ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione a “Uno come tanti” di Ennio Tomaselli
di Costantino De Robbio
Mi aspettavo che fosse il solito romanzo scritto da un magistrato, come ce ne sono ormai diversi: siamo una categoria che si diletta a scrivere, forse perché vive di parole, e le parole le sa usare.
Così, quando dobbiamo cercare un hobby, spesso finiamo con lo scegliere di usare quella tecnica o quel talento: manovrare le parole.
Rivendichiamo la nostra libertà rispetto al lavoro in questo modo: scegliendo noi cosa scrivere e di che, anziché parlare di abusi edilizi o legati in conto di legittima… ma finiamo, il più delle volte, fatalmente con usare questa libertà che ci siamo presi per romanzare ciò che abbiamo conosciuto: il lavoro di magistrati, la nostra vita, il perché abbiamo fatto questo strano mestiere e quanto sia, come spesso ci diciamo tra noi, "il mestiere più bello del mondo".
E invece Ennio Tomaselli è riuscito a prendermi in contropiede, partendo da un punto di vista che più originale non poteva essere: la magistratura non come ideale di vita ma come maledizione, qualcosa che ti capita quasi senza che tu lo voglia e che puó stravolgere la vita tua e di tutti quelli che ti stanno attorno, come una specie di malattia.
Sin dalle prime righe l'autore ci accompagna in questo strano mondo alla rovescia, dove il protagonista è un giovane che sta preparando il concorso in magistratura a dispetto della madre, che sembra odiarlo per questo.
Lo stesso Fabrizio, il protagonista, sembra consapevole di essersi incamminato per una via maledetta, lasciando la strada tracciata per lui (ereditare lo studio legale dei genitori, o meglio di quelli che crede essere i suoi genitori) per arrampicarsi su un sentiero impervio e tutto sommato incomprensibile… ma, come presto scopriremo, è il richiamo del sangue a guidarlo, anche se inconsapevole.
Non a caso, la prova di ingresso in questo mondo - i tre giorni degli scritti del concorso - coincide con la scoperta che il suo vero padre non era quello con cui aveva vissuto fino a quel momento ma un magistrato, scomparso misteriosamente prima che lui nascesse e vittima della maledizione di quel mondo che aveva scelto.
Il giovane inizierà così una ricerca delle tracce del padre, nel tentativo di capire le ragioni della sua scomparsa, imbattendosi non di rado in personaggi (la zia Nilde) che continuano a ripetergli che il mondo in cui sta per entrare è una malattia, non un lavoro.
Man mano che il romanzo prosegue disvelando il mistero del magistrato scomparso e della sua vita, l’autore porta il suo giovane protagonista– attraverso non pochi colpi di scena che qui non si sveleranno – alla consapevolezza che il passaggio alla vita adulta è simile al biblico albero della conoscenza: sta a ciascuno di noi, ci suggerisce Tomaselli, scegliere se ignorarlo o mangiarne i frutti, sapendo che, se si sceglie questa alternativa, la conoscenza comporta perdita di innocenza, dolorosa consapevolezza.
È questa, in fondo, la maledizione: ci sono persone che non possono fare a meno di allungare la mano e cogliere questo frutto… per curiosità intellettuale, idealismo, voglia di capire e dare un senso a tutto.
E per questo tipo di persone, ci avverte l’autore, entrare in magistratura (ma forse vale per qualsiasi universo che si vive da adulto) può diventare insopportabile, perché la verità è troppo dura da digerire per un idealista: o si sceglie di ignorare il frutto dell’albero della conoscenza, o si alza la testa, e se ne paga tutto il salato prezzo
Nel romanzo abbiamo dunque un amaro e disilluso spaccato della magistratura e dei suoi componenti, che sembrano divenire sempre più opachi e lasciarsi andare a calcolo e mediocrità man mano che avanzano in età (e carriera).
Al protagonista, guidato da alcuni “Virgilio” di cui non è opportuno qui svelare l’identità, Tomaselli assegna il compito “eroico” di vedere in anticipo come potrebbe o non potrebbe diventare, l'alternativa tra mantenersi puri (e il suo prezzo) e cedere alla disillusione. Il padre per mantenersi puro ha abbandonato la partita e la magistratura… riuscirà il figlio nel compito sovrumano di rimanere in campo senza rinnegare i propri ideali?
Riuscirà a vivere il proprio mestiere in modo “utile alla gente”, che vuol dire, secondo le parole con cui l’autore consegna il romanzo ai suoi lettori, essere scomodi, farsi domande, non essere burocrati ma non cedere alle ambizioni personali, consapevoli di essere parte di un gioco in cui deve prevalere la logica del collettivo, orgogliosi dunque di essere “uno come tanti”?
Ennio Tomaselli, "Uno come tanti", Manni, 2024.
Dovendo decidere ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, D.L.vo 25/2008 in via interlocutoria e urgente (entro il termine di 5 giorni dalla sua presentazione) su una istanza di sospensione del provvedimento che dichiarava la manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino del Bangladesh, il tribunale di Bologna con ordinanza del 29 ottobre 2024 ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ravvisando la necessità di risolvere alcuni contrasti interpretativi in relazione alla disciplina rilevante contenuta nella Direttiva n. 2013/32/UE e, più in generale, alla regolazione dei rapporti fra il diritto dell’Unione Europea e il diritto nazionale.
