ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Prescrizione e ragionevole durata del processo di Nello Nappi
Sommario: 1. Criteri di ragionevolezza- 2. Prevenzione e sanzione della durata irragionevole del processo- 3. Abusi della difesa- 4. Abusi dell’accusa- 5. Sanzioni disciplinari- 6. Riforma del processo penale
1. Criteri di ragionevolezza
L’appassionato dibattito in corso sul tema della prescrizione del reato risulta a mio avviso viziato da un fraintendimento, perché impropriamente sovrapposto al tema della ragionevole durata del processo.
Benché la questione sia tanto controversa, sono almeno due le solide ragioni per cui occorre ben distinguere il termine di prescrizione del reato dal termine di ragionevole durata del processo.
Innanzitutto il doveroso riconoscimento all’imputato della facoltà di rinunciare alla prescrizione esclude ogni possibilità di individuare il termine di prescrizione come termine di ragionevole durata del processo. È evidente infatti che non può essere considerata nella totale disponibilità dell’imputato la durata del processo, come non lo è ad esempio l’uso di «metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» (art. 188 c.p.p.).
E’ vero che l’art. 111 comma 3 Cost. riconosce all’imputato il diritto a disporre «del tempo e delle altre condizioni necessarie per preparare la sua difesa»; ma l’imputato ha appunto diritto solo al «tempo necessario», che va determinato in base a criteri legali oggettivi. Anzi, proprio perché, a norma dell’art. 6 comma 1 CEDU, lo Stato può rispondere nei confronti di qualsiasi parte privata per una durata irragionevole del processo, ne consegue che nessuna parte può essere considerata “padrona” di tale durata.
In secondo luogo il termine di prescrizione è commisurato alla gravità del reato, tanto che alcuni delitti più gravi sono imprescrittibili. Mentre è evidente che non sempre alla maggiore gravità del reato corrisponde una maggiore complessità del giudizio; e che anche per i reati imprescrittibili si pone un’esigenza di ragionevole durata del processo. Sicché può accadere che per un reato più grave il termine di prescrizione permetta una durata del processo eccessiva rispetto alle effettive esigenze di accertamento, mentre per un reato meno grave i tempi concessi dal termine di prescrizione risultino inadeguati rispetto alla complessità dell’accertamento e non permettano di pervenire tempestivamente a una decisione sul merito.
Non la gravità del reato ma altri sono dunque i criteri di ragionevolezza della durata del processo penale.
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto alla celerità del giudizio deve essere contemperato con il principio del contraddittorio, considerando la complessità del caso, la condotta delle parti, il comportamento delle autorità.
Ne consegue che i termini di ragionevole durata del processo non possono essere rigidamente predeterminati in astratto, ma vanno verificati in concreto, tenendo conto dell’effettivo svolgimento di ogni singolo procedimento.
Non si può omettere di considerare tuttavia che nella nostra esperienza giudiziaria la prescrizione del reato funge di fatto da limite temporale dei processi, le cui cadenze vengono programmate appunto in ragione dell’esigenza di concludere il giudizio prima che il reato si estingua, ove possibile. Ma questa è solo una manifestazione della patologica inefficienza del nostro sistema giudiziario, costretto a rinunciare a una decisione sul merito non ottenibile in tempi ragionevoli. E che si tratti di una patologia è dimostrato dal fatto che l’esigenza di assicurare «la priorità assoluta» ai giudizi relativi ai reati considerati più gravi (art. 132 bis disp. att. c.p.p.) è in palese contraddizione con la necessità di condizionare al consenso dell’imputato il conseguente differimento dei processi per i reati meno gravi con la connessa sospensione del corso della prescrizione (art. 2 ter 23 maggio 2008 n. 92).
Qualsiasi intervento riformatore sulla disciplina della prescrizione andrebbe invece valutato con riferimento alla ratio di questa causa di non punibilità.
Si ritiene infatti che il decorso del tempo eroda progressivamente le stesse ragioni di una risposta sanzionatoria al reato. Ed è in questo dissolversi delle ragioni della pena il fondamento della prescrizione: rispetto alla funzione di prevenzione generale, perché l’oblio rende inutile l’accertamento della responsabilità; rispetto alla funzione di prevenzione speciale, perché il tempo fa mutare la personalità del reo; rispetto alla funzione retributiva della pena, per la connessione del termine di prescrizione con la gravità del reato.
Sicché è in questa prospettiva che occorre stabilire se sia accettabile che la prescrizione decorra anche dopo una prima decisione sul fondamento dell’accusa.
2. Prevenzione e sanzione della durata irragionevole del processo
La sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado evita dunque che si concluda con un sostanziale non liquet un processo già pervenuto a una prima decisione sul merito. Comporta però la conseguenza di privare di fatto di un predeterminato limite di durata i processi penali.
All’imputato che ha subito un processo di durata non ragionevole non rimane che l’azione ex art. 2 legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto).
Tuttavia l’art. 111 comma 2 Cost. esige per la durata del processo un termine ragionevole; non un termine quale che sia. E nulla autorizza ad affermare che quello di prescrizione del reato sia un termine ragionevole di durata del processo. Mentre inducono a ritenere che la ragionevolezza della durata di un processo possa essere valutata solo ex post sia i criteri indicati dalla giurisprudenza di Strasburgo sia l’art. 2 comma 2 della legge n. 89 del 2001, laddove prescrive che, «nell'accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione». Infatti l’art. 2 comma 2 ter della legge n. 89 del 2001, pur prevedendo che «si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni», non esclude che anche una durata maggiore possa essere considerata ragionevole in applicazione dei suddetti criteri.
La complessità della causa deve essere dunque tale da non consentire un più rapido accertamento dei fatti, come ad esempio avviene invece per i casi in cui vi fu arresto in flagranza di reato. Il comportamento dell’imputato può essere valutato solo se si manifesti in condotte meramente dilatorie od ostruzionistiche, perché l’imputato non è tenuto a collaborare con l’autorità giudiziaria. Il comportamento delle autorità, infine, deve essere valutato secondo il criterio che solo situazioni eccezionali e transitorie possono esimere lo Stato dalla responsabilità per la violazione del dovere di organizzare con efficienza l’amministrazione della giustizia.
In realtà l’art. 111 comma 2 Cost. impone di valutare la ragionevolezza non della durata di un singolo procedimento, bensì di una o più norme processuali idonee, già in astratto, a incidere sui tempi del processo, escludendo comunque che possano essere poste in discussione le garanzie previste dalla stessa Costituzione nella definizione del modello di “giusto processo”.
L’art. 111 comma 2 Cost. impone dunque al legislatore di assicurare la ragionevole durata del processo. L’art. 6 CEDU, stabilisce al primo comma che «ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole». E nel darvi piena attuazione, l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto del mancato rispetto di tale termine ragionevole.
A questa duplicità delle fonti normative corrisponde una radicale diversità di prospettive, che ha una notevole rilevanza anche pratica, perché una ragionevole disciplina dei tempi del processo non esclude di per sé la possibilità che singoli procedimenti abbiano durate irragionevoli.
Infatti i tempi della giustizia dipendono in misura determinante an-che dall’efficienza dell’organizzazione giudiziaria: dalla disponibilità di mezzi adeguati come dalla cultura e correttezza dei magistrati. Sicché anche in un ordinamento in cui il processo è ben regolato lo Stato può trovarsi a rispondere dei danni cagionati da un procedimento protrattosi oltre i limiti della ragionevole durata, ad esempio a causa della mancanza di personale o della scarsa laboriosità dei giudici.
La norma costituzionale si rivolge al legislatore, con una direttiva di conformazione della disciplina del processo. La norma sovranazionale e la legge che le dà attuazione si rivolgono alla persona e le riconoscono un diritto tutelabile per via giudiziaria nei confronti dello Stato.
L’azione ex art. 2 legge n. 89 del 2001 è intesa così ad accertare ex post se quel singolo procedimento abbia avuto una durata effettivamente irragionevole, allo scopo di riconoscere eventualmente un’indennità alla parte interessata.
Conviene perciò distinguere tra le misure destinate a prevenire l’irragionevole protrarsi della durata del processo dalle misure destinate a sanzionarne una durata risultata eccessiva. E una volta escluso che l’estinzione del reato per prescrizione possa essere così intesa, un’adeguata sanzione per l’irragionevole protrarsi del processo potrebbe essere considerata, oltre alla già prevista indennità ex legge n. 89 del 2001, una proporzionale riduzione della pena irrogata, come previsto in Germania. Lo stesso riconoscimento dell’equa riparazione potrebbe essere attribuito al giudice penale che definisce tardivamente il giudizio, anziché a un ulteriore giudizio.
3. Abusi della difesa
Riguardata nella prospettiva della durata ragionevole del processo, la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado può essere annoverata tra le misure destinate a favorire una più rapida conclusione del giudizio, perché previene un possibile abuso del processo, che peraltro precluderebbe lo stesso riconoscimento della riparazione per durata irragionevole (art. 2 comma 2 quinquies, lettera d, legge n. 89/2001).
Infatti l’abuso del processo, che tradisce sul piano funzionale le dichiarate esigenze di correttezza e completezza dell’accertamento giurisdizionale, comporta un prolungamento dei tempi che è irragionevole per definizione e viola quindi il principio della ragionevole durata.
Rimuovendo un possibile traguardo di strategie dilatorie, la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado previene dunque la strumentalizzazione del regime delle impugnazioni. E’ dunque una misura utile; ma non insostituibile.
Una possibile alternativa sarebbe quella della estensione della manifesta infondatezza quale motivo di inammissibilità anche dell’appello oltre che del ricorso per cassazione. La dichiarazione di inammissibilità dell’appello manifestamente infondato precluderebbe infatti la possibilità di rilevare la prescrizione sopravvenuta al giudizio di primo grado; e potrebbe perciò scoraggiare le impugnazioni pretestuose, soprattutto se accompagnata a una sanzione pecuniaria.
Contro questa estensione all’appello della causa di inammissibilità già prevista per la cassazione si sostiene che la rilevanza della manifesta infondatezza, che attiene al merito, è incompatibile con la categoria dell’inammissibilità, che attiene alla validità del processo.
Ma l’obiezione non è condivisibile.
E’ vero infatti che l’inammissibilità è una specie di invalidità e attiene quindi al processo, mentre la valutazione circa il fondamento dell’appello attiene al merito.
Ma la qualificazione dell’infondatezza manifesta come causa di inammissibilità intende appunto sanzionare di invalidità l’impugnazione che si «manifesti» come un abuso del processo.
