lì dove, pur nella rilevante promozione e stabilizzazione di un approccio teso alla individualizzazione e alla necessaria espressione di motivazione in positivo sulla attualità della pericolosità, si riafferma la constatazione di una generale tendenza alla stabilità di simili vincoli relazionali.
[8] Pur non espressamente citata, è d’obbligo il riferimento alla decisione n. 291 del 2013, con cui la Corte ha parificato la disciplina delle misure di prevenzione – rimaste sospese per esecuzione della pena – e misure di sicurezza personali, con rivalutazione obbligatoria anche per le prime della attualità della pericolosità al momento della postergata esecuzione, osservando che “… già il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato…”.
[9] Su tali temi, riafferma il fondamento logico e la natura bifasica dei giudizi prognostici di pericolosità soggettiva la stessa Corte Costituzionale, in tema di prevenzione, nella recente sentenza n. 24 del 2019.
L’immunità giurisdizionale ristretta degli Stati ed il rapporto di lavoro dipendente (in margine a Cass. Sez. U. 27/12/2019, n. 34474) di Franco De Stefano, Consigliere della Corte suprema di cassazione
Sommario: 1. Inquadramento del problema. - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite. - 3. La soluzione delle Sezioni Unite. - 4. L’immunità giurisdizionale degli Stati. - 5. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento del problema.
Le Sezioni Unite tornano sulla giurisdizione in materia di rapporto di lavoro del dipendente di uno Stato estero, ribadendo il principio generale della c.d. immunità ristretta e quindi ammettendo la giurisdizione dello Stato ove si svolge quel rapporto (c.d. Stato del foro), ma soltanto per i profili che non involgono l’esercizio di potestà in senso lato pubblicistiche: e, cioè, per gli aspetti sostanzialmente patrimoniali, ma non anche per quelli di reintegrazione o variamente ricondotti, nella loro impostazione originaria, ad un sistema imperniato sulla tutela del posto di lavoro non soltanto obbligatoria.
Il tema conserva la sua attualità, nonostante l’evoluzione del sistema nazionale, ormai incentrato sull’istituto dei contratti a tutela crescente e quindi caratterizzato anch’esso dal sensibile ridimensionamento delle differenze tra le ricadute applicative delle due opzioni legislative, per essere grandemente ridotto anche a favore del dipendente di un datore di lavoro nazionale il cumulo dei rimedi apprestati.
Infatti, l’ambito delle potestà pubblicistiche direttamente coinvolte consente ancora oggi di ritagliare un nucleo comunque di ampiezza sensibile di controversie sottratte alla giurisdizione del giudice ove deve svolgersi il rapporto di lavoro; mentre riveste sicuro interesse anche la delineazione, all’attualità, dell’ambito di estrinsecazione degli acta iure imperii, che si intreccia con la tematica della persistenza o meno dei limiti all’immunità – sempre più coerentemente ricostruita come prerogativa e non come diritto dello Stato – in caso di delicta imperii.
2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.
La fattispecie esaminata dalla sentenza in rassegna riguarda il licenziamento di una lavoratrice impiegata presso il Consolato dello Stato del Perù in Firenze, intimatole per giusta causa nell’agosto del 2009, consistente nella condotta violenta tenuta nei confronti di una collega e, in particolare, per averla minacciata, strattonata e colpita ad un braccio.
I giudici di merito avevano negato l’ammissibilità della produzione di documenti coperti dalla garanzia diplomatica dell’inviolabilità, ma comunque escluso l’attribuibilità alla ricorrente della lite con un collega di gravità tale da giustificare la sanzione, così condannando il convenuto Consolato al pagamento di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (ai sensi dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), al contempo dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda di reintegrazione proposta ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (nel testo anteriore anche alla prima delle più recenti riforme e, cioè, di quella di cui alla legge 28 giugno 2012, n. 92).
Il ricorso per cassazione della lavoratrice ha invocato: la disciplina internazionale sulle relazioni consolari ed in particolare gli artt. 33 e 61 della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 (ratificata in Italia con legge 9 agosto 1967, n. 804), in merito all’utilizzo di alcuni documenti prodotti dalla lavoratrice, ma ritenuti protetti dall’inviolabilità dell’archivio consolare, nonostante la loro acquisizione formale all’esito di un regolare procedimento amministrativo e comunque la loro attinenza ad un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente estraneità all’estrinsecazione della sovranità dello Stato estero; la configurabilità della prestazione di un consenso almeno implicito da parte di quest’ultimo alla giurisdizione italiana; il principio della c.d. immunità ristretta dello Stato estero, che appunto esclude l’operatività dell’immunità quando gli atti compiuti dai soggetti internazionali stranieri nell’ordinamento locale non siano riconducibili all’esercizio di poteri sovrani, ma rientrino nell’esercizio dello ius privatorum.
Ha riguardato invece l’applicazione delle norme sulla notificazione del ricorso introduttivo e l’accertamento dell’insussistenza della condotta integrante il presupposto per l’irrogato licenziamento il ricorso incidentale del Consolato del Perù in Firenze.
3. La soluzione delle Sezioni Unite.
La sentenza 27/12/2019, n. 34474, ha disatteso tutti i motivi di entrambi i ricorsi, rigettando nel merito il terzo di quello principale, sull’estensione della c.d. immunità ristretta.
In particolare, essa ha escluso l’ammissibilità del motivo sui documenti la cui produzione è stata reputata inammissibile in quanto protetti dall’inviolabilità degli archivi consolari, poiché in ricorso non ne era stato trascritto il testo, non ne erano stati riportati o riassunti i passi significativi, nonostante fosse indispensabile, per valutare la correttezza del giudizio espresso dai giudici del merito, conoscerne appunto il contenuto: ed è stato quindi ritenuto precluso l’accesso diretto agli atti del giudizio di merito e, di conseguenza, non rispettato l’art. 366, n. 4, cod. proc. civ. per genericità del mezzo di censura dovuta all’impossibilità di valutare, in base al testo dell’atto di impugnazione, la decisività probatoria ai fini della qualificazione del licenziamento come ingiurioso e diffamatorio.