La rilevanza della questione, e un certo clamore mediatico, deriva non soltanto dalla necessità di verificare se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti legali della deroga al principio sancito dalla Direttiva 2013/32/UE (cd. procedure recast) per cui in caso di ricorso giurisdizionale vi è il diritto di rimanere sul territorio del paese ospitante sino all’esito del ricorso, quanto dai più generali riflessi della questione. La definizione dei presupposti legali della designazione di un paese terzo come “paese di origine sicuro” e dei poteri del giudice ordinario di disapplicazione dell’atto di designazione ha invero potenti conseguenze sulle attuali politiche governative in materia di protezione internazionale, posto che il noto accordo fra Italia e Albania, che prevede il trasferimento coatto dei richiedenti asilo sul territorio albanese sino alla decisione della Commissione territoriale sulla sua domanda, poiché comporta il trattenimento della persona è applicabile -in forza della stessa direttiva- soltanto nei confronti di chi proviene da un paese sicuro.
Com’è noto, dopo alcuni provvedimenti del Tribunale di Roma del 18 ottobre 2024, che hanno affermato la illegittimità della designazione come “paesi di origine sicuri” dei paesi di provenienza -Bangladesh ed Egitto- dei richiedenti asilo coattivamente trasferiti in Albania, il Governo in data 23 ottobre 2024 ha emesso il decreto-legge n. 158 con cui ha confermato la designazione di 19 paesi, fra cui il Bangladesh.
Dovendosi applicare -per la prima volta- in virtù del principio del cd. tempus regit actum, tale nuova disposizione di natura processuale, in vigore dal 24 ottobre 2024, il Tribunale di Bologna ha dunque ritenuto di proporre alla Corte europea due quesiti:
Nell’ordinanza viene sottolineato con forza come la necessità di chiedere un chiarimento della Corte di Giustizia non sia fondata tanto su un effettivo dubbio interpretativo del giudice remittente, il quale chiarisce con nettezza il proprio orientamento, quanto sulla necessità di assicurare l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, nel momento in cui le differenti opzioni esegetiche hanno condotto ad un vero e proprio conflitto istituzionale con riguardo alla nozione di “paese di origine sicuro”, ai rapporti fra diritto europeo e diritto interno e ai poteri del giudice ordinario.
Il Tribunale evidenzia infatti che “il Collegio ha una precisa opinione in ordine alla corretta soluzione interpretativa” ma ritiene necessario che “la Corte di Giustizia sia invocata quando occorra dissipare gravissime divergenze interpretative del diritto europeo, manifestatesi nel caso di specie in modo obiettivo e virulento in seguito ad alcuni provvedimenti giurisdizionali sino alla decretazione d’urgenza di cui al D.L. n. 158/2024”. Rileva il tribunale che “in presenza di un gravissimo contrasto interpretativo del diritto dell’Unione, qual è quello che attualmente attraversa l’ordinamento istituzionale italiano, il rinvio alla Corte è opportuno al fine di conseguire un chiarimento sui principi del diritto europeo che governano la materia”.
Riguardo al primo quesito, che attiene ai presupposti legali che consentono la designazione di un paese terzo come “paese di origine sicuro”, il tribunale rileva che “quando era stata immaginata la redazione di una lista devoluta al Consiglio dell’Unione europea, la discussione sulle possibili designazioni era limitata ai paesi europei per cui risultava pendente una domanda di adesione all’Unione” tant’è che la Commissione Europea aveva suggerito di includere soltanto l’Albania, la Bosnia ed Erzegovina, la Macedonia, il Kosovo, il Montenegro, la Serbia e la Turchia. La competenza attribuita ai paesi aderenti ha condotto invece ad una progressiva estensione, da parte di alcuni paesi, fra cui l’Italia, “anche a paesi extraeuropei per cui le condizioni di sicurezza sono spesso assai dubbie”.
Tale esito è stato determinato da una “linea interpretativa che ha condotto ad estendere la lista nazionale italiana dei paesi di origine sicuri alla gran parte dei paesi da cui provengono coloro che chiedono asilo in Italia (con l’eccezione, fra quelli più rilevanti, del Pakistan e, adesso, dei tre paesi che presentano conflitti interni), predisponendo per gli stessi un apposito apparato normativo conseguente ad accordi intervenuti con la Repubblica di Albania”.
Il Collegio ha ritenuto a tale proposito necessario “sgombrare innanzitutto il campo da un equivoco di fondo, quello per cui potrebbe definirsi sicuro un paese in cui la generalità, o maggioranza, della popolazione viva in condizioni di sicurezza”.
Il tribunale ha osservato al riguardo che “il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori, statuali o meno. Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite della Romania durante il regime di Ceausescu o della Cambogia di Pol Pot), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista. Se si dovesse ritenere sicuro un paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica”.
Vengono rammentati due autorevolissimi precedenti delle due massime Autorità giudiziarie francese e inglese, il Conseil d'État e la High Court, che hanno entrambe dichiarato illegittima la designazione di tre paesi (Senegal, Gambia; Giamaica) in ragione della persecuzione dei (soli) appartenenti alla comunità lgbtqia+. La nozione di sicurezza non è stata riferita, dunque, alla maggioranza della popolazione, ma in ragione della persecuzione delle (sole) persone lgbtqia+, è stato negato che il paese possa essere incluso nella lista nazionale dei paesi di origine sicuri.
Sono interessanti al riguardo le notazioni del tribunale bolognese per cui sarebbe irragionevole “pretendere che una persona appena giunta nel paese ospitante sia subito in grado di chiarire in che termini sia attinta da rischi persecutori sistematicamente e ordinariamente presenti nel proprio paese. Ne sono esempi evidenti l’ipotesi di donne provenienti da paesi in cui vi siano endemici fenomeni di tratta di esseri umani, le quali sono sovente ancora oggetto di tratta al momento dell’arrivo, e l’ipotesi di donne o persone lgbtqia+ provenienti da paesi con fenomeni endemici di violenza di genere, matrimoni imposti, mutilazioni genitali o persecuzioni per l’orientamento sessuale o l’identità di genere, che possono non essere in grado di narrare immediatamente il proprio vissuto, in ragione della necessità di sottrarsi alla soggezione culturale dovuta al contesto di provenienza”.
