ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il mare dei diritti umani. Relazione Prof.T.Scovazzi
(atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)
Gli aspetti peggiori della politica italiana in tema di migrazione irregolare via mare
di Tullio Scovazzi
SOMMARIO: 1. Il viaggio. 2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades) 3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia) 4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica) 5. Considerazioni conclusive.
1. Il viaggio
Negli ultimi tempi troppi esseri umani hanno rischiato la loro vita per attraversare una frontiera. Sono spinti dal desiderio di vivere in un luogo dove si possano evitare persecuzioni, conflitti, povertà, disastri naturali o altre calamità. Pagano somme enormi, considerate le loro risorse, per rischiare anche la vita in un percorso che si svolge attraverso il deserto e il mare. Del viaggio conoscono l’orario di partenza, ma non quello d’arrivo. Se riuscissero ad arrivare, dovrebbero affrontare l’esistenza vulnerabile di chi si trova in una condizione di clandestinità. È troppo semplice concludere che gli emigrati clandestini sono le vittime di trafficanti senza scrupoli che lucrano sui viaggi che organizzano per migliaia di disperati. Non c’è dubbio che i trafficanti siano criminali e che nei loro confronti vadano applicate le sanzioni penali previste dal degli Stati interessati, come anche indicato dal Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000), relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo, 2000) . Ma gli emigranti clandestini sono anche le vittime di una frontiera o, per essere più precisi, di chi non riesce a vedere che una frontiera e i respingimenti che ne sono la conseguenza non potranno mai essere strumenti utili a far fronte a un dramma umano collettivo che sta assumendo dimensioni sempre più imponenti .
Perché un essere umano è disposto a pagare molte volte il prezzo di un normale biglietto per trovarsi a rischiare la propria vita e, spesso, quella della propria famiglia in un viaggio disperato? La risposta più evidente è che, essendo costretto a lasciare il proprio paese, risulta impossibile a quell’essere umano acquistare un ordinario biglietto di viaggio, in quanto l’esistenza di una frontiera gli impedisce di viaggiare in condizioni normali. Il trafficante, per quanto criminale egli sia, è un elemento naturale in una situazione complessiva dove, mentre merci e capitali passano sempre più regolarmente e liberamente le frontiere, gli esseri umani o, meglio, i più sfortunati tra di loro non lo possono fare. Le politiche di respingimento in mare di tanto in tanto adottate dall’Italia, dimostrano quanto sia assurdo pensare di far fronte a un dramma umano collettivo mediante una frontiera, quanto sia indegno accanirsi contro i più deboli e, per chi resta comunque attaccato a concezioni utilitaristiche, quanto sia improduttivo condannare al rischio di morte centinaia di migliaia di esseri umani intelligenti e intraprendenti.
2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades)
Si pensava tempo fa in Italia che, per respingere i migranti irregolari che cercano di arrivare via mare, fosse necessaria un’azione coercitiva di blocco e dirottamento affidata a unità della Marina Militare. Proprio una simile concezione ha determinato la sorte dei migranti albanesi che sono rimasti uccisi a seguito della collisione tra la corvetta italiana Sibilla e la nave priva di bandiera Kater i Rades A-451 . Le vittime morirono a causa di qualcosa che risponde a un nome misterioso: le manovre cinematiche d’interposizione. L’incidente avvenne nel 1997, a circa 35 miglia nautiche da Brindisi e, quindi, in alto mare. In quel periodo una grave crisi economica aveva colpito l’Albania e molti albanesi cercavano di emigrare clandestinamente all’estero, in particolare in Italia, nella speranza di trovare un futuro migliore, servendosi di natanti che prendevano il mare in assenza delle minime condizioni di sicurezza. Le cause sull’incidente sono state accertate nelle sentenze penali italiane che hanno trattato del caso (Tribunale di Brindisi del 19 marzo 2005; Corte d’Appello di Lecce del 29 giugno 2011) e che hanno visto come imputati il comandante della Sibilla e il capitano-timoniere della Kater i Rades. È utile ricordare qui di seguito l’agghiacciante sequenza dei dati di fatto accertati nelle sentenze, anche a seguito del recupero del relitto della Kater i Rades e della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero :
- al comandante della Sibilla erano state impartite dai superiori direttive che gli ordinavano di svolgere “manovre cinematiche d’interposizione” (o d’interdizione) al fine di far desistere i natanti carichi di clandestini dalla navigazione verso le coste italiane; queste manovre rientrano tra le pratiche dirette a creare intralcio ai movimenti di un’altra nave, dette anche manovre di harassment (in italiano: disturbo intenzionale), termine utilizzato in ambito NATO (North Atlantic Treaty Organization) per indicare l’azione condotta da una nave per impedire, limitare o disturbare l’azione di un’altra nave.
- l’incidente avvenne alle 18,57 del 28 marzo 1997, in condizioni d’oscurità;
- al momento dell’incidente il mare era vicino a forza 3, una situazione non gravosa per la Sibilla, ma certamente impegnativa per la motovedetta albanese, che aveva moti di deriva e imbardata abbastanza vistosi e, quindi, spostamenti orizzontali della poppa e della prua di ampiezza non normale;
- la Sibilla è una corvetta di 87 m di lunghezza e 10 m di larghezza, con dislocamento di 1285 t, mentre la Kater i Rades era lunga 21,5 m e larga 3,5 m, con dislocamento di 56 t; la prima nave era quindi 4,2 volte più grande della seconda e i dislocamenti erano in rapporto di 38 a 1;
- la Kater i Rades, che era stata frettolosamente rimessa in mare da persone non esperte pochi giorni prima dell’incidente, non era una nave progettata e realizzata per il trasporto di passeggeri e, in condizioni normali, era dotata di un equipaggio di nove unità; - la Kater i Rades aveva preso il largo da Valona con un equipaggio composto di soli due membri (il comandante-timoniere e il motorista);
- la Sibilla era subentrata nelle manovre di dissuasione a un’altra e più grossa nave della Marina italiana (la fregata Zeffiro), in quanto la Kater i Rades si dimostrava molto manovriera e poneva in essere rapide contromanovre evasive; - alle 18 il Dipartimento militare marittimo “Ionio e Canale d’Otranto” di Taranto aveva comunicato alla Sibilla che, qualora le azioni d’intimidazione non avessero avuto effetto, si sarebbe dovuto procedere a bloccare la Kater i Rades e a rimorchiarla sotto scorta verso le coste albanesi;
- alla stessa ora la Sibilla aveva posto in essere una prima manovra di disturbo intenzionale, raggiungendo da poppa la Kater i Rades, mantenendo con essa una distanza laterale di circa 50 m e intimandole con altoparlanti di fermarsi;
- in risposta a tale manovra la Kater i Rades aveva compiuto un’improvvisa virata passando di prua alla Sibilla;
- presumibilmente al fine di bloccare la Kater i Rades, il comandante della Sibilla, intorno alle 18,40, aveva impartito l’ordine di filare un cavo in mare per impigliare le eliche dei motori della motovedetta albanese; il cavo era stato calato in mare per 10-15 m, ma era poi stato recuperato a seguito di un contrordine; - era stata poi la Sibilla ad avvicinarsi alla Kater i Rades fino a una distanza non di sicurezza, in quanto il comandante della nave italiana era intenzionato a svolgere un’azione di disturbo intenzionale con la massima consentita determinazione;
- la Kater i Rades trasportava 100-120 persone ed era priva di mezzi individuali (salvagenti o giubbotti) e collettivi (scialuppe o zattere gonfiabili) di salvataggio;
- la distanza ravvicinata consentiva ai militari italiani di vedere che la vedetta albanese era priva di tali dispositivi e che la stessa trasportava anche donne e bambini;
- la Sibilla aveva raggiunto di nuovo da poppa la Kater i Rades e aveva iniziato a sorpassarla, avendola alla sua sinistra a una distanza ridottissima;
- le persone che erano sul ponte della piccola nave avevano avvertito il pericolo e si erano spostate sul lato sinistro della nave, il meno vicino alla nave militare italiana;
- le manovre cinematiche d’interposizione della Sibilla “ben poterono consistere nel tenere una rotta rettilinea ma convergente, finalizzata quanto meno ad affiancarsi pericolosamente alla motovedetta, smuovendo le onde in sua direzione, tenuto conto dell’enorme differenza di massa e, quindi, di dislocamento esistente fra le due unità, sì da indurla ad arrestarsi” ;
- il comandante-timoniere della Kater i Rades, “scorgendo la corvetta avvicinarsi paurosamente e nel tentativo di sottrarsi a un ingaggio così stretto, manovrò per far evoluire la nave a sinistra ed allontanarsi dalla corvetta, come impone di ritenere la più volte richiamata circostanza che i due timoni della motovedetta furono rinvenuti ruotati di 27°” ; - “purtroppo, durante la ‘fase di manovra’, quindi mentre la piccola nave subiva lo sbandamento dovuto al fenomeno del c.d. ‘saluto’, il moto ondoso creò una imbardata ed una deriva della poppa della A-451 che portano questa rapidamente verso il lato sinistro della prua della corvetta” ;
- “il comandante F. L., realizzato l’imminente pericolo, ordinò “pari indietro tutta” nella speranza di riuscire ad evitare il contatto tra le due navi o, comunque, di ridurne le conseguenze, ma la manovra fu inutile per la esigua distanza laterale tra le stesse” ;
- alle 18,57 vi fu un primo urto strisciante tra le due navi, che intervenne tra l’estrema prua della Sibilla e l’estrema poppa della Kater i Rades;
- al momento dell’urto la velocità della Sibilla era di circa 10 nodi, leggermente superiore a quella della Kater i Rades, di poco inferiore ai 10 nodi;
- sulla Sibilla si avvertì “solo il rumore sordo di un tonfo”; la Kater i Rades, già inclinata di alcuni gradi sul lato sinistro (sia per effetto dello sbandamento di saluto sia perché le persone si erano spostate sul lato sinistro del ponte), fu sospinta ad inclinarsi ulteriormente a sinistra ed a ruotare intorno all’asse verticale in modo da portare la poppa al largo e la prua verso la corvetta;
- questa rotazione portò la Kater i Rades davanti alla prua della Sibilla e si determinò così un secondo urto tra le prue delle due navi, che “ebbe conseguenze più gravi del primo per la Kater i Rades, che sbandò ulteriormente e rapidamente sul lato sinistro (tanto da consentire all’acqua di entrare da alcuni oblò)” ;
- subito dopo “la corvetta fu nuovamente sulla piccola nave, ormai inclinata trasversalmente di circa 80°, colpendola con la parte bassa del dritto di prua” ;
- dopo il primo e soprattutto dopo il secondo urto le persone che erano sul ponte furono scaraventate contro l’impavesato e caddero in mare; “mentre per quelle, numerose, che si trovavano nelle tre cabine, il secondo urto ebbe effetti catastrofici: ancora pochi istanti e la motovedetta A-451 si inabissò con il suo carico di corpi inanimati” ;
- immediate furono le operazioni di soccorso ai superstiti da parte dell’equipaggio della Sibilla e di altre unità;
- restarono uccisi nell’incidente 58 cittadini albanesi, numero corrispondente a quello dei corpi recuperati, “pur essendo ragionevole assumere, anche in difetto di un elenco affidabile dei soggetti imbarcati, che il numero reale delle vittime sia senz’altro superiore” .
In presenza di una tale sequenza di eventi, il Tribunale di Brindisi giunse alla conclusione che “la collisione fu dunque il risultato delle condotte colpose dei due comandanti delle navi interessate al sinistro”, stabilendo il concorso di colpa nella misura del 60% per F. L. (il comandante della Sibilla) e del 40% per X. N. (il conducente della Kater i Rades). Il Tribunale di Brindisi condannò F. L. alla pena di tre anni di reclusione e X. N. alla pena di quattro anni di reclusione, entrambi per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. In appello fu confermata la sentenza di primo grado, ad eccezione della ripartizione del concorso di colpa tra i due imputati, modificata al 50%. La pena fu ridotta a tre anni e dieci mesi per X. N., essendo il reato di lesioni colpose caduto in prescrizione, e a due anni e quattro mesi per F. L., per lo stesso motivo e per la concessione delle attenuanti generiche, che erano state negate in primo grado. La Corte di Cassazione, con sentenza del 10 giugno 2014, n. 24527, rigettò i ricorsi presentati dai due imputati e dal responsabile civile (il Ministero della Difesa), rideterminando però la pena in tre anni e sei mesi per X. N. e in due anni per F. L., a seguito dell’intervenuta prescrizione anche del reato di omicidio colposo. Non è possibile entrare in questa sede nelle complesse questioni relative al risarcimento dei danni subiti dalle numerose parti civili costituite in giudizio, danni che furono posti a carico di F. L. e, in solido, del responsabile civile.
Nel caso della collisione tra la Sibilla e la Kater i Rades i dati di fatto sono più significativi delle norme giuridiche applicabili, ivi comprese le norme di diritto internazionale sulla prevenzione delle collisioni in mare. Proprio i dati di fatto rivelano un insieme inaudito di aggressività e di irresponsabilità da parte degli organi di Stato italiano coinvolti nell’incidente. Le “manovre cinematiche d’interposizione” – un’espressione che maschera il semplice concetto “ci è venuta addosso”, espresso più volte dai testimoni albanesi – sono tratte dalle “Regole d’ingaggio per le forze NATO che operano in ambiente marittimo”. La NATO è un’alleanza politico-militare istituita con un trattato concluso a Washington nel 1949 e avente il principale obiettivo di far fronte a un attacco armato che uno Stato terzo porti contro uno Stato membro dell’alleanza. Una nave malandata e carica all’inverosimile di uomini, donne e bambini può mai essere equiparata a un mezzo impegnato in un attacco armato e fronteggiata con strumenti di natura militare, come un blocco navale con conseguenti manovre di dirottamento? Evidentemente, no; ma, purtroppo, sì, secondo quanto credevano i politici e i militari italiani che avevano immaginato e attuato la pratica del dirottamento in mare contro i migranti clandestini.
I dati raccolti nei procedimenti sull’incidente della Kater i Rades mostrano come le autorità italiane che dirigevano le operazioni delle navi militari agissero in un’“atmosfera di forte tensione” e tramite “concitate direttive” . Risulta pure “che erano state disposizioni alla nave Zeffiro “di fare un’azione più decisa, affiancando fino a toccare” e che “appare del tutto impensabile (…) che lo stesso ordine non sia stato poi ‘girato’ dalla Zeffiro alla Sibilla, che ad essa era pacificamente subentrata nel tentativo di interrompere la marcia di avvicinamento all’Italia della Kater i Rades” . A un esperto di diritto penale le parole “affiancando fino a toccare” evocherebbero il concetto di dolo eventuale, che si ha quando l’agente si rappresenta e accetta la possibilità che l’evento si verifichi.
