ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Covid -19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto – 2. Nel cuore del problema – 3. Ma quali misure? – 4. E quali sanzioni? – 5. Conclusioni.
1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto
L’emergenza sanitaria in corso ha rimodellato le nostre abitudini di vita, sospeso l’esercizio di diritti ed esaltato l’assunzione di responsabilità di ciascuno verso la collettività. Ma mentre la dimensione privata – che è di nuovo fortemente pubblica – cerca di attraversare questi giorni, queste settimane, non vanno dimenticati quanti devono contemporaneamente esporsi necessariamente ad un maggior pericolo di contagio perché impegnati in attività lavorative che non sono sospese e non sono compatibili con lo smart working. Il mondo del lavoro può contrarsi ma non cessare il proprio moto.
Ma come incide l’emergenza sanitaria sul sistema teso a garantire la sicurezza del lavoro? Lo confina in un limbo, tra quei che son sospesi? Il nuovo si associa al vecchio? E in che forme: si sovrappone, ne viene integrato, gli impone delle modifiche[1]? Ecco alcune delle domande che si sono affacciate non appena nei provvedimenti adottati dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale sanitaria si è alluso al mondo del lavoro. Ma in fine dei conti tutti gli interrogativi si condensano in uno: il nuovo rischio sanitario deve essere considerato mediante la valutazione dei rischi, fulcro della normativa prevenzionistica?
Il quesito evoca immediatamente la previsione dell’art. 29, comma 3 TU, della quale basterà riportare solo una parte del testo: “La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, …, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, …”.
I repertori di giurisprudenza abbondano di massime che ammoniscono sulla necessità che la valutazione consideri tutti i rischi ai quali sono esposti i lavoratori. Meno frequente è che si concettualizzi la classe dei rischi che devono essere considerati, anche in funzione della evidenziazione di quelli che ne restano esclusi.
Nel dibattito apertosi all’insegna del Covid-19 sono presto emerse posizioni nettamente contrapposte[2].
Secondo alcuni, i rischi oggetto di valutazione – e che quindi impegnano ad un aggiornamento della stessa – sono solo quelli specifici dell’organizzazione lavorativa. Pertanto, si distingue la classe dei rischi specifici, implicati dal processo produttivo, dal modo di essere dell’organizzazione definita dal datore di lavoro, da quella dei rischi generici[3], ovvero dei rischi ai quali è esposta la collettività ed il lavoratore non in quanto tale ma come membro di essa.
Si evoca, nel medesimo orizzonte, l’opposizione tra rischio endogeno e rischio esogeno, assegnando valore, quale presupposto dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi, solo al primo.
Il rischio sanitario al quale oggi ognuno è esposto, in Italia come in gran parte del mondo, sarebbe un rischio generico, esogeno, e come tale non imporrebbe al datore di lavoro di tenerne conto mediante l’aggiornamento della valutazione dei rischi.
Si pone l’enfasi, a confermare questa tesi, sul fatto che la valutazione del rischio sanitario anche in ambito lavorativo è stata fatta dalla pubblica autorità, imponendo – oggi possiamo fare riferimento al d.l. n. 19/2020 – la regola del distanziamento e, solo ove questa non sia applicabile, l’obbligo di adottare, quali DPI, le mascherine chirurgiche. Si considera che l’obbligo di valutazione datoriale può ritenersi sussistente solo in corrispondenza di una libertà di decisione organizzativa; sicché, assente questa, viene a mancare il presupposto del dovere.
Sull’opposto fronte si è fatto appello principalmente all’art. 2087 c.c., quale fonte di un obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, secondo la particolarità del lavoro, deducendone – ma invero senza particolare argomentazione – che ciò vale anche in relazione al livello di rischio nascente dalla situazione di contagio pandemico e pertanto, “visto l’aumento esponenziale del livello normale di rischio derivante dal pericolo della malattia virale Covid 19, è necessario aggiornare il documento di valutazione dei rischi”[4].
Ulteriore argomentazione fa leva su una interpretazione ‘estensiva’ dell’art. 267 TU, che si riconosce concernere gli aspetti ambientali connessi all'uso delle specifiche sostanze nelle lavorazioni proprie del processo produttivo ma che dovrebbe essere applicato anche all’agente biologico CoViD19, considerato che il protocollo lo definisce rischio biologico generico e che nell'allegato XLVI del TUSL è considerato anche il Coronaviridae, ossia l'aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”[5].
Di più ampio respiro la ricostruzione che rimarca la necessità di una interpretazione ispirata alla logica sottesa al TU, quale emerge dall’artt. 3, comma 1, a mente del quale, “il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”; dall’art. 2, comma 1, lett. o), laddove definisce la salute del lavoratore come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”; dall’art. l’art. 2, comma 1, lett. n), D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale la “prevenzione” è “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”.
Se ne trae il giudizio di una volontà del Governo di coinvolgere le imprese nell’opera di contenimento del virus. Ma l’obbligo di aggiornare la valutazione dei rischi si fa discendere essenzialmente dall’art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, del quale si rimarca il riferimento a “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”. Si sostiene che quest’ultima espressione “fa intendere che debbono essere valutati tutti i rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa: come appunto il coronavirus”[6]. E si richiama, ad ulteriore conferma dell’assunto, quanto ritenuto dalla Commissione per gli interpelli nel dare risposta al quesito in merito alla sussistenza dell’obbligo di valutazione anche per i rischi derivanti dalla “situazione ambientale e di sicurezza intesa anche come security, in particolare in paesi esteri ma non solo, legata a titolo esemplificativo ma non esaustivo ad eventi di natura geo politica, atti criminali di terzi, belligeranza e più in generale di tutti quei fattori potenzialmente pericolosi per l’integrità psicofisica dagli equipaggi nei luoghi (tipicamente aeroporti, alberghi, percorso da e per gli stessi e loro immediate vicinanze) dove il personale navigante si trovi ad operare/alloggiare quando comandati in servizio”. Ad avviso della Commissione, il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta[7].
2. Nel cuore del problema
Sull’uno e sull’altro fronte si dispiegano argomenti di notevole spessore.
Tuttavia, a mio avviso, la questione non si presta a soluzioni draconiane: obbligo si/obbligo no, in ogni caso senza se e senza condizioni. E, in fin dei conti, a leggere bene tra le righe la distanza tra i due orientamenti è minore di quanto non appaia.
Cominciamo con l’esaminare alcuni capisaldi della tesi che esclude l’obbligo di aggiornamento. In definitiva, essa sembra assumere una nozione di rischio professionale ritagliata sul tipo di produzione piuttosto che sulle singole mansioni espletate dai lavoratori. Non sembra bisognevole di dimostrazione che, al contrario, è proprio il rischio intrinseco alle singole attività lavorative a dover essere valutato. La stessa definizione di valutazione dei rischi offerta dall’art. 2, lett. q) - valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività – non pare alludere all’organizzazione in senso astratto ma a quella concretata dalla connessione tra luoghi fisici, procedure, apparecchiature, uomini.
Sicché vanno considerati i singoli segmenti del processo produttivo, le fasi della lavorazione, le diverse postazioni di lavoro e le attrezzature impiegate[8].
Se ciò persuade, allora è agevole considerare che quasi in ogni impresa, accanto a lavorazioni che non innalzano il rischio di contagio rispetto al livello al quale è esposto il non lavoratore, ve ne sono altre nelle quali le mansioni espletate espongono l’operatore ad un rischio ‘differenziale’ di essere aggredito dall’agente patogeno. Si pensi a coloro che hanno relazioni con i clienti, con i fornitori; che in generale svolgono compiti che implicano il contatto con soggetti estranei alla compagine aziendale. Non è, per questi lavoratori, quello da contagio, un rischio specifico? V’è davvero differenza tra il caso dell’impresa che invii un lavoratore in uno Stato estero nel quale è in atto un’epidemia – che si riconosce essere rischio professionale[9] - e quello del lavoratore chiamato a ricevere in azienda una persona che proviene da un ambiente esterno nel quale è in corso un’epidemia?
Ma anche relativamente a tutti gli altri lavoratori la tesi in esame non sembra convincente. Se si è disposti ad adottare quale criterio di discrimine il requisito della specificità del rischio, e però correlato alle varie mansioni previste dall’organizzazione produttive, allora viene da chiedersi se le prescrizioni – non più le raccomandazioni – imposte alla intera collettività (allontanarsi dal domicilio solo per comprovate necessità sanitarie, di lavoro ecc.) non definiscano un livello di rischio inferiore rispetto a quello cui risulta esposto il lavoratore, ‘confinato’ all’interno di un ambiente che, ordinariamente, è spazialmente delimitato, è frequentato da una pluralità di persone, richiede costantemente contatti intersoggettivi.
Detto altrimenti e più semplicemente: non è l’attività di lavoro divenuta ex sé un fattore di accrescimento del rischio sanitario al quale è esposto il non lavoratore?
Si potrebbe obiettare, l’argomento lo si è già preannunciato, che questo fattore è stato oggetto di valutazione da parte del legislatore, il quale ha imposto la regola del distanziamento fisico. Quindi non vi sarebbe alcuna necessità, premessa del dovere, per il datore di lavoro di valutare il rischio da Covid-19. Si afferma che “La valutazione di quel rischio è operata a monte dalla pubblica autorità, ai cui comandi il datore di lavoro deve adeguarsi adattando a tal fine la propria organizzazione alle misure di prevenzione dettate dalla stessa pubblica autorità. Tale riorganizzazione non è altro che un adeguamento alle direttive pubbliche e, come tale, non pare costituire un vero e proprio aggiornamento della valutazione dei rischi ex art. 29 del d.lgs. n. 81/2008, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza delle direttive pubbliche rileva non già ai sensi dell’art. 55 dello stesso decreto, bensì in relazione alle speciali sanzioni pubblicistiche sancite dalla pubblica autorità”.
Si può replicare che previsioni come quelle contenute nelle lett. z) e gg) dell’art. 1, comma 2 d.l. n. 19/2020 possono essere associate al concetto di valutazione del rischio solo in ben diverso senso. In realtà le norme operano una positivizzazione della regola cautelare da adottare per lo specifico rischio, nel peculiare contesto delle attività di impresa la cui prosecuzione è consentita. Il che dimostra che il legislatore ha identificato un fattore produttivo di rischio e una misura in grado di ridurre – non crediamo di eliminare – tale rischio; da qui la formulazione di un comando. Nulla più dell’ordinario procedimento attraverso il quale si perviene alla formazione di una regola cautelare.
Ciò non attinge la dimensione delle premesse fattuali dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi. Anzi, a ben vedere, l’enunciazione della regola segnala l’esistenza del rischio e la necessità della adozione della misura impone di riconsiderare l’intera morfologia aziendale, al fine di verificare se non ne discendano effetti negativi per la sicurezza dei lavoratori. Di più: la regola positivizzata della quale stiamo trattando ha in realtà carattere elastico; essa non ha un contenuto definito rigidamente, ma indica un obiettivo da garantire conformando la specifica situazione concreta in chiave funzionale al raggiungimento dello stesso. Si prescrive che le attività consentite possono essere svolte se prima il titolare mette in esecuzione (“assume”) misure atte ad evitare assembramenti e predispone le condizioni per garantire il rispetto delle distanze interpersonali. Come è agevole osservare, si tratta di disposizione che rimanda a scelte organizzative del datore di lavoro, al quale è indicato unicamente il risultato da conseguire.
D’altro canto, non è forse vero che la regola del distanziamento fisico impone rilevanti modifiche organizzative se non addirittura al modo di produrre? E l’art. 29, comma 3, con il quale abbiamo aperto queste riflessioni, non impone di rielaborare immediatamente la valutazione dei rischi in occasione – almeno – di modifiche della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori? Si potrebbe obiettare che, per essere quelle considerate dalla norma, deve trattarsi di modifiche che incidono in senso peggiorativo sulle condizioni di salubrità dell’ambiente di lavoro; di talchè non devono essere considerate quelle che invece costituiscono misure migliorative. Mi sembrerebbe tuttavia una lettura ‘ingenua’, nel senso che non tiene conto delle implicazioni sistemiche di ogni innovazione. Ad esempio: la maggior distanza tra due lavoratori addetti ad una comune lavorazione può determinare la sopraggiunta inidoneità della misura che garantiva l’esecuzione in sicurezza (si pensi al controllo visivo di un lavoratore sull’altro, o alla disposizione di pulsantiere ecc.).
In sintesi, la valutazione dei rischi deve essere aggiornata, secondo quanto impone l’art. 29, comma 3, perché l’implementazione della misura del distanziamento fisico determina una rilevante modifica della organizzazione, in astratto ma ancor più perché il d.l. n. 19/20 rimanda al datore di lavoro per la definizione dell’assetto organizzativo concreto che vale a garantire il risultato del rispetto delle regole di condotta positivizzate.
Sarebbe erroneo sostenere che in questo modo si pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di fare fronte al rischio epidemico. Agevole la replica: al debitore di sicurezza lavorativa non si chiede di garantire la salute dell’intera collettività ma unicamente del lavoratore che, a causa della necessità di prestare l’opera fuori dal domicilio, si trova esposto al rischio ed impossibilitato a proteggersi isolandosi.
Né risulta decisivo in senso avverso il richiamo alla disciplina del rischio biologico espressamente prevista dal TU; disciplina che indubbiamente fa riferimento agli agenti biologici implicati ordinariamente dal processo produttivo. Infatti, ciò importa l’inapplicabilità delle specifiche disposizioni ma non esclude la cogenza del più generale obbligo datoriale discendente dall’art. 2087 c.c.; obbligo che vincola anche alla valutazione dei rischi che, si noti, non siano classificati dal TU.
3. Ma quali misure?
Altra questione è se le misure del distanziamento e dell’uso di DPI – e più in generale quelle espressamente previste in provvedimenti normativi - esauriscano il novero delle misure da adottare. Essa rimanda ad un tema perennemente dibattuto; ma si può cominciare con il rilevare che proprio il carattere elastico della prescrizione da un canto relativizza e dall’altro drammatizza il tema della adozione di misure ulteriori, che fossero suggerite dalla scienza e tuttavia non indicate dal d.l. 19/2020.
Lo relativizza perché in realtà il datore di lavoro è chiamato dalla regola ad individuare l’assetto organizzativo in grado di assicurare il rispetto della stessa; e qualora non ve ne fosse alcuno possibile, l’alternativa non può che essere la chiusura della lavorazione. Lo drammatizza perché ciò pone in capo al datore di lavoro l’onere di identificare le condizioni che permettono di osservare la misura. Il che non è sempre agevole e soprattutto si proietta su prassi che normalmente stressano il concetto di osservanza, tendendo a ritenere tale anche condotte non integralmente rispettose della prescrizione. Per altro verso, al datore di lavoro non si può chiedere più di quanto la scienza, allo stato attuale, permette di conoscere come efficaci misure prevenzionistiche.
In questa cornice si iscrive il Protocollo d’intesa. Il fatto che l’art. 1, comma 3, dello stesso d.P.C.M. del 22 marzo 2020 abbia previsto che le «imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali» e che le misure di cui a tale decreto presidenziale rientrano tra quelle confermate e sussunte nel d.l. n. 19/2020 ha fatto sostenere che il Protocollo ha natura lato sensu normativa[10].
Il profilo è di sicura rilevanza sul piano del diritto del lavoro e anche per le ricadute sull’attività di vigilanza; ma per quanto attiene alla dimensione penalistica è sostanzialmente irrilevante. Per il versante contravvenzionale vale quanto si osserverà a breve; per quello dei reati contro l’incolumità pubblica o individuale, la positivizzazione della regola cautelare – sia nella forma della legge, del regolamento, dell’ordine o della disciplina (art. 43, comma 1 c.p.) – viene in considerazione nel giudizio sulla colpa, ma può essere non risolutiva.
Indubbiamente, le misure concordate tra le parti sociali e condivise dal Governo si pongono come punto di riferimento per la individuazione delle misure prevenzionistiche ritenute, allo stato, necessarie per ridurre il rischio da Covid-19; ma ciò non esclude che esse possano essere insufficienti quando emerga che rappresentano non già le misure suggerite dalla scienza e dalla tecnica del tempo presente ma l’esito di un compromesso tra esigenze economiche e esigenze di tutela della salute individuale e collettiva. Solo una esplicita presa di posizione del legislatore può permettere che un nucleo di misure, che non esauriscono le cautele disponibili, sia valutato come integrale adempimento dell’obbligazione prevenzionistica.
4. E quali sanzioni?
Da quanto sin qui esposto discendono rilevanti conseguenze anche in tema di vigilanza e di sanzioni.
Poiché l’implementazione della misura disposta dal d.l. 19/2020 importa rilevanti modifiche organizzative, la valutazione va aggiornata immediatamente ed il relativo documento rielaborato entro trenta giorni dalla adozione della modifica
Si tratta di obblighi la cui violazione è presidiata da sanzione penale, prevista dall’art. 55, comma 3 TU.
E’ possibile quindi che gli organi preposti alla vigilanza svolgano il controllo del rispetto dell’obbligo e che impartiscano, ricorrendone le condizioni, la prescrizione condizionata, secondo la previsione dell’art. 301 TU.
Quid iuris se l’impresa non rispetta le regole imposte dal d.l. 19/20?