I giudici emiliani hanno rilevato pure come “in ipotesi di fenomeni sistematici di persecuzione o esposizione a danno grave di minoranze, tutta la popolazione appaia in qualche modo esposta a un rischio persecutorio, atteso che raramente una minoranza è segnata da confini netti e facilmente identificabili e che quando vi è persecuzione di un gruppo minoritario la stessa tende a colpire anche chi, pur non appartenendo al gruppo minoritario, sia entrato comunque per varie ragioni in relazione con appartenenti allo stesso”.
Il tribunale ha osservato, quindi, una vistosa contraddizione logica fra gli atti interlocutori e il provvedimento finale in relazione al Bangladesh, atteso che nelle conclusioni della stessa “scheda paese” preparata dal Ministero si suggerisce che “il Bangladesh può essere considerato come un Paese sicuro (…) ad eccezione delle fattispecie indicate al punto n. 6” (dove sono indicati gli appartenenti “alla comunità LGBTQI+, alle vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, alle minoranze etniche e religiose, alle persone accusate di crimini di natura politica e ai condannati a morte. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”) senza che di tale diffusa insicurezza si tenga conto nella decisione finale adottata. Tale “incongruenza logica”, secondo il Tribunale, “è spiegabile soltanto seguendo lo schema interpretativo, che evidentemente sottende anche al D.L. n. 158/2024 promosso dal Governo italiano, per cui la Direttiva 2013/32/UE consentirebbe la designazione se comunque la maggioranza della popolazione è in condizioni di sicurezza o per cui la designazione avrebbe in ogni caso natura giuridica di “atto politico”, determinata da superiori esigenze di governo del fenomeno migratorio e di difesa dei confini nazionali, prescindendo dalle informazioni e dai giudizi espressi dai competenti uffici ministeriali in ordine alle condizioni di sicurezza del paese designando”.
Il secondo quesito riguarda il dovere del giudice di disapplicare le disposizioni nazionali che contrastino con il diritto europeo.
Tale potere-dovere è stato affermato da oltre quattro decenni in una consolidata e monolitica giurisprudenza della Corte di Giustizia (ex multis cfr. sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. E.N.E.L. e sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal. L’esigenza di tornare ancora una volta su questo avanti ai giudici di Lussemburgo, nonostante “l’intima e ferma convinzione giuridica del Collegio” che tale dovere sussista, deriva ancora una volta dalla necessità di dipanare il “gravissimo contrasto fra le diverse Autorità chiamate a interpretare e applicare il diritto dell’Unione”.
Nel riportare il contenuto del provvedimento, la stampa ha evidenziato un preteso intento “impugnatorio” del recente dl del 23 ottobre 2024 (“i giudici mandano il dl davanti la Corte”) ed ha sottolineato un passaggio ad effetto sulle condizioni di sicurezza durante regime nazista (“seguendo il governo sarebbe sicuro anche la Germania nazista”). Alcuni esponenti politici, i ministri degli esteri e dell’interno, chiamati a commentare l’ordinanza in un momento in cui il testo non era ancora pubblico, hanno criticato una pretesa fuga dagli stretti limiti della giurisdizione.
In verità, la lettura dell’ordinanza attesta la chiara volontà, dato atto di un conflitto interpretativo innegabile, di trovare una soluzione razionale a tale conflitto attraverso il ricorso alla Autorità istituzionalmente preposta ad assicurare uniformità di interpretazione del diritto europeo.
È noto che la Corte di giustizia ha competenza esclusivamente sulla interpretazione del diritto europeo, con decisioni che sono vincolanti e inderogabili per tutte le autorità dei paesi aderenti all’Unione, giudiziarie e non, ma non ha invece alcuna competenza sulla legittimità degli atti nazionali (nonostante l’evoluzione giurisprudenziale della Corte abbia via via esteso il controllo, attraverso la tecnica decisoria per cui il diritto europeo, correttamente interpretato, può “ostare” a che i legislatori nazionali adottino determinate misure). È dunque errato leggere nella richiesta di chiarimenti sul diritto europeo una sorta di “impugnazione” del dl italiano.
La ricerca di una soluzione definitiva è, invece, precisamente nel solco del recente invito del Capo dello Stato ad abbassare i toni e a trovare soluzioni tecniche al conflitto e alle divergenze di opinione in atto. Seguendo le indicazioni delle linee guida per la redazione dei rinvii pregiudiziali, il tribunale di Bologna ha espresso in modo chiaro il punto di vista dell’Autorità remittente. Il Governo italiano, che (a differenza di quelli tedesco e olandese, intervenuti con orientamenti opposti fra loro) non era intervenuto nel procedimento che ha condotto alla sentenza del 4 ottobre, menzionata nel preambolo del dl e in qualche modo “contestata” dal governo italiano, ha adesso modo di presentare il proprio punto di vista, peraltro obiettivamente e precisamente rappresentato nella stessa ordinanza bolognese, depositando le proprie osservazioni.
Non resta dunque che attendere la decisione della Corte.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro e Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi.