Spiace che le sentenze sull’incidente della Kater i Rades, per quanto esemplari per l’accurata ricostruzione dei fatti, non abbiano potuto accertare anche l’eventuale responsabilità di coloro che avevano dato l’ordine di effettuare le “manovre cinematiche d’interposizione” . Questo anche perché il filmato che documentava le fasi dell’ingaggio tra le due navi s’interrompeva inspiegabilmente , le bobine contenenti le registrazioni radio tra le navi e tra le navi e i comandi riproducevano conversazioni scarsamente intellegibili e l’imputato F. L. si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del pubblico ministero .
Le conclusioni da trarre dal naufragio della Kater i Rades devono essere chiare, come esige il rispetto dovuto alla memoria delle vittime, uomini, donne e bambini che cercavano un luogo dove vivere una vita decente e hanno invece trovato la morte sul fondo del mare. È una vergogna per l’Italia che il dirottamento in mare sia stato concepito come uno strumento adatto a far fronte a un dramma umano collettivo, come era l’emigrazione di massa dall’Albania; ed è una vergogna per l’Italia aver adottato a tal fine la pratica delle manovre cinematiche d’interposizione. Le battaglie navali vanno combattute contro nemici ben diversi da coloro che si trovavano a bordo della Kater i Rades.
3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia)
Se le manovre cinematiche d’interposizione non sono attuabili, i migranti irregolari possono essere respinti in un altro modo? Si può, invece di usare la forza, approfittare delle norme sull’obbligo di soccorso di chi è in pericolo in mare per respingere forzatamente coloro che sono stati soccorsi? Un simile tentativo è stato fatto dall’Italia nel 2009 con una serie di respingimenti di migranti irregolari verso la Libia, il paese di transito dal quale essi si erano imbarcati per attraversare il Mediterraneo. È utile considerare qual era il quadro delle norme di diritto internazionale applicabili al riguardo.
L’obbligo di soccorrere chi è in pericolo, che discende da antiche consuetudini marinare, è oggi previsto dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982) e vincola tutte le navi, siano esse pubbliche o private, che siano in grado di farlo senza incorrere esse stesse in grave pericolo. Specifiche norme in proposito si trovano nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Londra, 1979; emendata nel 1998 e 2004 ), che pone a carico delle parti l’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo in mare . Gli obblighi delle parti non si limitano a salvare le persone in pericolo, ma comprendono anche la consegna di tali persone in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di “soccorso”:
“‘Rescue’. An operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety” (allegato, cap. 1.3.2).
È un dato di fatto che, una volta soccorse da una nave, le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, non si smaterializzano, ma devono essere sbarcate da qualche parte. Purtroppo, la Conv. SAR, nonostante i suoi emendamenti e nonostante le indicazioni (non vincolanti) date dalle Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato sulla sicurezza marittima dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), non fornisce indicazioni precise su come determinare il luogo sicuro. Si tratta di una grave carenza della Conv. SAR, che dimostra la riluttanza degli Stati ad assumere chiari impegni quando il tema dell’immigrazione irregolare entra in gioco. Tale carenza ha portato a ben note situazioni di protratto divieto di sbarco, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, che riguardava l’Australia , della nave tedesca Cap Anamour, che riguardava Italia e Malta , o di altre navi che di recente sono restate in attesa di entrare in porti italiani. Resta però il fatto che gli individui che si trovino in situazione di pericolo in mare hanno diritto di essere soccorsi e di essere trasportati in un luogo sicuro, per quanto difficile possa essere, in certi casi, la determinazione dello stesso. È soltanto in tale luogo che si potrà stabilire con precisione chi sono e che cosa intendevano fare gli individui soccorsi (siano essi emigranti irregolari oppure marinai professionisti, terroristi oppure diportisti). Circa il diritto di migrare, l’art. 13, par. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio . Lo stesso diritto è previsto nell’art. 12, par. 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) . Il diritto umano di emigrare è però un diritto asimmetrico, nel senso che esso non si accompagna a un corrispondente diritto umano di immigrare. Secondo il diritto internazionale consuetudinario e a meno che disposizioni di trattati prevedano diversamente, ogni Stato ha il diritto sovrano di consentire o di vietare agli stranieri di entrare nel proprio territorio. All’ovvia domanda “se non è ammesso in alcuno Stato, dove avrà diritto di stabilirsi il migrante?” si possono dare risposte in concreto poco soddisfacenti, come “in alto mare”, “nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato” o “sulla Luna o sugli altri corpi celesti”.
Vi sono però alcuni limiti al diritto di uno Stato di respingere coloro che volessero entrare nel suo territorio. Un primo limite deriva dal diritto umano a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumani o degradanti. Questo diritto è previsto, per richiamare trattati di cui l’Italia è parte, dall’art. 3 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; detta Convenzione europea dei diritti umani ), dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) e dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti (New York, 1984) .
L’individuo è protetto dalla tortura anche in modo indiretto, in quanto il diritto internazionale vieta allo Stato di estradare, espellere o comunque respingere una persona verso un altro Stato dove sussista un fondato rischio che essa sia sottoposta a tortura. Questa norma è chiaramente espressa nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura ed è stata affermata in molte decisioni di corti internazionali competenti in tema di diritti umani . Ne consegue che i migranti irregolari, come tutti gli altri esseri umani, non possono essere respinti verso uno Stato dove corrano il fondato rischio di essere torturati, anche se questo Stato è quello di cui essi sono cittadini o dove hanno la residenza o da dove sono partiti nel loro viaggio.
Un secondo limite è collegato alla condizione di rifugiato, regolata dalla Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Ginevra, 1951) , di cui l’Italia è parte, e dalle norme rilevanti dei diritti interni . Essere un rifugiato è un dato di fatto, che non dipende da un riconoscimento da parte di un’autorità e che, in base all’art. 1, par. A.2, Conv. Rif., caratterizza un individuo che, trovandosi al di fuori del paese di cui è cittadino, abbia il fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità appartenenza a un particolare gruppo sociale od opinione politica. Come è facile notare, la definizione non include le persone che intendono fuggire da conflitti, internazionali o interni, da disastri naturali o dalla povertà, che sono invece la maggior parte degli attuali migranti irregolari. La Conv. Rif. non attribuisce al rifugiato il diritto di ricevere asilo sul territorio di uno Stato parte. Al rifugiato è soltanto dato il diritto di non essere respinto verso uno Stato, compreso il proprio, dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per una serie di specifiche ragioni (diritto di non-refoulement, secondo l’espressione francese comunamente usata) . Tuttavia, benché la Conv. Rif. non sia chiara in proposito, si può considerare implicito che un rifugiato che si presenta a un agente di uno Stato parte abbia il diritto di sottoporre una domanda d’asilo e di vederla esaminata in modo efficiente ed equo . Questo diritto spetta anche ai rifugiati che si trovano in alto mare. Ne consegue il fondato timore che le misure di respingimento poste in essere in mare, non distinguendo tra rifugiati e migranti irregolari, abbiano di fatto il risultato di impedire a un rifugiato di presentare una domanda d’asilo .
L’illegalità delle misure di respingimento italiane del 2009 è stata posta in evidenza dalla sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte Europea dei Diritti Umani (Grande Camera) sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. Il ricorso era proposto da undici somali e tredici eritrei che facevano parte di un gruppo di circa duecento migranti soccorsi in mare da navi di Stato italiane, presi a bordo e trasportati forzatamente verso la Libia. I ricorrenti sostenevano che erano state violate alcune disposizioni della Conv. Eur. Dir. Um., tra le quali l’art. 3 (tortura) e l’art. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) del Protocollo n. 4.
La Corte muove dalla premessa che la Conv. Eur. Dir. Um. si applica anche in alto mare, che non può essere considerato uno spazio al di fuori della legge: “(…) as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which the States have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction” . Conseguentemente, la Corte precisa che le operazioni d’intercettazione devono essere svolte in conformità con gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um.:
“Having regard to the foregoing, the Court considers that the removal of aliens carried out in the context of interceptions on the high seas by the authorities of a State in the exercise of their sovereign authority, the effect of which is to prevent migrants from reaching the borders of the State or even to push them back to another State, constitutes an exercise of jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention which engages the responsibility of the State in question under Article 4 of Protocol No. 4” .
La Corte segnala che gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um. non possono essere violati per dare esecuzione a trattati bilaterali che l’Italia aveva o avrebbe concluso con la Libia in tema di lotta all’immigrazione clandestina : “Italy cannot evade its own responsibility by relying on its obligations arising out of bilateral agreements with Libya. Even if it were to be assumed that those agreements made express provision for the return to Libya of migrants intercepted on the high seas, the Contracting States’ responsibility continues even after their having entered into treaty commitments subsequent to the entry into force of the Convention or its Protocols in respect of these States” .
Sul merito, la Corte conclude all’unanimità che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 3 della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto, respingendo i migranti, li aveva esposti al rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti in Libia o nei loro paesi d’origine:
“During the period in question no rule governing the protection of refugees was complied with by Libya. Any person entering the country by illegal means was deemed to be clandestine and no distinction was made between irregular migrants and asylum seekers. Consequently, those persons were systematically arrested and detained in conditions that outside visitors, such as delegations from the UNHCR, Human Rights Watch and Amnesty International, could only describe as inhuman. Many cases of torture, poor hygiene conditions and lack of appropriate medical care were denounced by all the observers. Clandestine migrants were at risk of being returned to their countries of origin at any time and, if they managed to regain their freedom, were subjected to particularly precarious living conditions as a result of their irregular situation. Irregular immigrants, such as the applicants, were destined to occupy a marginal and isolated position in Libyan society, rendering them extremely vulnerable to xenophobic and racist acts” .
“(…) according to the UNHCR and Human Rights Watch, individuals forcibly repatriated to Eritrea face being tortured and detained in inhuman conditions merely for having left the country irregularly. As regards Somalia, in the recent case of Sufi and Elmi (…) the Court noted the serious levels of violence in Mogadishu and the increased risk to persons returned to that country of being forced either to transit through areas affected by the armed conflict or to seek refuge in camps for displaced persons or refugees, where living conditions were appalling” . La situazione di violazione dei diritti umani esistente in Libia era ben nota alle autorità italiane e poteva comunque essere da queste facilmente verificata sulla base di multiple fonti .
Secondo la Corte, indipendentemente dal fatto che un’intenzione di chiedere asilo fosse stata manifestata dai ricorrenti (una circostanza che era in contestazione tra le parti), l’Italia aveva l’obbligo di non respingere i migranti verso la Libia:
“In any event, the Court considers that it was for the national authorities, faced with a situation in which human rights were being systematically violated, as described above, to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return (…) Having regard to the circumstances of the case, the fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3” .
La Corte accerta anche che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Um., che vieta le espulsioni collettive di stranieri. In particolare, la Corte respinge l’argomento formalistico avanzato dall’Italia, secondo il quale un’espulsione può avere luogo soltanto se gli stranieri sono già sul territorio nazionale. Dopo avere notato che l’art. 4 non usa la parola “territorio” , la Corte interpreta la Conv. Eur. Dir. Um. e il Protocollo in un modo che “renda le garanzie pratiche ed effettive e non teoriche e illusorie” , mostrando la dovuta attenzione per la situazione dei migranti che rischiano la loro vita in mare:
“The Court has already found that, according to the established case law of the Commission and of the Court, the purpose of Article 4 of Protocol No. 4 is to prevent States being able to remove certain aliens without examining their personal circumstances and, consequently, without enabling them to put forward their arguments against the measure taken by the relevant authority. If, therefore, Article 4 of Protocol No. 4 were to apply only to collective expulsions from the national territory of the States Parties to the Convention, a significant component of contemporary migratory patterns would not fall within the ambit of that provision, notwithstanding the fact that the conduct it is intended to prohibit can occur outside national territory and in particular, as in the instant case, on the high seas. Article 4 would thus be ineffective in practice with regard to such situations, which, however, are on the increase. The consequence of that would be that migrants having taken to the sea, often risking their lives, and not having managed to reach the borders of a State, would not be entitled to an examination of their personal circumstances before being expelled, unlike those travelling by land” . Infine la Corte conclude che vi era stata una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto i ricorrenti erano stati privati di ogni possibilità di presentare un ricorso effettivo a un’autorità competente, prima che la misura del respingimento fosse eseguita .
4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica)
Se non sono attuabili né le manovre cinematiche d’interposizione, né i respingimenti diretti verso la Libia, i migranti irregolari possono essere respinti in modo indiretto? Si può far in modo che un altro Stato faccia quello che l’Italia non può fare personalmente, vale a dire respingere forzatamente verso la Libia coloro che sono stati soccorsi?
La già ricordata Conv. SAR prevede che gli Stati parte si dotino di un servizio di ricerca e soccorso in mare che abbia alcuni requisiti fondamentali e che essi istituiscano, individualmente o in cooperazione con altri Stati, delle regioni di ricerca e soccorso (regioni SAR), al fine di assicurare l’appropriato coordinamento operativo per svolgere effettivamente tale servizio . La regione SAR è intesa come “un’area di dimensioni definite associata a un centro di coordinamento del soccorso entro la quale sono forniti servizi di ricerca e di soccorso” (cap. 1.3.4 dell’allegato alla Conv. SAR) . Tale centro ha la responsabilità di promuovere l’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso in una determinata regione SAR (cap. 1.3.5 All. Conv. SAR). Lo Stato che ha istituito la regione SAR non ha il monopolio delle attività di ricerca e di soccorso, ma è soltanto chiamato a gestire, tramite il proprio centro di coordinamento del soccorso, le comunicazioni con le persone in pericolo, con i mezzi di ricerca e soccorso e con altri centri di coordinamento (cap. 2.3.2 All. Conv. SAR). Nulla esclude che, se questo renda più efficaci le operazioni, debbano venire impiegati nelle attività di ricerca e di soccorso nella regione SAR di un determinato Stato i mezzi di altri Stati o navi private che si trovino nelle vicinanze delle persone in pericolo.
È evidente che, se anche fosse istituita una regione SAR della Libia e fosse stabilito un centro di libico di coordinamento del soccorso, le persone soccorse non potrebbero essere sbarcate in Libia, perché tale Stato, come già messo in evidenza , non costituisce il “luogo sicuro” dove il soccorso deve avere termine. Per quanto indeterminabile a priori sia tale luogo sicuro, vi è certezza che esso non può essere collocato in Libia, almeno fino a quando la presente situazione di conflitto interno e di gravi violazioni dei diritti umani persista in quel paese.
Risulta invece che il 10 luglio 2017 proprio la Libia ha comunicato all’IMO di aver istituito una propria regione SAR, di estensione assai ampia, delegando a Malta le attività che ivi si sarebbero esercitate, “data la presente mancanza di risorse e di attrezzature” . Tuttavia, il 6 dicembre 2017 questa dichiarazione era dalla Libia formalmente ritirata. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 2017, la Libia depositava una terza dichiarazione, con la quale veniva di nuovo dato conto dell’istituzione di una regione SAR libica, senza più alcuna delega a Malta, e venivano ampliate le coordinate geografiche di tale regione rispetto a quanto risultava dalla prima dichiarazione. Tuttavia, soltanto in un momento successivo, collocabile tra fine giugno e inizio luglio 2018, l’IMO rendeva disponibili gli indispensabili dati (indirizzo, numero di telefono, numero di facsimile e indirizzo di posta elettronica) del centro di coordinamento libico.