Ancora, è stata esclusa l’ammissibilità del motivo sull’omesso esame dei documenti da cui desumere invece l’accettazione della giurisdizione italiana da parte dello Stato del Perù, in difetto di indicazioni, in ricorso, di quale fatto principale o secondario, avente carattere decisivo, non sarebbe stato esaminato dalla Corte territoriale, o di specificazione dei termini, atti e relativi momenti o sedi processuali di allegazione e prova dell’esistenza tra le parti di un contratto o dichiarazione espressa dinanzi al Tribunale o una comunicazione scritta con la quale, a norma dell’art. 7 della Convenzione di New York del 2 dicembre 2004, lo Stato del Perù avrebbe espresso il consenso all’esercizio della giurisdizione italiana in senso derogatorio rispetto a quanto previsto dall’art. 11, § 2 della medesima Convenzione.
È stato invece respinto nel merito il terzo motivo del ricorso principale, con riaffermazione delle conclusioni della precedente giurisprudenza di legittimità[1] in punto di inoperatività del principio internazionalistico dell’immunità assoluta - par in parem non habet iudicium (il quale, in altre fonti, è indicato nella versione par in parem non habet imperium[2]) - soltanto per quei rapporti non riconducibili all’esercizio di poteri sovrani dello Stato estero (c.d. immunità ristretta): conclusione che, all’esito di un ampio excursus, è riconosciuta come codificata appunto dalla appena richiamata Convenzione di New York e, comunque, operante nel nostro ordinamento quale norma internazionale consuetudinaria[3] ed alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, richiamata sul punto Corte EDU 18/01/2011, Guadagnino c/ Italia, che ha precisato che le limitazioni all’assoggettamento degli Stati alla giurisdizione del Paese dove il rapporto è sorto e si è svolto si conciliano con l’art. 6 § 1 CEDU solo quando perseguono un fine legittimo ed in presenza di un rapporto ragionevole e proporzionato tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.
In base a tali principi è stata ammessa la giurisdizione del giudice del luogo dove il rapporto di lavoro si svolge per quanto riguarda i profili patrimoniali, ma non per quelli relativi alla reintegrazione nel posto di lavoro, investendo detta pretesa in via diretta l’esercizio di poteri pubblicistici dell’ente straniero[4]: ed infatti in tali casi l’esame sulla fondatezza della domanda del lavoratore comporterebbe apprezzamenti, indagini o statuizioni che possono incidere o interferire su atti o comportamenti dello Stato estero (o di un ente pubblico attraverso il quale lo Stato estero operi per perseguire anche in via indiretta le proprie finalità istituzionali), espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione[5].
Infine, i due motivi di ricorso incidentale sono stati disattesi: quello in tema di pretesa inesistenza della notificazione, alla stregua della giurisprudenza ormai consolidatasi sul punto e che confina tale qualificazione ad ipotesi estreme (Cass. Sez. U. 14916/16), qui evidentemente non ricorrenti; quello in tema di apprezzamento delle prove, per l’inammissibilità di una tale censura in sede di legittimità, soprattutto dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimità (fin da Cass. Sez. U. 8053/14).
4. L’immunità giurisdizionale degli Stati.
La soluzione delle Sezioni Unite si pone dichiaratamente nel solco della costante interpretazione giurisprudenziale del moderato temperamento del principio par in parem non habet imperium quale risulta dalla Convenzione del 2 dicembre 2004 delle Nazioni Unite (Convenzione di New York) in tema di immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni, ratificata dall’Italia con legge 14 gennaio 2013, n. 5.
È questa la regola tradizionale, vale a dire dell’assoluta immunità di uno Stato sovrano dinanzi agli organi di un altro Stato, in quanto tali ciascuna superiorem non recognoscentes: uno Stato non può essere sottoposto alla giurisdizione di un altro Stato se non col suo consenso, solo a questo potendo ricondursi l’assoggettamento che gliene deriverebbe all’autorità o sovranità dell’altro.
L’evoluzione, quasi di pari passo con la globalizzazione e l’intensificazione dei legami e soprattutto degli scambi tra gli individui di diversa nazionalità, ma non ultima la partecipazione crescente degli Stati ad attività imprenditoriali uti privati che trascendono i confini nazionali tradizionalmente intesi, è stata da tempo nel senso del temperamento di tale principio.
Soprattutto grazie alla giurisprudenza (e, occorre riconoscerlo, con grande merito di quella nazionale italiana, dimostratasi assai sensibile al tema), è stata elaborata la distinzione tra gli acta iure imperii e quelli iure gestionis, quanto ai secondi assoggettando alla giurisdizione del Foro gli Stati esteri, poiché in relazione ad essi non viene appunto coinvolta l’estrinsecazione della sovranità statuale.
In definitiva, si è assistito ad un tendenziale allargamento delle eccezioni all’immunità, come nel caso delle controversie in materia di responsabilità extra-contrattuale e, soprattutto, quelle in materia di lavoro e, ora, di gravi violazioni di diritti umani; e la ricca tematica è stata anzi trasfusa nella richiamata Convenzione delle Nazioni Unite.
La Convenzione non è ancora entrata in vigore, perché non ha raggiunto il numero di firme e di adesioni necessario[6], ma i suoi principi fondamentali sono riconosciuti, se non altro dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo[7] e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[8], come norme di diritto consuetudinario internazionale cogenti e, a vario titolo, direttamente applicabili negli ordinamenti interni dei singoli Stati; e non è questa la sede per l’esame delle critiche anche severe mosse a tale impostazione[9]: infatti, la giurisprudenza di legittimità si fonda sul presupposto dell’imperatività di tale conclusione e, comunque, finisce con l’applicare appunto i postulati che ne derivano alle controversie tra lavoratori e Stati esteri datori[10].