Le comunicazioni conservate sulle chat sono da considerare corrispondenza. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
Sommario: 1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale 2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza - 3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali - 4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale
Come è noto a tutti, le comunicazioni tra le persone non si svolgono quasi più tramite la corrispondenza tradizionale, ossia con la lettera in busta chiusa ed inviata a mezzo posta, ma avvengono tramite telefono oppure, sempre più di frequente, attraverso dispositivi elettronici e informatici, come e-mail, messaggi SMS, o con applicativo WhatsApp e simili. Tali comunicazioni, una volta ricevute dal destinatario, rimangono conservate nella memoria dello strumento elettronico, sia esso un computer, uno smartphone o un tablet. Sono dati ormai statici, ovvero cd. “freddi” secondo il linguaggio informatico, perché il flusso della comunicazione elettronica è già avvenuto; per tale ragione la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in misura pressoché unanime, aveva sempre escluso che in ordine a tali comunicazioni potesse trovare applicazione la disciplina sulle intercettazioni, facendo, invece, richiamo alle norme sui documenti (art. 234 cod. proc. pen.) oppure quella sui documenti informatici (art. 234-bis cod. proc. pen.).
La svolta interpretativa, certamente, è stata data soprattutto dalla sentenza n.170 del 22 giugno 2023 della Corte costituzionale (cosiddetta sentenza Renzi, perché aveva ad oggetto l’acquisizione di plurime comunicazioni, con messaggi elettronici, del Senatore Matteo Renzi disposte dalla Procura di Firenze senza la previa autorizzazione da parte del Senato), che ha affermato una serie di principi, tra cui, per quanto qui di interesse, quello relativo alla definizione di corrispondenza, rilevante ai fini della tutela dell’art. 15 della Costituzione. Sul sito della Corte cost., si trovano pubblicate le seguenti massime:
“Il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza non è dato principalmente dalla forma della comunicazione, giacché le intercettazioni possono avere ad oggetto anche flussi di comunicazioni non orali (informatiche o telematiche). Affinché si abbia intercettazione debbono invece ricorrere due condizioni: la prima, di ordine temporale, è che la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus, e va dunque colta nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”); la seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.
Il concetto di «corrispondenza» è ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza; in linea generale, pertanto, lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost.
La tutela accordata dall’art. 15 Cost. – anche ove si guardi alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. – prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di c.d. messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione. (Precedenti: S. 2/2023 - mass. 45265; S. 20/2017 - mass. 39645; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 1030/1988).
La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo), come ad esempio i tabulati telefonici, contenenti l’elenco delle chiamate in partenza o in arrivo da una determinata utenza e che possono aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali. La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità – attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana – comporta infatti un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo. (Precedenti: S. 38/2019 - mass. 42192; S. 188/2010 - mass. 34690; S. 372/2006 - mass. 30769; S. 281/1998 - mass. 24085; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 366/1991 - mass. 17448). (Nel caso di specie, è dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale iscritto al n. 3745/2019 R.G.N.R., sulla base di decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019, corrispondenza riguardante il sen. Matteo Renzi, costituita da messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il sen. Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il sen. Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché da posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018; ed è annullato, per l’effetto, il sequestro dei messaggi di testo scambiati tra il sen. Matteo Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, per i quali, a differenza di altri, non è nel frattempo intervenuto provvedimento di annullamento della Cassazione. Degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione. Una simile conclusione si impone a maggior ragione allorché non si tratti solo di stabilire cosa sia corrispondenza per la generalità dei consociati, ma di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’art. 68, terzo comma, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Limitare la citata prerogativa alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse significherebbe darne una interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare possono bene derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario. Se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute, quali quelli memorizzati in un tabulato, gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore). (Precedenti: S. 157/2023 - mass. 45658; S. 38/2019 - mass. 42192; S. 113/2010 - mass. 34488; S. 390/2007 - mass. 31839)”[1].
Alla decisione appena analizzata, è seguita dopo poco altra pronuncia, la sentenza n. 227 del 2023, in cui la Consulta ha risolto un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica, dichiarando che non spettava all’autorità giudiziaria procedente disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che avevano coinvolto un senatore della Repubblica, nel periodo in cui questi ricopriva l’incarico, e acquisire, quali elementi di prova documentale, i messaggi WhatsApp scambiati tra il predetto e un terzo imputato, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest’ultimo nell’ambito di un procedimento penale, pena la violazione degli artt. 4 e 6, legge n. 140 del 2003.