Ci si può chiedere perché le autorità di uno Stato che sono in grado di esercitare il loro potere soltanto in una parte ridotta del territorio nazionale, in quanto il paese è devastato da un conflitto interno, si preoccupino di istituire un apparentemente efficiente sistema di ricerca e soccorso in mare che, in concreto, dovrebbe tutelare i migranti irregolari stranieri che transitano nel paese stesso per raggiungere altri paesi, come l’Italia. Una risposta plausibile è che il tutto avvenga perché tali autorità ricevono a tal fine finanziamenti da qualcun altro e, in particolare, da chi, vale a dire l’Italia, ha concluso con la Libia il 2 febbraio 2017 un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere . Il memorandum prevede che l’Italia s’impegni a finanziare un’ampia serie d’iniziative (sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali; fornitura di supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, in particolare la Guardia di frontiera e la Guardia costiera; completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia; adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza temporanei di migranti in Libia; sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia per sforzi miranti al rientro dei migranti nei paesi d’origine; avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale; altre iniziative proposte da un comitato misto istituito dal memorandum), tramite fondi nazionali e fondi disponibili dall’Unione europea . In esecuzione del memorandum stesso, è stato emanato il decreto-legge 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella legge 9 agosto 2018, n. 98 , con il quale si dispone, tra l’altro, la cessione gratuita alla Libia di fino a un massimo di dodici unità navali già in dotazione a corpi militari italiani (Corpo delle Capitanerie di Porto e Guardia di Finanza) e si autorizzano le spese per il ripristino dell’efficienza delle stesse, al fine di incrementare la capacità operativa della Guardia costiera libica nelle attività di controllo e sicurezza rivolte al contrasto e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare.
È chiaro che simili finanziamenti da parte dell’Italia e, indirettamente, dell’Unione europea sarebbero una lodevole iniziativa, se avessero l’obiettivo di prestare soccorso a coloro che si trovano in pericolo in mare, al fine di poterli poi sbarcare in un luogo sicuro. Sarebbero, invece, la ripetizione di un grave illecito internazionale se avessero il fine di facilitare il respingimento verso la Libia dei migranti irregolari, con le conseguenti gravi violazioni dei diritti umani che ne conseguono , contrabbandando la falsa supposizione che, nella neo-istituita regione SAR libica, il soccorso-respingimento possa essere svolto soltanto dalle unità libiche e precludendo di fatto attività di ricerca e soccorso da parte di navi che non fossero disponibili a riportare i migranti sul territorio libico. Come prevede un principio generale di diritto, che è ripreso anche nel diritto internazionale generale e che dovrebbe essere conosciuto anche dall’Italia e dall’Unione europea, chi consapevolmente assiste un altro soggetto nel compimento di un illecito risponde dello stesso illecito compiuto (rapporto di complicità in un illecito).
Quale sia in concreto il destino dei migranti irregolari che si trovano in Libia era già chiaro a seguito della richiamata sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia ed è stato ulteriormente confermato da molti documenti, come un rapporto pubblicato il 20 dicembre 2018 da due agenzie delle Nazioni Unite. Si tratta di una serie di “orrori inimmaginabili”:
“Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya. From the moment they step onto Libyan soil, they become vulnerable to unlawful killings, torture and other ill-treatment, arbitrary detention and unlawful deprivation of liberty, rape and other forms of sexual and gender-based violence, slavery and forced labour, extortion and exploitation by both State and non-State actors” . Un simile situazione, caratterizzata dagli abusi commessi indistintamente da bande di criminali, gruppi armati o agenti di Stato, è facilitata dalla certezza dell’impunità derivante da anni di conflitto interno e vede i migranti irregolari privi di qualsiasi difesa:
“Years of armed conflict and political divisions have weakened Libyan institutions, including the judiciary, which have been unable, if not unwilling, to address the plethora of abuses and violations committed against migrants and refugees by smugglers, traffickers, members of armed groups and State officials, with near total impunity. (…) This climate of lawlessness provides fertile ground for thriving illicit activities, such as trafficking in human beings and criminal smuggling, and leaves migrant and refugee men, women and children at the mercy of countless predators who view them as commodities to be exploited and extorted for maximum financial gain. Abuses against SubSaharan migrants and refugees, in particular, are compounded by the failure of the Libyan authorities to address racism, racial discrimination and xenophobia” .
Considerato anche che il diritto della Libia non prevede l’asilo e criminalizza l’entrata irregolare nel territorio nazionale, i migranti sono di fatto detenuti indefinitamente senza processo in centri di raccolta, dove essi subiscono condizioni di detenzione disumane per sovraffollamento, malnutrizione e condizioni igieniche e sanitarie, oltre ad essere vittime di facili ricatti (tipiche sono le torture, anche mortali, per estorcere denaro ai familiari dei reclusi):
“They are systematically held captive in abusive conditions, including starvation, severe beatings, burning with hot metals, electrocution, and sexual abuses of women and girls, with the aim of extorting money from their families through a complex system of money transfers, extending to a number of countries. They are frequently sold from one criminal gang to another and required to pay ransoms multiple times before being set free or taken to coastal areas to await the Mediterranean Sea crossing. The overwhelming majority of women and older teenage girls interviewed by UNSMIL [= United Nations Support Mission in Libya] reported being gang raped by smugglers or traffickers or witnessing others being taken out of collective accommodations to be abused. Younger women travelling without male relatives are also particularly vulnerable to being forced into prostitution. Countless migrants and refugees lost their lives during captivity by smugglers or traffickers after being shot, tortured to death, or simply left to die from starvation or medical neglect. Across Libya, unidentified bodies of migrants and refugees bearing gunshot wounds, torture marks and burns are frequently uncovered in rubbish bins, dry river beds, farms and the desert” . Alcune autorità ufficiali della Libia sono complici nelle violenze e negli abusi; altre usano indiscriminatamente la forza letale contro i migranti irregolari:
“UNSMIL continues to receive credible information on the complicity of some State actors, including local officials, members of armed groups formally integrated into State institutions, and representatives of the Ministry of Interior and Ministry of Defence, in the smuggling or trafficking of migrants and refugees. These State actors enrich themselves through exploitation of and extortion from vulnerable migrants and refugees. (…)
Security forces in Libya, including armed groups integrated into the Ministry of Interior, have used excessive or unwarranted lethal force against migrants and refugees in the course of law enforcement operations, leading to loss of life and injury” .
In un simile contesto, non sorprende che il Tribunale di Trapani, con un’esemplare sentenza del 23 maggio 2019, abbia assolto, “perché il fatto non costituisce reato, essendo scriminati dalla legittima difesa”, due migranti irregolari accusati di aver minacciato l’equipaggio e il comandante di una nave privata che li aveva soccorsi e che, seguendo l’ordine ricevuto dalle autorità marittime italiane e libiche, li stava riconducendo in Libia:
“Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo”. Sorprende, invece, - e molto – il fatto che l’Italia abbia concluso con la Libia un trattato che ha l’evidente, anche se non dichiarato, fine di fornire agli agenti libici i mezzi per riportare indietro i migranti irregolari soccorsi .
5. Considerazioni conclusive
Nelle pagine precedenti si è cercato di mettere in luce quanto di peggio sia reperibile nell’alterna politica italiana riguardo all’immigrazione irregolare via mare : l’affondamento colposo di una nave sovraccarica di migranti; il respingimento volontario dei migranti verso un paese dove essi sono torturati; l’assistenza volontaria a un altro Stato perché esso riporti i migranti verso un paese dove essi sono torturati. Non c’è dubbio che vi siano stati – ed è doveroso segnalarli – anche altri tipi di comportamenti, che possono invece essere portati a merito dell’Italia. Nell’ottobre 2013, dopo che 366 migranti erano annegati nei pressi dell’isola di Lampedusa, l’Italia ha messo in atto l’operazione Mare Nostrum, che ha visto coinvolte varie unità della Marina e di altre Forze italiane per prestare soccorso ai molti migranti irregolari che rischiavano la vita in mare e per portarli in salvo in Italia. È però noto che, nell’ottobre 2014, Mare Nostrum è venuta a cessare e non è stata sostituita da un’altra operazione altrettanto efficace sotto il profilo umanitario.
Vi sono alcuni punti fermi che non dovrebbero venire trascurati. Alla luce del diritto internazionale, i migranti irregolari hanno il diritto di essere trattati umanamente e non come criminali. Se si trovano in pericolo in mare, essi hanno il diritto di essere soccorsi e trasportati in un luogo sicuro. Se sono anche rifugiati, essi hanno il diritto di non essere respinti verso un luogo dove possano subire persecuzioni e di essere messi in condizione di presentare una domanda d’asilo. Come tutti gli esseri umani, anche i migranti clandestini hanno diritto di non essere respinti verso uno Stato dove corrono il rischio di essere torturati. Questi diritti sussistono nonostante il fatto che il quadro giuridico internazionale sia tutt’altro che adeguato, soprattutto per quanto riguarda la determinazione del luogo sicuro dove i migranti irregolari soccorsi devono essere sbarcati.
Resta il fatto che le questioni giuridiche sono una parte soltanto di un problema molto più complesso. Sul piano morale, è inaccettabile che uno Stato forte e ricco, come l’Italia, concentri le proprie forze e ricchezze contro gli esseri umani più deboli e che un’entità ancora più forte e ricca, come l’Unione europea, della quale anche l’Italia fa parte, non sia in grado di elaborare una linea politica decente in materia di migranti e rifugiati. Gli attuali flussi di migranti irregolari costituiscono un dramma umano collettivo che è illusorio pensare di fronteggiare con persistenti misure di chiusura da parte degli Stati sviluppati. Come è stato posto in evidenza dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati,
“la verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità. (…)
Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri” .
ABSTRACT: The paper describes the worst aspects of the Italian policy as regards non-autorized migrations at sea. In 1997 a ship of the Italian Navy engaged herself in an attempt to divert an Albanian ship overcrowded with irregular migrants and was responsible for a collision with the latter. Not less than 58 migrants died. In 2009 Italy started a policy of trasnporting back to Libya irregular migrants rescued at sea. The European Court of Human Rights found (judgment of 2012 in the case Hirsi Jamaa and others v. Italy) that Italy was responsible for a violation, inter alia, of Art. 3 (prohibition of torture) of the European Convention on human rights, as many cases of torture of irregular migrants were reported in Libya. In 2018 Italy and the European Union financed the establishment by Libya of a Search and Rescue (SAR) region in the desire to have the irregular migrants pushed back by Libya itself (as if those who assist in the commission of an internationally wrongful act were not also responsible for it). A much better behaviour is expected by rich and powerful entities, such as Italy and the European Union, that should not devote their strength against the weakest. In the last years too many people have put at risk their lives in attempts to cross a border. They are driven by the desire to enter into a country where they will be safe from persecution, poverty, conflicts, natural disasters or other calamities and where they will have the chance to spend a decent life. The hope to migrate is the reason why the waters of some seas, such as the Mediterranean, have become the graveyard of thousands of human beings, including children, who are moving from a number of African or Asian countries to reach the European Union. This is a great human tragedy that unfortunately is not yet completely understood by the countries of destination, where an adequate immigration and asylum policy is still lacking.
Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti
di Franco De Stefano- parte prima*
Sommario: 1. Premessa metodologica. - 2. Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri dell’U.E. - 3. Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia - 4. Il conflitto tra norma eurounitaria e principio fondamentale nazionale: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico. - 5. Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana. - 6. Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo. - 7. Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
1 Premessa metodologica.
Per uno sguardo d’insieme, necessariamente sommario, dal punto di vista del giudice comune, quand’anche di legittimità, pare necessario soffermarcisi su due tematiche: il conflitto tra norma europea e principio fondamentale interno e la c.d. doppia pregiudizialità (eurounitaria e costituzionale interna).
Per gli intrinseci limiti del presente intervento, dovrà qui bastare una mera impostazione del problema che quelle tematiche pongono e ad entrambe va premessa una duplice considerazioni.
Non è questa la sede per la compiuta disamina della ricca problematica della reciproca interazione tra le Carte (la Costituzione nazionale, la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione[1]).
Basti qui osservare – ma occorre averlo per postulato – che il rinvio della Carta (di cui al terzo comma dell’art. 53) al significato ed alla portata dei diritti fondamentali corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – impregiudicata una protezione ancora più estesa – comporta l’immediata applicazione dei principi sul punto elaborati dall’unica interprete di quella Convenzione e cioè della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Il campo di applicazione, anche con riferimento al campo di concreta o pratica applicazione dell’istituto delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, è stato finora soprattutto quello del giusto processo e, v’è da dire, principalmente di quello penale.
Ma nella giurisprudenza di Strasburgo è evidente ormai la crescente attenzione anche ai diritti civili e non solo tra privati e Stato, ma pure direttamente tra privati[2], come pure al giusto processo civile[3]: e la Corte di cassazione si sta di recente focalizzando anche sul giusto processo civile di legittimità.
Insomma, i diritti fondamentali, nella loro declinazione più ampia e idonea ad interferire positivamente con la vita quotidiana di ogni cittadino dell’Unione, conquistano di giorno in giorno, in un sistema multilivello nel quale è importante che i singoli agenti cooperino per ampliare o garantire quella protezione anziché litigare col risultato di indebolirla o vanificarla, uno spazio sempre più importante: e si auspica che tanto possa contribuire a rinsaldare nella coscienza di ogni cittadino dell’Unione la sensibilità verso un’Istituzione che non si preoccupa più soltanto di aspetti burocratici e tecnici, ma della diretta gestione degli effettivi diritti fondamentali di ciascuno.
È un’occasione importante, soprattutto nell’attuale contesto: ed è doveroso coglierla.
2 Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri.
Le «tradizioni costituzionali» - non menzionate, se non presupposte nel preambolo[4], nella Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 04/11/1950 - degli Stati membri vengono in considerazione come sostrato materiale del diritto fondamentale dell’Unione europea da un duplice punto di vista:
- quando sono condivise dagli Stati membri, esse assurgono a fonte del contenuto di quelli che sono qualificati principi generali del diritto dell’Unione, cioè i diritti fondamentali garantiti da questo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali;
- quando sono peculiari e proprie di uno Stato membro, esse sono erette a limite individualizzante per l’elaborazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione, poiché questo non può prescinderne, ma è chiamato a riconoscerle per quanto possibile.