A considerare le misure indicate come volte a garantire la sicurezza dei lavoratori sul lavoro si dovrebbe ritenere che la mancata adozione debba trovare qualche eco in una delle norme sanzionatrici del TU. Senonché, a rendere inutile una ricerca che sarebbe stata di non agevole compimento, viene l’espressa previsione dell’art. 4 del d.l. 19/20, a mezzo della quale si manifesta la scelta del legislatore di mantenere un controllo pubblicistico sull’attuazione delle misure di contenimento, per la cui violazione è stato previsto uno speciale corredo sanzionatorio.
Si prevede, infatti, che, salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3.
Nei casi di cui all'articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa), si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni.
Le violazioni sono accertate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; si applicano i commi 1, 2 e 2.1 dell'articolo 202 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di pagamento in misura ridotta. Le sanzioni per le violazioni delle misure di cui all'articolo 2, comma 1, sono irrogate dal Prefetto.
Come si vede, l’osservanza delle misure è posta sotto il controllo del Prefetto, con una soluzione certamente fin qui sconosciuta al mondo della sicurezza del lavoro.
Per contro vi è una integrazione tra misura emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro nella previsione dell’art. 16 del d.l. n. 18/20, secondo la quale “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”. Si ripropone, come è già stato osservato, il consueto modello prevenzionistico, fondato sul favore per misure collettive rispetto a quelle individuali (cfr. art. 75 TU).
Non è però agevole individuare la sanzione applicabile nel caso di mancata dotazione delle mascherine chirurgiche, giacché l’art. 87, comma 2 lett. d) chiama in causa il comma 3 dell’art. 77, che prescrive la dotazione di DPI conformi ai requisiti previsti dall’art. 76, tra i quali la conformità al d.lgs. n. 475/1992 e succ. mod.; conformità che manca alle mascherine chirurgiche, le quali sono prodotte in conformità delle norme UNI 14683-2019 e rientrano tra i dispositivi medici di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1997, n. 46; diversamente dai facciali filtranti (mascherine FFP2 e FFP3), che sono utilizzati in ambiente ospedaliero e assistenziale per proteggere l’utilizzatore da agenti esterni, i quali sono certificati ai sensi di quanto previsto dal D.lgs. n. 475/1992 e sulla base di norme tecniche armonizzate (UNI EN 149:2009).
Sicché, se da un verso la previsione dell’art. 16 sembra avere lo scopo di rendere idonee come DPI maschere che diversamente non lo sarebbero, dall’altro emerge l’inapplicabilità dell’art. 87, come sopra citato. Ne risulta la configurabilità della contravvenzione di cui agli artt. 18, comma 1 lett. d) e 55, comma 5 lett. d).
Più palese è la correlazione tra la violazione degli obblighi concernenti i DPI previsti dal 77, comma 4, e la sanzione penale: è quella apprestata dall’art. 87.
5. Conclusioni.
Come sempre accade, il mondo del lavoro si è mosso rapidamente. Mentre si discute se si debba o meno procedere all’aggiornamento della valutazione dei rischi molte imprese hanno assunto iniziative volte a ridurre al minimo il rischio che i lavoratori si ammalino avendo contratto il virus sul posto di lavoro. Le innovazioni sono state formalizzate in modi diversi. L’opinione espressa nelle righe precedenti conduce a ritenere che non può assumere rilievo la forma, ogni volta che si sarà realizzato nella sostanza un aggiornamento della valutazione dei rischi; ma a questo scopo, occorre rimarcarlo, è pur sempre necessario osservare le pertinenti prescrizioni normative; in particolare quelle dettate dall’art. 29.
[1] A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4, ha sostenuto, con riferimento alle pertinenti disposizioni del d.P.C.M. 11.3.2020, che “trattasi di indicazioni aggiuntive rispetto a un sistema normativo – preesistente e generale – di protezione e prevenzione della salute e della sicurezza del lavoratore che resta pienamente efficace”. IL d.P.C.M. è il primo provvedimento che, nella blanda forma della raccomandazione, ha prefigurato una gamma di misure a chiara funzione prevenzionistica, quali – a prescindere dal ricorso al lavoro agile e dall’incentivazione alle ferie e ai congedi – la sospensione delle attività nei reparti non essenziali alla produzione, l’adozione di protocolli anti-contagio, il distanziamento fisico e in subordine l’adozione di DPI, la sanificazione degli ambienti, la riduzione degli spostamenti all’interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni. Pochi giorni dopo è stato stipulato tra le parti sociali il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, del 14.3.2020, contenente linee guida alle imprese per l’adozione di specifici protocolli di sicurezza anti-contagio. Sul ruolo di tale accordo nel quadro della tutela della sicurezza del lavoro, P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, fasc. 2, 107 ss. Infine, almeno per ora, è giunto – e con ben altra cogenza – il d.l. 25.3.2020, n. 19, recante norme sulle “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19”, al quale si farà ampio richiamo nel testo.
[2] Controversia che non tocca le attività lavorative prestate nell’erogazione dei servizi sanitari e ospedalieri, per le quali si riconosce nel rischio biologico da Covid-19 un rischio specifico professionale.
[3] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 129, “i rischi specifici … sono connessi al contesto strutturale, strumentale, procedurale e di regole che il datore di lavoro ha concepito e messo in atto per il perseguimento delle proprie finalità produttive”.
[4] A. Ingrao, op. cit., 4.
[5] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4.
[6] R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5.
[7] Interpello 25.10.2016, n. 37412.
[8] Per quanto non specificamente tematizzato, l’assunto emerge con sufficiente nitidezza anche dalle pronunce della giurisprudenza di legittimità; nelle quali si danno affermazioni come la seguente: “Il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, all’interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro…” (Cass. 25.2.2020, n. 6567; corsivo mio).
[9] P. Pascucci, op. cit.,129 s.
[10] Pascucci, terzo saggio, 123.
Prosegue la pubblicazione degli atti del convegno organizzato dal COA di Milano sul tema Il mare dei diritti umani.
La redazione di Giustizia Insieme augura oggi buona festa della Repubblica ai suoi lettori, ricordando che secondo la nostra Costituzione, quando sono in gioco i diritti inviolabili dell'uomo, il cittadino e lo straniero sono sullo stesso piano (Corte cost. sent. 18 luglio 1986, n. 199).
Convegno "Il mare dei diritti umani"
La qualificazione giuridica delle persone soccorse in mare.
di Rosa Emanuela Lo Faro
Buon pomeriggio a tutti, Presidente , grazie per l’invito.
Mi occupo di migranti e richiedenti asilo da circa 21 anni, nel corso della mia attività forense ho difeso tantissimi stranieri.
Ho partecipato, in tema di migranti, all’evoluzione legislativa in termini pratici che è iniziata nel 1998 con la legge Bossi-Fini .
In Italia, non sapendo come risolvere il problema migratorio, i politici hanno varato delle leggi che, dapprima hanno creato tantissime persone irregolari, per poi risolvere il problema con una serie infinita di regolarizzazioni delle persone straniere, infatti. Si consideri le regolarizzazioni degli anni 1999/2000, 2002, 2009 , 2011/201.
I primi eventi di imbarcazioni pieni di naufraghi che mi hanno coinvolto professionalmente si sono svolti a Siracusa, Catania, Trapani Agrigento, nel lontano 2001 e 2002. A quell’epoca non esisteva il reato di procurato ingresso di migranti clandestini, previsto e punito oggi dall’art.12 d.lgs 286/98 , ma il solo favoreggiamento della immigrazione clandestina.
Le pene previste erano lievi , pensate che un soggetto imputato di tratta di migranti poteva accedere ad un patteggiamento con una pena massima di due anni con sospensione condizionale della pena, l’attuale normativa contiene, invece, pene che vanno da 5 a 15 anni , con aggravanti di aumento da un terzo sino alla metà delle pena .
Oggi tutto questo è stato modificato con interventi politico-legislativi contro i trafficanti, che ormai sono considerati alla stessa stregua dei mafiosi, infatti a pena definitiva non sono previsti i benefici delle misure alternative alla detenzione.
La Sicilia è stata sempre terra di sbarchi, essa è l’isola in cui la tratta dei migranti si apre e transita per e verso l’Europa.
La mia attività difensiva ha interessato anche le attività delle navi umanitarie, comunemente definite Organizzazione non governative .
Prima della difesa delle ONG la mia esperienza diretta è nata con i migranti sbarcati.
Secondo i miei trascorsi ed esperienze professionali, durante gli sbarchi, i migranti venivano portati in centri di raccolta, che a volte coincidevano con alcune scuole, ed immediatamente identificati.
Il giorno dopo, alcuni di essi venivano rimpatriati con voli charter , mentre altri venivano condotti in centri dei richiedenti asilo.
Solo in questi centri dopo aver ricevuto tutte le informazioni legali, i migranti avanzavano la richiesta di asilo politico ed allora iniziava l’iter della domanda .
Il Migrante appena sbarcato non veniva informato dei propri diritti e dei propri doveri. L'attività preminente consisteva nella identificazione del soggetto , nel contatto con l’ambasciata di origine per poter identificare e rimpatriare il medesimo , senza che potesse applicarsi la convezione di Ginevra e il principio del non respingimento.
Con il passare del tempo L’Italia ha modificato la legislazione anche su sollecito delle direttive europee quali : la direttiva rimpatri del 2013 e quella relativa ai richiedenti asilo e il migrante ha avuto accesso più facilmente alle procedure di asilo.
Professionalmente ho assunto la difesa della Open Arms nel marzo del 2017 .
I salvataggi operati dalla ONG avvenivano di concerto con il centro di coordinamento del Comando della Guardia Costiera di Roma , la guardia di Finanza , la polizia di Stato e la Capitaneria di Porto del luogo dello sbarco.
Dopo il sequestro della Juventa le navi umanitarie subivano una serie di controlli , ispezioni e divieti sino al punto che l’equipaggio ed il comandante hanno preteso e chiesto ai loro armatori una tutela legale .Vi ricordo che il comandante di una imbarcazione è personalmente responsabile penalmente della nave del suo equipaggio e dei passeggeri.
Le ONG salvano e continuano a salvare Vite Umane, ovvero uomini, donne e bambini, di qualsiasi sesso , età, condizione sociale e cittadinanza. Sono nate per collaborare con gli Stati e non per contrastarli.
Un primo quesito che ci siamo posti appena assunta la difesa delle nave umanitarie era quale fosse la qualifica da attribuire alla nave umanitaria e quale fosse la qualifica giuridica da attribuire alle persone soccorse.
Soltanto nella rivista diritto immigrazione e cittadinanza , fasc nr.3 /2017, pag.27 , in occasione del codice di condotta varato dall’allora Ministro Minniti abbiamo condiviso delle considerazioni giuridiche circa la qualificazione da attribuire alle ONG non statali. Irini Papanicolopulu scrive che “alle ONG sono state attribuite delle funzioni pubbliche per svolgere compiti di soccorso e tali compiti sono dovuti alla inerzia degli Stati.”
Da questo concetto, nel corso dell’attività difensiva si è cercato di affermare il principio che le Ong sono delle organizzazioni private incaricate di un pubblico servizio e paragonabili alle autoambulanze del mare che soccorrono persone in difficoltà ed in pericolo di vita e li portano in codice rosso nel primo porto più vicino e sicuro.
L’altro problema riguardava le persone soccorse, quest’ultime come si possono qualificare?
La politica propagandistica negazionista delle migrazioni ha attaccato sempre le persone che si sono spostate da un continente ad un altro, utilizzando il termine “ clandestino”. Termine che nel corso degli anni ha assunto un significato dal contenuto spregevole, tendente a definire clandestino[dal lat. clandestinus (der. dell'avv. clam «di nascosto»),colui che entra in un paese di nascosto contro le leggi.
Il termine contiene un giudizio negativo aprioristico, suggerisce l’idea che il migrante agisca al buio, di nascosto, come persona sgradevole . È un termine giuridicamente sbagliato per definire chi tenta di raggiungere l’Europa e non ha ancora avuto la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, e chi invece ha fatto la richiesta ed è in attesa di una risposta (i migranti / richiedenti asilo); ed è un termine giuridicamente sbagliato anche per definire chi ha visto rifiutata la richiesta d’asilo e ogni altra forma di protezione (gli irregolari).
Le persone che entrano nei paesi attraverso il mare devono essere distinte dalle persone che entrano in un paese dalla terra ferma, per una serie di ragioni:
1) la vita in mare è quasi sempre in pericolo;
2) Il mare e il moto ondoso sono imprevedibili , cambiano da un momento all’altro;
3) Le condizioni di navigazione e i natanti sono insicuri;
4) Molto spesso i natanti sono sovraccarichi di persone e senza protezione;
5) Nel corso del 2019 ci sono già stati 950 morti in mare;
6) I trafficanti creano dolosamente le condizioni per il soccorso;
L’attraversamento terrestre non ha nessun rischio, non mette in pericolo di vita il migrante, tranne casi limite ( si pensi ai migranti nascosti sotto i tir, o quelli che attraversano la rotta balcanica boschiva).
Da queste considerazioni possiamo dedurre che nell’attraversamento marino del migrante quando si presenta un caso di stress ovvero di soccorso, siamo in presenza di un naufragio e le persone possono essere qualificate “Naufraghi”, mai clandestini.
Il naufrago è quello che ha bisogno di aiuto perché la sua imbarcazione sta affondando . Da un momento all’altro affoga in acqua.
I migranti sbarcati dalle ONG sono prima persone, umani e naufraghi, indipendentemente dal visto di ingresso in uno stato o dal permesso di soggiorno.
Con l’avvento della politica di destra questa definizione non è stata percepita, anzi si è adottata la politica dei porti chiusi alle ONG, le quali, a detta del Ministero dell’interno di destra, da collaboratori sono diventati , traghettatori di clandestini e di fatto bloccati per 14 giorni dinanzi al porto di sbarco più vicino e nell’ultimo soccorso avvenuto da parte dell’Open Arms si è avanzata da parte dei naufragi a bordo della nave, la richiesta di protezione internazionale.
Il collegio di difesa per risolvere il problema delle accuse ministeriali , che a bordo vi erano esclusivamente clandestini , ha cercato di far esprimere le volontà dei migranti dalla imbarcazione in modo tale che lo Stato ricevente la domanda potesse aprire una posizione giuridica di protezione internazionale.
I nostri avvocati spagnoli hanno avanzato le richieste di asilo dei minori stranieri che si trovavano a bordo della nave Open arms e la Spagna a seguito di queste richieste ha mandato una nave militare per prendere in carico i migranti.
Ovviamente tale modus operandi non deve esser la regola. Si deve dare la possibilità a tutti i migranti di raccontare la propria storia e il proprio vissuto e permettere loro di avanzare le domande dopo una adeguata informazione, a terra , dopo l’approdo.
I naufraghi non possono essere classificati clandestini per un altro ordine di ragioni.
Qualificare nel modo giusto le persone soccorse ha rilevanza anche nei processi penali . Invero, la legislazione del 2017 ci dà una mano:
- L’art 10 ter (D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) è stato varato per indicare le disposizioni per l'identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio.
Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142.
Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l'informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell'Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
Lo straniero soccorso è un naufrago e non un clandestino.
A Catania ci sono stati tantissimi processi e Va qui segnalata la giurisprudenza, sul punto, che ne è conseguita:
la questione si era posta in concreto in relazione a misure coercitive richieste dalla Procura di Catania nei confronti dei cd. scafisti, sulla base di dichiarazioni rese da singoli migranti sentiti come persone informate sui fatti.
Ebbe il suo epilogo dinanzi al tribunale del riesame di Catania, il quale aveva accolto la tesi della Procura, e cioè che nel caso di specie i migranti potevano essere sentiti come persone informate sui fatti in quanto nei loro confronti non erano ipotizzabili indizi di reità per il invece reato ex art. 10 bis.
L’art. 10 Bis d. lg. n. 286/98, introdotto nel T.U. immigrazione dall’art. ’art. 1, comma 16, lett. A) della l. 15 luglio 2009, n. 94.
punisce con la pena della ammenda da 5.000 a 10.000 euro (non oblazionabile) la semplice presenza o ingresso illegale, senza che vi sia stato alcun provvedimento relativo all’espulsione o allontanamento.
Si tratta una condotta attiva istantanea che si consuma con il varcare illegalmente i confini nazionali, come ricorda la Corte costituzionale (n. 250/2010).
Il problema si pone, sia per i trafficanti o scafisti, sia per i migranti , nel caso in cui l’imbarcazione venga soccorsa in altro mare, e l’ultimo segmento della condotta di ingresso venga posta in essere non dagli stranieri, ma dalle navi di soccorso, che è, poi, attualmente la modalità più frequente,
Detta situazione determina la mancata applicazione del citato articolo .
A partire dal 2014, in effetti, le modalità utilizzate dai trafficanti per portare a compimento i delitti, finalizzate di traffico di migranti sono radicalmente cambiate.
Esse prevedono, tra l’altro, la volontaria messa in pericolo della vita dei migranti al fine di ottenere l’intervento dei soccorsi. La Corte di Cassazione ha risolto il problema in tema di giurisdizione affermando la propria giurisdizione per il reato ex art. 12.
Ci si può domandare se, in tal caso, si realizzino i presupposti di applicazione del reato di cui all’art. 10 bis.
L’art. 10 bis è ipotesi contravvenzionale, punita con la sola ammenda, che si consuma con l’ingresso nel territorio dello Stato e non con la sola determinazione ad entrarvi.