Del resto la valutazione di manifesta infondatezza attiene al merito, non certo al processo, anche quando riguardi un ricorso per cassazione, se con il ricorso non vengano denunciati errores in procedendo. Sicché non è certo la distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità a poter precludere l’estensione all’appello della previsione di inammissibilità per manifesta infondatezza, posto che questa clausola antiabuso è già prevista per il ricorso per cassazione e ha dato ottimi risultati.
4. Abusi dell’accusa
Una misura utile a prevenire, o comunque vanificare, un abuso del processo da parte del pubblico ministero è prevista ora nel disegno di legge delega recentemente approvato dal Governo, dove si ammette la possibilità che il giudice «accerti la data di effettiva acquisizione della notizia di reato, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari».
La ritardata iscrizione di una notizia di reato nell’apposito registro costituisce certamente un’ipotesi di abuso dei poteri del pubblico ministero, che incide sulla durata del procedimento. E in proposito è condivisibile la valutazione di inadeguatezza delle eventuali sanzioni disciplinari ipotizzabili a carico del magistrato, perché l’iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. rileva ai soli fini della decorrenza del termine delle indagini preliminari, non rileva affatto ai fini della validità delle indagini compiute prima dell’iscrizione. Sicché, nel caso in cui l'iscrizione sia omessa o ritardata, non si determina alcuna invalidità, se non si consente al giudice di verificare ex post la tempestività dell’iscrizione.
Attualmente la giurisprudenza della Corte di cassazione si esprime in due enunciati sul punto: primo, che le iscrizioni delle notizie di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. richiedano un qualche fondamento probatorio; secondo, che l’eventuale abuso di questo potere di valutazione del fondamento probatorio legittimante all’iscrizione da parte del pubblico ministero non può essere sindacato dal giudice, all’interno del processo, ma va sindacato fuori del processo, sul piano disciplinare.
Non è condivisibile nessuna di queste affermazioni, che finiscono per favorire le condotte abusive di pubblici ministeri disinvolti, perché, anziché prevenire gli abusi, ne trasferiscono a un altro ipotetico giudizio la repressione, senza alcuna effettiva conseguenza sul piano processuale.
Innanzitutto, se l’iscrizione della notizia di reato serve a far decorrere il termine per gli accertamenti sul fondamento dell’accusa, non si può dire che le notizie non vanno iscritte prima di una verifica del loro fondamento. E' un abuso del processo che vi siano accertamenti sul fondamento di una notizia di reato prima dell’iscrizione da cui decorre il termine per quegli stessi accertamenti. Ed è inutile che si distingua in proposito tra sospetto e indizio, perché, se non si impone l’iscrizione prima di qualsiasi verifica, si finisce appunto per legittimare l’abuso.
Chiunque venga indicato come autore di un reato deve essere iscritto nello stesso momento in cui una tale indicazione sia manifestata.
Mentre in realtà questa giurisprudenza tende a salvaguardare gli interessi di chi non vuole essere iscritto prematuramente per il timore di una diffusione della notizia dell’iscrizione. Ma è l’abusiva diffusione delle notizie riservate che va sanzionata sul piano disciplinare; non l’abuso del processo, che pregiudica le garanzie anche dell’indagato le cui vicende non interessino la pubblica opinione.
Quanto alla seconda affermazione, è una vera assurdità che non debba essere il giudice del processo a sindacarne l’eventuale abuso: un giudice disciplinare, che non è quello del processo di cui si discute, deve stabilire, spesso a distanza di anni, se fu tempestiva l’iscrizione relativa a un’indagine penale, di cui dovrebbe per di più acquisire tutti gli atti, per potersi esprimere con qualche attendibilità.
E’ il giudice del processo che ha il dovere di accertare quando dovesse essere iscritta la notizia di reato, perché, se il pubblico ministero l’ha iscritta in ritardo, si retrodata la iscrizione; e risulta così inutilizzabile tutto ciò che è stato fatto oltre il termine che sarebbe dovuto decorrere dal momento in cui la iscrizione doveva avvenire.
Non si comprende perché non debba essere il giudice del processo a stabilire se è inutilizzabile o meno un atto processuale, ma della questione debba poi occuparsi il giudice disciplinare.
A questa assurdità consente di porre rimedio la proposta del Governo.
5. Sanzioni disciplinari
All’ambito delle misure destinate a prevenire gli abusi o comunque le negligenze incidenti sulla durata del processo dovrebbe essere ascritto anche il complesso ventaglio di illeciti disciplinari previsti nella proposta governativa. Tuttavia anche in questo caso la sanzione disciplinare può fungere da deterrente rispetto ad abusi e comportamenti negligenti, ma non offre rimedi all’irragionevole protrarsi del procedimento.
D’altra parte l’efficacia dello strumento disciplinare, attivabile solo in caso di negligenza inescusabile, presuppone che vi sia un significativo numero di ritardi imputabili ai magistrati del pubblico ministero o ai giudici. E non pare che si disponga di dati indicativi in tal senso. Sicché non è prevedibile un’effettiva e comunque apprezzabile incidenza dello strumento disciplinare sulla durata dei procedimenti.
Vanno ciò nondimeno valutati positivamente sia il previsto riconoscimento alle parti di una facoltà di sollecitazione sia l’attribuzione al CSM del potere di diversificare i termini massimi di durata dei procedimenti in rapporto alle effettive situazioni di ciascun ufficio, anche in considerazione della natura e della complessità dei procedimenti pendenti.
6. Riforma del processo penale
E’ evidente tuttavia che, oltre a prevenirne la durata irragionevole, occorre disciplinare il processo in modo da favorirne una più rapida definizione.
In questa prospettiva sono significativi gli interventi programmati dal Governo. Manca però un’adeguata considerazione del ruolo che potrebbe assumere la magistratura onoraria.
Il 19 marzo 1998 fu varata una delle più importanti riforme del sistema giudiziario, la «istituzione del giudice unico di primo grado», con l'abolizione dell'ufficio di pretura.
Tuttavia l'unificazione degli uffici giudiziari di primo grado fu solo parziale, perché un autonomo grado di giudizio fu attribuito alla competenza del giudice di pace.
Il pretore, uscito dalla porta, rientrò trasfigurato dalla finestra.
Ora sembra si sia compreso che occorre inglobare le diverse figure di magistrati onorari nel tribunale, reso così giudice effettivamente unico di primo grado.
Tramontata l'ideologia di un giudice di pace amministratore di un'indefinita giustizia alternativa, è ormai chiaro che la magistratura onoraria deve avere un ruolo integrativo, non sostitutivo, di quella togata. Al giudice onorario va affidato un procedimento speciale di primo grado, applicabile in particolare a tutti gli illeciti minori, sia amministrativi sia penali.
Infatti il modello del procedimento speciale affidato al giudice onorario dovrebbe essere appunto quello monitorio, con un contraddittorio sulle prove desumibili dagli atti delle indagini di parte, esclusa ogni attività istruttoria dinanzi al giudice.
Le sentenze di condanna pronunciate dal giudice onorario potrebbero essere opponibili dinanzi al tribunale monocratico, che, pronunciando con sentenza inappellabile, potrebbe applicare in ogni caso una sanzione anche diversa e più grave di quella fissata nella decisione opposta e revocare i benefici già concessi.
Diverrebbe così davvero proficua la stessa depenalizzazione, evitando che la sostituzione della sanzione amministrativa a quella penale si risolva in una mera partita di giro, con il trasferimento delle competenze dal tavolo del giudice penale a quello del giudice civile.
La crisi del sistema giudiziario italiano nasce soprattutto da un eccesso di domanda.
Per far fronte a questo eccesso, occorre operare in due direzioni: accrescere il numero dei magistrati onorari chiamati a decidere le controversie minori; disincentivare le impugnazioni nei casi di minore rilevanza della controversia.
La direttiva del 18 marzo 2019 del Ministro dell'interno per il coordinamento unificato dell'attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell'immigrazione illegale: considerazioni (anche) alla luce del diritto internazionale del mare
di Ilaria Tani
Nella disamina delle previsioni del diritto internazionale del mare rilevanti per i temi dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo e del soccorso in mare, e in un’ottica di valutazione della relativa applicazione da parte dell’Italia, può essere utile un esame della direttiva del Ministro dell’interno del 18 marzo 2019 per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell’immigrazione illegale, rubricata al N. 14100/141(8). A tale direttiva, di portata generale, ne erano, com’è noto, succedute altre tre, riguardanti le specifiche condotte delle navi Alan Kurdi, Mare Jonio e Sea Watch 3 e rispettivamente datate 4 aprile, 15 aprile e 15 maggio 2019.
La funzione delle direttive consiste nel regolare la condotta degli uffici pubblici, incidendo sulla struttura dei procedimenti. Si tratta di atti di indirizzo per la pubblica amministrazione che, in questo caso, hanno inteso incidere sull’organizzazione delle azioni di contrasto “reattivo” all’immigrazione irregolare.
L’emanazione della direttiva del 18 marzo è stata criticata, preliminarmente con l’argomento che il Ministro dell’interno avrebbe travalicato i propri poteri, invadendo quelli di altri Ministri (in particolare, quelli della difesa e delle infrastrutture). Eppure, la direttiva in questione è stata emanata nell’ambito di attribuzioni tipiche del Ministro dell’interno, in quanto riferite all’ordine pubblico e alla sicurezza, che rispondono a una funzione “conservativa” e, tradizionalmente, intrinsecamente connessa all’esercizio della sovranità dello Stato, fatti ovviamente salvi gli obblighi che derivano dal diritto internazionale.
L’estensione delle attribuzioni del Ministro dell’interno su personale che appartiene ad altri Ministeri è storicamente derivata dall’evoluzione delle norme che riguardano la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. In questo contesto, l’amministrazione statale, nonché le amministrazioni regionali e locali per la polizia amministrativa, possono adottare misure sia preventive, sia repressive.[1] In generale, le attribuzioni relative all’ordine pubblico e alla sicurezza sono affidate all’Amministrazione della pubblica sicurezza, che opera sotto la responsabilità del Ministero dell’interno.[2] A quest’ultimo, infatti, fanno capo, dal punto di vista funzionale, anche le autorità di pubblica sicurezza che appartengono ad altre forze di polizia (Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Capitanerie di Porto), che dipendono da altre amministrazioni, oltre alla Polizia di Stato, che è invece direttamente incardinata nel Ministero dell’interno e ne costituisce la struttura operativa.