Quanto al primo profilo, la nozione di «tradizioni costituzionali» assume l’attributo di «comuni» ed è generalmente ricondotta ad una clausola generale, di creazione pretoria – come si vedrà – ma infine oggetto di codificazione. Al riguardo, le fonti normative sono, ad oggi, almeno:
a) l’art. 6 del TUE, a norma del terzo comma del quale:
«I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali»;
b) l’art. 52, co. 4, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dopo una espressa menzione nel suo preambolo, a mente del quarto comma del quale: «Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
Quanto al secondo profilo, ai fini che qui interessano meritano menzione altri testi normativi di rango eguale ai precedenti:
a) l’art. 4 del TUE, per il secondo comma del quale «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali»;
b) l’art. 67 del TFUE (ex articolo 61 del TCE ed ex articolo 29 del TUE), il cui primo comma recita «L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri»;
c) lo stesso art. 52 della CDFUE (dopo l’esordio nel suo Preambolo), ove proclama (al co. 6) che «si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta».
È evidente come le due accezioni siano in reciproca tensione dialettica. Pur potendosi riferire a quella che, in prima approssimazione, può definirsi la «costituzione materiale» degli Stati membri (secondo quanto si evince dallo stesso art. 4, co. 2, TUE, che si riferisce alla loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali), esse rilevano diversamente a seconda che siano comuni o peculiari e proprie di un singolo Stato: nel primo caso rappresentano un elemento di convergenza idoneo a contribuire a fondare il diritto eurounitario e quindi lo stesso sistema ordinamentale sovranazionale; nel secondo fungono invece da elemento di preservazione, anche contro tale sistema, delle peculiarità dei singoli Stati membri e quindi in funzione antitetica alla tendenziale pervasiva supremazia del primo.
3 Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia.
Si tratta di principi fondamentali del diritto eurounitario, consolidati fin dalla storica sentenza Simmenthal[5], ai quali deve bastare qui un richiamo, solo segnalandosi come anche di recente la Corte di giustizia sia intervenuta a puntualizzarli e ribadirli.
In una recente importante pronuncia[6], in particolare, premesso l’insopprimibile diritto dei singoli ad ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro[7], si è ricordato che, al fine di garantire l’effettività dell’insieme delle disposizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione; sicché quelli, ove non possano procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, hanno comunque l’obbligo di garantire la piena efficacia delle disposizioni di quest’ultimo, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, ogni disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale[8].
Pure rimarcando, quale connotato essenziale del diritto dell’Unione, che solo ad una sua parte può riconoscersi un effetto diretto, sicché non vige un regime unico di applicazione di tutte le disposizioni del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali, la Corte ha sottolineato che l’obbligo di disapplicazione di tutte le disposizioni nazionali opera per quelle contrarie a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito; al contrario, una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria ed il giudice nazionale non è quindi tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del diritto nazionale incompatibile con una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che sia priva di effetto diretto.
Pertanto, le disposizioni prive di effetto diretto, quali quelle di una direttiva - che di norma non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale[9] - la quale non sia sufficientemente chiara, precisa e incondizionata, non legittimano di per sé sole la disapplicazione di una disposizione nazionale ad opera di un giudice di uno Stato membro.
Tuttavia le disposizioni prive di effetto diretto, pur prive, come le decisioni quadro, di carattere vincolante se non per lo Stato membro, implicano in capo alle autorità nazionali un obbligo di interpretazione conforme del loro diritto interno a partire dalla data di scadenza del termine di recepimento, alla luce della lettera e dello scopo di quelle.
L’intero contesto è però caratterizzato da alcuni limiti: i principi generali del diritto, in particolare i principi di certezza del diritto e di irretroattività, ostano segnatamente a che detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che hanno commesso un reato; il principio di interpretazione conforme non può porsi a fondamento di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; in altri termini, l’obbligo di interpretazione conforme cessa quando il diritto nazionale non può ricevere un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito dalla normativa priva di effetto diretto di cui trattasi.
Al contrario, il principio d’interpretazione conforme esige che venga preso in considerazione il diritto interno e che vengano applicati i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della decisione quadro di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima; sicché quell’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto interno incompatibile con gli scopi di una normativa eurounitaria priva di effetto diretto, e di disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi interpretazione accolta da un organo giurisdizionale superiore alla quale essi siano vincolati, ai sensi di tale disposizione nazionale, se detta interpretazione non è compatibile con detta normativa eurounitaria di cui trattasi[10].
In estrema sintesi[11]:
- il principio del primato del diritto dell’Unione sancisce la preminenza del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri ed impone a tutte le istituzioni degli Stati membri di dare pieno effetto alle norme dell’Unione;
- il principio di interpretazione conforme del diritto interno, secondo il quale il giudice nazionale è tenuto a dare al diritto interno, per quanto possibile, un’interpretazione conforme ai requisiti del diritto dell’Unione, è inerente al sistema dei Trattati, in quanto consente al giudice nazionale di assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta;
- sempre in base al principio del primato, ove gli sia impossibile procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale;
- a tal riguardo, ogni giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi nell’ambito delle proprie competenze, ha, in quanto organo di uno Stato membro, più precisamente l’obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito;
- con riferimento all’articolo 47 della Carta, tale disposizione è sufficiente di per sé e non deve essere precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale[12].
Ed ancora[13], in forza del principio del primato del diritto dell’Unioneil fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato[14].
Pertanto, il recepimento di una direttiva da parte degli Stati membri rientra ad ogni modo nella situazione, prevista dall’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui gli Stati membri attuano il diritto dell’Unione, in sede di recepimento deve essere raggiunto il livello di protezione dei diritti fondamentali previsto dalla Carta, indipendentemente dal margine di discrezionalità di cui gli Stati membri dispongono in occasione del recepimento.
Solamente qualora, in una situazione in cui l’operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell’Unione, una disposizione o un provvedimento nazionale attui tale diritto ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione.
Ed è allora conforme al diritto dell’Unione che i giudici e le autorità nazionali facciano dipendere tale applicazione dalla circostanza, evidenziata dal giudice del rinvio, che le disposizioni di una direttiva «lascino margini discrezionali per il loro recepimento nel diritto nazionale», a patto che detta circostanza sia intesa nel senso che essa riguarda il grado di armonizzazione operato da tali disposizioni, dato che una simile applicazione è ipotizzabile solo laddove le disposizioni in parola non operino un’armonizzazione completa.
In particolare[15], l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima, così come il loro dovere, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito della loro competenza, quelle giurisdizionali.
Pertanto, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE; e l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva.
4 Il conflitto tra norma eurounitaria e principi fondamentali nazionali: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico.
Una delle due accezioni di tradizione costituzionale, rilevante per il diritto eurounitario, è quella della tradizione non più comune, ma peculiare alla costituzione di un singolo Paese.
Soprattutto negli ultimi anni si è visto che non solo Paesi di più recente adesione, ma anche due tra i Paesi fondatori della Comunità economica hanno rimesso in dubbio i confini tra il diritto eurounitario e quello nazionale, rivendicando orgogliosamente gli spazi di quest’ultimo.
Nel caso Gauweiler[16], l’Avvocato generale ha potuto richiamare l’istituto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per esaltarne il ruolo, così esprimendosi: … la Corte opera già da molto tempo con la categoria delle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri quando si tratta di trovare ispirazioni nella costruzione del sistema di valori sui quali è fondata l’Unione. In particolare, su tali tradizioni costituzionali comuni la Corte ha cercato, in via del tutto preferenziale, di fondare una propria cultura dei diritti, quella dei diritti dell’Unione. L’Unione ha acquisito in tal modo il carattere non solo di una comunità di diritto, ma anche di una «comunità di cultura costituzionale». Tale cultura costituzionale comune fa parte dell’identità comune dell’Unione, con l’importante conseguenza … che l’identità costituzionale di ciascuno Stato membro, certo dotata di caratteri specifici nella misura che occorra, non può - per dirla in termini prudenti - sentirsi a una distanza astronomica da detta cultura costituzionale comune. Al contrario, un bene inteso atteggiamento di apertura al diritto dell’Unione dovrebbe dare luogo, nel medio e lungo periodo, a una convergenza sostanziale, in linea di principio, tra l’identità costituzionale dell’Unione e quella di ciascuno degli Stati membri».
In linea di massima, un terreno di grande frizione tra l’ordinamento nazionale e quello eurounitario si è rivelato quello del principio del ne bis in idem in materia non soltanto penale, ma anche lato sensu sanzionatoria e soprattutto per il concorso di misure tradizionalmente penali ed altre, di pari carattere afflittivo, ma normalmente ammesse, quanto meno nel nostro ordinamento, in parallelo alle prime: sul punto non è possibile uno specifico ulteriore approfondimento, dovendo qui accontentarcisi di un rinvio generico alle numerose pronunce[17].
Il caso, però, in cui la tradizione nazionale di uno dei Paesi membri è stato prospettato come in inconciliabile conflitto col diritto eurounitario è senz’altro quello della nota vicenda Taricco (CGUE, Grande Camera, 08/09/2015 in causa C-105/14, Taricco) e relativo alla durata della prescrizione dei reati in danno delle risorse finanziarie dell’Unione, qualificata come eccessivamente contenuta da Lussemburgo e in tale accezione dichiarata però incompatibile con la tradizione costituzionale italiana, ma pure con quella comune ai Paesi di civil law dalla celeberrima Corte cost. n. 24 del 2017.
La «vicenda Taricco»[18] prende nome dalla sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2015, in c. Taricco, emanata in via pregiudiziale sulla interpretazione dell’art. 325, § 1-2, TFUE, relativamente alla prescrizione dei reati in materia di IVA. Il contenuto della sentenza europea ha indotto la Corte di cassazione e la Corte di appello di Milano a sollevare incidenti di costituzionalità.
La Corte costituzionale ha posto tre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia, con ordinanza 23 novembre 2016-26 gennaio 2017, n.24. La Corte europea ha risposto con la sentenza 5 dicembre 2017, in causa M.A.S. e M.B. (indicata anche «Taricco 2» o «Taricco-bis»), a cui ha fatto seguito la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115.
In estrema sintesi e dando atto della sterminata letteratura già maturata al riguardo, si può così ricostruire la vicenda (comunque riassunta già dalla richiamata ordinanza della nostra Consulta):
- nella propria sentenza del 2015 la CGUE, adita con rinvio pregiudiziale dal GUP di Cuneo, ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione, impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni agli autori del reato, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, lede gli interessi finanziari dell’Unione tutelati dall’art. 325 TFUE, norma considerata dalla Corte di effetto diretto;
- pertanto, i giudici nazionali si sono trovati nella difficile situazione di dover scegliere se disapplicare la normativa italiana in tema di prescrizione, ove questa finisse per ledere gli interessi finanziari dell’Unione in casi di frode grave in materia di IVA, oppure continuare ad applicarla, considerandola una garanzia irrinunciabile, ma in questo modo opponendo un c.d. controlimite al primato del diritto dell’Unione europea;
- i giudici nazionali, secondo le regole stabilite dalla giurisprudenza costituzionale per il caso di contrasto della norma europea non immediatamente precettiva con la Costituzione[19], si sono rivolti alla Corte costituzionale per sciogliere questa alternativa[20]: in particolare, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130 (che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona), nella parte in cui impone di applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, disposizione da cui - nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella pronuncia Taricco - discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, co. 3, e 161, co. 2, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA: anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli artt. 3, 11, 25, co. 2, 27, co. 3, 101, co. 2, Cost.;
- la nostra Corte costituzionale, anziché risolvere il dubbio circa il rispetto del primato del diritto dell’Unione o la prevalenza dei diritti fondamentali dell’imputato (e dunque l’applicazione dei controlimiti), ha preferito continuare il dialogo con la Corte di giustizia, chiedendo (in buona sostanza) conferma dell’interpretazione della pronuncia Taricco e prospettando alla Corte come possibile conseguenza l’applicazione dei controlimiti, ma senza decidere autonomamente per tale opzione interpretativa.
L’ordinanza è estremamente complessa, ma è evidente che ha preferito, sia pure assortendolo con la minaccia dell’azionamento dei controlimiti, il riconoscimento alla Corte di giustizia del compito istituzionale « d’effectuer la constatation et la synthèse des valeurs et des principes communs, car elle seule se trouve dans la condition institutionnelle et fonctionnelle pour définir leur portée et pour évaluer donc leur degré de compatibilité et d’adaptabilité avec les valeurs et les principes constitutionnels qui sont éventuellement en jeu »[21].
In sostanza, secondo questa prospettazione, solo dopo che la Corte di Lussemburgo avrà valutato la coerenza tra i valori dell’Unione e l’identità nazionale e costituzionale degli Stati membri, verificandone l’inconciliabilità, le giurisdizioni nazionali potranno invocare detti controlimiti.
5 Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana.
La Corte costituzionale italiana ha, in sostanza, posto alla Corte di giustizia l’interrogativo se la regola eurounitaria debba trovare applicazione anche quando confligga in modo inconciliabile con un principio cardine dell’ordinamento nazionale.
Per la peculiarità dell’istituto della prescrizione, che, almeno al momento dei fatti, non era disciplinato direttamente dalla normativa eurounitaria nemmeno quanto ai reati contro le risorse finanziarie dell’Unione ed era prevalentemente inteso come attinente al diritto processuale penale e non a quello sostanziale, così da non rientrare nella protezione giuridica normalmente concessa dal principio di legalità delle pene e dall’irretroattività della norma penale sfavorevole al reo, la nostra Consulta ha rilevato che la norma eurounitaria, come interpretata dalla Corte di Lussemburgo con la sentenza Taricco e col conseguente obbligo per il giudice italiano di disapplicare sic et simpliciter la norma sulla prescrizione per i reati in questione, avrebbe violato il principio di legalità.
Infatti, il regime legale della prescrizione è, nel nostro ordinamento giuridico, soggetto al principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.: con una scelta che, sebbene non propria di tutti gli Stati membri, è condivisa almeno da altro ordinamento, cioè quello spagnolo; e, soprattutto, in una materia in cui non vi è alcuna esigenza di uniformità dei differenti ordinamenti degli Stati membri per imperative esigenze eurounitarie; del resto, non avendo la sentenza Taricco imposto ad uno Stato membro la rinuncia alle proprie «disposizioni e tradizioni costituzionali», ove risultassero di maggior favore per l’imputato.
L’attrazione dell’istituto sostanziale della prescrizione nell’ambito del principio di legalità impone poi, nel nostro ordinamento, la determinatezza della sua disciplina, da formularsi in termini «chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice»; ed il principio di determinatezza, così inteso, è stato ricondotto dalla stessa Corte di Lussemburgo alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto.
Dopo un’attenta analisi della fattispecie e delle sue implicazioni sia dal lato della prevedibilità – e quindi della base legale – del regime di punibilità al momento del fatto che da quello della negazione, al giudice negli ordinamenti di civil law e quale corollario del principio cardinale della riserva di legge in materia, del potere di integrare discrezionalmente la disciplina penale dinanzi ad una norma che, come interpretata dal Lussemburgo, si risolverebbe nella fissazione di un obiettivo generico, cioè un regime adeguatamente dissuasivo della repressione penale delle frodi al fisco UE, per superare la sistematica impunità che il regime legale italiano della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali.