2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza
A distanza di meno di un anno sono, poi, intervenute le due sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite, n.23755 (Gjuzi Ermal - Rv.286573) e n.23756 (Giorgi - Rv.286589) del 29 febbraio 2024, dep. 14/06/2024[2], in tema di acquisizione tramite Ordine europeo di indagine (da cui l’acronimo O.E.I) di comunicazioni svolte su piattaforma criptata e su cd. criptofonini che l’autorità giudiziaria francese aveva già captato e decriptato. Le due decisioni del massimo consesso hanno affermato in motivazione, con espresso richiamo della giurisprudenza costituzionale, che “…quando la prova documentale ha ad oggetto comunicazioni scambiate in modo riservato tra un numero determinato di persone, indipendentemente dal mezzo tecnico impiegato a tal fine, occorre assicurare la tutela prevista dall’art. 15 Cost. in materia di «corrispondenza». Come infatti precisato dalla giurisprudenza costituzionale, «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», il quale «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato», e si estende, perciò, anche alla posta elettronica ed ai messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, «del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» perché accessibili solo mediante l’uso di codici di accesso o altri meccanismi di identificazione (così Corte cost., sent. n. 170 del 2023; nello stesso senso, Corte cost., sent. n. 227 del 2023 e Corte cost., sent. n. 2 del 2023). Di conseguenza, indipendentemente dalla modalità utilizzata, trova applicazione «la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge – […]» (cfr., ancora, testualmente, Corte cost., sent. n. 170 del 2023). La tutela prevista dall’art. 15 Cost., tuttavia, non richiede, per la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza, e, quindi, per l’acquisizione di essa ad un procedimento penale, la necessità di un provvedimento del giudice. Invero, l’art. 15 Cost. impiega il sintagma «autorità giudiziaria», il quale indica una categoria nella quale sono inclusi sia il giudice, sia il pubblico ministero (per l’inclusione del pubblico ministero nella nozione di “autorità giudiziaria” anche nel diritto euro-unitario, cfr., proprio con riferimento alla Direttiva 2014/41/UE, Corte giustizia, 08/12/2020, Staatsanwaltschaft Wien, C-584/19). E questa conclusione trova conferma nella disciplina del codice di rito. L’art. 254 cod. proc. pen. prevede che il sequestro di corrispondenza è disposto della «autorità giudiziaria», senza fare alcun riferimento alla necessità dell’intervento del giudice, invece espressamente richiesto, ad esempio, in relazione al sequestro da eseguire negli uffici dei difensori (art. 103 cod. proc. pen.). A sua volta, l’art. 353 cod. proc. pen. statuisce, in modo testuale, che l’acquisizione di plichi chiusi e di corrispondenza, anche in forma elettronica o inoltrata per via telematica, è autorizzata, nel corso delle indagini, dal «pubblico ministero», il quale è titolare del potere di disporne il sequestro”. Le Sezioni Unite, perciò, hanno fatto propria la definizione di corrispondenza che la Corte costituzionale ha dato delle comunicazioni già avvenute con posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, e conservati nella memoria dei dispositivi mobili. Si tratta, quindi, di ius receptum, malgrado in giurisprudenza permane qualche voce dissenziente[3].
Nelle motivazioni vi è stato poi il richiamo alla disciplina specifica del sequestro di corrispondenza ex art. 254 cod. proc. pen.; in particolare, la norma prevede, al comma 2, che: “Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all'autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli o alterarli e senza prenderne altrimenti conoscenza del loro contenuto”. Norma chiara se riferita alla corrispondenza per così dire tradizionale, ossia quella cartacea, a mezzo una busta chiusa inviata tramite il servizio postale. La probabile ratio della previsione normativa va ravvisata nell’esigenza che il contenuto della corrispondenza non debba essere conosciuto da soggetti diversi dall’autorità giudiziaria prima che il destinatario abbia ricevuto il plico con la corrispondenza poi sequestrata. Le Sezioni Unite, pertanto, hanno affermato che le chat costituiscono non mera documentazione acquisibile ex articolo 234 cod. proc. pen., ma “corrispondenza informatica” che quindi deve essere acquisita attraverso un provvedimento di sequestro ai sensi dell'articolo 254 cod. proc. pen., così disattendo la granitica giurisprudenza di legittimità che fino a quel momento aveva, invece, sostenuto trattarsi di mero documento acquisibile ex art. 234 ovvero ex art. 234-bis cod. proc. pen., ove qualificato come documento informatico[4]. Si può osservare che, a legislazione vigente, in entrambi i casi, sia che la messaggistica di una chat venga considerata mero documento (oppure documento informatico) sia che, invece, sia definita corrispondenza, il sequestro probatorio dei messaggi contenuti nell’archivio di un device può essere disposto direttamente dal pubblico ministero, senza alcuna previa autorizzazione del giudice. Del resto, l’art. 15 Cost., che prevede, a tutela della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la doppia riserva di giurisdizione e di legge[5], fa riferimento all’endiadi autorità giudiziaria, che comprende, come è noto, anche il pubblico ministero, il quale gode nel nostro ordinamento delle stesse guarentigie di indipendenza ed autonomia del giudice. Tale assunto, però, non può celare le profonde differenze di disciplina processuale che conseguono all’affermazione di una definizione anziché dell’altra, sia dal punto di vista teorico sia per quanto riguarda aspetti per così dire pratici.
3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali
Partendo da un profilo teorico si ritiene che considerare come corrispondenza lo scambio di comunicazioni avvenuto con la posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s., involga la tutela di un diritto, quello della riservatezza delle comunicazioni, a copertura costituzionale ai sensi dell’art. 15 Cost. La violazione delle norme processuali sull’acquisizione della corrispondenza porta all’inutilizzabilità cosiddetta patologica di quanto sequestrato dal P.M., come di recente sostenuto dalla Suprema Corte (Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, Rv.286773-01), che in motivazione ha affermato sul punto che “ Si è da tempo affermato che rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le prove oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla legge e, a maggior ragione, come in precedenza detto, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. La Corte costituzionale con la sentenza numero 34 del 1973 ha ravvisato l'esistenza di divieti probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio per cui attività compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito. Il suddetto principio - come già detto - ha consentito l'elaborazione della categoria delle prove cosiddette incostituzionali, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in violazione dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo”[6]. In precedenza, mutatis mutandis, la Suprema Corte ha sostenuto, sempre in tema di prove assunte in violazioni di precetti costituzionali, che “ In tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, non sono utilizzabili nel giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a utenze telefoniche o telematiche, contenuti nei tabulati acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell'Autorità giudiziaria, in violazione dell'art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto prove lesive del diritto alla segretezza delle comunicazioni costituzionalmente tutelato e, pertanto, affette da inutilizzabilità patologica, non sanata dalla richiesta di definizione del giudizio con le forme del rito alternativo” (così Sez.6, n.15836 del 11/01/2023, Berera, Rv.284590-01)[7]. Tale ultima decisione, si segnala anche perché ha escluso in maniera netta che possa argomentarsi in senso contrario, facendo leva, ad esempio, sulla disciplina della cosiddetta prova innominata di cui all'articolo 189 cod. proc. pen; tale norma consente certamente l'ingresso processuale della prova atipica, ma solo qualora essa presenti cumulativamente due caratteristiche: la prima, positiva, si sostanzia nella sua idoneità all'accertamento del thema probandum; la seconda, di segno negativo, consiste nel limite per il quale essa non possa presentarsi come lesiva della libertà morale della persona. Essa, però, ricorda la Corte contempla solo le prove atipiche che non rechino vulnus alle esigenze costituzionalmente tutelate e, dunque, non richiedono una disciplina legislativa espressa, come deve, invece, sussistere in tutti i casi in cui sono in gioco i diritti tutelati dalla previsione dell'articolo 15 Cost. In altri termini, l’inosservanza delle norme codicistiche conduce all’inutilizzabilità patologica della prova raccolta in tal modo, né può utilizzarsi in tale ambito lo strumento della prova atipica per il limite intrinseco del citato art. 189.