L’oggetto dichiarato della direttiva in esame è il coordinamento unificato del controllo delle frontiere marittime e il contrasto dell’immigrazione illegale. L’art. 11, co. 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il T.U. in materia di immigrazione affidava – prima del decreto sicurezza-bis – solo al Ministro dell’interno (sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica) il potere di emanare le misure per tale coordinamento. “Coordinamento unificato” significa, appunto, potere di organizzazione delle diverse forze di polizia, anche appartenenti ad altre amministrazioni, al fine di conseguire gli scopi prefissati dalla legge.
Peraltro, l’art. 11, co. 1, del T.U. prevede espressamente, quale unica forma di collaborazione tra amministrazioni dello Stato, soltanto quella tra il Ministro dell’interno e il Ministro degli affari esteri, per l’adozione del «piano generale degli interventi per il potenziamento e il perfezionamento, anche attraverso l’automazione delle procedure, delle misure di controllo di rispettiva competenza». Tuttavia, le misure di potenziamento e di coordinamento dei controlli di frontiera descritte in generale dall’art. 11 – e sostenute dalla ratio complessiva del T.U. – sono dettate mediante le direttive del solo Ministro dell’interno.[3] La norma in commento, quindi, individua espressamente il Ministro dell’interno quale unica autorità competente all’emanazione delle direttive relative al potenziamento e al coordinamento dei controlli di frontiera; coordinamento che è, perciò, esteso espressamente anche alle autorità marittime e militari, seppur dipendenti da altre amministrazioni.
Quindi, ad avviso di chi scrive, e – si badi bene – solo sotto il profilo della paventata invasione nei poteri di altre amministrazioni, le contestazioni sollevate nei confronti della direttiva non hanno colto pienamente nel segno. Piuttosto, la direttiva doveva (e deve) essere censurata perché, nella fattispecie, il Ministro dell’interno ha utilizzato il proprio potere per fini diversi da quelli per i quali gli è attribuito dalla legge.
Innanzi tutto, il Ministro ha invitato le autorità di pubblica sicurezza ad «attenersi scrupolosamente» alle istruzioni contenute nella direttiva: allora, non si tratta più di un atto di indirizzo politico di carattere generale, che lascia al destinatario il dovuto margine di autonomia nella propria determinazione – come dovrebbe fare, appunto, una direttiva. In ciò può ravvisarsi un primo abuso: il Ministro non ha “coordinato”, come prevede il T.U., ma, in pratica, ha dato ordini, travalicando e strumentalizzando il potere che lo stesso T.U. gli conferisce.
In aggiunta, prendendo le mosse dal «poliedrico approccio della dimensione interna della politica di migrazione, della tutela delle frontiere esterne dell’UE e del rafforzamento dell’azione di contrasto al traffico dei migranti», la direttiva, in un’oggettiva eterogenesi dei fini, confonde in un coacervo indistinto le norme relative alla salvaguardia della vita umana in mare con la necessità di scongiurare il rischio che «nel gruppo di migranti possano celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico».
La direttiva censura la condotta delle navi umanitarie, considerando il loro passaggio nelle acque territoriali italiane come potenzialmente “non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982; in seguito: UNCLOS). Tale circostanza consentirebbe allo Stato costiero di “intraprendere tutte le azioni necessarie a impedire un passaggio che non è inoffensivo” (art. 25, par.1, dell’UNCLOS), come, per esempio, intimare alla nave di sospendere una determinata condotta ovvero di abbandonare il mare territoriale. La conseguenza, infatti, è consistita nell’istruzione, rivolta dal Ministro dell’interno a tutte le autorità di pubblica sicurezza, di allontanare dal mare territoriale italiano le imbarcazioni che trasportino migranti soccorsi in qualsiasi zona del Mediterraneo.
Si è fatto, in realtà, un uso strumentale della norma internazionale. L’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS prevede, in realtà, che il passaggio di una nave straniera nel mare territoriale possa essere considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se tale nave mette in atto la seguente azione (per quanto qui interessa): «the loading or unloading of any … person contrary to customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations of the coastal State». Tuttavia, la fattispecie non è in nessun caso riscontrabile in capo alle navi umanitarie che abbiano soccorso persone (sia pure migranti) in mare e che si trovino a navigare nelle acque territoriali italiane, finanche allo scopo di richiedere l’ingresso nel relativo porto. Questo risulta evidente dalla formulazione della norma.
Le navi umanitarie non imbarcano (loading), né sbarcano (unloading) alcuna persona nel mare territoriale italiano violando le leggi e i regolamenti citati dalla norma in commento: le persone sono, infatti, soccorse al di fuori delle acque italiane e non sono fatte sbarcare dalla nave durante il passaggio nel mare territoriale, in violazione della norma in commento (per esempio, accompagnando le persone a terra contro le istruzioni della polizia di frontiera o fornendole di più piccole imbarcazioni per raggiungere la costa clandestinamente, in violazione delle leggi e dei regolamenti dello Stato costiero). Le persone soccorse – che innanzi tutto, giuridicamente, sono naufraghi, prima che migranti – vengono mantenute a bordo per tutto il momento del passaggio nel mare territoriale e fino all’esito della legittima richiesta, rivolta dal comandante di una nave che ha effettuato un soccorso, alle competenti autorità della frontiera marittima più vicina (e che sia anche sicura per le persone a bordo, naturalmente). La posizione dello Stato costiero, allertato della situazione dalla stessa nave che ospita a bordo le persone in questione, non è pregiudicata: lo Stato, infatti, mantiene ogni potere di decisione circa la valutazione della situazione della nave e delle persone a bordo. La norma internazionale, pertanto, non offre la base giuridica per intimare l’allontanamento di una nave che non pregiudica, con la sua condotta, la pace, il buon ordine o la sicurezza dello Stato costiero. Nessuna delle azioni finora poste in essere dalle navi umanitarie, non comportando sbarchi illegali o clandestini, può dirsi riflettere i presupposti dell’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS necessari a rendere pregiudizievole la mera presenza della nave straniera nel mare territoriale italiano.
Si aggiunga che l’art. 24, par. 1, dell’UNCLOS, dispone che «lo Stato costiero non deve ostacolare il passaggio inoffensivo delle navi straniere attraverso il mare territoriale, salvo nei casi previsti dalla Convenzione. In particolare, … lo Stato non deve: a) imporre alle navi straniere obblighi che abbiano l’effetto pratico di impedire o limitare il diritto di passaggio inoffensivo; oppure b) esercitare discriminazioni di diritto o di fatto contro navi di qualunque Stato …». È evidente che un divieto di ingresso e di passaggio nelle acque territoriali italiane applicato esclusivamente nei confronti di navi che trasportano migranti è in flagrante violazione della norma citata, fatta salva ogni ulteriore considerazione relativa alla violazione da parte dell’Italia dell’obbligo di garantire che un soccorso in mare si concluda positivamente.
Ancora, l’art. 25, par. 3, dell’UNCLOS, prevede che «lo Stato costiero può, senza stabilire una discriminazione di diritto o di fatto tra le navi straniere, sospendere temporaneamente il passaggio inoffensivo di navi straniere in zone specifiche del suo mare territoriale quando tale sospensione sia indispensabile per la protezione della propria sicurezza, ivi comprese le esercitazioni con armi». Come si vede, le condizioni che lo Stato costiero deve rispettare perché la sospensione del diritto di passaggio di navi straniere nel proprio mare territoriale sia legittima sono quattro. La sospensione deve riguardare tutti (non può riguardare solo le navi umanitarie); può essere solo temporanea, non permanente; può riguardare solo zone specifiche del mare territoriale, debitamente indicate; e deve risultare come misura indispensabile per la protezione della sicurezza dello Stato costiero. Essendo finalizzata a escludere dal diritto di passaggio inoffensivo solo le navi umanitarie in tutte le acque territoriali italiane e non comportando una misura indispensabile alla sicurezza dello Stato costiero, la direttiva del Ministro dell’interno si pone in evidente contrasto, sotto almeno tre aspetti, con il diritto internazionale del mare relativo agli obblighi (art. 24 dell’UNCLOS) e ai diritti di protezione (art. 25 dell’UNCLOS) dello Stato costiero.
Sempre in punto di puro diritto del mare, in quanto Stato vincolato alle disposizioni dell’UNCLOS, l’Italia, con un richiamo e un impiego strumentale delle norme sul passaggio inoffensivo, peraltro in netta contravvenzione al dettato internazionale, commette anche una violazione dell’art. 300 dello stesso strumento, in base al quale «gli Stati contraenti devono adempiere in buona fede gli obblighi assunti a termini della presente Convenzione ed esercitare i diritti, le competenze e le libertà riconosciuti dalla presente Convenzione in un modo tale che non costituisca un abuso di diritto».
Le istruzioni rivolte alle autorità di pubblica sicurezza dalla direttiva in commento si pongono, inoltre, in netto contrasto con tutto il diritto internazionale applicabile al soccorso in mare, anche solo per l’ovvia conseguenza di impedire che un soccorso possa concludersi con l’arrivo sulla terraferma; nonché con il diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati, perché la direttiva istruisce le autorità di pubblica sicurezza a veri e propri respingimenti collettivi, che pregiudicano l’esame delle domande individuali di protezione internazionale e l’esame dello status di potenziali rifugiati e asilanti.
Ma non solo. Anche volendo far ricadere sulle navi umanitarie il sospetto di un coinvolgimento nel traffico illecito di migranti e, quindi, nell’ottica di perseguirne la repressione, la direttiva contrasta anche con il diritto interno. L’art. 12, co. 9-bis, del T.U. dispone, infatti, che «la nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato». L’accompagnamento della nave in un porto italiano non solo è teso a consentire di verificare se la nave sia effettivamente coinvolta in un traffico illecito di migranti ovvero abbia solo prestato soccorso a migranti in pericolo in mare (che sono due cose ben diverse), ma tale accompagnamento in porto è anche volto ad assicurare che, in ogni caso, le persone soccorse raggiungano un luogo sicuro in cui possano essere identificate a ogni conseguente effetto. È proprio sotto questo profilo che la motivazione della direttiva presenta i suoi aspetti più illogici e contraddittori. Rispetto alla direttiva, l’art. 12, co. 9-bis, del T.U. è certamente più in sintonia con il complesso di norme del diritto internazionale, che includono non soltanto poteri che lo Stato costiero utilizza per proteggersi secondo il diritto internazionale del mare, ma anche obblighi ai quali lo stesso Stato è soggetto al fine di salvaguardare la vita di chi è stato soccorso in mare. È una disposizione che rispetta entrambe le esigenze.