La concreta delimitazione si sposta, quasi un confine mobile, allora nell’individuazione del discrimine tra gli atti iure imperii e quelli iure gestionis, poiché, appunto, è talvolta complicato individuare la linea di demarcazione tra l’estrinsecazione diretta della sovranità dello Stato e la mera condotta a titolo di soggetto privato, a cominciare dal criterio da seguire e, quindi, ad esempio, dalla natura dell’atto o dallo scopo perseguito.
Nella dottrina internazionalistica è tradizionale la definizione per la quale i primi sono quelli attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali ed i secondi quelli – anche detti iure privatorum – aventi carattere privatistico[11]; come tradizionale è il riconoscimento delle difficoltà ed incertezze interpretative indotte dalla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, oltretutto sensibilmente diverse nei differenti ordinamenti.
La stessa Convenzione del 2004 adotta quale criterio prioritario quello della natura del contratto o della “transazione”, ma lo combina con quello dell’obiettivo o scopo comune, se reso oggetto dell’uno o dell’altra ed ove, nella prassi dello Stato del foro, l’obiettivo è pertinente per determinare la natura commerciale o meno del contratto o della transazione.
La distinzione è ancora più complessa, almeno in linea di principio, per il rapporto di lavoro, in ordine al quale, di norma, la natura privatistica è spesso chiara, ma permangono poteri autoritativi datoriali di tipo organizzativo o disciplinare, tra cui quelli di destinare a determinate mansioni il lavoratore in rapporto alle esigenze organizzative proprie e di risolvere il rapporto con il licenziamento.
Anche in tal caso la Convenzione di New York adotta il principio generale e considera le relative eccezioni: il primo è, a sua volta, una deroga a quello vigente in materia di immunità, poiché l’art. 11 stabilisce – al suo primo paragrafo o comma – che, ovviamente se gli Stati interessati non convengano diversamente, uno Stato non può invocare l’immunità giurisdizionale davanti a un tribunale di un altro Stato, competente in materia, in un procedimento concernente un contratto di lavoro tra lo Stato e una persona fisica per un lavoro eseguito o da eseguirsi, interamente o in parte, sul territorio dell’altro Stato.
Il paragrafo o comma successivo eccettua dal principio appena enunciato, ripristinando quindi la regola tradizionale dell’immunità:
- le azioni relative a rapporti aventi ad oggetto funzioni particolari nell’esercizio del potere pubblico,
- le controversie relative all’assunzione, alla proroga del rapporto di lavoro o alla reintegrazione di un lavoratore,
- le domande di licenziamento o risoluzione del rapporto se, a discrezionale valutazione del Governo dello Stato datore di lavoro, l’azione rischia di interferire con gli interessi dello Stato in materia di sicurezza,
- le azioni relative a lavoratori che siano anche cittadini dello Stato datore di lavoro nel momento in cui l’azione è avviata, sempre che non abbiano la residenza permanente nello Stato del foro.
In un intricato rapporto di regole ed eccezioni, la giurisdizione dello Stato del foro torna a sussistere comunque ove lo Stato datore la abbia comunque accettata o abbia altrimenti rinunciato a far valere l’immunità.
In estrema sintesi, la regola è generalmente interpretata nel senso che ogni aspetto meramente patrimoniale del rapporto di lavoro può essere sicuramente dedotto in giudizio davanti al giudice dello Stato del foro, cioè di quello ove il rapporto di lavoro deve in tutto o in parte svolgersi, tutte le volte che la ricostruzione del rapporto da un punto di vista economico non comporta in alcun modo apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dell’ente pubblico estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione[12].
Al contrario, è esclusa la giurisdizione dello Stato del foro (cioè di dove si svolge in tutto o in parte il rapporto di lavoro) quando la pronuncia richiesta implichi una valutazione del comportamento datoriale nell’organizzazione dell’ufficio, così interferendo sugli atti o comportamenti dell’ente attraverso il quale lo Stato estero persegue, anche se in via indiretta, le sue finalità istituzionali, espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.
Pertanto, ai fini dell’esenzione dalla giurisdizione del giudice italiano, in applicazione del principio consuetudinario di diritto internazionale dell’immunità ristretta, è necessario che l’esame della fondatezza della domanda del prestatore di lavoro non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione[13].
Costituisce un corpus a sé stante, caratterizzato da una spiccata specialità eppure ispirato all’esenzione dall’immunità, la disciplina del personale civile della NATO[14]: che anche la nostra giurisprudenza[15], confortata dalla dottrina in considerazione della finalizzazione delle relative convenzioni alla tutela del personale militare dello Stato inviante, interpreta nel senso che le condizioni di impiego e di lavoro delle persone assunte per i bisogni locali di manodopera - in particolare per quanto riguarda il salario, gli accessori e le condizioni di protezione dei lavoratori - al fine del soddisfacimento di esigenze materiali (cosiddetto personale a statuto locale), sono regolate conformemente alla legislazione in vigore nello Stato di soggiorno.
5. Qualche considerazione conclusiva.
Certamente, molto è stato fatto nel meritorio tentativo di tutelare i diritti coinvolti dai rapporti di lavoro dipendente, atteso l’impatto su valori in gioco considerati oggi di importanza fondamentale anche dalla dottrina internazionalistica[16]; e va accolta con favore quindi la tendenza ad applicare l’esenzione dalla giurisdizione del foro alle domande per gli aspetti patrimoniali.
In attesa dell’entrata in vigore della Convenzione di New York, alla quale manca ancora la firma o l’adesione di almeno due Paesi membri, va riconosciuto però che inevitabilmente anche questa rinvia all’interpretazione dello Stato del foro e, quindi, forse si aprono nuovi spazi per l’estensione della tutela del lavoratore in Italia, a prescindere dalla natura pubblica estera del datore di lavoro, o quanto meno per un’equiparazione delle discipline.
Si vuol dire che l’evoluzione recente della normativa del rapporto di lavoro, imperniata negli ultimi decenni sull’abbandono progressivo del sistema della tutela c.d. reale o se non altro sull’accentuazione della centralità di un sistema di monetizzazione degli inadempimenti datoriali e di forfetizzazione dei relativi costi (o dei contratti a tutele crescenti), può avere almeno l’effetto positivo di “patrimonializzare” gli aspetti più importanti del rapporto di lavoro e di riscoprire, tranne le sole sicure eccezioni consuetudinarie internazionali dei rapporti pubblicistici in senso stretto, una generalizzata tutela di tutti i dipendenti degli Stati esteri in Italia.