4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo
Orbene, se il quadro teorico derivante dall’affermazione che le comunicazioni avvenute su chat sono corrispondenza appare più che sufficientemente delineato, molto meno chiare sono implicazioni dal punto di vista per così dire pratico. Come già evidenziato, il richiamo alla disciplina di cui all’art. 254 cod. proc. pen. (rubricato “Sequestro di corrispondenza”), comporta che la polizia giudiziaria non possa prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente nel dispositivo sequestrato. Tale limite, facilmente osservabile per la corrispondenza cartacea, risulta di difficile ottemperanza in caso di comunicazioni digitali/informatiche. All’interno di un computer o di un telefono cellulare si trova, di regola, tutta “la vita” di una persona, come sinteticamente è stato affermato in termini giornalistici: messaggi, fotografie, registrazioni vocali, appunti ecc.ecc., che possono risalire fino ad alcuni anni addietro rispetto al momento del sequestro a seconda della memoria del dispositivo. Va sottolineato, peraltro, che è ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla decisione Sez. 6, n.6623 del 9/12/2020, (dep.19/02/2021), Pessotto, Rv. 280838-01, che ha enunciato il seguente principio: “È illegittimo per violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza il sequestro a fini probatori di un dispositivo elettronico che conduca, in difetto di specifiche ragioni, alla indiscriminata apprensione di una massa di dati informatici, senza alcuna previa selezione di essi e comunque senza l'indicazione degli eventuali criteri di selezione (Fattispecie relativa a sequestro di un telefono cellulare e di un tablet)”[8]. Ne consegue, perciò, che quando viene sequestrato, ad esempio, uno smartphone, gli inquirenti devono selezionare le comunicazioni archiviate che sono pertinenti al reato per cui si procede, fatto salvo, ovviamente, il caso, in cui lo stesso smartphone è corpo di reato (ad esempio nei casi di diffusione o detenzione di materiale pedopornografico di cui agli artt. 600-ter e 600-quater cod. pen.). Come può, in concreto, svolgersi tale ricerca e selezione se la polizia giudiziaria non può prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente sul device, in forza del limite indicato dall’art. 254, comma 2, cod. proc. pen.? La questione è stato oggetto di una recente sentenza della Suprema Corte (Sez. 2, n.25549 del 15/05/2024, Tundo, Rv.286467-01), che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi "whatsapp" e gli sms custoditi nella memoria di un dispositivo elettronico conservano natura giuridica di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, sicché la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza, salvo che, per il decorso del tempo o altra causa, essi non perdano ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico". (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non si fosse determinata alcuna violazione del disposto dell'art. 254 cod. proc. pen. sul rilievo che la polizia giudiziaria si era limitata a sequestrare il telefono cellullare, mentre l'accesso al contenuto della corrispondenza era avvenuto successivamente ad opera del pubblico ministero con il proprio consulente)”. A sommesso avviso dello scrivente, la sentenza citata appare, dal punto di vista del rigore logico/giuridico della motivazione, ineccepibile nella decisione finale perché fa propria la ricostruzione sistematica compiuta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.170/2023, e coerentemente ha ritenuto applicabile al sequestro dello smartphone la disciplina dell’art. 254 cod. proc. pen., che, nel caso di specie, non era stata violata solo perché la polizia giudiziaria si era limitata al sequestro del cellulare senza accedere al suo contenuto e subito dopo lo aveva consegnato al P.M. procedente. Questi, successivamente, tramite un consulente tecnico sua longa manus, aveva ricercato i messaggi di interesse investigativo. Tuttavia, appare evidente che l’utilizzo di un consulente tecnico diverso dalla P.G., in termini generali, allunga i tempi dell’attività investigativa, nonché aumenta in maniera esorbitante i suoi costi. Del resto, come già evidenziato, l’art. 254 cod. proc. pen. è una norma “costruita” in relazione alla corrispondenza cartacea, che mal si adatta alle comunicazioni elettroniche e informatiche per le ragioni esposte. In molti uffici di Procura si è cercato di trovare alcune soluzioni pratiche, diverse dall’applicazione dell’art. 254 cod. proc. pen., che consentano di salvaguardare in maniera sostanziale da un lato la tutela della riservatezza dei dati, contenuti nei dispositivi elettronici, ulteriori rispetto a quelli pertinenti al reato per cui si procede e dall’altro la necessaria speditezza delle attività di indagine. Per ragioni di spazio editoriale non è possibile descriverle e commentarle, ma si tratta, come è facile intuire, di sforzi interpretativi di adattamento rispetto ad una evidente lacuna normativa che è emersa solo dopo la sentenza della Corte costituzionale.