Oltretutto, nella maggior parte dei casi ai quali la direttiva si riferisce, la nave soccorritrice non tenta un ingresso illegale della frontiera, approdando clandestinamente in luoghi in cui i controlli delle autorità sono più difficili e tentando, in questo modo, di eluderli (per esempio, facendo approdare qualcuno di notte, su una spiaggia isolata), ma la nave soccorritrice dichiara la sua presenza nel mare territoriale e richiede formalmente alle competenti autorità l’ingresso alla frontiera marittima affinché possa concludersi, anzitutto, un soccorso e venga poi certamente esaminata la posizione delle persone a bordo – giova ribadirlo – a ogni conseguente effetto.
In altre parole, in tutti quei casi in cui, per opposte ragioni, si è destato l’allarme che ha indotto all’emanazione della direttiva in questione, non si versava nella situazione di persone che intenzionalmente tentavano di eludere i controlli alla frontiera. Anzi, era più che manifesta la volontà dei comandanti di condurre dei naufraghi alla frontiera marittima più vicina e sicura, perché fossero innanzi tutto messi in salvo, in quanto “naufraghi”, e poi identificati, potendo anche certamente rivolgere eventuali domande di protezione; domande il cui accoglimento o rigetto, con tutte le conseguenze del caso, resta – senza pregiudizio alcuno, è importante sottolinearlo – affidato alla normativa dello Stato. Le richieste di ingresso a una frontiera marittima affinché dei naufraghi siano sottoposti, oltre che alle cure conseguenti a un soccorso, anche a tutte le misure di sicurezza e di polizia eventuali, non pregiudica in alcun modo la posizione dello Stato costiero.
Ma anche in altro consistono la contraddittorietà e l’illogicità della direttiva, tali da evidenziare ancor di più lo sviamento di potere che la caratterizza. Infatti, la direttiva si presenta solo apparentemente come connotata dall’intento di contrastare, insieme all’immigrazione irregolare, anche il rischio dell’ingresso di “terroristi”.
Innanzi tutto, e a prescindere dal fatto che la rete del terrorismo internazionale si muove notoriamente attraverso canali diversi dal pericoloso attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, il fatto che una persona fugga da un paese a rischio di terrorismo non significa di per sé che sia inevitabilmente un terrorista. L’argomento sostenuto nella direttiva resta peraltro privo di ogni fondamento probatorio, stando a quanto riferito (non già dalle organizzazioni umanitarie, ma) dalle stesse autorità destinatarie dell’atto. Addirittura nel culmine dell’emergenza umanitaria, pertanto in un momento in cui gli sbarchi erano di gran lunga superiori rispetto alla data della direttiva, il Comandante generale della Guardia di Finanza rispondeva «per ciò che concerne gli scafisti-terroristi, questo è un tema di cui si parla, ma solo per ipotesi. Non abbiamo prove che tra gli scafisti si nascondano i terroristi. Almeno finora, non abbiamo avuto nessun caso documentato».[4]
In secondo luogo, e soprattutto, per svolgere allora un’azione davvero preventiva rispetto al rischio dell’approdo di terroristi, sarebbe certamente preferibile che le persone sospettate e trovate nelle acque territoriali italiane (che è territorio dello Stato) fossero accompagnate in un porto e ivi identificate, piuttosto che semplicemente allontanate senza curarsi di dove andranno (magari a sbarcare clandestinamente sul territorio italiano o di altro Stato limitrofo, senza alcun controllo).
In altre parole, l’interesse pubblico prevalente, anche in termini di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, dovrebbe essere quello di condurre tutte le persone soccorse nel porto sicuro più vicino, nel quale non solo dei “naufraghi” verranno assistiti, ma in cui possono essere svolte anche tutte le indagini, al fine di verificare proprio quanto temuto dalla direttiva. La lotta al terrorismo su scala preventiva sicuramente non si giova di respingimenti di massa o di chiusura generalizzata di porti, in maniera immotivata e senza riferimento a prove concrete. Ricorrendo a misure generalizzate a danno di interi gruppi di individui, non solo si violano i diritti di questi individui, ma sembra che in realtà non ci si preoccupi neanche di accertare le reali intenzioni di soggetti che il Ministro dell’interno sospetta essere oggettivamente “pericolosi”. Piuttosto, in questo modo, si cade vittime di una «criminalizzazione discorsiva» a fini solo politici, che crea l’equivalenza tra “irregolare”, “criminale”, “terrorista”, e in cui «la dimensione linguistica della criminalizzazione gioca un ruolo essenziale nel plasmare un immaginario sociale che vede nel migrante irregolare una figura pericolosa».[5] E, in effetti, il termine “clandestino” è ormai un tipico esempio di categoria collettiva che viene impiegata a scopo securitario.
A questo proposito, anche solo limitando il ragionamento al piano del diritto nazionale e prescindendo quindi dal fatto che il diritto internazionale pattizio vincolante per l’Italia – in particolare, il Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000)[6] – vieta espressamente che il migrante irregolare sia criminalizzato per la sua condizione, l’impiego che viene fatto dei termini “irregolare” e “clandestino” nel contesto di misure come questa direttiva è fuorviante anche ai sensi del diritto interno, perché un illecito amministrativo compiuto da chi risulta privo della documentazione adeguata per autorizzare la propria presenza sul territorio viene fatto rientrare in una fattispecie penale, in un costrutto linguistico semplificato che lascia intendere all’opinione pubblica che non si tratta di controllare gli ingressi irregolari di persone che di fatto sono in fuga da sciagure di varia natura, ma di combattere dei criminali, giustificando in tal modo una mobilitazione securitaria potenzialmente generalizzata. Questa criminalizzazione discorsiva di gruppi di individui, presente addirittura in atti di indirizzo delle amministrazioni dello Stato, corrisponde a una precisa scelta politica,[7] ma non è sostanziata da esigenze concrete di sicurezza nazionale.
Chi scrive coglie l’occasione della pubblicazione di questo intervento per ringraziare la Collega Avv. Paola Regina per l’invito a partecipare all’incontro Il mare dei diritti umani del 4 ottobre 2019 e, con lei, i Consiglieri e gli altri Componenti della Commissione Diritti Umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Prof.ssa Cecilia Corsi, Direttrice della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza, per la pubblicazione di un più ampio contributo di chi scrive, sul quale questo – più breve – intervento è stato ritagliato; e tutti i Colleghi presenti, tra i relatori e il pubblico, per le ulteriori riflessioni che i loro contributi hanno suscitato.
* Avvocato del Foro di Milano; già funzionario giuridico associato presso la Divisione Oceani e Diritto del Mare, Ufficio Affari Giuridici delle Nazioni Unite (New York, Stati Uniti); professore aggregato in “International Law of the Sea” presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[1] Art. 159, co. 2, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
[2] Legge 1 aprile 1981, n. 121.
[3] Il coordinamento e la sovrintendenza all’attuazione di tali direttive sono svolti dai prefetti delle province di confine terrestre e delle regioni interessate alla frontiera marittima, sentiti i questori e i dirigenti delle zone di polizia di frontiera, nonché le autorità marittime e militari e i responsabili degli organi di polizia (art. 11, co. 3, del T.U.).
[4] Così il comandante generale della Guardia di Finanza, generale Saverio Capolupo, nell’audizione del 20 maggio 2015 dinnanzi al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
[5] In proposito, E. Gremblo, Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale di illegalità, in Aut Aut, Individui pericolosi, società a rischio 2, n. 373, 2017, pp. 126-127.
[6] Ratificato dall’Italia il 2 agosto 2006.
[7] In proposito, L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, traduzione italiana di M. Guareschi, Milano, Feltrinelli, 2000.
L’Intelligenza Artificiale nel processo?
Commento alla firma del Protocollo per la definizione del contesto etico e giuridico per l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai procedimenti amministrativi e giurisdizionali, firmato il 17 febbraio dal Ministero per l’innovazione e dalla Fondazione Leonardo.
di Franco De Stefano
SOMMARIO: 1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo. 2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa. 3. L’Intelligenza Artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali. 4. Automazione e giurisdizione. 5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo.
Prima di tutto, la notizia in sé e per sé, come si ritrae dai siti istituzionali, rispettivamente www.innovazione.gov.it e www.fondazioneleonardo-cdm.com.
Il Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano e il Presidente della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine Luciano Violante hanno firmato il 17 febbraio scorso un protocollo d’intesa, per definire il contesto etico e giuridico all’interno del quale sviluppare e applicare l’intelligenza artificiale (d’ora in avanti, anche solo IA), in particolare per rispondere alle esigenze della Pubblica Amministrazione con l’impiego delle tecnologie più moderne e, in buona sostanza, mettendo a frutto le potenzialità della gestione automatizzata dei processi decisionali ed operativi[1].
Lo scopo è quello di introdurre applicazioni di intelligenza artificiale nella gestione dei procedimenti amministrativi “con l’impegno di mettere l’uomo al centro”, lavorando per promuovere “un’intelligenza artificiale sostenibile sul piano sociale, culturale e democratico”.
Il ministro, richiamato il piano Italia 2025, ha ricordato come l’intelligenza artificiale e i big data possano sostenere i decisori pubblici verso scelte sempre più consapevoli, se ed in quanto basate sull’analisi di dati, gestendo in maniera efficiente una serie di procedimenti amministrativi: progettare, sviluppare e sperimentare soluzioni di intelligenza artificiale, purché etiche, progettate in modo sicuro e con sempre al centro l’uomo e i suoi valori, per poi applicarle ai procedimenti amministrativi significa dare attuazione moderna ai principi costituzionali che vogliono un’amministrazione efficiente. La scelta è stata prospettata come imposta dallo sviluppo tecnologico, ma foriera di grandi ricadute positive sulla vita di tutti i giorni dei cittadini.
Il presidente della fondazione, dal canto suo, sottolinea come la collaborazione con il MID rappresenti, per la Fondazione Leonardo, il seguito della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, tenutosi a novembre presso la Camera dei deputati, nello sviluppo dell’impegno per la modernizzazione del Paese nel contesto europeo.
La collaborazione avviata con il protocollo, della durata di un anno ed articolata intanto nella costituzione di un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti dei due firmatari, prevede:
- la definizione di una metodologia di valutazione che possa garantire, durante le fasi di progettazione, sviluppo e implementazione, l’utilizzo sostenibile dell’IA nei servizi pubblici, nel rispetto dei nostri valori costituzionali;
- la stesura di una proposta di “codice di conformità” per l’implementazione dell’IA nel settore pubblico o in quello privato, anche in vista della definizione di un sistema di certificazione di sostenibilità etica e giuridica;
- la definizione di un piano di formazione per il personale docente delle scuole, su concetti basilari e metodi dell’IA, partendo dall’analisi dei benefici e dei rischi, fino alle regole di condotta per un’IA “benefica”;
- la definizione di almeno due progetti, destinati a una possibile sperimentazione, dedicati all’applicazione di IA nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali; questi progetti saranno identificati anche nell’ambito della cabina di regia interministeriale per l’innovazione del Paese, avviata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione.