Trattandosi di reato contravvenzionale, non è punibile il tentativo.
Per il Tribunale di Catania il reato contravvenzionale di ingresso nel territorio dello Stato si consuma, in conclusione, solo con il volontario ingresso;
Le persone soccorse fuori delle acque territoriali non hanno commesso alcun reato e non devono essere iscritte nel registro degli indagati;
esse sono sentite quali persone informate sui fatti e poi testimoni.
Il tema è stato delicato e controverso. Si sono registrate, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, orientamenti contrastanti, con la conseguenza che :
gli stranieri trasportati vengono sentiti, talora, quali persone informate sui fatti (cfr.: Cass., 18 aprile 2016, n. 1383; Cass., 1 ottobre 2015, n. 2595; Cass., 21 settembre 2011, n. 2701 ;) e, talaltra, quali indagati del reato di ingresso irregolare nel territorio dello Stato (cfr.: Cass., 17 marzo 2016, n. 25613; Cass., 22 maggio 2014, n. 37215; Cass., 10 maggio 2012, n. 22643, Andriietes, CED 252741).
La questione viene cristallizzata della sentenza della Corte di cassazione, SS.UU., sent. 28 aprile 2016, n. 40.517
Le dichiarazioni spontanee dei migranti soccorsi in acque internazionali e portati sul territorio italiano che identificano un soggetto quale responsabile del reato di immigrazione clandestina, all'interno del processo penale possono essere valutate quali dichiarazioni testimoniali non configurandosi l'ipotesi della cosiddetta chiamata in correità – motivo per il quale tali dichiarazioni non necessitano di essere valutate insieme ad altri elementi probatori che confermino riscontri oggettivi – posto che il loro ingresso in Italia non rappresenta il reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. n.286/98.
“ Non possono, dunque, essere considerati migranti entrati illegalmente nel territorio dello Stato per fatto proprio e l’ipotesi contravvenzionale non consente di configurare il tentativo d’ingresso illegale.
Non può, d’altro canto, ipotizzarsi che il pericolo di vita cui era conseguita l’azione di salvataggio che ne aveva comportato l’ingresso e la permanenza per motivi umanitari nel territorio dello Stato fosse stato evenienza dagli stessi prevista ed artatamente creata; d’altra parte, il fatto che la Procura della Repubblica avesse già negato il nulla osta all’esecuzione dell’allontanamento dal territorio nazionale e reso parere favorevole per la concessione del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 18 d.lgs. n. 286 del 1998 non consente di ritenere, quanto meno allo stato, illegale né tanto meno illecita la loro permanenza in Italia .
E se il loro ingresso non configura il reato di clandestinità previsto dal 10bis Dlgs 286/98, si deve ritenere che le ONG salvano persone che non sono “ clandestine” in quanto non è possibile denunciarne la condotta.
Pertanto, le ONG non possono essere accusate di aver trasportato clandestini, ma di aver soccorso persone che si trovavano in uno stato di necessità, in pericolo di vita venendo meno ogni accusa relativa all’ex art 12 sia per la pena la multa per ogni straniero trasportato.
La responsabilità dello Stato per femminicidio non impedito (nota a lettura immediata di Cass. 08/04/2020, n. 7760)
di Franco De Stefano
Sommario: 1. La vicenda processuale. - 2. La sentenza in commento. - 3. La violazione di legge. - 4. Il nesso di causalità. - 5. Il mancato sequestro del coltello poi usato per il delitto.
1. La vicenda processuale.
Il caso è di cronaca, ma i fatti risalgono oramai ad oltre dodici anni or sono e possono così ricordarsi in estrema sintesi: restate senza esito numerosissime denunce di una donna nell’arco di un anno per le minacce anche di morte ricevute dall’ex compagno all’esito di una separazione molto accesa pure in ordine all’affidamento dei tre figli minorenni, questi la uccide per strada a coltellate.
L’azione di risarcimento degli orfani è intentata dopo qualche tempo dal loro tutore nei confronti dello Stato, ravvisata - ai sensi degli artt. 3 o 2 comma 3, lett. a) della legge 13 aprile 1988, n. 117 - un’ipotesi di denegata giustizia od una violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, consistente nell’omissione, da parte dei magistrati investiti delle denunce, delle opportune indagini e dei provvedimenti interdittivi.
In un primo momento il tribunale prima e la corte d’appello poi dichiarano inammissibile per tardività l’azione, ma la Cassazione sconfessa l’assenza del relativo presupposto processuale[1]; e, se il tribunale, esaminata finalmente nel merito la domanda, la accoglie per € 259.200 per soli danni materiali (oltre accessori e spese)[2], tuttavia la corte d’appello, sul gravame dell’Avvocatura di Stato, la respinge, con conseguente obbligo degli attori, vittoriosi in primo grado, a restituire quanto percepito in forza della prima sentenza.
Secondo quanto emerge dalla successiva sentenza della Cassazione qui in commento, la corte territoriale – con la sentenza 19/03/2019, n. 198 – identifica una grave violazione di legge, commessa con negligenza inescusabile, nella mancata perquisizione nei confronti dell’ex compagno ai fini del sequestro del coltello che pure questi aveva ostentato alla vittima, come da lei denunciato; ma poi, pur dato atto che la pubblica accusa si era limitata alla doverosa iscrizione del denunciato nel registro degli indagati, così argomenta:
- all’epoca dei fatti (2007) non era consentita la richiesta di provvedimenti cautelari, né era ancora stata introdotta la fattispecie criminosa di cui all’art. 612 bis cod. pen.;
- comunque, non solo dalla relazione di c.t.u. sull’ex compagno, pure acquisita, non erano emerse patologie psichiatriche, ma neppure da altri atti constava alcun altro presupposto per applicare la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura ai sensi degli artt. 73 ss. cod. proc. pen. o per il trattamento sanitario obbligatorio ex artt. 32 ss. legge 23 dicembre 1978, n. 833;
- era peraltro evidente la fermezza del proposito omicida dell’ex compagno, poiché questi aveva agito non già d’impeto, ma con accurata programmazione;
- da tanto si doveva evincere che egli avrebbe comunque portato a termine il suo disegno, perfino ove l’arma di cui era mancato il sequestro pure invocato nelle denunce non fosse stata più nella sua disponibilità, se del caso agevolmente procurandosene un’altra;
- pertanto, quell’unica violazione di legge, consistente nella mancata effettuazione della perquisizione e del successivo sequestro del coltello utilizzato per minacciare la ex compagna, non poteva dirsi in grado di determinare l’evento, qualificato inevitabile anche ove vi fossero stati la perquisizione e l’eventuale sequestro del coltello;
- ed era in conclusione escluso il nesso causale tra omissione ed evento dannoso.
2. La sentenza in commento.
La sentenza della Corte d’appello di Messina è stata fatta oggetto di ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi: i primi tre dei quali la Suprema Corte ha accolto con sentenza n. 7760, pubblicata in data 8 aprile 2020, in piena emergenza sanitaria.
I primi tre motivi denunciano il carattere meramente apparente della motivazione della corte d’appello, quanto ad esclusione del nesso di causalità tra la condotta omissiva dei magistrati della Procura della Repubblica di Caltagirone e l’evento, anche per dedotto omesso esame o travisamento di prove (sui giudicati delle pregresse dodici condanne dell’omicida e sulla c.t.u. del giudizio di separazione).
La sentenza in commento rileva un’evidente contraddizione: “la Corte di merito afferma che, stante l’intento omicidiario del Nolfo del tutto comprovato, dal successivo svilupparsi degli eventi, qualunque intervento dell’Ufficio giudiziario sarebbe stato ininfluente”, se non altro perché l’omicida avrebbe potuto facilmente procurarsi un’altra arma avente caratteristiche similari a quello utilizzato per uccidere, semplicemente acquistandola. “In tal modo la Corte di merito ha, pur affermando di effettuare il cd. giudizio controfattuale, escluso la rilevanza causale di qualsiasi possibile antecedente logico, operando in modo difforme da quanto costantemente prescritto in materia”.
Quanto all’accertamento del nesso causale, la sentenza qui in commento richiama le conclusioni consolidate, affermate da Cass. 27/09/2018, n. 23197[3], nonché da Cass. n. 13096 del 24/05/2017[4]; per poi qualificare scorretto il giudizio della corte territoriale sulla insussistenza del nesso causale, rimproverando ai giudici del merito di avere, pure con una eccessiva frammentazione dei fatti e conseguente inintelligibile considerazione atomistica di alcuni episodi, privato di rilevanza l’antecedente logico, ossia la condotta omessa.
In sostanza, la sentenza qui in commento censura l’affermazione dei giudici del merito secondo la quale, qualunque potesse essere stata tale omissione, l’evento di danno si sarebbe comunque verificato: affermazione che ha comportato una scorretta dilatazione della “incidenza dell’inadempienza dell’organo giudiziario ai limiti del caso fortuito e della forza maggiore, o, comunque, ha ristretto l’evitabilità dell’evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”. Ed un ruolo solo concorrente è riconosciuto all’incomprensibilità del richiamo al giudicato formatosi sui fatti oggetto di talune denunce per avere l’omicida patteggiato le condanne dopo la morte della ex compagna.
È chiaro che, sia pure sub specie di un vizio di motivazione e per di più evidentemente in linea con i requisiti rigorosi disegnati dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. del 2012 dalle Sezioni Unite fin da Cass. Sez. U. n. 8053/14, la sentenza qui in commento rileva la scorrettezza dell’accertamento del nesso di causalità, al contempo dettando, a contrario, la regola di diritto da applicare alla fattispecie: posto che, a quanto consta dalla narrazione dei fatti ivi presupposta, non è più in discussione che un’inadempienza rilevante dell’organo giudiziario vi sia stata[5], occorrerà valutare se questa possa avere, anche solamente quale concausa, determinato l’evento (il delitto oggetto delle denunciate minacce), essendo invece errato qualificare questo come inevitabile (tanto dovendo implicare il richiamo al caso fortuito o alla forza maggiore) o comunque confondere l’inevitabilità dell’evento coi “casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”.
3. La violazione di legge.
Il primo punto fermo va riscontrato nel consolidamento, dovuto alla carenza di impugnazioni sul punto, del rilievo del primo dei presupposti della responsabilità civile del magistrato, cioè della grave violazione di legge, sotto il profilo della mancata perquisizione del denunciato e del mancato sequestro del coltello poi evidentemente impiegato per il delitto[6].
Poco rileva che alla fattispecie sia applicabile, in ragione del tempo dei fatti, la disciplina originaria della legge 117 del 1988 e cioè quella anteriore alla novella di cui alla legge 27 febbraio 2015, n. 18: a piena salvaguardia della stessa funzione giurisdizionale rimane fondamentale, a prescindere da quanto più restrittiva sia valutata l’una rispetto all’altra, mantenere la distinzione essenziale tra percezione di fatti e valutazione di questi e delle relative prove, affinché a fondamento dell’azione di responsabilità dello Stato sia posto l’errore nella prima e mai pure nella seconda[7].
È poi vero che tale distinzione diviene particolarmente delicata in relazione alle funzioni del pubblico ministero, soprattutto nella fase dell’espletamento delle indagini preliminari ed in relazione alle sue determinazioni sull’adozione o meno delle concrete attività in cui quelle potrebbero estrinsecarsi; ed è altrettanto vero che la tipica attività valutativa, da parte del pubblico ministero, del materiale probatorio raccolto all’esito di quelle integra estrinsecazione di una discrezionalità normalmente intangibile ed esente da responsabilità[8].
Tuttavia, effettivamente può sostenersi che, ferma l’incoercibilità della tendenziale libertà di quelle valutazioni, esse non possono mai giustificarsi quando siano arbitrarie, in quanto irragionevoli, ovvero comunque contrarie ad ogni regola di normale prudenza o di ordinaria diligenza in relazione alle circostanze; anche il magistrato risponde dell’osservanza di tali regole, come è reso evidente anche dal loro rilievo disciplinare; e, in definitiva, egli non può dirsi padrone assoluto e insindacabile della sua potestà giurisdizionale, di cui deve usare in modo appunto responsabile, secondo quei criteri che implicitamente l’ordinamento pone a presidio del suo esercizio e che si ricavano dalle discipline positive.
Non è certo configurabile come obbligo di risultato, a volere solo in via descrittiva applicare una terminologia privatistica tradizionale definita per lo più problematica almeno di recente[9], l’impegno istituzionale del pubblico ministero di reprimere i reati e la sua potestà di chiedere il sequestro preventivo di quanto possa servire anche agevolare reati ulteriori rispetto a quelli di cui già si occupa; e ad analoga figura è ancora più arduo ricondurre la sua funzione di coordinare l’attività della polizia giudiziaria, alla quale spetta per legge di evitare che i reati siano portati a conseguenze ulteriori.
Ma non può sostenersi che il magistrato del pubblico ministero sia tecnicamente ed irresponsabilmente libero di valutare gli atti e di determinarsi nel modo che ritiene più opportuno, senza motivare sul punto: la Cassazione ha già avuto modo di precisare che la carenza di motivazione, pure quando la pronuncia si ponga in contrasto con un orientamento giurisprudenziale e perfino se maggioritario, è fonte di responsabilità, ove non sia riconoscibile una scelta interpretativa consapevole[10].
E in un contesto di accesa conflittualità indotta dalla traumatica dissoluzione del vincolo familiare o di coppia, manifestamente caratterizzato da reiterate minacce anche a mano armata (e non importa neppure se dinanzi a condotte di reazione della ex compagna, pure denunciate dall’omicida), quello che traspare dalla descrizione datane nella sentenza qui in commento è il quadro di un’immotivata assoluta inerzia dell’organo inquirente, che ha tralasciato ogni attività diversa dalla formale iscrizione del pluridenunciato nel registro degli indagati.
Ma la formale iscrizione è un mero atto dovuto e, comunque, il solo presupposto di quegli atti di indagine invece doverosi, che non risultano essere stati nemmeno tentati o posti in essere, senza alcuna motivazione o giustificazione; o, almeno, non risulta che una qualsiasi ragione di tale totale ed assoluta inerzia e della mancata disposizione della perquisizione sia stata fornita, anche solo per implicito o ricavabile da un complessivo contesto, non adeguatamente esplorato se non altro dai giudici del merito e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri fin dal suo appello avverso la condanna di primo grado che lo dava per constato, dall’organo giudiziario inquirente.
E corrisponde a tale ordinaria diligenza, superabile certo ma in base ad esplicite e circostanziate considerazioni, la prognosi di utilizzo di uno strumento atto ad offendere ostentatamente prefigurato, per prevenire il quale il codice appresta lo strumento specifico dell’art. 321 cod. proc. pen.; norma a tenore della quale, “quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato”.
4. Il nesso di causalità.
Tanto consente di limitare a sommarie notazioni, meritando la questione ben altri approfondimenti, il discorso sul nesso di causalità civilisticamente inteso e nell’accezione recepita dalla Corte nella qui commentata sentenza, di esplicito recepimento degli orientamenti consolidati sul punto[11].
Ai fini della definizione della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); e tuttavia il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se quest’ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che - secondo l’id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante - integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l’antecedente necessario e sufficiente. E la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell’evento.
Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo dell’illecito (la colpevolezza), ove questo per l’ordinamento rilevi; ma non può escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell’elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l’illecito ed il danno[12].
La tematica va rapportata alle discipline imposte ai pubblici poteri con un fine determinato: in relazione alle quali la giurisprudenza di legittimità è ferma nel riconoscere la responsabilità civile nei casi in cui sia dimostrata in giudizio la sussistenza dell’obbligo di osservare una specifica regola cautelare di comportamento ed una volta appurato che l’evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, poiché l’omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, proprio quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l’esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell’evento[13].
5. Il mancato sequestro del coltello poi usato per il delitto.
È agevole allora constatare che, se è stato ritenuto violato un obbligo di disporre la perquisizione finalizzata all’eventuale sequestro preventivo di un’arma, a sua volta teso ad impedire che questa fosse usata conformemente alla minaccia specificamente ad essa riferita, ma soprattutto se poi quell’arma è stata in concreto usata e per di più in concreta estrinsecazione della minaccia, si è in concreto verificato il rischio che la regola violata mirava a prevenire e, di conseguenza, in applicazione dell’art. 41 cod. pen. il nesso di causalità bene avrebbe potuto dirsi sussistente[14].
Tanto basta a giustificare la piena condivisione della conclusione della sentenza qui in commento in punto di sussistenza del nesso causale; la pretesa inevitabilità dell’evento dinanzi alla riscontrata fermezza della determinazione dell’omicida integra un salto logico non consentito all’interprete, perché elide il nesso causale in base ad una congettura esclusa dall’evidenza dei fatti.
In tali condizioni (pure essendo, nella nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., ridotto il sindacato di legittimità sulla motivazione al “minimo costituzionale”, restando riservata al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie) la Corte di cassazione può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie[15].
A volere ragionare per assurdo, nessuna attività di prevenzione dei reati potrebbe dirsi utile e quindi alcuna omissione al riguardo rilevante, tutte le volte in cui l’autore del reato abbia agito con premeditazione, per la sussistenza di potenzialità alternative alle attività di contrasto.