In questo contesto, il contrasto o conflitto tra la norma eurounitaria ed un principio fondante dell’ordinamento nazionale, uno dei «principi supremi dell’ordine costituzionale», sarebbe insanabile e la nostra Corte costituzionale sarebbe costretta a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma che autorizza l’adesione al Trattato UE nella parte in cui imponesse di violare uno di quei principi irrinunciabili (ciò che va comunemente e descrittivamente ricondotto alla c.d. teoria dei controlimiti, per una compiuta esposizione della quale basti un richiamo alla celebre pronuncia della nostra Consulta del 2014[22]): il principio di legalità e quello di divisione tra i poteri (quest’ultimo nell’accezione propria dei Paesi di civil law o di tradizione continentale, definito «principio cardine oggetto di largo consenso diffuso tra gli Stati membri»).
Di qui lo snodo cruciale della decisione: «i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza».
Pertanto, riconosciuta la competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione, la Consulta esprime l’auspicio che, nei casi in cui la valutazione del suo impatto sulla «identità costituzionale di ciascun[o] Stato membro» sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale, competendo poi a ciascuno di questi ordinamenti – e, in quello italiano, alla Corte costituzionale – stabilire a chi spetti tale verifica.
Impregiudicata la (evidentemente, inevitabile) responsabilità della Repubblica italiana per omissione di un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, per avere in particolare limitato l’operatività della prescrizione, la Consulta precisa che la soluzione auspicata non contrasterebbe col diritto dell’Unione e con l’esclusiva competenza della Corte di giustizia nella sua interpretazione, perché l’impedimento al giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata da quest’ultima deriverebbe da un elemento qualificante esterno, cioè dalla normativa nazionale sulla prescrizione e dall’imperativa necessità di rispettare l’«identità costituzionale» italiana, nella specie integrata dal principio di legalità da applicare pure al regime della prescrizione: quale livello di protezione più alto e quindi tutelato dall’art. 53 della CDFUE, ma anche perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani di cui all’art. 2 del TUE[23].
6 Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo
La Corte di giustizia, accolta la richiesta di procedimento accelerato, ha reso la sentenza della Grande Camera del 5 dicembre 2017 (M.A.S. e M.B., causa C-42/17), con cui, in estrema sintesi:
- ha ricordato come incombano ai singoli Stati membri, cui è lasciata la libertà di scelta e pure di combinazione tra le sanzioni penali o amministrative, la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione ed il recupero delle somme sottratte al bilancio di questa a causa di frodi: sicché spetta a ciascuno di quelli, a pena di inadempimento dell’obbligo derivante dal primo comma dell’art. 1 TFUE, l’adozione di misure dotate di carattere effettivo e dissuasivo, per di più non diverse da quelle previste contro la frode degli interessi nazionali domestici o nazionali;
- tanto integra però un obbligo di risultato, che grava in prima battuta sul legislatore nazionale, ma in un quadro – quello relativo alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione – di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri;
- pertanto, da un lato incombe ai giudici nazionali di disapplicare norme sulla prescrizione che deprivino la sanzione di quel carattere o la regolino in maniera differente rispetto ai reati di frode agli interessi finanziari nazionali;
- spetta, dall’altro lato, ai giudici nazionali competenti garantire il rispetto dei diritti degli imputati derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene, la cui importanza è riconosciuta non solo nell’ordinamento dell’Unione, ma anche in quello dei singoli Stati membri, tanto da potersi dire appartenere alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri[24], sancito da vari trattati internazionali e segnatamente all’art. 7, § 1, della CEDU[25];
- il principio di legalità va interpretato anche alla stregua della definizione che vi ha attribuito via via la Corte europea dei diritti dell’Uomo, in virtù dell’equiparazione del suo significato a quello ricostruito da quest’ultima, disposta dall’art. 52, § 3, CDFUE: e tanto in relazione ai requisiti indefettibili di prevedibilità, determinatezza ed irretroattività della legge penale applicabile;
- pertanto e nei confronti dei giudici italiani: da un lato, il diritto dell’Unione, sub specie di tutela degli interessi finanziari di questa, osta all’applicazione della legge penale italiana sulla prescrizione dei delitti di frode ai danni dell’Unione; dall’altro, lo stesso diritto dell’Unione, sub specie di principio fondamentale di legalità come sopra ricostruito, osta a tale disapplicazione, pure se quest’ultima consentisse di rimediare ad una situazione nazionale incompatibile col diritto dell’Unione: spettando allora al legislatore adottare le misure necessarie[26].
È infine sopraggiunta[27] la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115, che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità, ma con una imprevista accentuazione del ruolo centrale della valutazione, rimessa alla stessa Consulta, della preminenza della tradizione costituzionale nazionale.
In sostanza, si è decisamente riaffermata la centralità, se non anzi la esclusività, del ruolo di interprete e garante dei principi fondamentali e, per ciò pure, per logica necessità, del modo con cui vengono a formazione le tradizioni comuni. Se, infatti, si fosse continuato a fare diretto ed esclusivo riferimento a queste ultime, sarebbe stato inevitabile il coinvolgimento della Corte dell’Unione in ordine al loro apprezzamento ed alla loro salvaguardia. Insomma, una pronunzia che s’immette nel solco già tracciato dalla 269 del 2017, prolungando e rimarcando la linea in essa tracciata per ciò che attiene all’individuazione della sede istituzionale (la Consulta, appunto) nella quale sono definite le questioni assiologicamente pregnanti, siccome coinvolgenti i valori fondamentali dell’ordine costituzionale, pure – qui è il punto – nelle loro proiezioni al piano dei rapporti interordinamentali[28].
La conclusione è anomala: due sentenze della Grande Chambre della Corte di giustizia (sulla interpretazione di due disposizioni del TFUE) sono state giudicate dal giudice costituzionale prive di effetto rispetto alla nostra giustizia penale perché le norme che il giudice europeo ha tratto in via interpretativa da queste disposizioni (la c.d. regola Taricco) violano il principio di legalità penale, ed in particolare il principio di determinatezza della norma penale.
La motivazione della sentenza della Corte costituzionale si conclude con una chiara e recisa affermazione: la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della «regola Taricco» nel nostro ordinamento. La Corte costituzionale riferisce il giudizio di indeterminatezza alla interpretazione non solo del § 1, ma anche del § 2 dell’art. 325 TFUE, perché nella «regola Taricco» vengono unificate le norme che la Corte europea aveva desunto da ambedue i detti paragrafi.
L’irrilevanza, rispetto alla vigente normativa della giustizia penale (specificamente, della prescrizione del reato), delle due pronunzie della Corte europea, a dispetto della particolare autorevolezza dell’organo che le ha emanate, è ormai sancita[29].
7 Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
La vicenda ha suscitato ampi commenti ed ha avuto un’eco obiettivamente eccezionale, per le ricadute sia sul diritto interno, sia su quello dell’Unione, a cominciare dal profilo dei rapporti tra l’uno e l’altro in un momento obiettivamente delicato per il procedimento di integrazione europea; e competono ai costituzionalisti ed agli accademici gli approfondimenti necessari, che possano sorreggere nel modo più adeguato e conforme allo spirito dei Trattati il cammino verso l’epilogo.
Può qui osservarsi che l’arma finale dei cc.dd. controlimiti è stata disinnescata dalla Corte di Lussemburgo mediante un’accorta riconduzione del contenuto dei principi fondamentali o di «identità costituzionale», rivendicati come propri dell’ordinamento italiano e tali da giustificare perfino una disapplicazione della norma che autorizza l’adesione alla UE, ad un’accezione di quei principi sussunta entro le «tradizioni costituzionali comuni» ai singoli Stati: il principio di legalità, come rivendicato in Italia, rientra anch’esso fra queste ultime e giustifica un’interpretazione del diritto dell’Unione che ne tenga conto, nella specie consentendo la … «non disapplicazione» della normativa interna perfino nel senso codificato dalla stessa Corte di giustizia.
È un accorto meccanismo di bilanciamento degli interessi di ordinamenti a pluralità di livello: fermo il primato del diritto dell’Unione (dogma che anche nell’ord. 24 del 2017 la nostra Consulta proclama di rispettare, sia pure adeguatamente finalizzandolo agli obiettivi del Trattato e, quindi, per così dire contestualizzandolo ed esigendo che quello stesso diritto rispetti le identità giuridiche nazionali[30]), il giudice nazionale, primo e diretto operatore del diritto dell’Unione, deve applicarlo anche disapplicando la normativa nazionale che con quello contrasti; ma, ove tale disapplicazione contrasti a sua volta con principi fondanti – tali cioè da definire la stessa «identità costituzionale» e, quindi, le «tradizioni costituzionali» – dello Stato cui appartiene, egli potrebbe avere la facoltà di non disapplicare la normativa nazionale e di prestare ossequio prevalente alla tradizione costituzionale del proprio Stato.
Insomma, le tradizioni costituzionali comuni e le singole identità nazionali, quali ricavate dalle tradizioni costituzionali peculiari di ciascuno Stato, non sono contrapposte, ma reciprocamente interagiscono; e, anche se non è mai stata affrontata la questione di cosa sia davvero comune tra le tradizioni nazionali e la legge europea, tanto da trascendere le une e l’altra fino ad entrare in conflitto con entrambe, il ruolo formale delle prime assorbe – quasi distilla o deriva – i suoi contenuti dalle seconde.
Pur non potendo configurarsi un obbligo giuridico formale dell’Unione di rispettare le identità nazionali (che sarebbe la negazione del fondamento stesso dell’Unione, che mira ad armonizzarle in un quid novi che dalla mera sommatoria di quelle si differenzi), la circostanza che queste, mediante le tradizioni costituzionali comuni e la loro concreta interpretazione, concorrano inevitabilmente alla formazione del diritto dell’Unione come principi ispiratori influenza – come una sorta di fonte della fonte, che dovrebbe essere a sua volta una fonte o almeno a questa sovraordinata, quale principio generale del diritto dell’Unione riconosciuto dall’art. 52, co. 3, della CDFUE – necessariamente il medesimo diritto eurounitario.
La prospettiva è quindi tracciata: grazie anche a questo proficuo dialogo preventivo, le due Corti – quella costituzionale a Roma e quella di giustizia a Lussemburgo – hanno fornito un utile precedente, suscettibile di replica nei casi, che si auspica restino eccezionali, di conflitto insanabile fra il diritto dell’Unione ed i principi che fondino la stessa «identità costituzionale», potendosi essi ricondursi, quali elementi costitutivi, a quelle «tradizioni costituzionali comuni».
L’identità nazionale dei singoli Stati membri convive e coesiste, in evidente tensione dialettica, con la sintesi di ognuna che si esprime nel concetto di «tradizioni costituzionali comuni»: ed è chiaro che la sintesi risenta delle peculiarità di ogni sua componente, ma, come per ogni sintesi, è agli elementi comuni che occorre fare riferimento, in modo tale che essi siano in grado di esprimere un minimo comune denominatore appunto condiviso, non compromesso dalle pure inevitabili particolarità di ogni sua componente.
Non va dimenticato che, del resto, le «tradizioni costituzionali», siano esse comuni o – al contrario – proprie e particolari di ciascun ordinamento nazionale, rilevano per il diritto dell’Unione solo quanto alla delimitazione del significato dei diritti fondamentali: ed essendo intuitivo come la incoercibile diversità delle singole realtà nazionali europee ancora sia di ostacolo ad una condivisione di ogni altro aspetto della realtà economica, sociale, politica e, infine, giuridica.
Una proficua interazione tra le tradizioni costituzionali ed il diritto dell’Unione sembra idonea a consentire, quando le prime siano comuni agli Stati membri e comunque pur sempre ristretto il campo della loro operatività alla protezione dei diritti fondamentali, di individuare tratti comuni agli ordinamenti di più Stati, ancora però non formalizzati in norme scritte: insomma, un utile strumento di quella che potrebbe chiamarsi interpretazione evolutiva.
L’ulteriore operatività del meccanismo sopra delineato, peraltro, esige una duplice riflessione da un punto di vista applicativo.
In un delicato ed importante passaggio dell’ordinanza n. 24 del 2017[31] la Corte costituzionale ha avallato la correttezza della scelta procedurale del giudice ordinario di rimetterle la verifica della compatibilità della normativa dell’Unione, come sovranamente interpretata dalla Corte di giustizia, con i principi supremi dell’ordinamento nazionale: e, per il contesto in cui è pronunciata, la regola vale certamente quando il conflitto riguardi un diritto fondamentale, il cui significato sia definito dalle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo; soprattutto quando il contrasto impedisca l’applicazione della protezione eventualmente maggiore accordata dal singolo Stato membro ad un diritto fondamentale in base alla propria «tradizione costituzionale», prospettata come di portata evidentemente più ampia rispetto a quella comune agli altri Stati.
Nella vicenda Taricco e Taricco-bis, l’interpretazione del diritto europeo era già stata fornita in modo vincolante dalla Corte di giustizia, sicché la via obbligata era appunto quella di sottoporre la questione alla Consulta: la quale però offre un altro prezioso spunto di impostazione procedurale, quando preannuncia che, ove dalla Corte di giustizia fosse condivisa la sua interpretazione (della rimessione alle autorità nazionali della valutazione della compatibilità del diritto dell’Unione con la «identità nazionale» del singolo Stato membro e della facoltà di non disapplicare la normativa nazionale in favore di quella eurounitaria quando questa non sia compatibile con la «identità costituzionale» dello Stato membro), la questione di legittimità costituzionale – della norma che, dando esecuzione al Trattato di Lisbona, autorizza l’adesione dell’Italia all’UE, limitatamente al conseguente obbligo di conformarsi all’interpretazione del diritto di quest’ultima nel caso di specie – «non sarebbe accolta».
Si può allora affermare che, ove la singola disposizione del diritto eurounitario debba ancora essere interpretata dalla Corte di Lussemburgo, sia necessario – per le Corti di ultima istanza – od almeno opportuno – per tutti gli altri giudici – sottoporre dapprima a quest’ultima la questione dell’esatta interpretazione di quel diritto ai sensi dell’art. 267 TFUE, onde valutare solo in un secondo momento gli effetti di tale interpretazione nell’ordinamento italiano e, in particolare, se sia sufficiente la facoltà di non applicare la norma eurounitaria nel caso concreto o se sia necessario sollecitare un intervento demolitore erga omnes della Consulta in un senso o nell’altro: tale soluzione avrebbe il pregio di rispettare i dogmi della gestione diffusa dell’applicazione del diritto eurounitario e del principio del suo primato, che risponde a sua volta al riparto dei rispettivi ambiti come delineato almeno fino alla fine del 2017.
* Prima parte della relazione tenuta sul tema “Rapporti tra diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento italiano nel dialogo tra le Corti” nell'ambito dell'incontro di studi organizzato dalla Struttura per la Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura in Firenze il 29/01/2020 avente ad oggetto “Il ruolo del giudice nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione europea”.