In particolare, la Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine prosegue così la sua attività nel settore, dopo l’adozione dello “Statuto etico e giuridico dell’IA”[2] e l’organizzazione della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, presso la nostra Camera dei Deputati nel novembre 2019.
2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa.
L’intera attenzione dei preamboli e delle dichiarazioni programmatiche dei due firmatari del progetto è in modo espresso rivolta esclusivamente al procedimento amministrativo e all’estensione ad esso delle potenzialità tecnologiche dell’Intelligenza Artificiale.
Lo spunto è evidentemente dato dall’ingresso imperioso di quest’ultima nel procedimento amministrativo, nell’eclatante esempio della gestione algoritmica di procedure assunzionali e dei trasferimenti dei docenti, i cui risultati sono stati molto discussi.
Il giudice amministrativo ha affrontato il processo di automazione nel procedimento amministrativo in alcune fondamentali recentissime sentenze del Consiglio di Stato: la n. 881 del 4 febbraio 2020, la n. 8474 del 13 dicembre 2019 e la n. 2270 del dì 8 aprile 2019.
Non è questa la sede per affrontare la portata dei principi così affermati, qui dovendo bastare la conclusione della sostanziale accettazione dell’algoritmo nel procedimento amministrativo, a determinate condizioni.
In sostanza, sono dai supremi giudici amministrativi individuati come regolatori della materia tre basilari principi, ricavati dal diritto soprattutto sovranazionale (e, verosimilmente, dal GDPR, ovvero dal General Data Protection Regulation, cioè il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, n. 2016/679):
- il principio di conoscibilità;
- il principio di non esclusività della decisione algoritmica;
- il principio di non discriminazione algoritmica.
In forza del primo, ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata; in forza del secondo, quando una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato; in forza del terzo, è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori.
Si è, in buona sostanza, presa coscienza del fatto che l’impiego degli strumenti tecnologici moderni comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e raggruppati e coordinati, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte, benché ridotte ad operazioni automatizzate, conseguenze di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali si esige la necessaria trasparenza.
La “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo è evidente in quanto la sua elaborazione non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative; una volta applicata al diritto, occorre allora che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile.
In primo luogo, occorre rendere applicabili le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, sicché va garantita la riferibilità della decisione algoritmica finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere.
In secondo luogo, è riconosciuto alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull’individuo: pertanto, non può mai mancare la precisa e chiara individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo. La regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.
Non può quindi ritenersi applicabile, in modo indiscriminato, all’attività amministrativa algoritmica tutta la legge sul procedimento amministrativo, concepita in un’epoca nella quale l’amministrazione non era investita dalla rivoluzione tecnologica, né sono condivisibili richiami letterari a scenari orwelliani: da considerarsi anzi con cautela, perché la materia merita un approccio non emotivo ma capace di delineare un nuovo equilibrio, nel lavoro, fra uomo e macchina differenziato per ogni campo di attività.
In definitiva, il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. E tanto al fine di poter verificare che gli esiti del procedimento automatizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
3. L’intelligenza artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali.
Il quadro europeo, evidentemente sospinto dalla turbinosa velocità dell’evoluzione tecnologica, è in movimento, sia al livello dell’Unione europea, che a quello del Consiglio d’Europa.
Il Parlamento europeo ha approvato, in seduta plenaria, il 12 febbraio 2020, una risoluzione sui processi decisionali automatizzati[3], che segue quella del 12 febbraio 2019 sulla politica generale europea industriale sull’intelligenza artificiale e sulla robotica e quella del 16 febbraio 2017[4] sulle raccomandazioni alla Commissione su regole di diritto civile sulla robotica, per riprendere il rapporto sulla responsabilità per intelligenza artificiale ed altre tecnologie digitali emergenti (predisposto dal Gruppo di esperti su responsabilità e nuove tecnologie e pubblicato il 21 novembre 2019) ed alle Linee guida per una AI affidabile pubblicate l’8 aprile 2019; ed è in dirittura di arrivo il Piano per l’approccio europeo all’intelligenza artificiale.
L’ottica rimane certamente di impronta consumeristica: constatata la superiorità rispetto a quelle umane della precisione e della velocità degli algoritmi di apprendimento quale ragione della loro diffusione, ragione di preoccupazione sono i rischi di un’intelligenza artificiale in grado di prendere decisioni senza la supervisione umana.
Il principale rischio, visto che l’apprendimento automatico si basa sul riconoscimento di modelli all’interno di sistemi di dati, è quello della sistematizzazione dei pregiudizi e delle discriminazioni, in base alle modalità stesse di progettazione dei relativi meccanismi: sicché, per proteggere i consumatori nell’era dell’intelligenza artificiale, si è ravvisata la necessità di sviluppare strumenti per una adeguata informazione dei consumatori nel momento in cui interagiscono con l’intelligenza artificiale ed i processi decisionali automatizzati, al fine di prendere decisioni consapevoli sul loro utilizzo.
E l’auspicio è quindi quello di più incisive misure per una tutela solida dei diritti dei consumatori, garantendoli da pratiche commerciali sleali e/o discriminatorie, o da rischi derivanti da servizi commerciali di intelligenza artificiale, assicurando la maggiore trasparenza possibile in questi processi e prevedendo l’utilizzo soltanto di dati non discriminatori e di alta qualità.
Parallelamente, il Parlamento europeo, col suo Servizio Ricerche, ha adottato nell’aprile 2019 il suo rapporto per il quadro di riferimento per un’autorità per l’affidabilità e la trasparenza algoritmica[5].
Il Consiglio d’Europa ha, dal canto suo, istituito un Comitato ad hoc per l’intelligenza artificiale (CAHAI)[6], il quale, col sistema della consultazione ampliata delle parti interessate (multi-stakeholder consultations), si prefigge lo scopo di esaminare la fattibilità e gli elementi potenziali di una cornice legale per lo sviluppo, la progettazione e l’applicazione di un’intelligenza artificiale basata sugli standard del Consiglio d’Europa sui diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. A questo scopo, il Comitato verificherà lo stato attuale della legislazione anche con riferimento alle tecnologie digitali, ma prenderà in considerazione gli strumenti legali sovranazionali o regionali, gli esiti dei lavori intrapresi dagli altri organismi del Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali o regionali, con particolare attenzione alle problematiche di genere ed alla promozione di società coesive e protezione dei diritti delle persone con disabilità.
Sempre in seno al Consiglio d’Europa, la Commissione per l’efficienza nella giustizia (Commission for the Efficiency of Justice – CEPEJ) ha adottato, il 3 dicembre 2018, la prima Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari[7], individuando i seguenti principi fondamentali nella progettazione e nell’applicazione degli strumenti e servizi di intelligenza artificiale applicati alla Giustizia:
1) il principio del rispetto dei diritti fondamentali, nel senso che quegli strumenti e quei servizi siano compatibili con questi ultimi;
2) il principio di non discriminazione, a specifica prevenzione dello sviluppo o della stessa intensificazione di ogni discriminazione tra individui o gruppi di individui;
3) il principio di qualità e sicurezza: mediante l’impiego, nell’elaborazione dei dati e delle decisioni di giustizia, di fonti certificate di dati inalterabili su modelli concepiti in modalità multidisciplinare ed ambiente tecnologico sicuro;
4) il principio di trasparenza, imparzialità ed equità: assicurando l’accessibilità e la comprensibilità dei processi di acquisizione ed elaborazione dati, ammettendo revisioni esterne;
5) il principio “sotto il controllo dell’utente”: con un approccio prescrittivo e garanzia agli utenti di un ruolo di attori informati nel controllo delle loro scelte.
4. Automazione e giurisdizione.
Una prima annotazione, a caldo, per lasciare ogni approfondimento a più meditate riflessioni: impressiona lo iato tra la premessa della proclamazione dell’intervenuta sottoscrizione del Protocollo e la conclusione, visto che dopo l’enfatizzazione del suo obiettivo principale, vale a dire l’applicazione di IA ai procedimenti amministrativi, si estende, con un’aggiunta finale dall’apparenza innocente ma autentico fulmen in cauda e praticamente a sorpresa, l’ambito del progetto ai procedimenti giurisdizionali. Stando a quanto traspare dai comunicati dei due sottoscrittori, quindi, si studierà l’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione.
Il nostro Governo, sia pure attraverso il meccanismo apparentemente neutro della collaborazione informale con un organismo formalmente privato, sia pure di grande autorevolezza quale la Fondazione Leonardo e di sostanziale riferibilità alle scelte pubbliche per la natura del suo fondatore, pare iniziare quindi a studiare come applicare IA alla Giustizia; e pare farlo sullo spunto della necessaria digitalizzazione, nel senso di “efficientamento”, della Pubblica Amministrazione, alla quale soltanto, a ben vedere, il ministro e il presidente della fondazione si erano riferiti nella descrizione del progetto.
Il tenore delle comunicazioni dei sottoscrittori del protocollo, non disponendosi il testo di questo, induce qualche riflessione.
Per la pubblica opinione, evidentemente, l’esigenza di modernizzazione della gestione dei processi decisionali si avverte come impellente ed indifferibile almeno per la corrente e quotidiana gestione della cosa pubblica, intesa come amministrazione in senso classico; dinanzi alla crescita esponenziale della mole di affari da sbrigare ed all’opacità o viscosità delle procedure, l’atavico pregiudizio culturale di diffidenza verso la neutralità e l’efficienza della pubblica amministrazione giustifica evidentemente a sufficienza l’aspirazione a metodiche di disbrigo e decisione che rispettino in modo rigoroso i principi, pur sempre costituzionalizzati, dell’art. 97 Cost.
Come si è visto, il giudice amministrativo ha già iniziato ad occuparsi della digitalizzazione, per adottare una soluzione che può definirsi di moderata o cauta apertura; ed è su questa via che potrà svilupparsi anche la linea d’azione del nostro legislatore e, verosimilmente, del gruppo di lavoro istituito dal Protocollo tra il Ministero e la Fondazione.