Ma, a stretto rigore, è la stessa interpretazione della limitazione dell’immunità, correlata ai soli aspetti patrimoniali, ad essere stata timida e forse ingiustificatamente restrittiva a danno del lavoratore, probabilmente influenzata dalla difficoltà di estendere ad ordinamenti stranieri un regime particolarmente sfavorevole al datore, quale era quello anteriore alle ultime riforme e significativamente in concreto invocato proprio nel caso deciso con la sentenza in rassegna: ciò che giustifica, con ogni probabilità, la scelta delle Sezioni Unite di porsi in linea di continuità con la giurisprudenza tradizionale e di confermare la declinatoria di giurisdizione sulla domanda di reintegrazione.
Eppure, limitare la giurisdizione dello Stato del foro ai soli aspetti patrimoniali del rapporto di lavoro potrebbe voler dire lasciarsi condizionare dalla distorsione in chiave pubblicistica di sovranità degli ordinari poteri di autoorganizzazione e di disciplina normalmente facenti capo a qualunque datore di lavoro e, in Italia, oramai anche a quello pubblico, con le sole eccezioni derivanti dalla peculiare natura del rapporto (militari, magistrati, ambasciatori, prefetti e simili).
Non è questa la sede per una compiuta disamina dell’ammissibilità astratta delle domande di condanna del datore ad un facere infungibile, visto che generalmente l’infungibilità si ritiene riguardare soltanto il momento della concreta tutela esecutiva, la cui carenza è oltretutto compensata oggi dallo strumento di coercizione indiretta di cui all’art. 614 bis cod. proc. civ.[17].
La via può essere quella di confinare in limiti sempre più ristretti, coerentemente del resto all’evoluzione nazionale in tema di pubblico impiego e di sua assimilazione a quello privato, l’ambito entro il quale ritenere estrinsecato un potere che sia diretta emanazione della sovranità; e tanto ritenendo che, allorquando lo Stato estero si induca, sul territorio dello Stato del foro, a porre in essere un rapporto di lavoro, accetta per ciò stesso l’applicazione al medesimo delle regole in vigore in quel luogo, non spingendosi, anche nell’elaborazione internazionalistica, neppure l’immunità dei luoghi ed immobili delle ambasciate o enti equiparati fino ad una autentica nozione di extraterritorialità, sola – in teoria – idonea ad escludere anche formalmente che il rapporto di lavoro si svolga non solo con uno Stato estero, ma anzi all’estero perché in luogo equiparabile al territorio di quello.
L’accettazione della legislazione dello Stato del foro anche per gli aspetti non strettamente patrimoniali avverrebbe quindi in ragione della natura del rapporto di lavoro e quella legislazione dovrebbe trovare applicazione integralmente, compresi gli istituti a tutela e garanzia dei diritti dei lavoratori, nessuno escluso: non può, cioè, sostenersi che l’esercizio della sovranità sussiste solo quando si decide di assumere e di destinare a determinate funzioni o mansioni il lavoratore locale o quando si dovrebbe riassumere o riadibire il lavoratore alle precedenti incombenze perché malamente lo si è licenziato o demansionato.
Pertanto, discrezionalmente determinatesi a porre in essere un rapporto di lavoro di diritto comune nello Stato in cui deve in tutto o in parte svolgersi la prestazione, le autorità dello Stato datore dovrebbero soggiacere in tutto e per tutto alle leggi di quello Stato e a quel diritto comune come ivi vigente, poiché esse hanno, fin dal momento della costituzione di quel rapporto, liberamente autolimitato appunto le proprie prerogative sovrane. Del resto, ove venisse in via dirimente in considerazione la natura pubblicistica speciale del rapporto, nulla vieterebbe di inserire una clausola specifica nel relativo contratto, oppure di applicarvi le sole eccezioni previste dalla prassi interpretativa del foro, oppure ancora, in estrema ipotesi, di ricorrere alla dichiarazione del Governo dello Stato datore di pregiudizio per la sua sicurezza.
I tempi sono allora forse maturi almeno per una rimeditazione della tralaticia limitazione dell’esenzione dall’immunità e per cogliere l’occasione delle riforme del diritto del lavoro in Italia, generalmente interpretate come una rimodulazione in minus della tutela dei lavoratori, per esaltarne la tendenza espansiva a tutti i rapporti di lavoro degli individui residenti con gli Stati esteri non connotati dall’esercizio di funzioni statali indefettibili e conseguirne una equiparazione con quelli interamente nazionali.
Non sarebbe la prima volta che la giurisprudenza italiana si fa alfiere di opzioni interpretative di valenza internazionalistica di particolare attenzione per la tutela dei diritti fondamentali[18], tra cui vanno annoverati ancora quelli del lavoratore, soprattutto quando è dipendente.
MINIME NOTE BIBLIOGRAFICHE
La letteratura in tema di immunità giurisdizionale degli Stati esteri è sterminata.