Non è stato contestato che, al tempo dell’omicidio, non sarebbero stati possibili altri provvedimenti restrittivi o preventivi, per non essere stata ancora introdotta la disciplina in materia di c.d. stalking; non risulta adeguatamente contestato da chi poteva averne interesse che in base alle risultanze degli atti dovesse escludersi l’applicabilità di altre misure di sicurezza o preventive, ovvero di trattamenti sanitari obbligatori.
Ma non risulta neppure contestato, a quanto è dato sapere, che quel coltello, oggetto di almeno alcune delle denunce di minaccia a mano armata, sia stato plausibilmente l’arma del feroce plateale delitto: e che, quindi, ove la perquisizione fosse stata prudentemente disposta al fine di ricercarlo e sottoporlo al doveroso sequestro preventivo, quell’arma non sarebbe stata usata e quel delitto, come commesso appunto con quell’arma, non sarebbe stato possibile e non sarebbe stato commesso.
È pur vero che, nella specie e con una valutazione di fatto che di norma sfugge al sindacato di legittimità, l’omicida pareva determinato al punto tale da lasciare presumere che, quand’anche gli fosse stato sequestrato il coltello usato per formulare la sua orrenda minaccia, bene avrebbe potuto procurarsene un altro, oppure attivare in modo diverso il suo disegno; ma tanto non esclude che almeno quel coltello egli, se si fosse correttamente fatto uso delle potestà giurisdizionali riconosciute all’inquirente, con buona probabilità (e così all’esito di una autentica prognosi postuma), non avrebbe potuto usare.
Non si sa se davvero il destino della malcapitata vittima di questo ennesimo “femminicidio”[16] fosse verosimilmente comunque segnato e andasse qualificato perfino come “inevitabile”: quel che conta, nell’azione di responsabilità che si sta svolgendo dinanzi ai giudici, è che quell’omicidio, con quel coltello, è stato reso possibile perché nessuno, pur potendolo e probabilmente dovendolo, ha neppure tentato di impedirlo; di conseguenza, “quel” femminicidio, almeno quello e con quelle modalità, era evitabile; e dallo Stato ci si attende la messa in opera di tutti gli sforzi possibili, quand’anche perfino presumibilmente inani, anziché una remissiva rassegnazione.
Ogni approfondimento sugli altri presupposti, non preclusi dalla definitività degli accertamenti in fatto già operati nel corso di questo annoso e dolente processo, resta ovviamente rimesso ai giudici del rinvio, a cominciare dalla valutazione della sussistenza o meno dell’elemento soggettivo, pure assolutamente indispensabile per la stessa astratta configurabilità dell’illecito aquiliano, al quale è ricondotta la responsabilità disegnata dalla legge 117 del 1988[17].
Ma almeno si ha ora per fermo che quell’evento si è verificato perché chi poteva almeno concorrere ad impedirlo non si è adoperato per farlo.
[1] Cass. 12/09/2014, n. 19265, integrata da Cass. ord. 17/07/2015, n. 15095. La prima di esse si è occupata quasi esclusivamente della questione processuale della decorrenza del termine di decadenza allora previsto dalla legge n. 117/88 (tanto che fra i suoi commenti si segnala quello di F. Tizi, Decorrenza del termine per la proposizione dell’azione di responsabilità per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e soggetti incapaci, in Giur. it. 2014, 2717), mentre la seconda ha solo emendato la prima di un errore materiale nell’individuazione del giudice del rinvio.
[2] Sulla sentenza nel merito di primo grado, per tutti v.: A. Palmieri, Responsabilità dello Stato per omissioni nell’attività di indagine da parte del pubblico ministero: il ruolo chiave dell’indagine sul nesso causale, in Questione giustizia on line, all’URL http://www.questionegiustizia.it/stampa.php?id=1938; E. Scoditti, La responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione: la sottile linea fra percezione e valutazione, in Questione Giustizia on line, dal 26/06/2017.
[3] In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana).
[4] In materia di illecito aquiliano, l’accertamento del nesso di causalità materiale, in relazione all’operare di più concause ed all’individuazione di quella cd. “prossima di rilievo” nella verificazione dell’evento dannoso, forma oggetto di un apprezzamento di fatto del giudice di merito che è sindacabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., sotto il profilo della violazione delle regole di diritto sostanziale recate dagli artt. 40 e 41 c.p. e 1127, comma 1, c.c.
[5] Questione che era stata lasciata impregiudicata dalla prima cassazione, fermatasi in limine alla questione dell’ammissibilità per non consumazione del termine di decadenza in relazione all’incapacità dei danneggiati.
[6] Al riguardo, v. l’intervento, successivo alla sentenza di appello, di G. Cascini e P. Ielo, La decisione del Tribunale di Messina sulla responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione. Un punto di vista di parte, in Questione Giustizia on line, reperibile all'URL
http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-decisione-del-tribunale-di-messina-sulla-respon_05-07-2017.php.
[7] Su tanto basti un richiamo all’ampia ed approfondita analisi di E. Scoditti, op. ult. cit..
[8] Quanto alla richiesta di rinvio a giudizio, perfino se reiterata dopo l’esito negativo di precedenti atti di indagine, in tali espressi termini v. Cass., ord. 26/02/2015, n. 3916 (e, in sensi analoghi, Cass. 19/01/2018, n. 1266).
[9] Per tutte: Cass. Sez. U. 28/07/2005, n. 15781, pubblicata, tra l’altro, in Nuova giur. civ. comm., con nota di R. Viglione, Prestazione d’opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
[10] Cass. Sez. U. 03/05/2019, n. 11747, in Giur. it. 2019, 2420, con nota di A. Tedoldi, Responsabilità civile del giudice, clausola di salvaguardia e “patafisica” del diritto.
[11] Oltre agli specifici riferimenti già menzionati dalla sentenza qui in commento e riportati più sopra, la tematica è stata di recente affrontata da una serie di pronunce della terza sezione civile della Corte di cassazione in materia di responsabilità extracontrattuale (e, specificamente, sanitaria), pubblicate il giorno 11/11/2019, coi nn. 28985 a 29994; tra queste, in particolare: sul tema del concorso di cause, con peculiare attenzione alla ricostruzione del nesso di causalità in generale, v. Cass. 11/11/2019, n. 28986; su quello del riparto dell’onere della prova, v. Cass. 11/11/2019, n. 28991.
[12] In tali espressi termini: Cass. Sez. U. 16/05/2019, n. 13246, tra l’altro in Danno e resp. 2019, p. 493, con nota di G. Tursi, La responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dalla condotta del dipendente.
[13] Cass. 28/01/2013, n. 1871; Cass. 05/05/2009, n. 10285, in Danno e resp. 2009, p. 959, con nota di M. Manenti, Disastro di Ustica: configurabile l’illecito omissivo a carico dei Ministeri tenuti a garantire la sicurezza dei cieli.
[14] In tal senso, già E. Scoditti, op. cit., § 4, per il quale: “La perquisizione ed il sequestro di ‘quel’ coltello mira a prevenire il rischio che con ‘quel’ coltello colui che lo detenga persegua i propri intenti criminosi. Se poi l’uso omicida di ‘quel’ coltello da parte del detentore si verifica, l’omissione è concausa, e non semplice occasione, perché l’evento dannoso è proprio realizzazione di quel rischio che la condotta prescritta mirava a prevenire”.
[15] Cass. 05/07/2017, n. 16502. Invece, un vizio di sussunzione ricorrerebbe sia quando il giudice riconducesse i fatti materiali ad una fattispecie astratta piuttosto che ad un'altra, sia quando si rifiutasse di assumerli in qualunque fattispecie astratta, pur sussistendone una in cui potrebbero essere inquadrati (tra le ultime: Cass. 31/05/2018, n. 13747).
[16] Dizione ormai passata anche nel tecniloquio giuridico, se Cass. pen. 15/01/2020, n. 1396 (delib. 27/05/2019, imputato Annunziata), definisce tale l’omicido motivato dalla fine della relazione sentimentale tra l'imputato e la vittima.
[17] Come già E. Scoditti, op. loc. ult. cit.: “In linea di principio, una cosa è dire che l’omessa perquisizione e sequestro del coltello sia stata concausa sul piano meramente naturalistico dell’evento dannoso, altra cosa è dire che il magistrato ne risponde, perché la responsabilità civile involge ordinariamente il versante soggettivo della colpa. La distinzione fra causalità e colpa va mantenuta anche con riferimento all’omissione, perché anche il non facere svolge efficacia causale sul piano naturalistico e la presenza dell’obbligo giuridico di impedire un evento (art. 40, comma 2, cp) serve solo a rendere antigiuridica l’omissione ed a fondare la colpa specifica dell’agente”.
CEDU e cultura giuridica italiana. 11) CEDU e Diritto del Lavoro
Intervista a Edoardo Ales e Stefano Giubboni
di Roberto Conti
Il diritto del lavoro ha da tempo costituito un banco di prova importante per misurare l’incidenza delle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali sul piano nazionale. Al di là della assai nota diversità di prospettiva fra chi si fa da tempo promotore di una visione dei rapporti negoziali comunque orientata a considerare l’incidenza sui medesimi dei diritti fondamentali e coloro che guardano con moderazione a questa possibilità e, ancora di più, alle “influenze” prodotte da strumenti di protezione di quei diritti umani provenienti da oltre confine fino al punto da confinarli nell’oblio, si registra una duplice esigenza.
Per l’un verso, si avverta la necessità di favorire la conoscenza dei diritti viventi e di come essi si sono orientati sul tema. Esigenza, questa, primaria, poiché da più parti si avverte un certo scollamento fra i “pochi” che sembrano attenti al tema e i “tanti” che a ragione reclamano una applicazione tendenzialmente uniforme e attenta alla salvaguardia del canone dell’eguaglianza. Per altro verso, vi è la non meno marginale necessità di comprendere l’utilità di una protezione dei diritti fondamentali ulteriore (recte, diversa o aggiuntiva) rispetto a quella di matrice interna ed i “confini” di tale possibilità.
Edoardo Ales e Stefano Giubboni hanno scandagliato il fondale, raccogliendo un pescato assai ricco.
Da qui l’utilità estrema delle riflessioni, dalle quali sembra trarsi la sensazione di una imprescindibilità dell’analisi che coinvolga le fonti, nazionali e sovranazionali, nel loro continuo intrecciarsi, al quale si aggiunge la trama delle relazioni fra le Corti, ancora una volta nazionali e sovranazionali. Il che non vuol certo dire espropriare il ruolo e la centralità della legislazione nazionale, ma tutto al contrario orientarne l’analisi con un faro sempre acceso e vigile al quadro convenzionale dei diritti fondamentali nella misura in cui lo stesso alimenta quello costituzionale e dell’Unione europea ed è a sua volta accresciuto dalle Costituzioni dei paesi europei che compongono le diverse istituzioni sovranazionali.
***
1) Alla luce delle vicende più note che hanno visto fronteggiarsi negli anni appena trascorsi le giurisprudenze nazionali e sovranazionali su temi lavoristi l’impatto prodotto dalla giurisprudenza convenzionale sul diritto del lavoro può dirsi a Suo avviso rilevante, marginale o comunque destinato a modificare l’attuale assetto del diritto vivente nazionale?
E. Ales
Mi pare si possa affermare con relativa certezza che la giurisprudenza convenzionale stia producendo un notevole impatto sul Diritto del Lavoro, non solo e non tanto, come sarebbe da attendersi, in termini di incidenza sulla singola controversia, quanto, piuttosto, in una prospettiva di sistema e, dunque, almeno potenzialmente, di assetto.
A conferma di questa impressione possono essere portati due esempi eclatanti che hanno visto coinvolti i livelli più alti della giurisdizione nazionale (Suprema Corte di Cassazione e Consiglio di stato), la Corte Europea dei Diritti Umani (dizione preferibile, a mio avviso, a quella di diritti dell’uomo) e la Corte costituzionale.
Quanto al primo, esso riguarda la ben nota ed annosa vicenda delle cosiddette pensioni svizzere che ha visto coinvolte, a più riprese, in una sorta di interminabile scambio tennistico su terra battuta, la Cassazione, la Corte costituzionale e la Corte EDU. Trattandosi di materia previdenziale, non risulta di immediata comprensione il suo collegamento con la Convenzione, la quale, ex professo, non contiene previsioni in materia. Tuttavia, sulla base di una ormai risalente giurisprudenza (Gaygusuz c. Austria, n. 17371/90, §§ 39-41), la Corte EDU ritiene che i diritti derivanti dal pagamento di contribuzione previdenziale siano da considerarsi diritti di natura pecuniaria ai sensi dell’art. 1 del Protocollo 1 annesso alla Convenzione. Essi, dunque, sono tutelati come diritti di proprietà. Ciò sulla base di una generalizzazione tanto controversa quanto, il più delle volte, impropria, del sistema a capitalizzazione individuale effettiva di gestione della contribuzione previdenziale e di calcolo contributivo della prestazione pensionistica tipici, soprattutto in passato, di alcuni soltanto degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Una generalizzazione che consente, però, alla Corte EDU di intervenire in un ambito, quello della previdenza sociale, che le sarebbe totalmente precluso per volontà delle stesse parti contraenti che non hanno voluto includerlo nella Convenzione, ‘relegandolo’ nella Carta Sociale Europea. Ma tant’è. Come più recentemente ribadito dalla Corte, in ciò incoraggiata dal riconoscimento da parte di governi nazionali del fatto che una modifica dei criteri di attribuzione di un trattamento pensionistico costituisca un’interferenza nel godimento pacifico da parte del titolare del proprio diritto di proprietà (Kjartan Ásmundsson c. Islanda, n. 60669/00, § 33).
Non deve, dunque sorprendere che la Corte EDU sia stata adìta da pensionati di nazionalità italiana che avevano svolto la loro attività lavorativa in Svizzera e si erano visti ridimensionare il proprio trattamento pensionistico italiano in forza di una disposizione legislativa di interpretazione autentica favorevole alle posizioni dell’INPS, non condivise dalla giurisprudenza di legittimità, che a quel ridimensionamento avevano portato. Al di là dei dettagli tecnici della vicenda, ciò che va sottolineato è la natura di quid novi riconosciuta dalla Cassazione alle pronunce della Corte EDU nella prospettiva di sollecitare la Corte costituzionale ad intervenire sulla legislazione nazionale di interpretazione autentica per dichiararne l’illegittimità sia nel metodo che nel merito. Se, infatti, nella decisione Maggio (Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08) la Corte EDU, pur riconoscendo la violazione del principio del giusto processo (Articolo 6 CEDU) per essere il legislatore italiano intervenuto, in maniera ingiustificata e in favore dell’INPS, con una disposizione che destinata a mutare l’esito dei procedimenti in corso, aveva ‘salvato’ l’intervento legislativo in termini di ‘ragionevolezza’ del sacrificio imposto ai ricorrenti, in Stefanetti (Stefanetti e altri c. Italia, nn. 21838/10, 21849/10, 21852/10, 21855/10, 21860/10, 21863/10, 21869/10 e 21870/10), la Corte ha condannato l’Italia proprio sotto quest’ultimo profilo, ritenendo che “una riduzione di due terzi della pensione (…) sia incontrovertibilmente, di per sé, una notevole diminuzione che deve incidere gravemente sul tenore di vita” (§ 60), risultando in una prestazione inadeguata (§ 64).
Alternate tra le sentenze Maggio e Stefanetti, troviamo tre pronunce della Corte costituzionale (sentenze nn. 172 del 2008, 264 del 2012, 166 del 2017), le ultime delle quali ‘stimolate’ dalla Corte EDU per il tramite della Corte di cassazione nei panni del giudice remittente. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 264 del 2012 (cui ha fatto seguito l’ordinanza n. 10 del 2014), premesso che ad essa stessa spetta di «opera[re] una valutazione sistemica e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» – ha ritenuto che, nel bilanciamento tra la tutela dell’interesse sotteso alla richiamata norma convenzionale (art. 6, paragrafo 1, CEDU) e la tutela degli altri interessi costituzionalmente protetti, «prevale quella degli interessi antagonisti di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata, in relazione alla quale sussistono, quindi, quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva». Legislazione che la Corte riconosce essere «ispirata, invero, ai principi di uguaglianza e di proporzionalità», in quanto tiene conto della circostanza che i contributi versati in Svizzera sono notevolmente inferiori a quelli versati in Italia e, in ragione di ciò, opera «una riparametrazione diretta a rendere i contributi proporzionati alle prestazioni, a livellare i trattamenti, per evitare sperequazioni, e a rendere sostenibile l’equilibrio del sistema previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni». Nel far ciò la Corte richiama anche le conclusioni ‘assolutorie’ della sentenza Maggio per ciò che concerne la ‘ragionevolezza’ del sacrificio imposto ai ricorrenti. Ed è proprio la diversa valutazione operata dalla Corte EDU nella sentenza Stefanetti che costituisce il quid novi che spinge la Corte di cassazione ad adire ancora una volta la Consulta “in riferimento anche alla (…) violazione dei diritti sostanziali di natura pensionistica dei lavoratori migranti”, suscettibile “di innescare un vulnus alla norma interposta di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU (e, per tal via, al precetto di cui al primo comma dell’art. 117 Cost.).”.