È però l’estensione ex abrupto ai “procedimenti giurisdizionali”, in apparenza – e sempre stando al tenore dei comunicati ufficiali – senza alcuna distinzione o specificazione, dello studio delle potenzialità applicative di IA che desta serie perplessità: è un campo che il diritto ha solo da poco iniziato a studiare[8] e che apre scenari ampi e sostanzialmente inesplorati.
È l’accesso dell’Automa al processo, civile, penale o amministrativo; un accesso in sordina, strisciante, forse inconsapevole; ma offre l’occasione di interrogarsi su quanto del processo, delle sue sequenze, dei suoi segmenti e delle attività intellettive di norma prettamente umane espletate in ciascuno di quelli si vorrà deputare o delegare o trasferire all’Automa.
Dal campo del settore penale, dove in diversi contesti l’algoritmo è già stato impiegato per la prognosi della personalità del reo perfino al fine di determinare la pena idonea[9] o per l’acquisizione di prove dal valore sostanzialmente legale, a quello del settore civile (e amministrativo, nel senso di giustiziale amministrativo), dove la possibilità di definizione di procedimenti elementari in via completamente automatizzata (generalmente in settori definibili ad alta serialità e salva la sola facoltà, disegnata come eccezionale, di successivo intervento umano) è ormai apertamente studiata, gli orizzonti si schiudono sterminati.
E da tempo oramai sono a disposizione, sempre più sofisticati, sistemi di vera e propria on line dispute resolution[10], che implicano una decisione robotica formalmente negoziale, sostanzialmente assimilata all’arbitrato.
5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
Il concetto è ormai recepito come giustizia predittiva[11], anche se l’espressione è obiettivamente riduttiva: infatti, non si tratta soltanto di predire o prevenire o calcolare[12] l’esito giudiziario delle situazioni conflittuali, al fine di misurare fenomeni seriali o di massa e di individuarne i costi e i rischi[13]; si tratta di scegliere quali delle attività, soprattutto intellettive oltre che materiali, inerenti al giudizio umano devolvere o delegare o deputare all’Automa.
Normalmente, il ricorso all’automa è sempre stato ricostruito come teso a liberare l’umano dal peso o dai rischi di un lavoro sempre meno sostenibili ed al contempo a fornire un risultato reputato più consono od efficace rispetto all’attività che l’umano potrebbe compiere[14]: e, se la prima delle motivazioni può già in prima approssimazione in modo accettabile riferirsi alle attività materiali di raccolta e comparazione efficienti di dati soprattutto in contenziosi seriali indotti dalla massificazione dei rapporti commerciali ed umani in generale, è chiaro che, quanto alla seconda di quelle motivazioni, molto, anzi moltissimo, può dipendere dalle scale assiologiche che si vorranno adottare, risultando ormai indifferibile intendersi su cosa si intenda per efficienza della giustizia.
Le famose leggi della robotica, elaborate dapprima in ambito letterario e poi assurte al ruolo di principi generali della materia nel diritto eurounitario[15], non soccorrono, pensate come erano per attività sostanzialmente materiali od elementari e quindi inidonee a fronteggiare l’enorme complessità del diritto e dei concetti da definire quanto alle attività in cui sostituire l’umano.
Basti pensare, tanto per incominciare, alla scissione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, vale a dire tra la nozione di ricostruzione del fatto – intesa come rappresentazione di eventi passati mediante strumenti di prova e pertanto estranei all’ambiente in cui sono considerati – e quella di formulazione della regola di diritto da applicare alla fattispecie concreta, ognuna sorretta da un’elaborazione di dottrina, giurisprudenza e prassi che rimonta nei secoli ed è fortemente influenzata dall’ideologia del sistema del tempo.
Occorrerà riflettere con grande attenzione e scegliere quali risultati affidare all’automa: e soprattutto in che termini declinare la certezza del diritto, nelle sue molteplici accezioni, cui orientare le decisioni del giudice e, in sua vece o in suo ausilio, del suo alter ego digitale.
Già nell’attuale momento storico è difficile ridurre la definizione di quella certezza come trattamento uguale di casi uguali: questa soluzione è reclamata dalla dilatazione globale dei traffici commerciali e giuridici come un bene essenziale, sotto il profilo della conoscibilità o calcolabilità delle decisioni di giustizia, contrapposta alla - o comunque in tensione dialettica con la - sua flessibilità per un adeguamento alle peculiarità della fattispecie; senza considerare le millenarie dispute sul ruolo del diritto in generale e, quindi, della sua funzione di mantenimento e protezione dello status quo in contrapposizione all’altra di ordinatore e propulsore di uno sviluppo e di un cambiamento anche sostanziale degli assetti correnti.
L’esigenza, dinanzi alla massificazione dei rapporti, di un trattamento uguale per casi uguali è sempre più sentita; ma la libertà e la creatività del pensiero umano, che nessun automa è per definizione – almeno finora – in grado di replicare, è un valore che si vuole continuare a ritenere irrinunciabile: e sta nel bilanciamento tra queste esigenze la chiave di volta della inarrestabile sostituzione dell’automa a segmenti sempre più estesi dell’attività non più solo materiale, ma anche intellettiva, del suo creatore per il proprio beneficio e progresso.
Quale giustizia si vuole? E quale giudice? Un giudice automa, allora, darà più garanzie di efficienza, trasparenza, neutralità, indipendenza, equità? In definitiva, la vera giustizia sarà una giustizia non umana?
Il creatore dell’automa, scegliendo cosa affidargli della giustizia, disegna così il suo proprio futuro.
[1] Per le definizioni basilari rilevanti per il giurista ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Spunti di riflessione sulla decisione robotica negoziale, in questa Rivista, dal 06/03/2019.
[2] Reperibile all’URL https://fondazioneleonardo-cdm.com/site/assets/files/2553/fle1_booklet_conferenza_ita_ibm_111119.pdf (ultimo accesso 29/02/2020). Da segnalare la sezione dedicata agli aspetti applicativi dell’IA al settore del diritto e, soprattutto, del processo (pagine 77 e seguenti).
[3] Il testo sottoposto alla votazione è reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/plmrep/COMMITTEES/IMCO/DV/2020/01-22/RE_1194746_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[4] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2017-0051_EN.html#title1.
[5] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2019/624262/EPRS_STU(2019)624262_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[6] Il sito istituzionale è all’URL https://www.coe.int/en/web/artificial-intelligence/cahai (ultimo accesso 29/02/2020).
[7] Reperibile all’URL https://www.coe.int/en/web/cepej/cepej-european-ethical-charter-on-the-use-of-artificial-intelligence-ai-in-judicial-systems-and-their-environment (ultimo accesso 29/02/2020)
[8] Si veda, tra gli altri, A. Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna (il Mulino), 2018.
[9] È l’ormai celebre caso Loomis: la Corte Suprema del Wisconsin (State of Wisconsin v. Eric L. Loomis, 13 Luglio 2016) si è pronunciata sull’appello dell’imputato, la cui pena a sei anni di reclusione era stata comminata dal Tribunale circondariale di La Crosse: nel determinare la pena, i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati dal programma COMPAS (Correctional offender management profiling for alternative sanctions) di proprietà della società Northpointe (ora Equivant), secondo cui Loomis era da identificarsi quale soggetto ad alto rischio di recidiva. La Corte suprema dello Stato ha rigettato l’appello, ma precisando che i giudici possono sì considerare i dati forniti dal software nella determinazione finale, insieme però ad altri fattori, poiché illegittimo sarebbe basare la sentenza su tali risultati, utilizzandoli quindi come fattori determinanti della decisione.
[10] Basti qui un cenno al portale dedicato dall’Unione europea, reperibile all’URL (ultimo accesso 29/02/2020) https://ec.europa.eu/consumers/odr/main/index.cfm?event=main.home2.show&lng=IT.
[11] L. Viola (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici (Atti del Convegno tenutosi presso l’Istituto dell’enciclopedia Italiana Trecccani), Milano (Dirittoavanzato), 2019. Idem, Giustizia predittiva, in www.treccani.online (all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia-predittiva_%28Diritto-on-line%29/, ultimo accesso 29/02/2020). L’Autore ne definisce l’oggetto nella previsione dell’esito di sentenze attraverso calcoli matematici, ne indica quale principale linfa legittimante l’art. 3 Cost. e l’art. 348 bis cod. proc. civ. e rileva come in altri Paesi sia già una realtà consolidata; e, precisato che si tratta della “possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli”, avverte che “non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi”. Insomma, “il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri”.
[12] A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna (Il Mulino), 2017.
[13] VIOLA (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici, Milano, DirittoAvanzato, 2019.
[14] M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Riv. Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 3-2018, § 1, poi ripresa nel testo di cui alla nota precedente.
[15] Il riferimento è esplicito, quale punto di partenza di un’elaborazione, alle leggi della robotica elaborate da Isaac Asimov, scienziato noto soprattutto come scrittore di fantascienza, al punto “T” della risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017, di cui alla nota 4. Questa la loro trascrizione in quel testo:
(1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
(2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
(3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. (cfr. Isaac Asimov, Runaround [Circolo vizioso], New York, 1942)
La successiva elaborazione dello stesso Autore condusse poi alla formulazione della quarta legge, anteposta alle altre: (0) Un robot non può recare danno all'umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l'umanità riceva danno.
Lo stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Cost. Cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”.
di Fabio Gianfilippi
Sono state depositate, mercoledì scorso, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale, censurando l’interpretazione contraria data sul punto dal diritto vivente, in assenza di una disposizione transitoria, considera non applicabili le modifiche normative peggiorative derivanti dall’inserimento di un reato nel copioso catalogo di quelli già presenti nell’art. 4-bis ord. penit., ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge, con riferimento però alla sola concedibilità delle misure alternative alla detenzione.
La pronuncia interviene in particolare relativamente all’art. 1, co. 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nota con l’icastica definizione di “legge spazzacorrotti”. Un epiteto, per quanto almeno concerne l’esecuzione penale, evocativo di per sé di scenari assai distanti dal precetto costituzionale, per il quale le pene sono rivolte alla risocializzazione di chi ha violato la legge penale, facendo del pur grave reato commesso una ragione di stigma che aderisce sempiternamente alla persona, considerata ormai uno scarto irrecuperabile, con espressione mutuabile dal pensiero di Bauman.