L’autore è consigliere della Corte suprema di cassazione, assegnato dal 2010 alla terza sezione civile e dal 2016 alle sezioni unite civili – componente, dalla sua istituzione a gennaio 2016, del gruppo dei referenti per i protocolli di intesa tra la Corte suprema di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’Uomo e, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[1] Sia consentito un mero richiamo a: A. Di Stasi (a cura di) Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia – l’applicazione giurisprudenziale del titolo VI della Carta, Napoli 2019; F. Biondi, Quale dialogo tra le Corti?, in www.federalismi.it; R. Caponi, Dialogo tra Corti nazionali e internazionali, in http://www.treccani.it/enciclopedia/dialogo-tra-corti-nazionali-e-corti-internazionali_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/
[2] Tra le ultime: Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 20 dicembre 2016, Ljaskaj c. Croazia, definitiva il 20/03/2017; Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 18 luglio 2019, ricorso n. 16812/17, Rustavi 2 Broadcasting Company ltd c/ Georgia, par. 310 [«310. The Court notes that private-law disputes do not themselves engage the responsibility of the State under Article 1 of Protocol No. 1 to the Convention (see, mutatis mutandis, Ruiz Mateos v. the United Kingdom, no. 13021/87, Commission decision of 8 September 1988, Decisions and Reports (DR) 57, pp. 268 and 275; Tormala v. Finland (dec.), no. 41258/98, 16 March 2004; Eskelinen v. Finland (dec.), no. 7274/02, 3 February 2004; Kranz v. Poland (dec.), no. 6214/02, 10 September 2002; and Skowronski v. Poland (dec.), no. 52595/99, 28 June 2001). In particular, the mere fact that the State, through its judicial system, provided a forum for the determination of such a private-law dispute does not give rise to an interference by the State with property rights under Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Kuchař and Štis v. the Czech Republic (dec.), no. 37527/97, 21 October 1998).The State may be held responsible for losses caused by such determinations if court decisions are not given in accordance with domestic law or if they are flawed by arbitrariness or manifest unreasonableness contrary to Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Vulakh and Others v. Russia, no. 33468/03, § 44, 10 January 2012). However, it should be borne in mind that the Court’s jurisdiction to verify that domestic law has been correctly interpreted and applied is limited, and it is not its function to take the place of the national courts. Rather, the Court’s role is to ensure that the decisions of those courts are not arbitrary or otherwise manifestly unreasonable (see, for example, Anheuser-Busch Inc. v. Portugal [GC], no. 73049/01, § 83, ECHR 2007‑I).»]
[3] Sia consentito un richiamo a F. De Stefano, Le principali decisioni della Corte in materia civile verso l’Italia, in F. Buffa, M.G. Civinini (a cura di) La Corte di Strasburgo, speciale Questione Giustizia on line, dall’aprile 2019, specialmente § 2. In materia esecutiva, si veda, se si vuole, F. De Stefano, Le tecniche decisionali e l’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale civile nella giurisprudenza della CEDU e della Corte di Cassazione, in B. Capponi, A. Storto (a cura di), Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., Napoli 2018, pp. 335 ss.
[4] Il riferimento è allo spirito con cui si sono accinti alla firma gli Stati contraenti, «animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto».
[5] Corte di giustizia, sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77. In base ad essa, tra l’altro, l’effetto diretto e il primato delle norme comunitarie impongono che sia data loro applicazione immediata; pertanto, non solo le norme interne successive incompatibili non si formano validamente, ma l’efficacia del sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto comunitario, fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice nazionale, verrebbe indebitamente ridotta se quest’ultimo non avesse il diritto di fare immediata applicazione delle norme comunitarie.
[6] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573/17, punti 53 ss.
[7] Corte di giustizia, sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a., cause C-6/90 e C-9/90, punto 33.
[8] Corte di giustizia, sentenza del 4 dicembre 2018, Minister for Justice and Equality e Commissioner of An Garda Síochána, causa C-378/17, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.
[9] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 65.
[10] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 78, ove ulteriori richiami giurisprudenziali. In particolare, si è negato al giudice nazionale il potere di validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto o è applicata in un modo siffatto dalle autorità nazionali competenti
[11] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 19 novembre 2019, A.K., cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18, punti 157 ss..
[12] La conclusione, dirompente, di Corte di giustizia, Grande Sezione, A.K., cit., è che l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che controversie relative all’applicazione del diritto dell’Unione possano ricadere nella competenza esclusiva di un organo che non costituisce un giudice indipendente e imparziale, ai sensi della prima di tali disposizioni. Ciò si verifica quando le condizioni oggettive nelle quali è stato creato l’organo di cui trattasi e le caratteristiche del medesimo nonché il modo in cui i suoi membri sono stati nominati siano idonei a generare dubbi legittimi, nei singoli, quanto all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti e, pertanto, possano portare a una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detto organo, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica. Spetta al giudice del rinvio determinare, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti di cui dispone, se ciò accada con riferimento a un organo come la Sezione disciplinare del Sąd Najwyższy (Corte suprema). In una tale ipotesi, il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare la disposizione di diritto nazionale che riservi a detto organo la competenza a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali, di modo che esse possano essere esaminate da un giudice che soddisfi i summenzionati requisiti di indipendenza e di imparzialità e che sarebbe competente nella materia interessata se la suddetta disposizione non vi ostasse.
[13] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 29 luglio 2019, Spiegel Online GmbH, punti 19 ss.
[14] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni, causa C-399/11, punto 59.
[15] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 14 maggio 2019, Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CCOO), causa C-55/18, punti 68 ss.
[16] Corte di Giustizia, Grande Sezione, conclusioni del 15 giugno 2015, causa C-62/14, di puntuale rivendicazione della primazia del diritto eurounitario, nonostante il monito contrario del Tribunale costituzionale federale tedesco e la prospettazione, anche da parte di questo, dell’evenienza di un’applicazione dei cc.dd. controlimiti.
[17] Tra cui si segnala, per l’ampiezza del recepimento della pronuncia di Lussemburgo sul rinvio pregiudiziale disposto nel corso dello stesso giudizio di legittimità, Corte di Cassazione, sentenza del 30 ottobre 2018, n. 27564, a mente della quale «il principio del ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non impedisce che a un soggetto, già penalmente condannato con sentenza irrevocabile per il reato di cui all’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998, sia successivamente irrogata la sanzione di natura penale, benché formalmente amministrativa, di cui all’art. 187 ter del citato d.lgs., purché siano garantiti: 1) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, della richiamata Carta, secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l’onere, per il soggetto interessato da tale cumulo, sia limitato allo stretto necessario».
[18] La ricostruzione è quella di E. Lupo, La «vicenda Taricco» impone di riconsiderare gli effetti del decorso del tempo nella giustizia penale sostanziale?, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2019/02/Lupo-Vicenda-pdf.pdf. La dottrina può dirsi sterminata sul punto; per un’indicazione bibliografica v. già F. Donati, La tutela dei diritti tra ordinamento interno ed ordinamento dell’Unione europea, in DUE 2019, fasc. 2, pp. 261 ss.
[19] Corte costituzionale, sentenza del dì 8 giugno 1984, n. 170, c.d. Granital.
[20] V. le ordinanze di rinvio della Corte d’appello di Milano del 18 settembre 2015 e della Corte di cassazione del dì 8 luglio 2016, rispettivamente iscritte al n. 339 del registro ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2016.
[21] A. Tizzano, Notes sur le rôle de la Cour de justice de l’Union européenne, in M. D’Alessio, V. Kronenberger, V. Placco (dirs.), De Rome à Lisbonne: les juridictions de l’Union européenne à la croisée des chemins. Mélanges en l’honneur de Paolo Mengozzi, Bruxelles, 2013, pp. 223 ss.
[22] Corte costituzionale, sentenza del 22 ottobre 2014, n. 238, relativa ad una controversia civile per risarcimento di danni arrecati da uno Stato estero per atti qualificabili delicta imperii, in Foro it., 2015, I, 1152; la letteratura sul punto è sterminata. Alla sentenza 238/14 della Consulta si richiamano espressamente non poche pronunce di legittimità, l’ultima delle quali consta essere quella di Corte di Cassazione, sentenza del 3 settembre 2019, n. 21995.
[23] La conclusione è stata, com’è noto, la formulazione del triplice quesito:
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;
- se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
[24] Per quanto riguarda il principio di irretroattività della legge penale: Corte di giustizia, sentenza del 13 novembre 1990, Fedesa e a., causa C-331/88, punto 42.
[25] In tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, causa C-303/05, punto 49.
[26] Di qui la risposta ai primi due quesiti, con assorbimento del terzo: «l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».
[27] Dal canto suo, la Corte di cassazione comunque precisava che, in materia di reati tributari, l’applicazione dei principi affermati dalla sentenza 8 settembre 2015 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Camera, Taricco e aa., C-105/14 - sull’obbligo di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen., se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea - non si applicano ai fatti commessi prima della sua pronuncia: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 20 marzo 2018 e depositata il 18 aprile 2018, n. 17401, imp. Pennacchini; nello stesso senso: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2019 e depositata il 12 giugno 2019, n. 25831, imputato Scanu. In precedenza (Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 7 febbraio 2018 e depositata il 2 marzo 2018, n. 9494, imputato Schiavo e aa.), la Corte aveva concluso che la soluzione di non applicabilità della c.d. regola Taricco era stata già ammessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, richiamandone la sentenza del 5 dicembre 2017, in causa C- 42/17.
[28] Questa la severa lettura di A. Ruggeri, Dopo Taricco: identità costituzionale e primato della Costituzione o della Corte costituzionale? in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018, disponibile all’URL: http://www.osservatoriosullefonti.it
[29] Ne prende atto la Corte di cassazione; ad es., v. Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2018, depositata il 19 febbraio 2019, n. 7384, imputati Di Carlo e aa.
[30] Icastica è la puntualizzazione: «il principio del primato del diritto dell’Unione … riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri».
[31] Ultimo periodo del paragrafo 6.
La giustizia e la ricerca della verita’ giudiziaria secondo Leonardo Sciascia
1. Parlare di giustizia, di magistrati e di ricerca della verità giudiziaria, a proposito dell’opera di Leonardo Sciascia, è un’operazione tutt’altro che semplice.
Non è semplice perché questi temi costituiscono una sorta di filo conduttore della straordinaria opera – letteraria, saggistica, editoriale – di Leonardo Sciascia e sono stati affrontati da figure intellettuali che scoraggiano ulteriori cimenti; e scoraggiano soprattutto me che devo cimentarmi con questa impresa.
E non è semplice, anche per un altro ordine di ragioni, collegato al fatto che il tema della giustizia e dei magistrati sciasciani è stato talmente dibattuto, condiviso, avversato – troppo spesso strumentalizzato per finalità contingenti, che non hanno reso onore alla riflessione sempre lucida di Leonardo Sciascia – da imporre a chiunque vi si confronti una grande cautela e un rispetto, necessariamente esegetico, del punto di vista del Maestro racalmutese.
Le difficoltà, per me, sono accentuate dal fatto che non ho mai conosciuto personalmente Leonardo Sciascia e non ho mai avuto a che fare con ambienti sciasciani; ho solo alcuni ricordi collegati ai racconti che mi sono stati fatti da amici dello scrittore, che però non mi hanno mai consentito di avere un’idea precisa sulla sua figura umana, che reputo indispensabile per affrontare un discorso non strettamente filologico su un intellettuale della sua insuperabile statura.
Con queste, doverose, premesse metodologiche e, naturalmente, senza alcuna pretesa di originalità, penso che qualche parola su tali argomenti si possa spendere.
2. Mi sembra, innanzitutto, opportuno evidenziare che Leonardo Sciascia affronta il tema della giustizia, da un triplice punto di vista: quello dell’editore, quello del saggista-polemista e quello dello scrittore. Tutti e tre questi punti di vista mi sembrano collegati e ispirati dalla visione etica del ruolo dell’intellettuale che caratterizza il pensiero dello scrittore racalmutese.
In queste mie riflessioni sparse, partirei dal punto di vista sulla giustizia espresso da Leonardo Sciascia nella sua attività di consulente principe della Casa editrice Sellerio di Palermo, che è passato in secondo piano rispetto al suo multiforme impegno culturale, ma che, a mio avviso, costituisce un esempio inarrivabile per chiunque decida di confrontarsi con i temi giudiziari.
Attraverso questa pluriennale attività editoriale, infatti, Leonardo Sciascia ha perseguito, con successo, l’obiettivo di sprovincializzare il dibattito sui temi giudiziari, guardando, con il suo incomparabile sguardo, europeista e illuministico, al problema dell’accertamento della verità mediante il processo e ai suoi protagonisti; percorso, questo, che viene condotto attraverso la proposizione di grandi opere letterarie, nostrane e straniere, talora contemporanee talora del passato, spesso, ingiustamente, dimenticate.
In questo contesto, mi sembra opportuno richiamare alcune opere pubblicate sulla collana “La Memoria” della Sellerio, che forniscono una dimostrazione di quanto si sta affermando e dell’approccio, come detto europeista e illuministico, con cui Leonardo Sciascia si avvicinava ai temi della giustizia, miscelando in modo incomparabile antico e moderno, cultura classica e cultura contemporanea. Basti pensare, limitandoci a richiamare alcuni dei titoli pubblicati sulla collana “La Memoria”, a Il procuratore della Giudea di Anatole France, pubblicato sul numero 4; a Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, pubblicato sul numero 27; a La democrazia come violenza di Anonimo ateniese, pubblicato nel numero 42; a La sentenza memorabile dello stesso Sciascia, pubblicato sul numero 56; a Storie di oligarchi di Luciano Canfora, pubblicato sul numero 72; a La repubblica luminosa di Cicerone, pubblicato sul numero 156.
Attraverso questa attività editoriale Leonardo Sciascia, dunque, mirava a fornire un esempio di letteratura sulla giustizia, nella quale la disamina degli obiettivi giudiziari perseguiti non è mai disgiunto dalle finalità etiche che sono correlate a tali obiettivi, pretermettendo le quali è incombente il pericolo del collasso morale della giustizia, di cui è esemplare rappresentazione l’errore giudiziario. Da questo punto di vista, i volumi che ho citato – e soprattutto le opere di Alessandro Manzoni e Anatole France – costituiscono la concretizzazione delle idee di giustizia e di in-giustizia sciasciane e una sorta di memento indispensabile per evitare il verificarsi di errori giudiziari, che costituiscono il pericolo incombente sul processo; pericolo che è tanto maggiore quanto più ci si allontana da una dimensione etica dello jus dicere, che trae il suo fondamento dalla ricerca della verità, che non può passare attraverso semplificazioni procedurali e scorciatoie poliziesche.