A parte le trattazioni istituzionali (per tutte, v. B. Conforti, Diritto internazionale, XI ed., Napoli 2018, soprattutto pp. 272 ss.; M. Frulli, Immunità [dir. int.], in diritto on line 2013, all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/immunita-dir-int_(Diritto-on-line)/ ultimo accesso in data 25/01/2020), ricchissimi riferimenti si trovano, tra molti altri, nei seguenti contributi:
G. De Marzo, Immunità giurisdizionale e diritti fondamentali, in www.giustiziainsieme.it, dal 27/01/2020; P. Rossi, Controversie di lavoro e immunità degli stati esteri: tra codificazione e sviluppo del diritto consuetudinario, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 1 (marzo 2019), pag. 5; S. Vezzani, Sul diniego delle immunità dalla giurisdizione di cognizione ed esecutiva a titolo di contromisura, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 2014, pag. 36; R. Nigro, Immunità degli stati esteri e diritto di accesso al giudice: un nuovo approccio nel diritto internazionale?, in Riv. dir. internaz., fasc. 3, 2013, pag. 812; S. Migliorini, Immunità dalla giurisdizione e regolamento (ce) 44/2001: riflessioni a partire dalla sentenza Mahamdia, in Riv. dir. internaz., fasc. 4, 2012, pag. 1089; M. Porcelluzzi, Nulla è più come prima: la responsabilità degli Stati esteri per crimini internazionali nel foro civile italiano, in Riv. comm. internaz., fasc. 1, 2018, pag. 245 (in nota a Cass. civ., 13 gennaio 2017, n. 762, sez. un.); M. Di Marzio, Il regime di «immunità reale» degli immobili del Vaticano e la giurisdizione del giudice italiano, in www.Ilprocessocivile.it, 30/04/2018, in nota a Trib. Roma, 18/09/2017, n. 17660, sez. VI; F. Franceschelli, Una bussola per orientarsi nella materia della immunità giurisdizionale degli Stati - A Possible Guidance in the Matter of Immunity from the Jurisdiction of National Courts Enjoyed by States, in Cass. pen., fasc. 11, 2016, pag. 4254B, in nota a Cass. pen., 14/09/2015, n. 43696, sez. I; M. Porcelluzzi, Le Sezioni Unite e i limiti al risarcimento per crimini internazionali: il caso Flatow, in Dir. comm. internaz., fasc. 3, 2016, pag. 790, in nota a Cass. civ., 28/10/2015, n. 21946, sez. un.; G. Marino, Differenze retributive dell’impiegato consolare: il giudice italiano non ha giurisdizione, in Dir. e giust., fasc. 1, 2014, pag. 91, in nota a Cass. civ., 27/10/2014, n. 22744, sez. un.; R. Botta, La giurisdizione sui rapporti di lavoro negli “enti gestiti direttamente dalla Santa Sede”, in Giur. it., 2018, fasc. 3, p. 675 (in nota a Cass. S.U. 21541/17); S. Scarpa, Immunità dello Stato straniero, licenziamento e discriminazione della lavoratrice, in Giur. it., 2017, fasc. 12, p. 2706 (in nota a Cass. S.U. 13980/17).
[1] Soprattutto Cass. Sez. U. 06/06/2017, n. 13980, ma pure: Cass. Sez. U. 09/01/2007, n. 118; Cass. Sez. U. ord. 18/06/2010, n. 14703; Cass. Sez. U. ord. 26/01/2011, n. 1774; Cass. Sez. U. ord. 27/02/2017, n. 4882; Cass. Sez. U. 08/03/2019, n. 6884.
[2] Per tutti, v. M. Frulli, Immunità [dir. int.], in Diritto on line Treccani, all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/immunita-dir-int_(Diritto-on-line)/ (ultimo accesso 27/01/2020)
[3] Sulla valenza delle norme consuetudinarie internazionali, v. per tutti B. Conforti, Diritto internazionale, XI ed., Napoli 2018, pp. 352 ss. Fondamentale è sul punto la celeberrima Corte cost. 238 del 2014, in tema anche di cc.dd. controlimiti e relativa, significativamente, ad una controversia civile per risarcimento di danni arrecati da uno Stato estero per atti qualificabili delicta imperii, in Foro it., 2015, I, 1152, con note di Palmieri e Sandulli; in Dir. uomo, 2014, 445, con note di Bernardini, Caponi, De Sena, Di Bernardini, Ventrella, Zoppo, in Cass. pen., 2016, 4253, con nota di Franceschelli, in Giusto processo civ., 2016, 719, con nota di Perlingieri; si vedano anche i contributi, riuniti sotto il titolo I diritti fondamentali tra obblighi internazionali e costituzione, di F. Buffa, Introduzione; Senese, Corte costituzionale e sovranità; Silvestri, Sovranità vs diritti fondamentali; E. Lupo, I contro limiti per la prima volta rivolti verso una sentenza della corte internazionale di giustizia; Colacino, La conferma della regola attraverso l'eccezione? Immunità statale ed esercizio della giurisdizione sui «crimina» iure imperii secondo corte costituzionale n. 238/2014; Lamarque, La corte costituzionale ha voluto dimostrare di sapere anche mordere; Luciani, I contro limiti e l'eterogenesi dei fini; Girelli, Alla ricerca di un'applicazione condivisa dell'immunità degli stati dalla giurisdizione; Marini, I conflitti fra Italia e Germania tra corte costituzionale, corte internazionale di giustizia e consiglio di sicurezza, in Questione giustizia, 2015, fasc. 1, 45; Chiusolo, Immunità giurisdizionale e diritti inviolabili: una nuova frontiera per la «giuristocrazia»?, in Rass. parlamentare, 2015, 379.
Alla sentenza 238/14 della Consulta si richiamano espressamente non poche pronunce di legittimità, l’ultima delle quali consta essere Cass. 03/09/2019, n. 21995.