Accanto all’attività interpretativa della magistratura italiana, vi è però la concreta possibilità di un intervento legislativo che, prendendo atto della giurisprudenza costituzionale, modifichi la disciplina del sequestro dei device. Il disegno di legge n.806 del 19/07/2023, approvato dal Senato e in attesa dell’approvazione della Camera, introdurrebbe, dopo l’art. 254-bis cod. proc. pen., l’art.254-ter (Sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali), con significative novità, prima fra tutte la necessità di un preventivo controllo del giudice sulla richiesta di sequestro del pubblico ministero[9].
Infine, si dovrà valutare l’impatto sull’ordinamento interno della recentissima sentenza della Corte di Giustizia U.E., Grande Camera, del 4 ottobre 2024, C-548/21, che riguarda proprio i messaggi contenuti nel telefono cellulare, già ricevuti e letti dal destinatario, ritenuti anche dalla C.G.U.E. come dati personali e segreti, che possono essere acquisiti nell’ambito di specifici procedimenti penali, nel rispetto del principio di proporzionalità e, di regola, a seguito di un provvedimento di autorizzazione del giudice o di un’autorità amministrativa indipendente[10].
[1] La Consulta nella sentenza ha sottolineato che tale orientamento trova, peraltro, conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che non ha avuto esitazioni nel ricondurre nell'alveo della «corrispondenza» tutelata dall'art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione "statica", ossia già inviati e ricevuti dal destinatario (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya Stefanov contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione [...] al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).
[2] Si veda per un primo commento su questa rivista, in data 20 giugno2024, G.Spangher, Criptofonini: le sentenze delle Sezioni Unite.
[3] Si veda al riguardo la recente sentenza Cass., Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, in cui si legge che “non può condividersi l'osservazione del procuratore generale secondo il quale il principio affermato dalla Corte costituzionale non avrebbe portata generale ma si riferirebbe esclusivamente all'ambito applicativo delle guarentigie apprestate dall'articolo 68 Cost. in favore del parlamentare”.
[4] Si veda a titolo di esempio, tra le tante, Sez.6 n. 22417 del 16/03/2022, Sgromo, Rv.283319-01, che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi "whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen. (Fattispecie relativa a dati - allegati in copia cartacea o trasfusi nelle informative di polizia giudiziaria - acquisiti in separato procedimento, in cui la Corte ha precisato che non è indispensabile, ai fini della loro autonoma valutabilità, l'acquisizione della copia forense effettuata nel procedimento di provenienza, né dell'atto autorizzativo dell'eventuale perquisizione)”. In precedenza, si veda anche Sez.3, n.29426 del 16/04/2019, Moliterno, Rv.276358-01, secondo cui: “I messaggi di posta elettronica allocati nella memoria di un dispositivo dell'utente o nel server del gestore del servizio hanno natura di prova documentale sicché la loro acquisizione processuale non costituisce attività di intercettazione disciplinata dall'art. 266-bis cod. proc. pen. - atteso che quest'ultima esige la captazione di un flusso comunicativo in atto - ma presuppone l'adozione di un provvedimento di sequestro. (In motivazione, la Corte ha precisato che non è comunque applicabile la disciplina del sequestro di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen., la cui nozione implica un'attività di spedizione in corso o almeno avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito)”. In dottrina si vedano, tra i vari approfondimenti sul punto, le considerazioni di: W. Nocerino, L’acquisizione della messaggistica su sistemi criptati: intercettazioni o prova documentale? in Cass. pen., 2023, 9, 2786 ss., che, pur condividendo gli approcci della giurisprudenza maggioritaria quanto all’utilizzo dell’art. 234-bis cod. proc. pen., sollecita, però, il legislatore ad introdurre un nuovo mezzo di ricerca della prova che consenta, in maniera tipizzata e con le dovute garanzie, agli investigatori di accedere ed acquisire i cd. big data nei nuovi spazi virtuali, nonché P. Corvi, Le modalità di acquisizione dei dati informatici trasmessi mediante posta elettronica e applicativi di chatting: un rebus non ancora del tutto risolto, in Proc. pen. e giust., 2023, 1, 216 ss.
[5] Una parte della dottrina ritiene che la tutela della riservatezza delle comunicazioni necessiti di un controllo giurisdizionale in senso stretto, ossia da parte del giudice, in quanto il pubblico ministero non avrebbe nel processo la terzietà del giudice, essendo parte processuale, come ricavabile dall’art. 111, comma 2, Cost. In tal senso si veda F.R. Dinacci, I modi acquisitivi della messaggistica chat o e-mail: verso letture rispettose dei principi, in Arch. Pen. Web, 1, 2024.
[6] Sul concetto di prova incostituzionale si veda in dottrina G.M. Baccari – C. Conti, La corsa tecnologica tra Costituzione, codice di rito e norme sulla privacy: uno sguardo d'insieme, in Dir.Pen.Proc., 2021, n.6, pag. 711 ss., che affronta funditus il tema dell’inutilizzabilità della prova che va a ledere diritti fondamentali della Costituzione, tra cui rientrano quelli tutelati dall’art. 15 Cost.
[7] Edita su Cass. pen., 2023, n.7-8, p.2279 ss., con nota di C.Marinelli, Non sono utilizzabili neppure in sede di giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a cellulari, contenuti in tabulati telefonici, acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
[8] Di recente Conf. Sez.6, n.17312 del 15/02/2024, Corsico, Rv. 286358-03, che evidenzia il contenuto che dovrebbe avere la motivazione del decreto di sequestro probatorio del pubblico ministero per osservare i criteri di proporzionalità della misura sia nella fase genetica sia in quella esecutiva.