L’errore giudiziario, del resto, secondo Leonardo Sciascia, è sempre visibile a uno sguardo scevro da condizionamenti, quale dovrebbe essere quello del giudice, che non può accettare compromessi con la sua coscienza e non deve cercare facili consensi, il cui perseguimento costituisce la negazione dell’idea stessa di giustizia e apre inevitabilmente le porte all’in-giustizia. L’eticità della decisione, pertanto, diventa l’imperativo categorico dell’idea sciasciana della giustizia, che è la conseguenza del fatto che i magistrati – come diceva Montesquieu, uno scrittore molto praticato da Leonardo Sciascia – esercitano un “potere terribile”, perché, è un potere degli uomini sugli uomini, che, incidendo sulla libertà, è in grado di distruggere la vita delle persone nei confronti delle quali è esercitato; o, per usare, un’altra citazione altrettanto famosa e di analogo sapore, tratta dalla lettera di San Paolo ai romani: “La legge provoca la collera di Dio”.
3. Queste idee, che costituiscono il filo conduttore dell’attività editoriale condotta da Leonardo Sciascia presso la Sellerio, vengono riproposte con maggiore vigore nella sua attività di saggista-polemista, portata avanti per diversi anni sia come autore di saggi sia come commentatore presso i quotidiani più importanti.
Tale attività ha dato all’Autore racalmutese una grande notorietà mediatica, che talvolta ha finito per superare la sua stessa fama di narratore, facendolo conoscere al grande pubblico, che ne ha fatto un punto di riferimento del dibattito sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura, al quale, ancora oggi, a distanza di trent’anni dalla sua morte, si continua a pensare.
3.1. A conferma di questa sua fama mediatica, come non ricordare l’articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia”, pubblicato sul Corriere della sera del 10 gennaio 1987, che non solo alimentò grandi polemiche nell’opinione pubblica dell’epoca, ma diede vita a un vero e proprio neologismo, tuttora largamente utilizzato dai commentatori dei temi giudiziari.
Quell’intervento memorabile di Leonardo Sciascia, in realtà, non mirava a descrivere o a criticare alcuni settori della magistratura nostrana, come in modo strumentale, ancora oggi, taluni cercano di far credere ai sempre meno avveduti lettori, ma a dare corpo alle inquietudini dello scrittore racalmutese, che traevano origine da un libro pubblicato da un autore inglese, Christopher Duggan, presso la Casa editrice Rubettino, intitolato La mafia durante il fascismo. Tali inquietudini – che erano già presenti, in modo embrionale, nei romanzi Il giorno della civetta e A ciascuno il suo – riguardavano il pericolo che, attraverso gli strumenti del contrasto alla criminalità organizzata, potessero essere attenuate le garanzie individuali, con un percorso istituzionale che si era già concretizzato in Sicilia nei primi anni del fascismo, con l’azione repressiva condotta dal prefetto Mori.
Come è agevole constatare, si tratta di temi intimamente connessi al discorso sulla giustizia portato avanti da Leonardo Sciascia nel corso della sua multiforme attività culturale, che, ancora oggi, si presentano con immutata attualità, ponendo il problema del punto di equilibrio tra l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e il rispetto delle garanzie individuali; punto di equilibrio che si ripropone ciclicamente in tutta la sua precarietà, culturale ma anche istituzionale, oscillante tra l’esigenza di reprimere i fenomeni mafiosi tenendo conto delle loro peculiarità criminali e la necessità di garantire i diritti di libertà degli individui, che, una volta compressi per contingenti ragioni, pur legittime, difficilmente possono essere recuperati nella loro impregiudicabile connotazione.
Al contempo, la ricerca di questo punto di equilibrio non può mai essere disgiunta dalla ricerca della verità giudiziaria, che, come un fuoco sacro, deve sempre animare il giudice, che non può accontentarsi di soluzioni facili, ma ha il dovere – ancora una volta etico – di scavare oltre le apparenze delle vicende sottoposte al suo vaglio e al suo “terribile” potere.
3.2. Sotto questo profilo, il punto più alto dell’attività di saggista-polemista di Leonardo Sciascia è rappresentato dalla pubblicazione de L’affaire Moro, che aveva luogo, in concomitanza con la vicenda descritta nel numero 80 della collana “La memoria”, già citata, con cui l’Autore racalmutese affrontava uno dei casi più dibattuti della storia italiana: il sequestro dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, avvenuto il 16 marzo del 1978 e conclusosi il 9 maggio dello stesso anno con il suo assassinio.
Questo libro, infatti, pubblicato nel 1978 e accompagnato da aspre polemiche, ha finito per diventare, con il passare degli anni un vero e proprio caposaldo della saggistica d’inchiesta, costituendo un esempio del rigore intellettuale e della coerenza metodologica con cui Leonardo Sciascia portava avanti le sue idee sulla giustizia e sulla ricerca della verità attraverso il percorso giudiziario.
Il punto di vista che sottostava a L’affaire Moro è noto ed è collegato alle informazioni e alla documentazione acquisite da Leonardo Sciascia come componente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro, della quale il nostro Autore faceva parte quale deputato del Partito Radicale.
In questo contesto, Leonardo Sciascia, anziché accettare l’idea, largamente dominante, che le lettere di Aldo Moro fossero prive di valore perché frutto della condizione di costrizione patita per mano delle Brigate Rosse, iniziava un’opera minuziosa di analisi delle missive, riuscendo a ricostruire un ordito di pensieri e di opinioni che, a distanza di più di quarant’anni, costituiscono un esempio, difficilmente eguagliato, di approfondimento dello stato d’animo vissuto dallo statista democristiano durante la sua prigionia. In questo modo, Sciascia, attraverso una disamina accurata ed esegetica delle lettere di Moro, condotta con lo scrupolo tipico del giudice – cioè di colui che, per professione, deve accertare la verità –, riesce a scandagliare con mirabile efficacia la condizione psichica ed emotiva del prigioniero e la trama dei suoi tormentati sentimenti, fino ad allora quasi insondabili.
L’affaire Moro, pertanto, finisce per trascendere il singolo episodio scandagliato dal Maestro racalmutese e diventa una sorta di manifesto della ricerca della verità sciasciana: quella ricerca della verità che deve sottostare all’attività del giudice e che presuppone una tensione, individuale ed etica, che prescinde dal singolo caso trattato dal giudice – o parafrasando Carlo Ginzburg – dallo storico.
3.3. Nella stessa direzione, devono essere letti gli interventi giornalistici che Leonardo Sciascia pubblicò sul volume A futura memoria, che toccano alcuni temi centrali della sua idea, illuministica ed europeista, di giustizia, quali quelli del contrasto alla criminalità organizzata; dell’azione repressiva iniziata e successivamente interrotta dal prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa; degli errori giudiziari sempre più frequenti nelle aule di giustizia e dei possibili correttivi normativi a tali disfunzioni. Punti di vista espressi da Leonardo Sciascia con la sua voce sempre lucida, controcorrente, che esprimeva il suo anelito di giustizia, senza mai stancarsi di destare l’attenzione dell’opinione pubblica sui pericoli di una ricerca giudiziaria di un colpevole, quale che sia, come nelle mirabili pagine manzoniane de La colonna infame, da lui tanto amate e più volte citate nei suoi interventi.
Questi interventi mettono in risalto la grande figura di saggista-polemista di Leonardo Sciascia, che, fino alla fine dei suoi giorni, continuò a denunciare la pervasività territoriale della criminalità organizzata e le connivenze, sociali e istituzionali, che ne avevano permesso l’affermazione, denunciandole senza ambiguità e infingimenti intellettuali. Tale attività di denuncia, tuttavia, non risultava mai recessiva rispetto al culto delle garanzie individuali, di matrice volterriana, che, dal suo mirabile punto di vista, imponevano uno sforzo, culturale prima ancora che istituzionale, che consentisse di coniugare efficienza investigativa e tutela della libertà dei cittadini.
4. Resta da affrontare un ultimo tema, certamente il più suggestivo: quello della giustizia e della ricerca della verità nelle opere letterarie di Leonardo Sciascia.
La suggestione deriva dal fatto che l’intera opera narrativa di Leonardo Sciascia è incentrata su questo argomento, rendendo difficoltosa l’enucleazione di archetipi letterari utili a descrivere l’approccio con cui il Maestro racalmutese lo affrontava.
Ritengo però possibile affrontare questo tema, concentrandomi, naturalmente per sommi capi, su due segmenti dell’opera narrativa di Leonardo Sciascia – rappresentati da Il contesto e Porte aperte –, che fanno emergere, in modo contrapposto e speculare, le idee sciasciane sulla giustizia, sulla verità giudiziaria e sul ruolo dei magistrati.
4.1. Si è detto spesso, a torto, che Leonardo Sciascia non aveva in simpatia i magistrati e la magistratura italiana – mi si perdoni la semplificazione – e, invero, una lettura sbrigativa de Il contesto, che è il primo romanzo al quale vorrei riferirmi, sembra confermare questa superficiale opinione.
La trama de Il contesto è nota.
Dopo l’omicidio di un alto magistrato, il procuratore Varga, al quale fanno seguito gli assassini di altri quattro alti magistrati, Sanza, Azar, Rasto e Galano, inizia una serrata attività d’indagine dell’ispettore Rogas – che è il protagonista del romanzo e un uomo di grande cultura e straordinario acume investigativo – che segue un duplice percorso investigativo, che lo porta a scandagliare gli errori giudiziari dei magistrati assassinati e gli intrecci di potere tra le vittime e l’assetto istituzionale del Paese.
Procedendo con le sue indagini, l’ispettore Rogas si rende conto che si sta architettando una sorta di complotto, attraverso cui i detentori del potere istituzionale, con la collaborazione dei vertici della magistratura, rappresentati dal presidente della corte suprema Riches, cercano di consolidare la loro supremazia; indagini che sembrano confermare le ipotesi investigative di Rogas e disvelano intrecci di potere inaspettati, fino alla conclusione enigmatica del romanzo.
Occorre aggiungere che la nazione in cui è ambientato Il contesto non è definita e anche i nomi e i luoghi del romanzo sono frutto d’invenzione; tuttavia, dietro tale toponimica narrativa, appaiono evidenti i riferimenti alla problematicità della situazione istituzionale italiana degli anni Settanta e all’ambiente giudiziario, soprattutto siciliano, in cui la parte iniziale del racconto sembra ambientata.
I riferimenti alla confusa situazione istituzionale italiana degli anni Settanta, del resto, sono innegabili, sol che si consideri che dei delitti investigati da Rogas nel romanzo non si offre una spiegazione esplicita, un movente giallistico, essendo il racconto costruito in modo tale da non fare comprendere fino in fondo le dinamiche dei fatti criminosi indagati e le causali degli omicidi, che si verificano in una situazione confusa e contraddittoria.
In questa cornice narrativa, Il contesto è fondamentale per comprendere l’idea che Leonardo Sciascia aveva della giustizia e dei suoi protagonisti, perché chiarisce il suo punto di vista, negativo e pessimistico, sugli assetti di potere che governano la magistratura – del Paese di Rogas, ma naturalmente anche dell’Italia – che, quanto più si allontana dall’idea illuministica ed europeista che lo scrittore aveva della ricerca della verità giudiziaria, tanto più si allontana dall’etica, che è il faro che deve illuminare l’attività dello jus dicere.
I magistrati, o meglio gli alti magistrati, che animano Il contesto, infatti, non sono “uomini di giustizia”, nel senso più nobile del termine, ma “uomini di potere”, accanitamente votati al rafforzamento delle proprie posizioni istituzionali e sostanzialmente disinteressati alle vicende giudiziarie, che dovrebbero dominare i loro pensieri, prima ancora che le loro azioni professionali. La conseguenza di questa incessante ricerca del potere, secondo Sciascia, determina nei magistrati e soprattutto negli alti magistrati – del suo indimenticabile romanzo e, indirettamente, del nostro Paese – una cesura insanabile con la società su cui dovrebbero vigilare e con i principi che dovrebbero accompagnare la loro opera di controllo giurisdizionale.
Da questa visione degli assetti di vertice del mondo giudiziario discende il quadro di una magistratura cupa e caricaturale, descritta in termini quasi apocalittici, esclusivamente arroccata sulle sue posizioni di potere e orientata al rafforzamento del suo ruolo istituzionale, immemore delle ragioni della sua funzione di servizio, che non può coincidere con il perseguimento di interessi personali.
Questa visione pessimistica della magistratura e soprattutto del potere giudiziario, del resto, Leonardo Sciascia la propose, per oltre un ventennio, ai lettori italiani dei suoi interventi di saggista-polemista, di cui mi sono già occupato, segnalando, controcorrente e spesso profeticamente, i rischi di una magistratura autoreferenziale, chiusa in se stessa e lontana dalle ragioni, profondamente etiche, necessariamente illuministiche, che dovrebbero ispirare il suo operato.
4.2. Il polo opposto e positivo della visione della giustizia e dei suoi protagonisti di Leonardo Sciascia è certamente rappresentato dal romanzo Porte aperte, che – lo confesso – è l’opera narrativa dello scrittore racalmutese che ho più amato; amore, accresciuto dalla straordinaria interpretazione che fece del suo protagonista, il giudice Vito Di Francesco, Gian Maria Volontè, che interpretò il film di Gianni Amelio del 1990.
Anche la trama di Porte aperte è nota.
Nella Palermo degli anni Trenta, un giudice di corte di assise, Vito Di Francesco, tenta di opporsi con gli strumenti che gli riconosce la legge, alla condanna a morte di Tommaso Scalia, un impiegato appena licenziato, che aveva ucciso, in uno stesso giorno, il suo ex datore di lavoro, un ex collega e la moglie. Tommaso Scalia è stato già condannato dall’opinione pubblica, artatamente manipolata, e chiede egli stesso di essere giustiziato, ma trova di fronte a sé il giudice Di Francesco che non vuole che l’imputato sia condannato a morte e, nonostante le pressioni ricevute, riesce a farlo condannare alla pena dell’ergastolo; condanna che verrà ribaltata nei successivi gradi di giudizio, in conseguenza dei quali l’imputato verrà fucilato.
Occorre anche dire che il giudice Di Francesco pagherà questa sua intransigenza, morale e professionale, con la rovina della sua carriera, atteso che verrà trasferito in una piccola pretura di provincia, nella quale concluderà il suo percorso lavorativo.
Porte aperte, dunque, propone un modello di magistrato e di giurisdizione che è assolutamente contrapposto, ma speculare, a quello esaminato per Il contesto. Un magistrato che non è interessato al potere che gli deriva dalla funzione giudiziaria, a differenza degli alti magistrati uccisi su cui indaga Rogas, ma all’oggetto dell’attività processuale, che è l’imputato come essere umano, sulla cui vicenda ha il dovere di impegnarsi a fondo, attraverso una ricerca della verità che non può che essere spasmodica e che deve essere libera da pregiudizi e condizionamenti; ed è emblematica, da questo punto di vista, la figura del procuratore generale, che costituisce una sorta di alter ego narrativo di Vito Di Francesco e che presenta gli stessi caratteri, umani e professionali, che connotano negativamente le figure giudiziarie de Il contesto.
Porte aperte, molto spesso, è stato indicato come un libro-manifesto contro la pena di morte e tale è certamente; ma è anche – e non secondariamente – un libro sulle qualità che deve avere un magistrato e sui valori che devono animare il suo impegno professionale: la ricerca della verità, perseguita a costo dei propri interessi di carriera; l’assenza di condizionanti esterni; l’indipendenza, morale, intellettuale, di giudizio; il ripudio di ogni pregiudizio nei confronti dell’imputato, quand’anche autore di condotte esecrabili.