[4] La stessa pronuncia in rassegna ricorda il caso di Cass. Sez. U. n. 9034/2014 (che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazione alla domanda di una dipendente dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, avente ad oggetto l’accertamento della nullità del licenziamento con conseguente richiesta di condanna dell’Ambasciata alla sua reintegra immediata, ritenendo che l’ipotesi in esame rientrasse nell’eccezione prevista dalla lettera c) del § 2 dell’art. 11 della Convenzione di New York del “reinserimento di un candidato” - «il testo inglese parla di “reinstatement of an individual” e la sentenza “Guadagnino” parla espressamente di “reintegro”, v. par. 71»-, con la conseguenza che in base ai principi sopra richiamati, anche alla luce del diritto consuetudinario internazionale evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella fattispecie doveva applicarsi l’immunità giurisdizionale della Ambasciata convenuta), nonché quello di Cass. Sez. U. 18/9/2014, n. 19674, che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda proposta da una dipendente dell’Académie de France - in forza dell’eccezione di cui al cit. art. 11, par. 2, lett. c), della Convenzione, che esclude la giurisdizione nei confronti dello Stato estero e degli enti pubblici ad esso riferibili quanto al «reinserimento» - «reinstatement» - del dipendente - limitatamente alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro - L. n. 300 del 970, art. 18), come pure quello di Cass. Sez. U. ord. 22/12/2016, n. 26661 [in cui si è ribadito che, ai sensi dell’art. 11, par. 2, lett. c), della citata Convenzione, sussiste l’immunità giurisdizionale ove l’azione abbia ad oggetto, tra l’altro, «il reinserimento» di un lavoratore, senza che possa essere invocato il disposto del successivo art. 11, par. 2, lett. f), che, nel consentire la devoluzione, convenzionale, alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero e, dunque, con ampliamento dell’immunità giurisdizionale, non può essere interpretato nel senso - inverso - di introdurre una generale derogabilità, convenzionale, all’immunità medesima], nonché infine quello della già citata pronuncia n. 13980/2017.
[5] Cass. Sez. U. ord. 17/01/2007, n. 880; Cass. Sez. U. 10/7/2006 nn. 15620, 15626 e 15628; Cass. Sez. U. 18/12/1998, n. 12704; Cass. Sez. U. ord. 11/07/2019, n. 18661, che ha ricondotto a pretesa meramente patrimoniale anche la domanda del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
[6] Allo stato, ventotto, sui trenta invece necessari; i dati sono disponibili on line all’URL https://treaties.un.org/Pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=III-13&chapter=3&clang=_en
[7] Si vedano, tra le altre, le sentenze della Corte EDU: 05/02/2019 (def. 05/05/2019), sez. 3, Ndayegamiye-Mpomarazina c. Svizzera, in causa n. 16874/12; 25/10/2016 (def. 25/01/2017), sez. 2, Radunovic e aa. c/ Montenegro (cause nn. 45197/13, 53000/13 e 73404/13); Cudak c/ Lituania ([GC], no. 15869/02, §§ 25-33, ECHR 2010; 29/06/2011, Grande Camera, Sabeh El Leil c/ France, in causa 34869/05, § 48; 18/06/2011, Guadagnino c/ Italia e Francia, sez. 2, in causa n. 2555/03.
[8] Il riferimento è a Corte giust. Unione europea, GC, 19/07/2012 in causa C-154/11, Mahamdia c/ Rep. algerina democratica e popolare, soprattutto punti 54 e ss. (richiamata, tra le ultime, nelle concl. Avv. Gen. 14/01/2020 in causa C-641/18 LG c/RINA spa ed Ente Registro Italiano Navale, domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Genova). Analogamente, Corte giust. sez. 3, 23/10/2014 in causa C-320/13 (flyLAL-Lithuanian Airlines AS in liq.ne c/ Starptautiska lidosta Riga VAS, Air Baltic Corporation AS) ricorda che, sebbene talune controversie tra un’autorità pubblica e un soggetto di diritto privato possano rientrare nella nozione di materia civile commerciale, la situazione è diversa qualora l’autorità pubblica agisca nell’esercizio della sua potestà d’imperio (richiamando i suoi precedenti CGUE Sapir e a., EU:C:2013:228, punto 33 e giurisprudenza ivi citata, nonché CGUE Sunico e a., EU:C:2013:545, punto 34 e giurisprudenza ivi citata): infatti, la manifestazione di prerogative dei pubblici poteri di una delle parti della controversia, in virtù dell’esercizio da parte di questa di poteri che esorbitano dalla sfera delle norme applicabili ai rapporti tra privati, esclude una simile controversia dalla materia civile e commerciale ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Regolamento (CE) n. 44/2001 (già CGUE, Apostolides, EU:C:2009:271, punto 44 e giurisprudenza ivi citata).
[9] V. le note bibliografiche in appendice e, comunque, tra gli ultimi P. Rossi, Controversie di lavoro e immunità degli stati esteri: tra codificazione e sviluppo del diritto consuetudinario, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 1 (marzo 2019), pag. 5, ove completi ulteriori riferimenti.
[10] Agli stati stranieri sono stati equiparati taluni enti extraterritoriali quali, tra gli altri, il Sovrano Militare Ordine di Malta (Cass. Sez. U. n. 5/2007), l’Istituto Studi di Bari (Cass. Sez. U., n. 5565/1994), il Liceo Chateaubriand (Cass. Sez. U., n. 9322/1988), l’Académie de France à Rome (Cass. Sez. U., n. 5126/1994), il British Institute of Florence (Cass. Sez. U., n. 12704/1998). Viceversa, sono sottoposte alla giurisdizione italiana le controversie concernenti il rapporto di lavoro con la Pontificia Università Lateranense (Cass. Sez. U., ord. 18/09/2017, n. 21541) o con la Pontificia Università Gregoriana (Cass. Sez. U., n. 1133/2007; Cass. Sez. U., n. 6143/1991) o con il Pontificio Collegio Americano del Nord (Cass. Sez. U., n. 16847/2011).
[11] B. Conforti, op. cit., p. 276.
[12] Cass. Sez. U. 08/03/2019, n. 6884: in applicazione del principio della cd. immunità ristretta, sussiste la giurisdizione del giudice italiano in caso di domanda fondata sul riconoscimento della nullità di precedenti contratti a termine.
[13] Cass. Sez. U. ord. 13/02/2012, n. 1981.
[14] Convenzione di Londra del 19/06/1951 – artt. I.1.b e IX.4 – relativa allo status delle Forze degli Stati membri dell’Organizzazione, ratificata ed eseguita in Italia con legge 30 novembre 1955.