La predetta nuova disposizione normativa prevede che la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione siano annoverati nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. con una serie di conseguenze assai gravose: l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse, a meno che non sia intervenuta collaborazione con la giustizia ai sensi degli art. 58-ter ord. penit. o 323-bis co. 2 cod. pen. oppure non intervenga il meccanismo surrogatorio previsto nel co. 1-bis del medesimo art. 4-bis. Preclusa diviene, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2 d.l. 13.05.1991 n. 152, alle stesse condizioni, la liberazione condizionale. Non concedibili la detenzione domiciliare in ragione della condizione di ultrasettantenne, né quella c.d. generica per le pene inferiori ad anni 2 di reclusione, né l’affidamento in prova di tipo terapeutico per pene superiori ai 4 anni, e più lunga la quota di pena espianda per ottenere la semilibertà, o accedere a permessi premio e lavoro all’esterno. Correlativamente, per il richiamo contenuto in tal senso nell’art. 656 co. 9 cod. proc. pen., non risulta sospendibile l’ordine di esecuzione anche per le pene non superiori a quattro anni, con il conseguente ingresso obbligatorio in carcere in attesa delle eventuali decisioni del Tribunale di sorveglianza sulle misure alternative. Molteplici, infine, le conseguenze in termini di trattamento penitenziario: dal numero di colloqui visivi e telefonici sensibilmente ridotto, alla possibilità di vedersi applicato il regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit.
Gli effetti prodotti dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale, tuttavia, non possono intendersi confinati alla legge “spazzacorrotti”, dovendo ormai rileggersi la disposizione normativa alla ricerca delle precedenti aggiunte in cui, analogamente assente una regola intertemporale, l’applicazione delle modifiche peggiorative è stata sino ad oggi ritenuta applicabile retroattivamente sulla base della interpretazione offerta da una granitica giurisprudenza di legittimità (vd. per tutte la sentenza sez. un. cass. 18.09.2006 n. 30792 in tema di limitazioni per i condannati recidivi), assurta a diritto vivente.
D’altra parte molte volte si è fatto ricorso a questo meccanismo di ampliamento dell’estensione dell’art. 4-bis e, come ricordato recentemente dalla stessa Corte Costituzionale, sembra essersene persa l’originaria ratio di contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, poichè “le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti. L’art. 4-bis ordin. penit. si è, così, trasformato in «un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 32 del 2016 e n. 239 del 2014), nel quale, accanto ai reati di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, quelli di violenza sessuale (…), di scambio elettorale politico-mafioso (…), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (…) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (…).” (sent. Corte Cost. 188/2019). Una presa d’atto, forse non obbligata, che richiede paletti significativi che, comunque, la Consulta sta ponendo a più livelli con martellante efficacia.
Il problema oggi affrontato, e risolto attraverso una sentenza interpretativa di accoglimento tanto radicata nei principi essenziali dello stato di diritto da poter trarre argomenti persino da una epocale sentenza del 1798 della Corte Suprema degli Stati Uniti (cfr. pr. 4.3.1 del considerato in diritto), si era dunque già varie volte posto, perché il legislatore aveva mancato di introdurre disposizioni transitorie idonee ad evitare una applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative contenute nell’art. 4-bis già in occasione di precedenti ampliamenti del catalogo, ma anche ad esempio quando fu stabilita una stretta in materia di trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati (cfr. L. 251/2005). La natura non sostanziale delle norme di ordinamento penitenziario era stata ogni volta ribadita, in sede di merito e poi di legittimità. La stessa Corte Costituzionale a questo proposito era stata già chiamata ad esprimersi e con l’odierna pronuncia ha in tal senso rivendicato espressamente, pur poi ricordando la complessa strada interpretativa sin qui seguita e non abbandonata, la facoltà di rimeditare i propri stessi orientamenti interpretativi nel tempo (cfr. par. 3.6 del considerato in diritto).
Mai però, come in questo caso, erano state così ampie e diffuse le perplessità sull’applicazione del principio del tempus regit actum alle modificazioni peggiorative intervenute in materia di concedibilità delle misure alternative, come a tutte le norme di ordinamento penitenziario, in correlazione con la loro sempre ritenuta natura non sostanziale.
Alcune pronunce di merito, in realtà, si erano spinte verso il superamento di questa impostazione, soprattutto alla luce dell’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo maturato in relazione alla garanzia, in termini di effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, di cui all’art. 7 CEDU (vd. in particolare la sent. Grande Chambre 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna, che ritiene soggette al divieto di applicazione retroattiva le norme in materia di esecuzione penale che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della pena”).
Allo stesso modo le undici ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, che hanno dato origine alla sentenza in commento, sollevano la quaestio anche in relazione all’art. 7 CEDU e all’art. 117 Cost.
Provengono da Tribunali di sorveglianza chiamati a vagliare istanze di misure alternative e di permessi premio, oppure muovono da giudici dell’esecuzione in relazione ad incidenti relativi ad ordini di esecuzione che avevano determinato la carcerazione per condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi in data precedente all’entrata in vigore della legge e che avevano visto peggiorare ex abrupto le proprie prospettive di esecuzione penale.
I parametri costituzionali invocati sono molteplici, ma è risultato assorbente il riferimento al contrasto con la garanzia dell’irretroattività di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Come anticipato la Corte utilizza lo strumento della sentenza interpretativa di accoglimento, con intervento additivo che, in forza dello stesso tenore letterale della norma costituzionale evocata, appare obbligato e comporta la non applicabilità delle modifiche peggiorative (o meglio di alcune di esse, per come vedremo) ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.
Come noto, in forza dell’art. 25 co. 2 Cost. è vietata l’applicazione retroattiva di una norma incriminatrice, sia laddove la condotta fosse in precedenza penalmente irrilevante, sia dove fosse, al momento del fatto, già prevista come reato ma con pena meno severa di quella poi introdotta nell’ordinamento.
La Corte ricorda che ciò consente che le persone possano ragionevolmente prevedere le conseguenze penali delle proprie scelte e, anche nel corso di un procedimento penale eventualmente instauratosi, governino adeguatamente le opzioni difensive che sono loro garantite. Consente, soprattutto, e perciò si evoca a ragione il “cuore stesso del concetto di stato di diritto”, di erigere un bastione nei confronti degli eventuali abusi di un potere politico che volesse cedere alla tentazione, storicamente non infrequente, di utilizzare gli strumenti della legge penale per vendicarsi del proprio avversario e “stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti”.
Nel caso che ci occupa viene quindi dichiarata l’incompatibilità costituzionale del diritto vivente a mente del quale tutte le norme che disciplinano l’esecuzione penale sono sottratte al divieto di applicazione retroattiva in forza della loro natura non sostanziale, e se ne estrapolano quelle che comportano “una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale”, per le quali l’applicazione retroattiva è preclusa proprio dal principio di cui all’art. 25 co. 2 Cost. In particolare, sono considerate rientranti in questo sottoinsieme, tutte quelle che comportavano, prima dell’introduzione della “legge spazzacorrotti”, la prevedibilità di una esecuzione penale al di fuori delle mura del carcere, mediante misure alternative in cui è marcato il profilo rieducativo e ridotta la pur sussistente limitazione della libertà personale. Si tratta di misure che incidono sulla qualità e quantità della pena “di natura sostanziale” (cfr. già sent. Corte Cost. 349/1993) e ciò deve dirsi anche della sospensione dell’ordine di esecuzione che, al di là della collocazione nel codice di procedura, spiega l’effetto sostanziale, decisivo, di consentire al condannato di attendere in libertà la pronuncia del Tribunale di sorveglianza sulla eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in presenza delle altre condizioni previste dall’art. 656 cod. proc. pen., invece che di subire intanto, e per tempi non prevedibili, la carcerazione.
Quanto alle altre modificazioni peggiorative derivanti dall’inserimento nell’elenco di cui all’art. 4- bis co. 1 ord. penit., la Corte Costituzionale ritiene che per le stesse sia invece compatibile una applicazione a tutte le pene al momento della loro esecuzione, a prescindere dall’eventuale commissione del reato della cui esecuzione si parla in epoca precedente alla loro introduzione. Gli argomenti sembrano essere soprattutto che in tal modo si garantisce omogeneità al trattamento penitenziario, che altrimenti soffrirebbe la coesistenza di “una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato”, incompatibile con una oculata gestione del complesso mondo penitenziario, e si consente inoltre all’ordinamento di reagire con appropriatezza alle esigenze di sicurezza che sopravvengano nel tempo, come pure di non compromettere eventuali modificazioni che, al di là di una semplicistica riconduzione al novero delle novità favorevoli o sfavorevoli al condannato, ne mutino la vita penitenziaria.
Tra queste modifiche per le quali non è preclusa la retroattività, non figurano però soltanto, secondo la Consulta, le disposizioni relative ad esempio ai colloqui visivi e alle telefonate o alla possibilità di vedersi inseriti in un circuito Alta Sicurezza o applicato il regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., ma anche quelle che riguardano i benefici penitenziari come il permesso premio e l’autorizzazione a svolgere il lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit.
Nel distinguere le strade che può prendere l’esecuzione penale “dentro e fuori” dal carcere, questi ultimi strumenti vengono considerati parte del percorso intramurario e dunque legittimamente limitabili al sopravvenire di un mutamento normativo in tal senso. Eppure la Corte Costituzionale, ancora con la sent. 253/2019, aveva ribadito la “funzione pedagogico-propulsiva” del permesso premio quale momento di prodromica sperimentazione verso la concessione delle misure alternative. Eppure il lavoro all’esterno ex art. 21, pur dogmaticamente ben distinto dalla semilibertà, gli è equiparabile dal punto di vista dei concreti spazi liberi lasciati al condannato (al punto che negli istituti penitenziari i detenuti che possono accedere all’uno o all’altro di questi benefici convivono nelle stesse sezioni, diverse da quelle che ospitano i ristretti che non ne sono destinatari).
Alla strada, pure percorribile, di separare gli strumenti del trattamento rieducativo (e dunque tutti i benefici penitenziari) da quelli della mera vita penitenziaria, la Corte Costituzionale ha preferito quella che distingue nettamente gli strumenti di accesso a misure di comunità fuori dal contesto penitenziario, e quelli che parlino ancora il linguaggio intramurario e che, appunto, non trasformino la natura della pena. E ciò anche se è lo stesso Giudice delle leggi a mostrare consapevolezza dell’importanza di una esecuzione in carcere illuminata dall’obbiettivo, in tempi anche medio-lunghi, di poter rientrare sul territorio seppur solo per quelli parentesi feconde di libertà che sono i permessi premio.
Per questi ultimi benefici la pronuncia considera incompatibile con i principi costituzionali soltanto che il detenuto, che abbia già concretamente raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio, se lo veda oggi precludere dalla novità normativa, nel solco di un insegnamento costituzionale molto radicato circa la non regressione incolpevole nel trattamento.