Al di là delle precisazioni sul novum di Stefanetti rispetto a quanto ritenuto dalla Cassazione (punto 5, Considerato in diritto sentenza n. 166 del 2017), la Corte costituzionale conviene sulla necessità di un intervento che indichi “una soglia (fissa o proporzionale) e (…) un non superabile limite di riducibilità delle ‘pensioni svizzere’ – ai fini di una reductio ad legitimitatem della disposizione impugnata, che ne impedisca l’incidenza su dette pensioni in misura che risulti lesiva degli evocati precetti convenzionali e nazionali –, come pure l’individuazione del rimedio, congruo e sostenibile, atto a salvaguardare il nucleo essenziale del diritto leso”, sottolineando, tuttavia, come ciò presupponga “evidentemente, la scelta tra una pluralità di soluzioni rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore”. In conclusione, la Corte costituzionale si fa latrice, nei confronti del legislatore, di un messaggio sistemico, veicolato attraverso la Cassazione e proveniente dalla Corte EDU al fine di evitare che, in casi come quelli decisi in Stefanetti vengano violati diritti sostanziali di natura pensionistica dei lavoratori migranti.
Il secondo esempio sul quale vorrei soffermarmi è quello costituito dal divieto posto agli appartenenti alle Forze armate di costituire associazioni professionali a carattere sindacale e, comunque, di aderire ad altri sindacati esistenti. Divieto riconosciuto legittimo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 449 del 1999, in quanto una “declaratoria di illegittimità costituzionale (…) aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare” (punto 3 del Considerato in diritto). Questa vicenda, tuttavia, ha imboccato una diversa direzione a seguito di due pronunce della Corte EDU (Matelly c. Francia, n. 10609/10; ADefDroMil c. France, n. 32191/09) richiamate dal Consiglio di stato nell’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale della questione di legittimità del citato divieto, non per violazione dell’articolo 39 cost., come avvenuto nel 1999, ma dell’articolo 117 cost. per il tramite del parametro interposto costituito dall’articolo 11 CEDU che riconosce la “Libertà di riunione e di associazione”.
Lasciando da parte, anche in questo caso, i dettagli della questione, ciò che interessa sottolineare è il revirement della Corte costituzionale sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale “se la libertà di associazione dei militari può essere oggetto di restrizioni legittime, il divieto puro e semplice per un’associazione professionale di esercitare tutte le attività connesse al proprio oggetto sociale reca un pregiudizio all’essenza stessa di detta libertà, per ciò stesso proibito dalla Convenzione” (§60). Sulla base di questa interpretazione dell’articolo 11 CEDU, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 120 del 2018, afferma che “va riconosciuto ai militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale”, confermando, tuttavia, coerentemente, la “possibilità che siano adottate dalla legge restrizioni nei confronti di determinate categorie di pubblici dipendenti”. Nel caso dei militari, la necessità “che le associazioni [sindacali] siano composte solo da militari e che esse non possano aderire ad associazioni diverse” (punto 14 del considerato in diritto) e che la loro costituzione sia “subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa” (punto 16 del considerato in diritto). In questo caso, dunque, ancor più che nella vicenda delle ‘pensioni svizzere’, la giurisprudenza della Corte EDU ha giocato un ruolo decisivo nel determinare una variazione di assetto del Diritto del Lavoro e, in particolare, del Diritto Sindacale, estendendo, con le cautele del caso, la libertà di associazione sindacale ad una categoria di lavoratori ampia ed estremamente rilevante per le funzioni che le sono riconosciute dall’articolo 52 cost.
S. Giubboni
L’impatto prodotto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul diritto del lavoro è – a mio avviso – certamente significativo, come dimostra il crescente interesse anche dottrinale in tema (penso in particolare alla bella ricerca di Laura Torsello, Persona e lavoro nel sistema CEDU. Diritti fondamentali e tutela sociale nell’ordinamento multilivello, Cacucci, Bari, 2019). A testimonianza della crescente importanza della “dimensione sociale” della Convenzione EDU, negli ultimi anni la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è frequentemente tornata su tematiche di grande rilevanza per il diritto del lavoro in senso ampio, con incidenza significativa in particolare sull’effettività delle tutele previdenziali (è sin troppo nota la vicenda della contribuzione versata dai lavoratori italiani transfrontalieri in Svizzera, definita per la prima volta nella sentenza Maggio c. Italia, del 2011). Nonostante la Convenzione si incentri, come è ovvio, essenzialmente sulla tutela dei classici diritti civili e politici della tradizione liberal-democratica, la Corte ha sviluppato una giurisprudenza assai significativa sui diritti sociali già a partire da una storica sentenza della fine degli anni Settanta (il caso Airey c. Irlanda, del 9 ottobre 1979, in cui venne affermato che sebbene la Convenzione enunci essenzialmente diritti civili e politici, molti di questi hanno delle implicazioni di natura economica o sociale, al punto che “nessuna barriera impermeabile separa i diritti socio-economici dall’ambito coperto dalla Convenzione”). È però proprio nella sua giurisprudenza su taluni classici diritti fondamentali, come quello al giusto processo di cui l’art. 6 della Convenzione ovvero quello alla riservatezza, previsto e tutelato dall’art. 8, che la Corte di Strasburgo ha fornito il contributo maggiore al diritto del lavoro (la stessa sentenza Maggio è, al riguardo, un esempio molto significativo).
Basti citare le numerose pronunce nei casi di videosorveglianza cosiddetta “occulta”, cioè predisposta dal datore di lavoro senza previa informazione e all’insaputa dei lavoratori coinvolti. Già a quest’ultimo proposito sarebbe utile svolgere – senza poterle tuttavia approfondire qui – riflessioni con riferimento ai risvolti che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo può riverberare sull’interpretazione della disciplina italiana in materia di controlli a distanza, di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, come noto ampiamente “rimaneggiato” dal Jobs Act. Le indicazioni della Corte di Strasburgo sulle tutele minime da porre a presidio della riservatezza del lavoratore potrebbero indurre a rivedere gli orientamenti della Suprema Corte in materia di controlli difensivi, che da sempre rappresentano un tema discusso per gli ampi margini discrezionali in capo al datore di lavoro ai fini della tutela del patrimonio aziendale e che si presta a differenti interpretazioni, più o meno restrittive, che possono variare sensibilmente a seconda dei casi concreti.
La Corte EDU richiede, in tal senso, l’applicazione dei principi di correttezza, necessità e proporzionalità e, sotto questo profilo, sembra che la riscrittura dell’art. 4 dello Statuto sia in linea con tali principi, avendo posto un contrappeso al potere datoriale, quantomeno a livello formale, laddove sottopone alla procedura autorizzatoria, sindacale o amministrativa, anche i controlli a distanza effettuati per scopi di tutela del patrimonio aziendale, che secondo l’elaborazione più restrittiva della Corte di cassazione sarebbero invece esclusi a priori (si è argomentato meglio sul punto in G. Bronzini, S. Giubboni, La tutela della privacy dei lavoratori e la Corte di Strasburgo, oltre il Jobs Act, in Rivista critica del diritto privato, 2018, pp. 145 ss.).
In stretta connessione con tale questione c’è, poi, quella dell’utilizzabilità in un giudizio sull’illegittimità di un licenziamento di prove raccolte a seguito di un controllo illecito. Un esempio importante è dato dalla recente pronuncia della fine del 2019 sul caso López Ribalda e altri c. Spagna, in cui i lavoratori ricorrenti avevano eccepito la violazione, oltre che dell’art. 8 della Convenzione, anche dell’art. 6 sul giusto processo, per avere il datore di lavoro posto a fondamento del loro licenziamento prove acquisite mediante attività di controllo illegittimo. La Corte EDU, sia in prima battuta che con la decisione della Grande Camera dello scorso 17 ottobre, ha concluso per l’assenza di violazione dell’art. 6, in considerazione del fatto che le videoregistrazioni assunte illegittimamente avevano potuto essere oggetto di contestazione (anche riguardo alla loro autenticità) da parte dei lavoratori nel corso del giudizio, in contraddittorio tra le parti, e, comunque, che le stesse non costituivano le uniche prove poste a fondamento della decisione circa la legittimità del licenziamento, essendo state assunte anche delle dichiarazioni testimoniali che confermavano le indebite sottrazioni. La Corte perviene a tale conclusione sulla base del ragionamento, già svolto in alcune sue precedenti pronunce, secondo cui, ai fini del sindacato sulla violazione o meno del diritto ad un giusto processo, occorre verificare ed assicurare la giustizia ed equità del giudizio complessivamente inteso, spettando invece agli ordinamenti nazionali l’analitica previsione dei meccanismi di ammissibilità, utilizzabilità e valutabilità delle prove nel processo; con la conseguenza che l’ingresso e l’utilizzo di prove assunte illegittimamente non comporta, di per sé solo, l’ingiustizia del processo, dovendosi a tal fine verificare se ed in che misura tale elemento sfavorevole per una delle parti processuali sia controbilanciato da altri favorevoli o comunque tali da ridurre o eliminare la rilevanza che quell’elemento può avere ai fini della decisione.
In definitiva, tuttavia, se è vero che secondo la Corte EDU l’eventuale utilizzazione di prove illegittime (anche) sotto il profilo della violazione del diritto alla riservatezza può non inficiare l’equità complessiva della macchina processuale, se controbilanciata con altri strumenti compensatori, è altrettanto vero che la necessità della previsione di un contenuto minimo di tutela della riservatezza del lavoratore rafforza comunque la possibilità di eccepire in giudizio l’utilizzo di materiale probatorio frutto di controllo illegittimo ed in violazione dell’art. 4 dello Statuto. Ciò avviene a maggior ragione se si considera il rinvio esplicito, presente in tale ultima disposizione, alla disciplina in materia di privacy di derivazione euro-unitaria, la quale sancisce espressamente l’inutilizzabilità dei dati acquisiti in violazione delle regole in materia di previo consenso ed informativa. E la questione oggi assume particolare importanza con la disciplina contenuta nel nuovo regolamento n. 679/2016, secondo cui l’obbligo di informativa acquista una rilevanza autonoma, anche nelle fattispecie in cui non è necessario ottenere il consenso per procedere al trattamento, onde – come sembra – l’aver fornito al lavoratore un’adeguata informativa diventa condizione di legittimità del trattamento. Si realizza così una sorta di capovolgimento della tradizionale prospettiva della disciplina della privacy, per la quale l’informativa era atto preliminare all’eventuale consenso dell’interessato al trattamento.
V’è da aggiungere che la Grande Camera, con riferimento all’art. 8, ribadendo la diretta operatività all’interno del rapporto di lavoro di tutte le garanzie che la disciplina della privacy, in genere, detta per il trattamento dei dati personali, aderisce, ancora una volta, ad una concezione ampia di “vita privata”, tale da ricomprendere molteplici aspetti dell’identità fisica e sociale della persona, ivi inclusi, in particolare, il nome, l’immagine e le attività lavorative; tuttavia, in riforma del precedente della Camera semplice, alla luce delle peculiarità del caso concreto, nega che nella specie vi sia stata una siffatta violazione.
Il caso appena citato dimostra come sia ormai indubitabile che anche nella Convenzione EDU il riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori come diritti fondamentali rappresenti un aspetto essenziale della vicenda del diritto vivente convenzionale, onde non si può non convenire sul fatto che alcuni principi del diritto del lavoro siano stati elevati nella gerarchia dei diritti e godano della protezione della Convenzione, fonte che non può non riverberarsi nella stessa interpretazione costituzionale. Questo, a mio avviso, a livello sistematico, sembra essere il contributo più importante della Corte EDU nel campo del diritto del lavoro.
2) Quali sono i problemi più attuali a proposito della tutela concorrente offerta dalla Carta dei diritti fondamentali, dalla Carta sociale europea e dalla Corte EDU in materia lavorista, tenuto conto delle recenti prese di posizione della giustizia costituzionale sul tema dei rapporti fra Carte sovranazionali, Costituzione e sindacato accentrato di costituzionalità?
E. Ales
Per poter parlare di concorrenza tra tutele occorrerebbe che le fonti dalle quali queste scaturiscono fossero parimenti attingibili ed in condizione di operare direttamente sul caso oggetto della questione. In realtà, per almeno una di queste ovvero la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, l’attingibilità risulta altamente problematica. Un esempio eclatante in questo senso è fornito dalla sentenza n. 194 del 2018 nella quale la Corte costituzionale, come ampiamente noto, è stata chiamata a pronunciarsi sul meccanismo indennitario in cifra fissa per il licenziamento illegittimo ritenuto sospetto dai giudici remittenti, tra l’altro, per violazione dell’art. 117 giacché in contrasto “con le norme dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».”
Tra queste, per quello che qui rileva, l’art. 30 CDFEU e all’art. 24 della Carta Sociale Europea costituiscono altrettante norme interposte. Mentre la Corte riconosce la fondatezza della questione di costituzionalità con riferimento a quest’ultimo in considerazione dell’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, cost. e dell’obbligo sancito nell’art. 24 “di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato [dalla] Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 cost. realizzandosi, così, “un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7 del Considerato in diritto, secondo cui “[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo”)”, lo stesso non accade con l’art. 30 CDFUE.
Ciò sulla base della giurisprudenza restrittiva della stessa Corte di giustizia, richiamata, con puntualità, dalla Consulta, fondata sul presupposto che le disposizioni della Carta si applicano esclusivamente nell’attuazione del Diritto Comunitario (art. 51 CDFUE). In particolare, secondo costante giurisprudenza della Corte di giustizia, “per stabilire se una misura nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta occorre verificare, inter alia, se la normativa nazionale in questione abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa [non] persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa” (Julian Hernández C-198/13 punto 37). Siamo, però, di fronte ad un approccio particolarmente limitativo che arriva persino ad escludere il ricorso alle disposizioni incondizionate della Carta, quelle che non sono soggette alla conformità “al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”, come, invece, l’art. 30. Un approccio che ha portato la Corte di giustizia ad escludere dall’attuazione del Diritto Comunitario norme nazionali che attuano previsioni di una direttiva che si ‘limitano’ a riconoscere il potere degli Stati membri di prevedere “disposizioni più favorevoli al di fuori del contesto del regime [da essa] previsto” (Julian Hernández punto 44).
Un simile approccio restrittivo viene fatto proprio dalla Corte costituzionale sul presupposto (errato) che “riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (…), l’Unione non ha in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime”. In realtà, come dovrebbe essere noto, a partire dalla dir. 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, il Diritto Comunitario, prima, e dell’Unione, poi, hanno prodotto una serie di disposizioni relative, se non altro, al licenziamento discriminatorio, culminate, quanto a puntualità di espressione, nell’art. 10 della dir. 92/85/CEE intitolato “Divieto di licenziamento”. Peraltro, con riferimento a quest’ultima disposizione, la Corte di giustizia ha persino precisato che gli Stati membri sono tenuti a garantire misure non solo repressive del licenziamento (illegittimo) della lavoratrice madre, quali, ad esempio, la nullità e la reintegrazione, ma anche preventive, nel senso di prevedere il divieto di licenziamento per cause connesse al suo stato o all’esercizio di diritti da esso derivanti (Porras Guisado, C-103/16, punti 61 – 65).
Non pare, dunque, condivisibile l’affermazione della Corte costituzionale e il suo atteggiamento rinunciatario nella ricerca di possibili vie di applicazione dell’art. 30. Come già suggerito in altra sede (E. Ales, La dimensione ‘costituzionale’ del Modello Sociale Europeo tra luci e ombre (con particolare riferimento ai diritti collettivi e al licenziamento), in M.T. Carinci (a cura di), L’evoluzione della disciplina del licenziamento. Giappone ed Europa a confronto, Milano: Giuffrè, 2017, 159), occorrerebbe, invece, almeno provare, proprio nell’ottica dell’integrazione delle tutele, ad approcciare con maggiore elasticità il tema della ‘norma d’ingresso’ ai diritti garantiti dalla Carta per evitare che essi rimangono mere affermazioni di principio, prive di un qualsiasi effetto per i cittadini dell’Unione. D’altronde, ciò è già avvenuto, oltre che per l’art. 30, anche per l’art. 27 (Diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa) che pure può vantare numerose direttive attuative dei diritti in esso contenuti.
Molto promettente e anche più semplice, alla luce dell’assenza di una corte dedicata con la quale rischiare di entrare in conflitto, appare il rapporto che la Corte costituzionale ha instaurato con la Carta Sociale Europea, a lungo oggetto misterioso e ingiustamente trascurato dalla giurisdizione e dalla dottrina italiane (ma vedi E. Ales, M. Bell, O. Deinert, S. Robin-Olivier (eds.) International and European Labour Law, Baden-Baden: Nomos – Hart – Beck, 2018). Il riconoscimento della sua efficacia quale parametro interposto, in presenza di una legge di ratifica, garantisce alle previsioni della Carta un ruolo di primaria importanza nella costruzione di una protezione multilivello, ruolo i cui effetti rimangono ancora ampiamente da esplorare.