Un libro che, pur nella sua veste narrativa, ha una sua intrinseca, elevatissima, dignità culturale, che lo colloca sullo stesso piano delle riflessioni sull’afflittività della pena di Luigi Ferrajoli ed Elvio Fassone.
Ed è proprio la scelta di prefigurare un modello, quasi archetipico, di magistrato, che colloca Porte aperte nel solco della più alta letteratura europea, atteso che i tormenti del giudice Di Francesco sono i tormenti dell’essere umano, dell’intellettuale che si trova a dovere scegliere tra ciò che è “giusto” e “ciò che è opportuno”; riflessioni, queste, che avvicinano Porte aperte alle opere più riuscite di Dostoevskij, che difatti Sciascia cita nel suo romanzo, richiamando l’episodio de L’idiota in cui il principe Myskin parla con un suo servo dello sgomento provocatogli dalla decapitazione di un criminale a Parigi.
Devo aggiungere, nel concludere queste mie brevi riflessioni, che, nel mio immaginario dell’opera sciasciana, la consacrazione di Porte aperte è anche dovuta all’interpretazione fornita da Gian Maria Volontè alla figura di Vito Di Francesco nel film di Gianni Amelio.
Nel giudice Di Francesco di Gian Maria Volontè, infatti, lo sforzo incessante di ricerca della verità, perseguito con gli strumenti della legalità e nel rispetto dei valori ai quali ci si è riferiti, finisce quasi per estenuare il protagonista filmico, che esprime con i suoi gesti lenti e misurati l’umanità dolente che rappresenta e il suo disincanto, che lo fa approcciare alle vicende giudiziarie di cui si occupa in modo distaccato, ma proprio per questo più serenamente e senza alcun pregiudizio.
Viaggio in Italia. Il Viaggio della Corte Costituzionale nelle Carceri
Recensione al Film di Donatella Salari
Ispirandosi al viaggio felice di Guido Piovene di “Viaggio in Italia”, secondo lo schema del tour d’iniziazione, già di stampo ottocentesco, libero e profondo al tempo stesso, la Corte Costituzionale si cimenta in un viaggio che non è ideologico né retorico, ma solo veridico.
Si dice che la parola autorità nella radice indo- europea aug indichi forza, ma contemporaneamente, suggerisce anche augere, ossia promuovere, prendere l’iniziativa dando forma, così, ad un progetto che, quasi in una dimensione sacra, già esiste e che attraverso l’autorità prende una forma presidiandone la crescita ed il destino.
L’autorità trasmette, anche una sua, come dire...? “verità” che dovrebbe esprimersi attraverso la politica e, nello stesso tempo, quella stessa autorità diviene anche relazione perché si prende cura di far esistere il singolo nella sua libertà o, diremmo più liricamente, nella sua individualità irripetibile, attraverso un adeguamento il più spontaneo possibile ad un progetto esistenziale e politico che è anche valore collettivo tanto quanto simbolico.
Se questa possibilità non si realizza, non s’invera, ovvero si rompe questa relazione, l’autorità deve potere recuperare il suo significato simbolico o, se vogliamo, sacrale perché è in questo scambio di simboli che si diventa persona ed è questa la differenza cruciale tra potere ed autorità, come tutti possiamo intuire.
Il potere è, perciò, la reificazione nel presente ed è qualcosa di risolto in se stesso senza alcuna trascendenza che assicuri lo scambio simbolico e la sua dimensione collettiva di riconoscimento in un progetto condiviso che nello Sato democratico moderno vede nella libertà e nell’uguaglianza gli attributi fondamentali.
Credo, allora, di potere sostenere che il viaggio della Corte nelle carceri italiane non nasca tanto o solo da un’esigenza di comunicazione – assolutamente utile - della Corte ma dall’acquisita consapevolezza di trasmettere quella che potremmo chiamare una propria identità che è soprattutto simbolica, ossia in grado di trasmettere quei valori di integrazione e di dignità dell’individui, tra i tanti principi che stanno tutti nella Costituzione e di trasmettere la loro immanenza, al di là delle torsioni e delle contraddizioni del gioco politico e dei suoi tatticismi su valori costituzionali non negoziabili.
Il carcere è, in questo senso, uno dei luoghi più carichi di significati perché proprio lì, attraverso la Costituzione la democrazia offre la scena dello scambio simbolico tra Stato e comunità, rinnovando le intuizioni più profonde sui valori sociali dell’uguaglianza e della funzione rieducativa della pena nel rispetto della persona umana e della sua dignità.
Il viaggio della Corte, di tappa in tappa nelle carceri italiane, da Rebibbia a San Vittore e Sollicciano è il viaggio stesso di ciascuno di noi all’interno della Costituzione e si snoda attraverso le strutture di Terni e di Genova, passando da Lecce fino a Nisida , toccando altri luoghi ,accompagnato dalle parole della Carta e dalle immagini degli istituti penitenziari inquietanti e umane al contempo.
Le parole della Costituzione, nella limpidezza del testo fondamentale fanno da collante sociale a quelle immagini e ci parlano con gli stessi interpreti non come rappresentazioni di concetti, ma enunciazione capaci di divenire “discorsi” nel quale inscrivere la forma stessa della Costituzione nella sua intersoggettività, il che è quanto dire che Costituzione è di tutti, anzi, meglio, è di tutte le persone in quanto tali e, perciò, anche di chi quelle regole ha violato.
Il linguaggio della legalità diviene, così, diegesi del racconto filmico e accompagna un viaggio che cambierà molti dei nostri pensieri sulle carceri, specialmente laddove le informazioni e le nostre strutture conoscitive su questo tema sono divenute preda di stereotipi e di preconcetti.
L’incontro sembra, perciò, rigenerare attraverso un nuovo umanesimo, il linguaggio della Costituzione che non sembra invecchiata a 70 anni dalla sua fondazione, e ci mostra tutta la finitezza e la prevedibilità di un pensiero che vorrebbe velarla d’ombra col “gettare la chiave del carcere” e comprendiamo nell’umanità di chi è ristretto quanto questa immagine diventi affermazione priva di senso o, come si è detto acutamente, getti, semmai, sul carcere un soffocante spirito erinnico che ci spinge indietro di più di mezzo secolo.
L’inedito viaggio prende inizio dal carcere di Rebibbia, presenti 12 giudici e il Presidente Giorgio Lattanzi, davanti a 220 detenuti, in diretta streaming rivolta ad altri undicimila ristretti di altre carceri d’Italia, e si snoda in sette incontri dedicati a singoli istituti penitenziari forte di una sintesi di materiale complesso fatto di incontri, di reportage dei singoli giudici, di fotografie e di interviste.
Non vi è una sceneggiatura, come ha sottolineato il Presidente Lattanzi non vi é una tesi che attraversi il racconto, ma solo l’idea di un incontro tra due mondi diversi che attraverso il linguaggio della legalità e della cura dei diritti riescono a parlarsi e a scambiarsi anche emozioni, ma senza retorica.
La Corte vuole conoscere e farsi conoscere dice il Presidente Lattanzi e, certamente, molti dei frammenti di storia rimarranno nella memoria dei giudici della Corte i quali, come qualcuno ha detto, con questo viaggio hanno potuto scandire una sorta di istruttoria informale che è anche un modo per la Corte di farsi capire, ossia, come una detenuta si è espressa interloquendo con gli eccezionali visitatori, la Costituzione è uno “scudo”.
Insomma, il carcere non è un altrove, ma è quella fiducia e quella speranza che brillano nelle lacrime del Giudice costituzionale Daria De Petris e nella fiduciosa empatia della neo Presidente della Corte Marta Cartabia.
Sommario: 1. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato. – 2. DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà.
1. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato
La maggioranza ha trovato l’accordo, dopo una giornata di forti tensioni, sulle modiche introdotte al dl n°131 del 2019 in tema di intercettazioni telefoniche con cui erano state modificate le previsioni in materia introdotte dal d.lgs. n° 216 del 2017 in attuazione della legge delega di cui alla legge n°103 dello stesso anno. Già questi riferimenti chiariscono il travaglio che ha interessato e continua a interessare la disciplina delle captazioni. Nella formulazione approvata in commissione il termine fissato dalla decretazione di urgenza inizialmente fissato nel 2 marzo è stato ulteriormente prorogato di due mesi in linea con le richieste del Csm. Che peraltro aveva chiesto un termine più lungo. Si tratta dell’ennesima proroga che tuttavia in questo caso si inserisce in una autentica controriforma del d.lgs. 216 del ministro Orlando.
Il primo dato che emerge dalla riscrittura della disciplina riguarda la riassegnazione ai pubblici ministeri del controllo sulle intercettazioni, sulla loro rilevanza ai fini investigativi, sull’archivio, sui tempi del diritto della difesa di venire a conoscenza del loro contenuto e del diritto di copia sottraendolo alla polizia giudiziaria che si limiterà alla esecuzione delle attività di captazione e di ascolto.
L’ulteriore elemento significativo è il completamento della parificazione dei reati dei pubblici ufficiali e ora anche degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione con i reati di criminalità organizzata sia con riferimento ai presupposti sia in relazione alla captazione tra presenti sia in relazione ai provvedimenti d’urgenza sia in relazione con i luoghi dove è consentito l’uso del captatore informatico. Il solo riferimento all’attività di captazione oblitera tutte le altre funzioni del trojan che continuano a mancare di una specifica disciplina pur nella loro riconosciuta invasività e nel grave pregiudizio arrecato ai diritti costituzionalmente garantiti della persona.
Una disciplina particolare è prevista per le intercettazioni poste a fondamento di una misura cautelare. Nonostante l’abrogazione della previsione che consentiva al difensore di fare la trasposizione su nastro delle registrazioni deve ritenersi operante la declaratoria di incostituzionalità che consente alla difesa di chiedere all’accusa copia delle registrazioni poste a fondamento dell’ordinanza mentre resta incerta la conoscenza delle intercettazioni che il Gip ha ritenuto irrilevanti ancorché trasmesse con la richiesta cautelare. Deve invece escludersi l’accesso all’archivio per l’ascolto di quanto depositato. L’aspetto fortemente critico e inaccettabile – stando a quanto era emerso ieri dall’emendamento Grasso poi solo in parte modificato con un subemendamento – è costituito non solo dalla possibile utilizzazione delle intercettazioni per un fatto che non avrebbe consentito l’intercettazione perché non ricompreso fra i reati per i quali l’intercettazione è consentita.
E ancora, in mancanza dei presupposti per l’autorizzazione (gravi indizi e assoluta necessità della prosecuzione delle indagini) anche dall’ampliamento della cosiddetta pesca a strascico. A conferma che non c’è niente da fare e che le logiche punitive non si fermano neppure a fronte delle sentenze delle sezioni unite appena pubblicate (2 gennaio) si è cercato di modificare la disciplina dell’utilizzabilità delle captazioni in un diverso procedimento superando il vincolo della commissione. La mediazione raggiunta è insoddisfacente perché i due vincoli indicati (reati intercettabili e arresto in flagranza) consentono una piena utilizzazione probatoria che consente di avviare l’attività investigativa per un reato e acquisire elementi di altri reati del tutto estranei all’attività di indagine. Ancora più grave quanto previsto con l’uso del captatore attivato per reati di criminalità organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione che consente di usare come prova i risultati dell’intercettazione per qualsiasi altro reato di criminalità organizzata e di criminalità economica.
Si consideri cosa tutto ciò può significare con riferimento a intercettazioni ambientali in qualsiasi posto effettuate, compresi i luoghi di privata dimora. È difficile non vedere in queste norme un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mettono a rischio la riservatezza del domicilio anche perché non c’è garanzia di diffusione di quanto captato anche se estraneo alle indagini e riguardante dati soggettivamente sensibili.
ARTICOLO 15 – La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
2. DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà
Decreto intercettazioni. Confermati gli ampi poteri al Pm sotto tutti i profili, con sottrazione degli stessi alla polizia giudiziaria, come richiesto dai Procuratori della Repubblica; ampio uso del captatore informatico, anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione, parificati in tutto ai reati di criminalità organizzata; diritto di accesso dei difensori delle parti all’ascolto e alle copie delle registrazioni solo nel caso del venir meno del segreto investigativo, che è rimesso alle determinazioni della Procura.
La conversione risolve un dubbio interpretativo, confermando – quanto deciso dalla Corte costituzionale – relativamente al diritto della difesa di avere copia delle registrazioni che il Pm ha trasmesso al giudice con la richiesta delle misure cautelari. Si precisano le condizioni per l’accesso all’archivio delle registrazioni. Mentre va valutata positivamente la previsione per la quale l’intercettazione nei luoghi riservati con il trojan per i reati contro la pubblica amministrazione dovrà indicare le ragioni di questa intrusione che aggredisce la tutela costituzionale del domicilio, va valutata negativamente la disciplina dell’utilizzazione dei risultati intercettativi in altri procedimenti, diversi da quelli nei quali l’intercettazione è stata disposta.
Si prevede, infatti, che i risultati siano utilizzati come prova – in violazione della regola del divieto – se si tratta dei reati per i quali l’arresto è obbligatorio, nonché per tutti i reati che consentono il ricorso alle intercettazioni, con la specificazione della loro indispensabilità e rilevanza. A parte l’elasticità di questi criteri, si autorizza – in questo modo – la cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati.
Il dato trova una ancora più ampia estrinsecazione nel caso dei reati di criminalità organizzata e di criminalità economica: tutto ciò che emergerà dall’uso del trojan sarà utilizzabile come prova o ai sensi di quanto appena delineato, ovvero per quanto attiene ai reati della stessa natura, sempre alla luce del canone della indispensabilità da valutarsi dagli organi investigativi. Peraltro, ciò che non sarà direttamente utilizzabile, potrà costituire notitia criminis, avviando una autonoma attività di intercettazione, che sarà possibile anche nei casi appena indicati avviando una attività di captazione con il virus informatico a catena, cioè, senza fine.
Già questo basterebbe per allarmare in ordine alla lesione dei diritti di libertà che in questo modo si pregiudicano e che sono tutelati dalla Costituzione. La materia si presta a qualche considerazione più ampia in considerazione del fatto che su questo tema si erano appena pronunciate le Sezioni unite che, alla luce dei presidi della materia (principio di legalità e tutela giurisdizionale) avevano dato una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata del tema (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/879-il-regime-della-circolazione-delle-intercettazioni-dopo-la-riforma). Si vuole, cioè, sottolineare come ormai le forze politiche e il Governo, non riescano più a tener conto di quanto la giurisdizione nel suo massimo livello indica. In altri termini, il senso di inquisitorietà ha pervaso a tal punto le forze di governo che ritengono di poter calpestare anche le sentenze della Suprema Corte.
*Pubblicato su “Il Riformista”, il 19.2.2020 e il 23.2.2020.
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