All’esito della pronuncia della Corte Costituzionale, dunque, ai condannati per delitti commessi prima dell’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti” tornano ad essere concedibili, previo prudente apprezzamento della magistratura di sorveglianza, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, a prescindere dalla collaborazione con la giustizia, e debbono sospendersi gli ordini di esecuzione per le pene relative ai delitti contro la pubblica amministrazione, in presenza delle altre condizioni richieste dall’art. 656 cod. proc. pen. e senza applicazione del divieto di cui al co. 9 lett. a).
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia compatibile con l’art. 25 co. 2 Cost. l’applicazione retroattiva delle limitazioni in tale materia anche per tutti gli altri delitti compresi negli elenchi dell’art. 4-bis ord. penit., ove commessi prima dell’inserimento, e ciò potrà avere rilevanti conseguenze soprattutto per coloro che eseguano oggi pene a distanza di molti anni dal commesso reato (ad esempio frequenti sono i casi di condannati per fatti di violenza sessuale commessi in data anteriore al luglio 2009, quando gli stessi furono inseriti nell’elenco, o di immigrazione clandestina, in data anteriore al più prossimo febbraio 2015).
Deve dedursene inoltre che qualsiasi ulteriore modifica normativa che dovesse intervenire anche in futuro ad opera del legislatore, mediante l’introduzione di limitazioni alle possibilità di accesso alle misure alternative, in quanto determinante un mutamento delle modalità esecutive della pena che si traduce in una trasformazione della sua natura, deve ritenersi costituzionalmente compatibile soltanto se non retroattiva.
In ordine all’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis, in particolare in rapporto agli art. 3 e 27 Cost, erano state infine proposte anche questioni di legittimità costituzionale non collegate al profilo intertemporale e miranti ad evidenziare l’estraneità di alcune di queste fattispecie alla ratio della norma, come nel caso del peculato (cfr. ord. cass. 18.06.2019 n. 31853; ord. Corte App. Caltanissetta 8.10.2019) e dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (cfr. ord. Corte App. Palermo 29.05.2019). Al momento l’esame di tali profili appare rinviato, poiché la Corte Costituzionale, con decisione del 26.02.2020, ha restituito gli atti ai giudici rimettenti per le valutazioni in termini di rilevanza delle questioni, all’esito della sentenza n. 32/2020, poiché si trattava in tutti i casi di fatti commessi in data anteriore all’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti”. Uno spazio di rilevanza che, almeno per ciò che concerne, ad esempio, le preclusioni all’accesso ai permessi premio ed al lavoro all’esterno, così come in materia di limitazioni al trattamento (e loro funzionalità agli obiettivi di sicurezza perseguiti dall’art. 4-bis ord. penit.) sembra di fatto esservi ancora.
Appunti sparsi per una rivoluzione terra terra del giudiziario
di Pasquale Profiti
“In nome del popolo italiano”: i battiti salivano veloci, impetuosi, fuori controllo. Avevo la sensazione che se mi fossi tolto la toga si sarebbe vista la camicia muoversi al ritmo del cuore. Dovevo appoggiare qualsiasi cosa avessi in mano, per occultare il palese tremore delle mani. Ero all’inizio della mia attività di Pubblico Ministero e questo era l’effetto che subivo ogni qualvolta sentivo suonare il fatidico campanello ed il giudice usciva dalla camera di consiglio per leggere il dispositivo della sentenza. Ne parlai con il mio medico, un amico di famiglia, un po' preoccupato per lo stress che subiva il cuore. “Pressione labile”, diagnosticò: somatizzi le emozioni, ma non ti preoccupare, un cuore sano e forte sopporta uno stress del genere e passerà con il tempo, quando ascoltare quella frase diverrà routine.
La diagnosi era giusta, la prognosi si è rivelata errata. I verbi che ho utilizzato all’imperfetto, posso riprenderli al presente, perché il tumulto del cuore in pochi secondi, il tremolio delle mani, il sudore che corre lungo la schiena sono rimasti dopo 28 anni. Ogni volta penso che sarà l’ultima.
Ho parlato recentemente di queste sensazioni in un incontro organizzato per gli studenti delle classi quinte delle scuole superiori della provincia di Trento; i ragazzi hanno incontrato una decina di persone, lavoratori dei più diversi settori del vivere collettivo: medicina, economia, educazione, sociale, religioso, istituzionale, tra cui un magistrato. Ho parlato in termini entusiastici, non solo del mio mestiere, ma anche della soddisfazione per quelle sensazioni “giovanili” che non si erano placate, non erano diventate routine. Sono rimasto tale e quale; giovane, ho aggiunto con un sorriso. È un bagno di umiltà; ogni volta il processo mette a prova la tua professionalità, che è di più, molto di più che capacità tecnica. Nelle decisioni che si assumono come magistrato metti in gioco ben oltre che la tua competenza tecnica, ma la professionalità, che include la consapevolezza che ogni volta che risuona quella frase le vite delle persone sono cambiate, per sempre. Non solo. È anche un bagno di umiltà perché 28 anni di magistratura, fors’anche con la stima dei colleghi, non ti assicurano che le tue richieste saranno accolte. Un giudice appena in funzione ti dovrà dar torto se penserà che le tue valutazioni della prova o la tua interpretazione della legge non sono corrette. È quello che mi è accaduto ieri e potrà accadermi anche domani. Ma questo è il fascino del mio mestiere; quando lo inizi hai una libertà che nessun altro lavoro ti assicura al momento della tua prima assunzione: dal primo giorno di funzioni nessuno ti potrà condizionare su come decidere il tuo primo processo, che sia il Procuratore Generale o il Presidente della Corte di appello o della Cassazione. Libertà che si accoppia con la responsabilità, morale prima ancora che giuridica, della tua decisione: ecco il perché dell’emozione sempre viva ed intensa.
Lo sguardo dei ragazzi, quegli occhi spalancati che rispecchiavano il lavorio emozionale della loro mente nell’immedesimarsi nello spaccato del mio vivere lavorativo, mi hanno indotto a fermarmi qui. Era giusto non bloccare i loro sogni e la loro utopia, perché i ragazzi se ne devono nutrire.
Ho detto cose vere, ma non tutta la verità.
Non ho rivelato che sono tanti i colleghi che fuggono da quel “in nome del popolo italiano”. Che si è consolidata l’idea che far carriera è allontanarsi dalle aule di giustizia, “dedicarsi alla dirigenza” e rifiutare quel bagno di umiltà perché disonorevole per loro e per la loro autostima.
Non ho raccontato che anche tra noi si è insediato nel linguaggio il seme della gerarchia. Parliamo di capi degli uffici perché un testo legislativo lo ha disgraziatamente introdotto. Rigettiamolo questo linguaggio, per favore. Parliamo invece, vi prego, di responsabili, nel senso inglese di accountable, di dover dar conto e assumersi le conseguenze del loro organizzare, del loro non organizzare o del loro disorganizzare.
Non mi andava proprio di raccontare a quei ragazzi che nella mia vita lavorativa ho imparato ed imparo quotidianamente molto di più da giovanissime colleghe che portano avanti processi complicati, fissando udienze di sabato e che con tatto segnalano un’ultima Cassazione che ti era sfuggita o una recentissima modifica legislativa che avevi letto troppo distrattamente, rispetto ai tanti c.d. capi che non sbagliano mai solo perché non gli si rende conto del loro non fare i processi e perché il rinnovo quadriennale dipende dal non aver fatto disastri, più che dall’aver fatto bene.
Torniamo a concepire il nostro lavoro per quello che è. Il cuore è il processo, inteso come tutti quei procedimenti che danno una soluzione, definitiva o meno, ad una controversia; chi si occupa di quel processo è colui che fa battere quel cuore, che tiene in vita l’organismo. Dovrebbe essere principalmente il cuore a dirci se è stato messo in grado di ben funzionare e non viceversa. Dovrebbe quindi essere chi fa i processi e non viceversa a giudicare i responsabili dell’organizzazione, i c.d. capi degli uffici, dando il loro contributo alla valutazione sul rinnovo. Sono chi fa i processi le vere eccellenze della giurisdizione, anche se continuiamo a chiamare Eccellenza, con la E maiuscola, anche chi le aule di giustizia le frequenta solo per le cerimonie.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati da noi sono concepite come valutazione del singolo. In alcuni paesi del nord Europa e sempre più in alcuni profili di disciplina di altri paesi, sono invece intesi come strumento di valutazione sistemica dell’efficienza del giudiziario. La valutazione del lavoro del singolo deve essere fatta evidenziando il contesto organizzativo che gli si è messo a disposizione e se i programmi del responsabile dell’organizzazione, il c.d. capo, abbiano davvero consentito un lavoro efficiente e di qualità. In altri termini se qualcosa nel lavoro del singolo non ha raggiunto i risultati auspicabili, il primo a dover dare risposte è il c.d. capo dell’organizzazione, per verificare se ha messo a disposizione gli strumenti, ove disponibili, per poter ovviare alle problematiche riscontrate; solo dopo aver escluso problematiche organizzative e le responsabilità del dirigente, ci si concentra su eventuali inefficienze del singolo. Non sarebbe difficile elaborare indici di valutazione della professionalità dei magistrati e dei dirigenti che tengano conto primariamente dell’efficienza e della qualità del sistema, prima ancora che della carriera del magistrato. Noi siamo invece ancorati, affezionati, alla costruzione della nostra carriera, che ha successo se si conclude con la nomina a capo, ancor di più se da quel capo si passa all’Eccellenza, lì dove in nome del popolo italiano diventa un ricordo lontano e la giovanile emozione del battito del cuore si inaridisce per sempre, per assumere la comoda posizione del controllore di chi fatica o del dispensatore di ordini. So bene che per tutti non è così, che ci sono e ci sono stati dirigenti e colleghi ministeriali che hanno inteso il loro ruolo come servizio a beneficio di chi i processi li tiene. Ma la cultura del bagno di umiltà, dell’accountability, dell’essere servente di chi fa i processi si allontana progressivamente sempre di più. Solo noi possiamo invertire la rotta. Ma è inutile nasconderlo, dobbiamo prima domandarci se siamo pronti e disposti ad una rivoluzione copernicana che cominci dal guardarci allo specchio e descrivere con onestà che cosa siamo diventati. Perché mi piacerebbe tanto che quel racconto del lavoro del magistrato italiano ai ragazzi che stanno per scegliere il loro futuro, non sia più solo una mezza verità.
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