Nella prospettiva della quantomeno problematica efficacia diretta delle norme della Carta dei diritti fondamentali, deve essere, invece, inquadrata la questione della cosiddetta doppia pregiudizialità ovvero della necessità di individuare la via prioritaria da seguire per il giudice nazionale nel caso si profili un contrasto sia con una disposizione del Diritto dell’Unione che con le norme della Costituzione Italiana. La Corte costituzionale, sollecitata sul punto dal comportamento ondivago di qualche remittente (sentenza n. 269 del 2017), ha anzitutto ribadito la posizione secondo la quale l’approccio del giudice nazionale deve variare a seconda dell’efficacia diretta o indiretta delle norme del Diritto dell’Unione applicabili alla controversia (ordinanza n. 207 del 2013). Nel primo caso, il giudice deve seguire il percorso che porta alla Corte di giustizia; nel secondo, rivolgersi alla Corte costituzionale. Nota, tuttavia, quest’ultima, che un’ulteriore riflessione si impone a seguito del riconoscimento alle disposizioni della Carta del medesimo valore dei trattati (art. 6 comma 1 TUE) nonché in considerazione del fatto che essa “costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale”. Di conseguenza, “i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione” (sentenza n. 269 del 2017 punto 5.2 del Considerato in diritto). E, dunque, sempre secondo la Corte, “le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…), anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali”. Teoricamente ineccepibile, questa riflessione mal si coniuga con la sopra illustrata ritrosia della Corte costituzionale a riconoscere l’efficacia diretta delle disposizioni della Carta e rischia di risultare persino superflua laddove quelle disposizioni dovessero avere efficacia per il tramite delle norme secondarie di Diritto dell’Unione, all’attuazione delle quali è preposto il diritto nazionale sotto scrutinio. In conclusione, mi pare che la “la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico”, richiesta dall’art. 53 CDFUE e ribadita dalla Corte costituzionale come proprio obiettivo sia ancora lungi dal poter essere realizzata.
S. Giubboni
Dal secondo dopoguerra ad oggi anche i diritti sociali sono stati progressivamente (ancorché certo non linearmente) disciplinati in una dimensione non più esclusivamente statuale, tanto da potersi parlare di un vero e proprio ordinamento multilivello anche in questa sfera dell’esperienza giuridica. Quello che sembra doversi cogliere è dunque un assetto delle fonti non più chiaramente gerarchico e verticale, bensì un arcipelago all’interno del quale si affiancano, secondo una relazione non univoca e in certo modo eterarchica, discipline prodotte da soggetti diversi, senza un vero principio ordinatore, almeno nel senso vetero-positivistico e kelseniano del termine (restano al riguardo assai suggestive le riflessioni di Mireille Delmas-Marty, Les forces imaginantes du droit, t. 2, Le pluralisme ordonné, Seuil, Paris, 2006). La dimensione statuale del diritto, che proprio nella gerarchia delle fonti trovava classicamente il proprio fondamento ordinamentale, rischia pertanto di perdersi in un complesso reticolo di livelli normativi interconnessi senza una logica unificante e cogente. Al contempo, non appare convincente una lettura che voglia indulgere ad accreditare la definitiva morte per consunzione degli ordinamenti nazionali e dell’essenziale ruolo politico-normativo dello Stato, che anzi sembra trarre nuova linfa proprio nell’inedita dialettica con ambiti di regolazione extra-statuali. Ciò è tanto più vero per il diritto del lavoro e per i diritti sociali più in generale, dove il ruolo di garanzia dello Stato nazionale rimane essenziale e insostituibile (come ho avuto modo di argomentare più diffusamente in S. Giubboni, Il diritto del lavoro oltre lo Stato: tracce per una discussione, in Diritti, Lavori, Mercati, 2019, pp. 37 ss.).
In Paesi come il nostro la tutela dei diritti sociali è dunque oggi assicurata da molteplici fonti e a questa articolata compresenza di fonti anche “apicali”, per così dire, occorre aggiungere la considerazione che è l’intero spettro delle politiche sociali nell’ambito dell’Unione europea ad insistere sul terreno della competenza legislativa concorrente, o più spesso della operatività di strumenti di soft law di varia natura, con linee di ripartizione non sempre ben demarcate. Se da un lato la moltiplicazione spesso disordinata delle fonti in materia di diritti fondamentali contribuisce a mettere in crisi le tradizionali certezze ordinamentali, dall’altro queste trasformazioni hanno contribuito al progressivo passaggio da uno stato di separazione tra diritto nazionale, internazionale e sovranazionale ad uno di integrazione, in cui questi diversi sistemi normativi si influenzano a vicenda e si completano reciprocamente per concorrere – potenzialmente – all’ampliamento del catalogo dei diritti protetti. È evidente che, in questo scenario, la teoria delle fonti necessita di essere integrata dalla considerazione rinnovata del ruolo dell’interpretazione giudiziale, visto che incombe in definitiva al giudice l’onere di armonizzare un tale accentuato pluralismo, sempre più composito e articolato specie in materia di diritti fondamentali, ovvero di stabilire quale di queste fonti debba prevalere nel caso di conflitti normativi non evitabili mediante la tecnica armonizzatrice della “interpretazione conforme”, in un dialogo nel quale restano peraltro incerti i confini dei rispettivi “diritti conversazionali”.
In questo quadro, le relazioni tra ordinamento nazionale e ordinamento euro-unitario costituiscono senza dubbio la materia oggi più delicata, specie nella fase ancora fluida inaugurata dalla sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale. Non intendo intrattenermi qui sulla assai dibattuta problematica della “doppia pregiudizialità”, sulla quale sono proprio i giudici del lavoro, peraltro, a sollecitare ora un chiarimento alla Corte costituzionale (è noto, infatti, che con due recentissime ordinanze la Corte d’Appello di Napoli ha contestualmente sollevato, rispettivamente dinanzi alla Consulta e alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sia la questione di costituzionalità della disciplina in tema di licenziamento collettivo contenuta nel Jobs Act, sia la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE). Mi limito piuttosto ad osservare come – specie sulle problematiche maggiormente dibattute in Italia dopo il Jobs Act – gli usi della Carta di Nizza si siano rivelati piuttosto prudenti e, forse, senz’altro deludenti (o meglio ininfluenti proprio sulle questioni più significative). Pesano a questo riguardo tutti i limiti del disposto dell’art. 51, par. 1, della CDFUE, alla cui stregua le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’ambito della attuazione del diritto dell’Unione. La rigorosa applicazione di tale previsione ha messo per esempio del tutto fuori gioco l’art. 30 della Carta di Nizza nel giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, deciso dalla Corte con la notissima sentenza n. 194/2018.
Piuttosto, in tale sentenza (in termini forse ancor più espliciti di quanto non avesse fatto con la precedente pronuncia n. 120/2018, sulla libertà sindacale dei militari), la Corte costituzionale si è espressa con riferimento alla Carta sociale europea, strumento finora molto trascurato dai nostri giudici e dalla stessa Consulta, come testimonia lo scarso numero di pronunzie relative alle disposizioni della CSE reperibili nei repertori italiani. La Consulta evidenzia spiccati elementi di specificità rispetto ai normali accordi internazionali che collegano la CSE alla Convenzione EDU, di cui in qualche modo costituisce “il naturale completamento” sul piano sociale, in ossequio al meta-principio della indivisibilità dei diritti fondamentali. Per queste sue caratteristiche la Carta sociale europea deve qualificarsi come fonte internazionale a pieno titolo, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. La Corte costituzionale ha così ammesso le norme della Carta sociale europea fra i parametri interposti, anche se, al contempo, ha delimitato l’impatto della sua stessa pronuncia, precisando che la struttura della CSE – la cui attuazione non è affidata ad un organo propriamente giurisdizionale (tale non potendosi definire il Comitato di esperti dalla stessa istituito) – “si caratterizza prevalentemente come affermazione di principi ad attuazione progressiva, imponendo in tal modo una particolare attenzione nella verifica dei tempi e dei modi della loro attuazione”.
È, questa, una precisazione certo non “neutra”, che depotenzia sensibilmente il significato delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, molto attivo in questi ultimi anni nella promozione delle disposizioni della CSE. Temo che avremo modo di verificare presto l’esattezza di tale osservazione a proposito della recentissima decisione sul reclamo collettivo CGIL c. Italia, nella quale il Comitato ha concluso nel senso che il d.lgs. n. 23/2015, ovvero la disciplina del contratto a cosiddette “tutele crescenti” (anche come riviste dalla legge n. 96/2018 e dalla citata sentenza n. 194 della Corte costituzionale), viola l’art. 24 della CSE. Dubito fortemente che tale decisione possa rimettere in discussione la diversa valutazione cui è da poco autonomamente pervenuta la Corte costituzionale proprio nella sentenza appena citata. Ma come ho detto avremo modo di verificare a breve la bontà di questa previsione, visto che la Corte è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sul d.lgs. n. 23/2015, sia pure – al momento – limitatamente alla disciplina in tema di licenziamenti collettivi.
3) La diversità fra le tutele apprestate a livello costituzionale e convenzionale ai diritti sociali come può secondo Lei trovare composizione all’interno del processo in cui tali diritti vengono prospettati?
E. Ales
Anzitutto, occorre domandarsi se vi sia poi tutta questa differenza tra le tutele costituzionali e quelle convenzionali, almeno in termini ‘qualitativi’. Una comparazione tra Carta dei diritti fondamentali, Convenzione dei diritti umani e Carta Sociale Europea è stata abbozzata, per i profili lavoristici, nel volume che ho prima citato (E. Ales, M. Bell, O. Deinert, S. Robin-Olivier (eds.) International and European Labour Law, cit.), sulla base di un’aggregazione contenutistica e ha fornito risultati abbastanza chiaramente orientati nella direzione di una omogeneità, evidenziando alcune differenze ‘quantitative’, dovute, essenzialmente, al diverso periodo storico nel quale i vari strumenti sono stati adottati. Le ultime nate – mi riferisco alla Carta dei diritti fondamentali e alla Carta Sociale Europea (rivista) - hanno potuto sfruttare il ‘vantaggio competitivo’ offerto dallo sguardo su un mondo profondamente diverso da quello degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, riuscendo a cogliere e a fissare in altrettanti precetti giuridici le esigenze dell’essere umano contemporaneo, non solo nella sua dimensione di lavoratore ma anche in quella della sua cittadinanza sociale.
Proprio il riferimento più ampio rispetto ai diritti del lavoro, volto a ricomprendere quelli della persona colta nella sua integralità e nella sua evoluzione from the cradle to the grave, costituisce un elemento caratterizzante della nuova esperienza ma anche un momento di necessaria riflessione sulla natura e sul livello di esigibilità dei diritti cosiddetti sociali. A quest’ultima categoria, infatti, dovrebbero essere ascritti quei ‘diritti a prestazione’ che si collocano all’esterno del rapporto di lavoro, proprio in quanto disconnessi dalla sua titolarità e soggetti, quanto alla loro realizzazione, ad una scelta economica operata da parte della collettività di riferimento quanto all’entità del loro finanziamento (E. Ales, Diritti sociali e discrezionalità del legislatore nell’ordinamento multilivello: una prospettazione giuslavoristica, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2015, 457). Proprio per il legame alla collettività di riferimento, risulta difficile immaginare una loro realizzazione fondata su una solidarietà di tipo universale che i confini di quella collettività superi in maniera disinvolta. Ne è prova la notevole difficoltà incontrata nell’applicazione del principio di libera circolazione ai cittadini dell’Unione economicamente non attivi (E. Ales, Il diritto alle prestazioni sociali dei migranti non economicamente attivi: una parola definitiva dalla Corte di Giustizia, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2017, 296).
Ad una valutazione del ‘ragionevolmente praticabile’ (Commissione c. Regno Unito C-127/05), sono sottoposti, invece, i diritti dei lavoratori, il riconoscimento dei quali importa l’imposizione sul datore di lavoro di costi economici la cui sostenibilità costituisce uno dei parametri sicuramente presi in considerazione da parte del legislatore. Anche in questo caso, si pone un problema di fonti di produzione del diritto e di soggetti legittimati a gravare il datore di lavoro del costi dei diritti. In questo le diverse carte differiscono e differiscono anche, talvolta profondamente, gli ordinamenti nazionali. La ‘composizione’ è, dunque, un esercizio altamente difficoltoso, soprattutto laddove diverse giurisdizioni con i loro rispettivi organi giurisdizionali sono chiamate ad interloquire in un dialogo che, sebbene ispirato ad un principio di “costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia” (sentenza n. 269 del 2017 punto 5.2 del Considerato in diritto), difficilmente risulta immune da attriti se non da veri e propri conflitti. Volendo limitare il ragionamento ai diritti dei lavoratori, è evidente che soprattutto le interferenze ammesse dalla Carta dei diritti fondamentali e confermate dalla Corte di giustizia, da parte di altri rami del Diritto dell’Unione, come il Diritto della Concorrenza, non favoriscono l’esercizio di ‘composizione’, richiedendo la ricerca di un bilanciamento ulteriore rispetto a quello già operato dagli Stati Membri sia come parti firmatarie delle carte internazionali e sovranazionali che quali costituenti e legislatori nazionali. Un bilanciamento che va oltre la ‘composizione’ degli interessi di datori di lavoro e lavoratori.
Segnali di conflitto, più o meno palese, sono da rinvenirsi nelle ben note vicende che hanno coinvolto il diritto alla contrattazione e all’azione collettiva (art. 28 CDFUE) a partire dai casi Viking (C-438/05) e Laval (C-341/05) per arrivare a quello degli ‘orchestrali olandesi’ (FNV Kunsten Informatie en Media C-413/13), nel quale la Corte di giustizia, considerando i lavoratori autonomi imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE, ha ritenuto compatibile con il Diritto della concorrenza esclusivamente un contratto collettivo che li ricomprenda in quanto ‘falsi autonomi’. Una giurisprudenza, questa, che non tarderà a produrre i suoi effetti sulla normativa di recente adottata a tutela dei raider (art. 47-bis e seguenti d.lgs. n. 81 del 2015), qualificati, appunto, dal legislatore italiano, come lavoratori autonomi le cui condizioni economiche di lavoro posso, però, essere determinate dalla contrattazione collettiva.
In conclusione, sembra diventare sempre più complessa la ricerca di una composizione all’interno di un processo che non pare adeguatamente coordinato, la cui unica prospettiva di successo sembra essere affidata al dialogo tra le corti e alla loro capacità di sintonizzarsi su di una frequenza comune talvolta non predisposta dai legislatori che affollano il sistema multilivello di tutela dei diritti sociali e del lavoro.
S. Giubboni
Occorre anzitutto osservare che il dialogo della nostra Corte costituzionale con la Corte di Strasburgo si presenta, per certi versi, ancor più complesso rispetto a quello con la Corte di Lussemburgo, in quanto la prima interviene sempre e soltanto una volta esperiti tutti i rimedi interni, al di fuori di un meccanismo di raccordo diretto, quale si è proficuamente rivelato quello del rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE. Nel rapporto dialogico – e talvolta dialettico (si pensi in particolare alla citata sentenza Maggio e ancor più alla successiva Stefanetti) – tra le due Corti è possibile scorgere, comunque, il tentativo – non sempre riuscito in concreto – di individuare un criterio ordinatore il più possibile condiviso.
Questo va oggi in principio rintracciato nell’equilibrio – inevitabilmente dinamico – tra l’affermazione per cui la Corte costituzionale, da un lato, è vincolata ad assumere il significato delle norme della Convezione CEDU quale risultante dalla interpretazione della Corte di Strasburgo e, dall’altro, è pur sempre abilitata ad integrare dette norme, se del caso adattandole con appropriati bilanciamenti, nel sistema costituzionale nazionale, onde assicurarne la complessiva coerenza. Non credo che allo stato siano ragionevolmente immaginabili soluzioni diverse.
Del resto, e per tornare conclusivamente allo specifico punto di vista disciplinare e materiale del diritto del lavoro, non deve esser mai dimenticato che il ruolo del giudice, e delle stesse Alte Corti, per quanto importante, rimane, per così dire, strutturalmente limitato. Specie per i diritti sociali di prestazione o di ripartizione – ovvero per i diritti (più) “costosi” in materia di previdenza e assistenza sociale – è alla legge dello Stato che compete, in definitiva, il compito di trovare la composizione o il compromesso necessario tra le diverse, e contrapposte, istanze in gioco.
Il problema di fondo sta proprio nella crescente difficoltà dei legislatori nazionali – stretti come sono nella “morsa della globalizzazione” (e della governance economico-finanziaria europea), per usare l’efficace espressione di Alain Supiot – a far fronte alle domande di protezione sociale che la crisi infinta di questi anni ha persino aumentato, specialmente in un Paese come il nostro, senza dubbio tra i più colpiti. E, a questo riguardo (si veda già il mio Diritti e solidarietà in Europa, il Mulino, Bologna, 2012), condivido largamente l’atteggiamento scettico – e in qualche caso apertamente (giustamente) critico – che una parte della dottrina costituzionalistica italiana esprime da tempo nei confronti delle capacità taumaturgiche della “tutela multilivello dei diritti” (penso più di recente al bel libro di Roberto Bin, Critica della teoria dei diritti, Franco Angeli, Milano, 2018): la quale – affidata com’è essenzialmente al “dialogo tra le Corti” – appare visibilmente impotente di fronte alla progressiva erosione delle forme di protezione sociale sulle quali erano state costruite le fortune del Welfare State in Europa. I diritti sociali (specialmente, ma non solo, quelli di “prestazione”) ne sono usciti evidentemente perdenti: come ha scritto, con la consueta efficacia, Massimo Luciani (Dal cháos all’ordine e ritorno, in Rivista di filosofia del diritto, 2019, pp. 349 ss., qui p. 368), “il giudice non dispone dei mezzi per realizzarli, perché non ha il potere della borsa, sicché rivolgersi esclusivamente a lui significa amputare un pezzo essenziale del patrimonio costituzionale dei diritti. Se, poi, si aggiunge che la cancellazione della questione del potere dal raggio di attenzione della dottrina costituzionalistica ha determinato una totale disattenzione per il problema fondamentale dei nostri giorni (quello del controllo politico sulla circolazione dei capitali), si capisce bene che per questo approccio culturale la dura realtà di un disordine mondiale fondato sull’ingiustizia sociale e sulla diseguaglianza delle fortune viene tradotta nel quadro idilliaco di un ordine dei diritti umani presidiato da plurime istanze di tutela”.