[15] Giurisprudenza costante. Tra le più recenti, all’esito di un cinquantennio di elaborazione, v.: Cass. Sez. U. 26/07/2011, n. 16248 (che ha riconosciuto la giurisdizione del giudice italiano in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro sulla domanda proposta da un cittadino italiano, che sia residente in Italia e la cui assunzione sia avvenuta per il soddisfacimento delle esigenze locali della Forza inglese); Cass. Sez. U 22/03/2019, n. 8228 (che, al contrario, sulla domanda della lavoratrice di nazionalità bosniaca e residente in Bosnia per prestazioni espletate in quello Stato in favore delle forze armate italiane in quanto partecipanti al partenariato NATO per la pace in quel Paese, ha riconosciuto insussistente la giurisdizione del giudice italiano anziché di quello della Bosnia-Herzegovina, attesa l’accettazione di detto Stato a quella Convenzione in forza dell’Accordo di Bruxelles del 19/06/1995).
[16] V. Conforti, op. cit., p. 277, che sottolinea come impedire ai lavoratori reclutati nello Stato del foro di rivolgersi al loro giudice naturale sia del tutto ingiusto, almeno quando si tratta di rivendicazione di carattere patrimoniale, come le rivendicazioni salariali, le indennità di licenziamento e simili.
[17] Su cui ci si permette un rinvio a F. De Stefano, I procedimenti esecutivi, Milano 2016, p. 301 ss.
[18] Sul caso delle azioni civili per risarcimento dei crimini di guerra, si vedano i richiami nelle note bibliografiche.
Memoria oggi: impegno di coerenza, oltre la conoscenza
di Noemi Di Segni
Celebriamo il giorno della memoria da venti anni, sulla base della l. 211/2000 Moltissime sono le iniziative che si concentrano in questo periodo, e ciascuna di esse merita la massima attenzione e partecipazione, riconoscendo a chi le promuove e vi presenzia la consapevolezza ed il sentimento della loro doverosità.
Se fino a qualche anno fa il sentimento portante di queste celebrazioni era fare memoria intesa come narrazione di quanto avvenuto nella shoah, per “conoscere pur senza comprendere” usando le parole di Primo Levi, per omaggiare il ricordo dei sei milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali e oppositori politici che sono stati massacrati e sottoposti a torture per le quali nessun dizionario umano aveva termini, e nessun codice pene associabili, per realizzare che un’intera umanità capace di creare bene non è stata generata, oggi il sentimento prevalente è quello dello smarrimento e del dubbio sul presente.
Smarrimento perché ci si chiede se quanto avviene attorno e tra noi debba essere o meno letto come segnale di allarme o debba essere considerato come “tasso naturale” di mancata etica o di antigiuridicità di atteggiamenti, di singoli, di alcuni riferimenti istituzionali o di intere nazioni, se qualcosa di allora si sta rivivendo. Espressioni di odio razziale (o razziste) amplificate dalla rete e condivise con un solo click, piazze virtuali gremite di slogan e incitamento ai totalitarismi, intitolazione di strade a figure che rappresentano un passato mai sopito, senza un ripensamento neanche all’esito del macello di oltre cinquanta milioni di vite, glorificazione del proprio passato per fortificare un presente nazionalizzato non solo nei simboli ma nelle pretese giuridiche e nelle disparità. Espressioni di attenzione e di ascolto sulla vicenda della shoah, cerimonie di conferimento di onorificenze ai sopravvissuti per poi esprimere concetti di discriminazione e di odio altrove e verso Israele, o al contrario una determinata difesa dello Stato di Israele e dell’antisemitismo di matrice terroristica, ma anche la sottovalutazione della radicalizzazione di destra.
Smarrimento per la fatica di conciliare il cuore e la mente che vanno al passato con il massimo rispetto verso le decisioni della magistratura, quando delitti efferati vengono qualificati come mero atto di goliardia o di violenza ordinaria senza averne colto quel lato oscuro dell’odio antisemita che, forse, solo chi l’ha subito per secoli sa riconoscere all’istante.
Smarrimento perché nonostante l’impegno di moltissimi appartenenti alle istituzioni e docenti, in parallelo si sono moltiplicate forme di negazionismo, di deviazioni rispetto a quella promessa costituzionale di ripristinare o affermare i beni superiori da tutelare – verità storica, dignità umana e solidarietà. E quindi la celebrazione di questo giorno è chiamata a dare un significato nuovo al concetto di memoria. Quello della coerenza. Quello dell’impegno che va oltre alla memoria narratrice per arginare quanto si sta già vivendo. Fermare una nuova verità, e non solo affermare quella storica.
Come in molti altri contesti il diritto, e in particolare il diritto positivo, diventa lo specchio scritto di una realtà sociale, nazionale, sulla quale oggi occorre riflettere. Anzi, perché il termine “riflettere” allude quasi ad una pacatezza di azione, occorre agire e ritornare al concetto di legalità ed ai principi, e quindi intervenire.
Come risponde oggi il diritto, o la magistratura chiamata ad applicare le norme, rispetto alle distorsioni emergenti? Ne evidenzio alcune.
La derisione fatta da persone che utilizzano luoghi, simboli e persone per rappresentare il loro scherno e dissociazione dal monito “mai più”, l’uso banalizzante dei termini “ebrei” “Auschwitz” “nazista” in contesti che nulla hanno a che vedere con la shoah, come linguaggio della goliardia o della dialettica avversaria? L’appiattimento della narrazione del dramma della shoah e della guerra mondiale attribuendone la responsabilità ai nazisti e alla Germania dimenticando ogni altro agente, ogni altro regime che ha prestato mano al genocidio, ogni vile collaboratore, ogni atto di indifferenza? Quanto la rievocazione di pregiudizi e di falsi che ripetuti diventano fede di odio e indiscussa verità, è riconducibile al negazionismo?
La libertà di espressione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione è certamente lo snodo centrale di questo dibattito. Se il vero bene da tutelare è quello del benessere sociale insieme alla crescita culturale del Paese, con senso di responsabilità quanto meno morale per la propria storia, la libertà rischia di essere pretesa di sopraffazione se ha per oggetto parole di odio, rievocazione dell’odio antisemita, di scritte, simboli e gesti che sintetizzano l’annientamento desiderato e nessun pentimento maturato. Quanto in nome della libertà di espressione del pensiero continueremo ad assistere ai pellegrinaggi a Predappio per inneggiare al Duce sepolto o al nuovo che lo sostituirà, e legittimare tutto l’indotto commerciale che ne deriva? Quanto possiamo assistere a cerimonie nostalgiche che stratificano negli animi di chi le partecipa odio e violenza? Quando l’uso del principio diventa abuso? Noi ce lo chiediamo ogni giorno, e non come riflessione teorica, ma come peso che va aggravandosi ogni giorno.