Il diritto del lavoro rimane, da questo punto di vista, un diritto eminentemente “politico”. Ed il terreno del conflitto distributivo – specie in presenza di risorse finanziarie sempre più scarse negli Stati sociali maturi d’Occidente – resta un campo di lotta, politica e sindacale, determinato in primo luogo dalla forza degli attori politici e sociali che vi operano. La debolezza dei diritti del lavoro dipende, oggi, essenzialmente dallo stato assai sbilanciato di questi rapporti di forza; e, nella prevedibile assenza di un riequilibrio sostanziale degli stessi, sarebbe illusorio – o forse semplicemente sbagliato – pensare che a ciò possa porre rimedio il ruolo, per quanto autorevole, di un’Alta Corte.
di Elena D’Alessandro
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il periodo 9 marzo-11 maggio 2020. – 3. Il periodo 12 maggio-30 giugno 2020 . – 4. Modalità di svolgimento delle adunanze camerali e modalità di deposito delle memorie. – 5. Modalità alternative di deposito della minuta; sottoscrizione di decreti, ordinanze e sentenze fino al 30 giugno 2020. – 6.“Il bene nelle cose”.
1. In Italia, così come in altri Stati membri[1], il settore della giustizia civile è stato uno dei settori interessati dalle misure di contenimento dei contagi da covid-19. Il presente scritto ha lo scopo di esaminare in che modo le misure di contenimento abbiano inciso sulle modalità di svolgimento del giudizio civile di legittimità, rendendole telematiche.
2. In principio fu l’art. 1, co. 1, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 a stabilire che, a partire dal 9 marzo e fino al 22 marzo 2020, dovessero essere rinviate d’ufficio a data successiva a tale lasso temporale «le udienze dei procedimenti civili …pendenti presso tutti gli uffici giudiziari, con le eccezioni indicate all’articolo 2, co. 2, lettera g». La previsione in esame aveva fatto sorgere (almeno) due questioni interpretative riferite al giudizio di legittimità. La prima concerneva il mancato riferimento alle adunanze camerali che, pertanto, secondo alcuni[2] sarebbero state escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 1, co. 1, in quanto misura eccezionale e, dunque, di stretta interpretazione.
Altri[3], invece, consideravano le adunanze camerali incluse entro la sfera di applicazione dell’art. 1, co.1, pur in mancanza di espresso riferimento. Ciò sulla base di un’interpretazione teleologica della previsione che valorizzava la necessità di evitare lo spostamento e le riunioni di magistrati, i.e. possibili occasioni di contagio. Occasioni di contagio che avrebbero potuto essere occasionate anche dalle riunioni di magistrati finalizzate allo svolgimento di adunanze camerali, sebbene queste ultime, ai sensi degli artt. 380-bis, 380- bis 1 e 380-ter c.p.c. (e a differenza delle udienze) si svolgano senza la presenza delle parti e del Procuratore generale.
La seconda questione interpretativa atteneva alla possibilità di fare applicazione, anche in sede di legittimità, (quantomeno di alcune) delle eccezioni indicate all’art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11[4] Per siffatte tipologie di controversie, infatti, il differimento ex lege delle udienze non sarebbe avvenuto. L’elenco, per comodità riportato a piè pagina, fa riferimento: i) a talune tipologie di controversie dichiarative, rispetto alle quali un problema di operatività della previsione in sede di legittimità si pone soltanto in riferimento a quelle per cui è possibile il ricorso in cassazione; ii) ai procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona, per i quali la ricorribilità per cassazione è ipotizzabile solo se nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.), senza nessun effetto per le parti. Si prevede, infine, una clausola di salvezza che richiama, in generale, i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti e che ben si presta ad operare anche per i giudizi di legittimità.
Il Primo presidente della Corte di cassazione, con decreto n. 36 del 13 marzo 2020, ha preso posizione su ambedue le questioni, per un verso ritenendo che per le udienze e anche per le adunanze camerali fissate dal 9 al 22 marzo 2020 fosse operativo il differimento ex lege dell’attività giudiziaria previsto dal decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 e, per altro verso, non prevedendo alcuna eccezione a tale differimento. Evidentemente si è ritenuto che nessuna delle fattispecie indicate all’art. 2, co. 2, lett. g., del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, inclusa la clausola generale di salvezza, fosse operativa in riferimento al giudizio di legittimità, quantomeno a tale finalità.
Con il medesimo decreto il Primo presidente aveva disposto la “soppressione” di tutte le udienze e le adunanze camerali fissate nel periodo 23 marzo-10 aprile 2020, esercitando così il potere discrezionale di effettuare rinvii a data successiva al 31 maggio 2020 che gli attribuiva l’art. 2, co. 2, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. Acquisito il parere del Procuratore generale, il Primo presidente ha altresì previsto che le cause, le cui udienze o adunanze siano state soppresse, vengano rinviate a nuovo ruolo, tranne quelle indicate all’art. 2, co. 2, lett. g., decreto legge 8 marzo 2020, n. 10, le quali saranno fissate a una nuova data successiva al 31 maggio 2020.
L’elenco di cui all’art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, che in sede di legittimità non è stato ritenuto operativo per evitare il differimento ex lege dell’attività giudiziaria, assume invece rilievo per ottenere priorità nella fissazione di una nuova udienza o adunanza camerale. Non sembri, questo, un risultato schizofrenico: verosimilmente una delle ragioni per cui non è stata individuata alcuna eccezione al differimento ex lege (neppure nel caso delle adunanze camerali) è di tipo organizzativo. È ipotizzabile che fosse necessario del tempo per predisporre le modalità di svolgimento di tali attività da remoto.
Sempre il decreto n. 36 del 13 marzo 2020 stabilisce che, per il settore civile, lo spoglio finalizzato ad individuare i procedimenti rientranti sub lett. g sia riservato alla sesta sezione (per i nuovi procedimenti) ovvero agli uffici spoglio sezionali (per i ricorsi loro già trasmessi).
Il Governo ha previsto che la trattazione dei procedimenti “urgenti” sia subordinata alla richiesta di parte. Per tale motivo, il decreto del Primo presidente del 31 marzo 2020, n. 47 indica le caselle di posta elettronica certificata a cui inviare le istanze di fissazione di udienza per procedimenti urgenti. Si tratta di una tipologia di istanza “non avente immediata incidenza sul processo” (utilizzando la terminologia che si rinviene sul sito web della S. C.) posto che, nel contesto del giudizio civile di legittimità, normalmente si procede senza necessità di atti di impulso processuale delle parti. L’istanza va depositata tramite posta elettronica certificata, sulla falsariga di quanto già accade per il deposito della richiesta di sollecita fissazione dell’udienza o della adunanza camerale[5].
Il periodo di differimento ex lege dell’attività giudiziaria è stato successivamente esteso al 15 aprile 2020 dall’art. 83 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, il cui co. 22 ha anche disposto l’abrogazione degli artt. 1 e 2 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. Si era previsto che dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili presso tutti gli uffici giudiziari[6] fossero rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020.
Infine, con l’art. 36, co.1, del c.d. decreto legge “liquidità” dell’8 aprile 2020, n. 23 il periodo di differimento ex lege dell’attività giudiziaria è stato allungato all’11 maggio 2020, con l’eccezione, però, dei casi urgenti, per i quali non ha luogo neppure la sospensione dei termini di cui all’art. 83, co. 2, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18[7].
3. Per il periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020, spettava al Primo presidente della Corte di cassazione, sentita l’autorità sanitaria regionale, la Procura generale, e i competenti Consigli dell’ordine degli avvocati, l’adozione delle misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dalle autorità governative.
Il Primo presidente della S. C., da ultimo con decreto 10 aprile 2020, n. 55[8] ha stabilito che:
— tutte le udienze pubbliche fissate fino al 30 giugno 2020 siano rinviate a nuovo ruolo per data successiva al 30 giugno 2020, salvo quelle riguardanti le fattispecie indicate dall’art. 83, co. 3 lett a del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (norma corrispondente all’ormai abrogato art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11[9]) che, previa individuazione, verranno fissate di nuovo ma con priorità. Ancora una volta, le fattispecie che sfuggono al differimento ex lege (di seguito: i “casi urgenti”) sono considerate operative anche in sede di legittimità. Ma non già, come previsto dal decreto legge, per garantire la celebrazione di udienze durante la fase di quiescenza ex lege dell’attività giudiziaria quanto, piuttosto, per ottenere priorità nella nuova fissazione dell’udienza;
— tutte le adunanze camerali fissate fino al 31 maggio 2020 siano rinviate a nuovo ruolo, salvo quelle riguardanti le cause riconducibili alle fattispecie di cui all’art. 83, comma 3, lett. a, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 che, previa individuazione, saranno nuovamente fissate con priorità.
Mentre nessuna udienza pubblica si svolgerà fino al 30 giugno 2020, il Primo Presidente ha disposto che le adunanze camerali riprendano, per i casi urgenti, dal 1° giugno 2020.
La diversità di trattamento è dovuta alla circostanza per cui, nelle adunanze camerali, le parti e il Procuratore generale possono interloquire solo con memorie scritte, non essendo prevista la loro presenza fisica in loco. Non vi è pertanto il rischio di creare assembramenti di persone che possano favorire la diffusione del covid-19.
Benché il decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 consenta la fissazione di adunanze camerali a partire dal 12 maggio 2020, occorre considerare che deve essere assicurata alle parti la possibilità di usufruire per intero dei termini a ritroso indicati dagli artt. 380-bis c.p.c., 380-bis 1, c.p.c. e 380-ter c.p.c. per depositare memorie difensive. Il decorso di tali termini, per i casi “non urgenti”, è infatti sospeso fino all’11 maggio 2020 per effetto dell’art. 83, co. 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (così come modificato dall’art. 36 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23).
Questa la ragione per cui il Primo presidente ha ritenuto che la prima data utile per la fissazione di nuove adunanze camerali sia quella del 1° giugno 2020.
Segnatamente, il decreto del Primo presidente del 10 aprile 2020, n. 55 dispone che, dal 1° al 30 giugno 2020, le Sezioni unite tengano due adunanze camerali.
Per quanto riguarda le Sezioni semplici, ad iniziare sarà la sesta, la quale, dal 1° al 19 giugno terrà, per ogni sottosezione, un numero di adunanze camerali compatibile con le risorse di personale amministrativo effettivamente presenti in ufficio.
Dopodiché, dal 22 al 30 giugno le sezioni prima, seconda, terza, lavoro e quinta terranno un numero di adunanze compatibile con le risorse di personale amministrativo effettivamente presenti in ufficio.
4. Le adunanze camerali menzionate alla fine del paragrafo precedente sono quelle di cui agli artt. 380-bis, 380-bis 1 e 380 ter c.p.c. Tali adunanze, fino al 30 giugno 2020, si svolgeranno secondo le modalità fissate dal decreto del Primo presidente del 23 marzo 2020, n. 44; decreto che si è dovuto misurare con le difficoltà derivanti dal fatto che il processo civile telematico non è ancora operativo in sede di legittimità, essendo al momento soltanto in fase di sperimentazione per il settore civile[10].
Prima di occuparsi delle modalità di svolgimento delle adunanze camerali, occorre soffermare l’attenzione sull’attività propedeutica all’adunanza, di cui si occupa, invece, il decreto del Primo presidente del 31 marzo 2020, n. 47. Come vedremo, si è tentato di approntare in tempi record una sorta di “processo telematico d’emergenza” in sede di legittimità.
Innanzi tutto si dispone che, poiché al momento non esistono fascicoli telematici ma solo cartacei, i magistrati fuori sede, per prepararsi all’adunanza camerale, potranno ricevere gli atti del procedimento tramite il servizio postale. Ma, soprattutto, va tenuto presente che il Protocollo di intesa per la trattazione delle adunanze ex art. 375 c.p.c. e delle udienze ex art. 611 c.p.p. siglato tra la Corte di cassazione, la Procura generale e il Consiglio nazionale forense il 9 aprile 2020, al suo punto 1, prevede che entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione della data dell’adunanza, i difensori (tramite la loro casella posta elettronica certificata di cui al ReGIndE) trasmettano all’indirizzo di posta elettronica della S. C. il pdf immagine degli atti processuali del giudizio di cassazione già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge (cioè il ricorso, il controricorso, la nota di deposito ex art. 372, co. 2, c.p.c., il provvedimento impugnato)[11] in modo che tali files possano essere inoltrati ai consiglieri componenti il collegio giudicante.
In secondo luogo, si prevede che il Procuratore generale, utilizzando la casella di posta elettronica della segreteria, in aggiunta alle normali modalità di deposito, possa inviare le proprie conclusioni alla casella di posta elettronica certificata della cancelleria della Suprema corte come pdf immagine allegato al messaggio email. Ciò che perviene in cancelleria è una mera copia delle conclusioni firmate a mano, verosimilmente dichiarata conforme all’originale. L’originale cartaceo, si immagina, verrà conservato dal Procuratore generale e depositato presso la cancelleria della S. C. quando l’emergenza sanitaria lo consentirà.
In terzo luogo, si stabilisce che anche i difensori delle parti, utilizzando l’indirizzo di posta elettronica certificata di cui al ReGIndE, possono far pervenire alla controparte e all’indirizzo di posta elettronica certificata della S. C. le loro memorie, in modo da evitare che i difensori o i loro domiciliatari si debbano recare personalmente presso la cancelleria della Corte per il deposito delle memorie cartacee ovvero per il ritiro delle memorie avversarie, in un tentativo di limitazione del numero di spostamenti. Le specifiche tecniche sono contenute nel già richiamato Protocollo di intesa per la trattazione delle adunanze ex art. 375 c.p.c. siglato il 9 aprile 2020 tra la Corte di cassazione, la Procura generale e il Consiglio nazionale forense. Al punto 2 del Protocollo si legge che il difensore provvederà a trasmettere il pdf immagine della memoria (che sarà dunque firmata a mano dall’avvocato cassazionista) all’indirizzo di posta elettronica certificata della cancelleria della Corte di cassazione, alla segreteria della Procura Generale e all’indirizzo di posta elettronica certificata dei difensori delle altre parti processuali risultante dai pubblici registri di cui all’art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 2012 e successive modificazioni. Da parte dei difensori vi è l’assunzione dell’impegno a trasmettere copie informatiche di contenuto uguale agli originali. Tuttavia, come ricorda il punto 6 del Protocollo, la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dal c.p.c. [12] Per cui, a conclusione dell’emergenza sanitaria, gli originali dovranno essere depositati in cancelleria senza indugio.
Il tenore del Protocollo sembra escludere l’eventualità che il difensore possa far pervenire, tramite pec, un file nativo digitale da lui firmato digitalmente[13]. L’art. 83, co. 11-bis del maxiemendamento alla legge di conversione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, al momento approvato unicamente dal Senato in data 9 aprile 2020 sembra, invece, fare riferimento (solo?) a quest’ultima modalità nella misura in cui dispone che, nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione e sino al 30 giugno 2020, il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati possa avvenire in modalità telematica «nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici». L’operatività di siffatta previsione non è però immediata, in quanto subordinata all’emanazione di un provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerti l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici[14].
Per i difensori, un’ulteriore alternativa al deposito dell’originale cartaceo a mani presso la cancelleria della S. C. potrebbe forse consistere nel deposito postale, espressamente previsto dall’art. 134 disp. att. c.p.c. per il solo ricorso e controricorso ma che talune pronunce di legittimità[15] estendono anche al deposito delle memorie, a condizione che, diversamente da quanto stabilito dal co. 5 dell’art. 134 disp att. c.p.c. non siano spedite ma, piuttosto, giungano presso la cancelleria della Corte entro i termini stabiliti dagli artt. 380 -bis, 380-bis 1 e 380-ter c.p.c.
Quello appena richiamato non è, però, un orientamento giurisprudenziale unanime[16], per cui per poter essere invogliate ad usufruire di tale disposizione durante il periodo dell’emergenza sanitaria dovuta al covid-19, le parti avrebbero dovuto essere rassicurate in ordine all’adozione, pro futuro, dell’orientamento giurisprudenziale più liberale. Si tratta, in ogni caso, di disposizione non pienamente capace di limitare gli spostamenti degli avvocati perché non esime il difensore della parte dall’onere di recarsi presso l’ufficio postale, così come non esime il difensore della controparte dall’onere di recarsi presso la cancelleria della S. C. per ritirare la memoria avversaria.
Con riferimento alle modalità di svolgimento delle adunanze camerali, con un’altra significativa novità occasionata dall’emergenza sanitaria, il decreto 23 marzo 2020, n. 44 prevede che, fino al 30 giugno 2020, le adunanze di cui agli artt. 380- bis, 380 bis 1 c.p.c. e 380-ter c.p.c. si svolgano da remoto. Ma non per tutto il collegio. Infatti, il Presidente della sezione o un magistrato da lui delegato dovrà assicurare la sua presenza nella camera di consiglio presso la S.C., con gli altri componenti del collegio collegati in via telematica. Il Presidente o il suo delegato che partecipa in presenza alla camera di consiglio presso i locali della S. C., dovrà redigere il ruolo informatico tramite il sistema informativo SIC e consegnarlo, dopo averlo sottoscritto, alla cancelleria assieme al verbale d’udienza, nel quale si darà atto che gli altri componenti del collegio sono collegati da remoto. Come chiarito dall’art. 83, co. 12-quinquies del maxiemendamento alla legge di conversione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 al momento approvato soltanto dal Senato in data 9 aprile 2020, il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge: una camera di consiglio “al passo con i tempi”.
5. La attuale mancata operatività delle disposizioni sul processo telematico in Cassazione crea difficoltà anche in riferimento alle modalità di pronuncia delle sentenze (con riferimento alle udienze pubbliche svoltesi prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria), delle ordinanze e dei decreti, quando l’estensore o il Presidente del collegio siano dei “fuori sede”. Per ovviare al problema, il decreto del Primo presidente del 19 marzo 2020, n. 40 stabilisce che, fino al 30 giugno 2020, in aggiunta alle ordinarie modalità di redazione e deposito in cancelleria, da parte dei Consiglieri di cassazione, di sentenze, ordinanze e decreti, sia possibile (essenzialmente per gli estensori fuori sede) utilizzare modalità alternative di trasmissione dei provvedimenti alla cancelleria.
Per le ordinanze (e decreti) si stabilisce che l’estensore, utilizzando la sua casella di posta elettronica istituzionale, possa trasmettere alla cancelleria della sezione di appartenenza il pdf immagine della minuta del provvedimento ([17]) dichiarando che è conforme all’originale. Sarà quindi la cancelleria a stampare la minuta, recte il testo integrale del provvedimento inviato dall’estensore, e a farlo sottoscrivere al Presidente, se in sede, in conformità a quanto disposto dall’art. 134 c.p.c.
Se il Presidente di sezione è un fuori sede, o comunque è impossibilitato a recarsi in Corte per sottoscriverlo, in base alla previsione contenuta all’art. 132, co. 3, c.p.c. (la quale costituisce espressione di un principio generale che vale non solo per le sentenze ma anche per le altre tipologie di provvedimenti del giudice) la sottoscrizione potrà essere apposta dal componente più anziano del collegio, dando menzione dell’impedimento. Il decreto n. 40 invita a fare riferimento all’art. 1, co. 1, lett. a del dpcm 8 marzo 2020, il quale impone di evitare spostamenti che non siano giustificati da comprovate esigenze lavorative.
Per le sentenze l’iter alternativo è analogo: l’estensore fuori sede può inviare il pdf immagine della minuta (recte: il testo integrale del provvedimento) alla cancelleria che la stamperà e la farà sottoscrivere al Presidente dando atto delle ragioni per cui l’estensore non ha potuto sottoscriverla, richiamandosi all’art. 1, co. 1, lett. a del dpcm 8 marzo 2020. Difatti, è vero che l’art. 132, co. 3, c.p.c. dispone che la sentenza sia sottoscritta dall’estensore e dal Presidente e tratta espressamente del solo caso di impossibilità del Presidente a sottoscriverla. Tuttavia, una giurisprudenza ormai consolidata afferma che il difetto parziale della sottoscrizione senza che sia dato conto del motivo dell’impedimento (qui, invece, è indicato), non origina una sentenza inesistente ai sensi dell’art. 161, co. 2, c.p.c. Piuttosto, si tratta di una sentenza affetta da nullità formale. Siffatto vizio, in quanto soggetto alle regole di cui all’art. 161, co. 1, c.p.c.[18], diviene irrilevabile a fronte di una sentenza di cassazione.
Più complesso il caso in cui né l’estensore, né il Primo presidente o il consigliere più anziano, al quale unicamente si riferisce l’art. 132 c.p.c., possano recarsi presso la cancelleria della S. C. per sottoscrivere la sentenza ovvero l’ordinanza o il decreto. In tal caso si avrebbe un’ordinanza o una sentenza sottoscritta solamente da uno dei magistrati componenti il collegio, con indicazione delle ragioni per cui il Presidente e il consigliere più anziano (e l’estensore, nel caso della sentenza) non hanno potuto sottoscriverla. Il finale potrebbe essere a lieto fine se si aderisce alla tesi, sostenuta in dottrina[19], secondo cui l’inesistenza ex art. 161, co. 1, c.p.c. va circoscritta alle ipotesi di rifiuto del giudice di sottoscrivere, senza essere estesa anche ai casi di suo impedimento alla firma [20], potendo una valida sentenza, ordinanza o decreto venire in vita quando vi sia almeno uno dei membri del collegio (non necessariamente il più anziano) in grado di sottoscriverla. Dunque non vi sarebbe inesistenza, ma solo nullità per vizio di forma, in presenza di una sentenza o ordinanza sottoscritta soltanto da un magistrato che non era né il presidente, né il componente più anziano del collegio (per le sentenze: né l’estensore)[21]. Una nullità per vizio di forma insuscettibile di convertirsi in motivo di impugnazione quando il vizio riguardi una decisione della Cassazione.
6. L’emergenza sanitaria prima o poi passerà e, con essa, cesserà di avere efficacia la disciplina emergenziale cui si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi. La disciplina emergenziale ci lascerà in compagnia di alcuni feedback positivi, in primis la conferma che la strada che già si stava percorrendo prima del manifestarsi del covid-19, ossia quella della messa a regime del processo telematico anche nei giudizi di legittimità, con particolare riferimento alla fase dello scambio di memorie e della redazione delle sentenze, ordinanze e decreti, è assai appropriata.
In secondo luogo, c’è la speranza che, alla luce dell’esperienza che si sarà acquisita, si apra una riflessione sulle adunanze camerali telematiche e sull’opportunità di mantenerle operative anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Tra le adunanze camerali in presenza e quelle telematiche esiste una differenza “ che n’ntender no la può chi no la prova”. Pertanto, sarà soltanto dopo aver sperimentato pregi e difetti dello strumento telematico che si potrà discutere, con cognizione di causa, su se, come e quanto sia opportuno che siffatta tecnologia divenga un elemento fisiologico del giudizio di legittimità.
[1] L’analisi comparatistica è limitata agli Stati membri in cui vi è stata maggiore diffusione del covid-19, partendo dalla Spagna, dove si v. la seconda disposizione addizionale del Real Decreto 463/2020 por el que se declara el estado de alarma ocasionada por el COVID-19, secondo cui, in maniera simile a quanto previsto in Italia, «Se suspenden términos y se suspenden e interrumpen los plazos previstos en las leyes procesales para todos los órdenes jurisdiccionales. El cómputo de los plazos se reanudará en el momento en que pierda vigencia el presente real decreto o, en su caso, las prórrogas del mismo (…).
3. (….) la interrupción a la que se refiere el apartado primero no será de aplicación a los siguientes supuestos:
a) El procedimiento para la protección de los derechos fundamentales de la persona previsto en los artículos 114 y siguientes de la Ley 29/1998, de 13 de julio, reguladora de la Jurisdicción Contencioso-administrativa, ni a la tramitación de las autorizaciones o ratificaciones judiciales previstas en el artículo 8.6 de la citada ley.
b) Los procedimientos de conflicto colectivo y para la tutela de los derechos fundamentales y libertades públicas regulados en la Ley 36/2011, de 10 de octubre, reguladora de la jurisdicción social.
c) La autorización judicial para el internamiento no voluntario por razón de trastorno psíquico prevista en el artículo 763 de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil.
d) La adopción de medidas o disposiciones de protección del menor previstas en el artículo 158 del Código Civil.
4. No obstante lo dispuesto en los apartados anteriores, el juez o tribunal podrá acordar la práctica de cualesquiera actuaciones judiciales que sean necesarias para evitar perjuicios irreparables en los derechos e intereses legítimos de las partes en el proceso.
In Francia v. la circulaire del 14 mars 2020 relative à l'adaptation de l'activité pénale et civile des juridictions aux mesures de prévention et de lutte contre la pandémie COVID-19, nonché le ordinanze del 25 marzo 2020 n. 304 e 306. La giustizia civile si è fermata, con l’eccezione dei «contentieux essentiels». Per l’effetto, la Cour de Cassation francese ha pressoché sospeso la propria attività in materia civile (https://www.courdecassation.fr/informations_services_6/coronavirus_informations_44633.html). Su posizioni analoghe parrebbe l’Olanda, sebbene la legislazione emanata durante questo periodo di emergenza sanitaria sia disponibile solo in olandese. Per un riassunto in inglese v. https://conflictoflaws.net/2020/access-to-justice-in-times-of-corona/.
Nel Regno Unito, tutta la attività della UK Supreme court si sta svolgendo telematicamente, incluse le “camere di consiglio”. Per scelta della Suprema corte, il video di tutte le udienze, inclusa quella in cui si dà lettura della decisione è visibile sul sito web della Supreme Court. Durante l’emergenza coronavirus le decisioni sono lette telematicamente “da casa” e non dall’aula di udienza. Per un esempio: https://www.supremecourt.uk/watch/uksc-2018-0152/judgment.html. Anche la cancelleria della Corte lavora da remoto, cosicché tutti gli atti giudiziari debbono essergli inviati in forma telematica: https://www.supremecourt.uk/news/arrangements-during-the-coronavirus-pandemic.html.
In controtendenza la Germania, che, al momento, non ha emanato disposizioni emergenziali ad hoc riguardanti il processo civile. Il Bundesgerichtshof sta tuttavia attuando una politica di self-restraint, ad esempio annullando (e rifissando) le udienze già fissate per la lettura della sentenza conclusiva del giudizio. Oltralpe, infatti, la sentenza si intende pubblicata tramite lettura in udienza. Per approfondimenti cfr. C. auf der Heiden, Prozessrecht in Zeiten der Corona-Pandemie, in NJW, 2020, 1023 ss.
[2] G. Costantino, in C. D’Arrigo, G. Costantino, G. Fanticini, S. Saija, Legislazione d’emergenza e processi esecutivi e fallimentari, in I quaderni di InExecutivis.it, 2020, https://www.inexecutivis.it/Download/Download?r=NormativaEmergenzaCovid19, spec. 18.
[3] F. De Stefano, La giustizia in animazione sospesa: la legislazione di emergenza nel processo civile (note a lettura immediata all’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020), in Giustizia insieme, 2020, par. 1, https://giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/926-la-giustizia-in-animazione-sospesa-la-legislazione-di-emergenza-nel-processo-civile-note-a-lettura-immediata-all-art-83-del-d-l-n-18-del-2020. Conforme G. Fichera, Relazione n. 28. Procedimento civile in genere- Emergenza epidemiologica da Covid-19 - Misure urgenti per il contrasto - Decreto-legge n. 18 del 2020 - Modifiche temporanee al processo civile in Cassazione, messa a disposizione della collettività sul sito web della S. C.: http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020_.pdf,
spec. 4.
[4] Per comodità del lettore, si ricorda che, tratta(va)si, con esclusivo riferimento alla materia civile, delle seguenti controversie: a) cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; b) cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; c) procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; d) procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l'esame diretto della persona del beneficiario, dell'interdicendo e dell'inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; e) i procedimenti di cui all’art. 35 legge 23 dicembre 1978, n. 833; f) nei procedimenti di cui all’art. 12 legge 22 maggio1978, n. 194; g) procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; h) procedimenti di convalida dell'espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell'Unione europea; i) procedimenti di cui all’art. 283, 351 e 373 c.p.c.; l) in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile.
[5] Cfr. http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/civile_settore_civile.page.
[6] Udienze – e adunanze – che, in sede di legittimità, il Primo presidente aveva comunque già soppresso fino al 10 aprile.
[7] Amplius F. De Stefano, La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile, in Giustizia insieme, 2020, par. 1, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/994-gli-sviluppi-della-legislazione-d-emergenza-nel-processo-civile.
[8] Di integrazione e/o modifica del precedente decreto 31 marzo 2020, n. 47 che, a sua volta, modificava e integrava il decreto n. 36 del 13 marzo 2020.
[9] L’elenco è stato “meglio specificato” dal maxiemendamento alla legge di conversione del decreto 17 marzo 2020, n. 18, al momento approvato soltanto dal Senato in data 9 aprile 2020, che, per quanto concerne i procedimenti civili, così dispone: 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non operano nei seguenti casi: a) cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati e ai minori allontanati dalla famiglia quando dal ritardo può derivare un grave pregiudizio e, in genere, procedimenti in cui è urgente e indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona; cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità nei soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali; procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; procedimenti di cui all’articolo 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833; procedimenti di cui all’articolo 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; procedimenti di cui agli articoli 283, 351 e 373 del codice di procedura civile, procedimenti elettorali di cui all'articolo 22, 23 e 24 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 e, in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In quest’ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile. Per un approfondimento v. F. De Stefano, La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile, cit., par. 4.
[10] Amplius P. Gori, Verso il processo telematico in Cassazione, in Giustizia insieme, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/875-verso-il-processo-telematico-in-cassazione.
[11] Anche quelli redatti dalla controparte (punto 2.6). L’avviso contenente la data dell’adunanza camerale conterrà inoltre l’espresso avvertimento che, nel caso in cui nel termine indicato non pervenga all’indirizzo pec della cancelleria della S. C. il pdf immagine degli atti di parte e del provvedimento impugnato, la trattazione della causa potrà essere rinviata a nuovo ruolo, se il collegio non si ritenga in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto.
[12] Non potendosi con un Protocollo o con un decreto Presidenziale derogare alle disposizioni sulla forma e sulle modalità di trasmissione degli atti processuali di parte previste dal c.p.c.
[13] Si era posto questo quesito, prima della firma del Protocollo, G. Fichera, Relazione n. 28, cit., 26, rammentando, problematicamente, come manchi un repository in Cassazione ed osservando che «i registri informatici in uso attualmente alla Cassazione (il SIC), oggi non permettono di verificare se un qualsiasi atto telematico risulti o meno firmato digitalmente».
[14] Quand’anche la previsione diventi disposizione di legge, non sembra sufficiente ad esonerare le parti che abbiano inviato il pdf immagine delle proprie memorie dal deposito dell’originale.
[15] Da ultimo Cass., sez. III, 29 agosto 2019, n. 21777; Cass., sez. III, 27 novembre 2018, n. 30592.
[16] La VI sez., ad esempio, ritiene che l’art. 134 disp. att. c.p.c. non sia suscettibile di applicazione analogica oltre i casi espressamente previsti: Cass., sez. VI, 27 novembre 2019, n. 31041.
[17] Questa l’espressione utilizzata dal Primo presidente, che si richiama al testo dell’art. 119 disp. att. c.p.c., anche se, come è stato notato, ormai l’estensore presenta in cancelleria non già la minuta ma, piuttosto, il testo integrale del provvedimento: v. G. Fichera, Relazione n. 28, cit., 29-30.
[18] Cass., sez. un., 20 maggio 2014, n. 11021, in Foro it., 2014, I, 2072 con nota adesiva di F. Auletta, La nullità (sanabile) della sentenza che manca di sottoscrizione di “un” giudice; Cass., sez. trib., 18 luglio 2019, n. 19323; Cass., ord. sez. VI, 2 luglio 2018, n. 17193; Cass., sez. lav., 5 aprile 2017, n. 8817. In dottrina si sono occupati del difetto parziale di sottoscrizione della sentenza (senza indicazione dell’impedimento che ha impedito il rispetto delle previsioni di cui all’art. 132 c.p.c. e, per le ordinanze, 134 c.p.c.), escludendo che si tratti di inesistenza, salvo poi optare per differenti qualificazioni del vizio: G. Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 244-245; F. Auletta, Nullità e inesistenza degli atti processuali civili, Padova, 1999, 211 ss.; Id., Sottoscrizione mancante, sottoscrizioni insufficienti: precisazioni sull’art. 161, 2° comma, c.p.c., in Giust. civ., 2001, I, 935 ss.; C. Consolo, La sottoscrizione manchevole, ma non mancante (“omessa”), in una prospettiva neo-processual-razionalista, in Corr. giur., 2014, 893 ss.
[19] Che, si noti, non raggiunge, invece, uniformità di vedute a proposito della funzione della sottoscrizione. Secondo alcuni (C. Besso, La sentenza civile inesistente, Torino, 1997, 295) la sottoscrizione avrebbe funzione di prova della partecipazione del giudice alla sua deliberazione, mentre secondo altri (F. Auletta, Sottoscrizione mancante, cit., 936) servirebbe a certificare la corrispondenza del contenuto del provvedimento al deliberato. Sarebbe sufficiente la certificazione proveniente da uno soltanto dei componenti del collegio.
[20] C. Besso, La sentenza civile inesistente, cit., spec. 294 ss.; Ead., Omessa sottoscrizione della sentenza: possibili rimedi, in Giur. it., 2002, 1859; Ead., Ancora sulla rinnovazione della sentenza priva della sottoscrizione, in Giur. it., 2003, 2242 ss.
[21] F. Auletta, La nullità (sanabile) della sentenza, par. IV e V della versione digitale reperita nella banca dati del Foro italiano; Id., Sottoscrizione mancante, cit., 937 e, prima ancora, in F. Auletta, Nullità e inesistenza, cit., 212.
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