- La richiesta, nell’ambito del procedimento amministrativo di assegno di benemerenza, a chi è stato perseguitato dal regime nazi fascista di fornire prova concreta di un atto persecutorio affinché si possa beneficare di una benemerenza, sulla base della l.96/55 e successive modificazioni, limitando prima il riferimento al periodo storico ’43-’44, alle sole persone perseguitate in Italia anche se fuggiti in altri Paesi, dimenticando che furono dichiarati nemici della patria coloro che hanno vissuto in Italia per oltre 2.000 anni donando il loro contributo allo sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese, rappresenta oggi una aberrazione. Le leggi del ’38 e poi la decretazione del ’43 hanno introdotto una sistematica persecuzione legalizzata dei cittadini italiani di fede ebraica. Perché allora richiedere ai perseguitati la prova se una legge dello stato prevedeva come sistema imposto l’esclusione e la privazione di ogni diritto per i quali dovevano diligentemente attivarsi funzionari, operatori, cittadini e forze dell’ordine. Appena pochi giorni fa siamo stati aggiornati su una nuova pronuncia di diniego per mancanza di prove e la concessione del beneficio considerata come aggravio per le casse dello Stato, cosi come una scia di sentenze della magistratura contabile che ribadisce la legittimità di una pretesa economica verso lo Stato solo se fornita ogni prova concreta e precisa di persecuzione, a prescindere da ogni collocazione del tutto all’interno di un sistematico quadro di principi fondamentali di recupero della dignità non solo della persona offesa e perseguitata, ma anche dello stesso Stato italiano che vuole affermare i suoi valori di libertà e rigettare quelli che erano alla base del pensiero fatto regime fascista.
- La sentenza recentissima, del 19 dicembre 2019, del tribunale francese nel Caso Sara Halimi, una donna ebrea religiosa di 67 anni, massacrata fino alla morte il 3 aprile 2017, mentre il pestatore inneggiava con letture del Corano, con la quale viene prosciolto l’assassino perché agiva sotto effetto di stupefacenti e quindi non era in grado di rispondere dei suoi atti, vissuto in Francia come un “dejà vu” del caso Dreyfus. Ma anche qui in Italia diverse sono le archiviazioni o le sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere seguite alle denunce sporte avverso condotte di incitamento di masse all’odio che hanno suscitato profondo senso di timore e indignazione corale, e poche le pronunce di condanna. Chiara la necessitò di difendere rigorosamente il principio di legalità e l’operato della magistratura, chiaro anche il senso di smarrimento che accompagna simili situazioni.
- Con l’approvazione da parte del governo lo scorso 15 gennaio della definizione di Antisemitismo basata sulla proposta dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) si apre una nuova sfida per il legislatore italiano e la magistratura stessa. La definizione di per sé, come articolata nel documento (https://www.holocaustremembrance.com/working-definition-antisemitism) non è vincolante. Gli Stati sono invitati a recepirla sia nella parte generale dedicata all’inquadramento del fenomeno sia nelle numerose esemplificazioni riportate, che rappresentano condotte da ricondurre al concetto di antisemitismo. Ora, data la molteplicità delle ipotesi, occorrerà vagliarle, una per una, e valutare rispetto al quadro normativo vigente come affrontarne il recepimento, affinché non resti un mero atto politico – che certamente ha valore e impatto nel dibattito partitico - ma sia anche occasione di seria a precisa riconsiderazione di tutte quelle condotte che quotidianamente subiamo e che ad oggi non trovano argine – né quello educativo culturale, né quello legislativo. Saranno quindi da considerare le ipotesi di negazionismo, di contrasto dell’odio dilagante sulla rete e l’impegno delle piattaforme multinazionali, il boicottaggio di Israele e dei suoi esponenti culturali e gli appelli per il disconoscimento del diritto di Israele di esistere o delle sue politiche, che sostanzia un atteggiamento antisemita.
La shoah, l’antisemitismo, non sono “degli ebrei” e non sono temi sui quali prestare un attento ascolto per pietà e profondo dispiacere, né temi su cui sviluppare una dialettica politica servente o esimente, ma sono l’uno conseguenza dell’altro, portato all’estremo del dicibile umano, e pesano sulle coscienze e le responsabilità di tutti.
Per queste ragioni ogni impegno di memoria oggi è in realtà un impegno di coerenza – il rispetto di quanto avvenuto nel passato - il peggio di quanto avvenuto nel passato collettivo di un’intera Europa poi unificata e un’intera nazione come l’Italia che si è destata – non può essere efficacemente tramandato ai nostri figli, se non si affrontano e non si comprendono ad ampio raggio i fenomeni che ne erano alla radice allora e riaffiorano oggi, se non si attivano politiche educative e formative di quell’ovvia – che ovvia evidentemente non è – accettazione di chi è semplicemente cresciuto con altro credo e altre scelte personali, se non si attiva una ricognizione di impatto sociale delle norme oggi esistenti, se si continua a dividere il passato in sezioni logiche alcune partecipate con il cuore, altre con la mente, alcune lasciate cadere nell’oblio, alcune addirittura giustificate con i “sì però”. L’invito nel settantacinquesimo anniversario della liberazione del Campo di Auschwitz che rivolgo ad operatori e studiosi del Diritto è quello di intraprendere un’iniziativa di approfondimento e studio di queste specifiche tematiche, e accompagnarci, o stare al nostro fianco nell’impegno, faticoso anche per noi, di tramandare una memoria nel rispetto di coloro che non hanno mai fatto ritorno, anche se sopravvissuti, all’orrore della shoah.
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