[9] Per approfondimenti sul DdL n.806/2023 si veda C.Parodi, Signori, si cambia: la nuova disciplina sul sequestro di PC e device, in IUS del 13 marzo 2024.
[10] Per un primo commento si veda L. Filippi, La CGUE mette i paletti all’accesso ai dati del cellulare, in Il Quotidiano Giuridico, del 10 marzo 2024; C.Parodi, Accesso ai dati presenti sul cellulare: quando, come e perché, in Il diritto vivente, del 11 ottobre 2024; F.Agnino, Accesso ai dati del cellulare, da parte della polizia, in IUS del 15 ottobre 2024.
Immagine: Patrick Caulfield, La lettera, 1967, serigrafia, cm 48×76, Tate, Londra
Il DDL Sicurezza e il carcere
Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)
Sommario: 1. Brevi considerazioni generali. - 2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore. - 3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. - 4. In materia di dotazione di videocamere. - 5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Ringrazio vivamente per l’opportunità di interloquire con la Commissione. Svolgo le funzioni di magistrato di sorveglianza da diciotto anni. Concentrerò quindi il mio breve intervento sulle disposizioni del disegno di legge, che incidono più direttamente sulla materia dell’esecuzione penale e del carcere.
1. Brevi considerazioni generali.
Non posso però esimermi da un, seppur succinto, riferimento più ampio ai complessivi contenuti del DDL Sicurezza proprio in rapporto alla attuale, grave, condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Dal mio, pur limitato, osservatorio, riscontro una condizione di sovraffollamento che non accenna a diminuire e il cui impatto grave sulla capacità degli istituti penitenziari di sviluppare percorsi risocializzanti, necessari per integrare il precetto costituzionale dell’art. 27 terzo comma della Costituzione, e utili alla sicurezza della collettività, è purtroppo evidente nel clima di tensioni interne, suicidi, e crescente fatica di lavoratori e persone detenute, nell’intravedere lo scopo della detenzione e una prospettiva. C’è un problema di spazi, ma c’è soprattutto una assoluta carenza di risorse umane: non solo polizia penitenziaria, ma di educatori, mediatori culturali, psicologi e medici.
In un quadro come questo gli interventi contenuti nel d.l. 92/2024 non hanno portato, e non sono destinati a portare, un sollievo effettivo, ed in tempi rapidi, al quadro descritto.
Viceversa, il ddl “Sicurezza” introduce una serie piuttosto numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore della platea dei soggetti attinti dalla penalità. In ultima analisi si produrrà ancora più esecuzione penale e ancora più carcere, a risorse del carcere invariate. La scelta cade ancora una volta su un uso vasto del diritto penale e, tra le opzioni sanzionatorie, ancora una volta su pene detentive, senza di fatto immaginare pene diverse dal carcere, ad eccezione di quelle pecuniarie.
La ricetta del carcere viene proposta rispetto a fattispecie molto diverse, in larga parte però relative a persone attinte a vario titolo da profili di marginalità sociale. È una utenza nota al mondo penitenziario, che però fa una enorme fatica ad offrire percorsi di integrazione, che sarebbero necessari, e che spesso deve limitarsi ad offrire branda e un po’ di vitto, in un contesto di crescente difficoltà di contrasto rispetto a degrado delle strutture.
2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore.
Passando alle specifiche disposizioni rivolte all’esecuzione penale, viene in primo piano l’art. 15, che prevede l’abrogazione di due commi dell’art. 146 cod. pen. e cioè le fattispecie di differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno. Le stesse ipotesi vengono trasfuse nell’art. 147, divenendo perciò ipotesi di differimento facoltativo della pena, soggetto ad una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che dovrà bilanciare il favor nei confronti del minore con la pericolosità sociale dell’interessata.
Per questa opzione è inserito un quinto comma che afferma che l’esecuzione penale non può essere differita sa dal rinvio derivi una situazione di “pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si tratta di una formula sostanzialmente mutuata dalla corrispondente fattispecie cautelare, in ordine alla quale una giurisprudenza della cassazione ritiene che le esigenze ricorrano anche “in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento” cfr. cass. 48999/2019.
La disposizione prevede ancora che, dove non possa aver luogo il differimento, l’esecuzione deve aver luogo presso un Istituto a custodia attenuata (Icam) se la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, e può avervi luogo, a meno che esigenze di eccezionale rilevanza non lo consentano, nell’ipotesi della madre di prole di età superiore ad un anno e inferiore a tre anni.
A fronte di un sistema normativo che negli anni, anche grazie agli interventi della Corte Costituzionale, ha progressivamente costruito un quadro di importanti tutele per la detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child” secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, l’intervento oggi proposto si pone in decisa controtendenza e segna inevitabilmente un arretramento rispetto al modello normativo sin qui proposto.
La Consulta ha per altro già riconosciuto come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che “l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico” (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).
Dal punto di vista tecnico, anche a normativa vigente, è possibile intervenire rispetto al differimento obbligatorio, prevedendo che lo stesso sia surrogato da una detenzione domiciliare, con ciò quindi tenendosi conto della necessità di contenere una pericolosità sociale della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. In nessun caso però può prevedersi la permanenza in carcere, sia pure presso un Icam. Si tratta di una previsione che affonda le radici nel codice penale scritto in epoca fascista, e che ha costituito fino ad oggi un baluardo culturale importante, qualificante, dei principi e dei valori che l’ordinamento tutela.
Da un esame della giurisprudenza formatasi in materia cautelare, quindi, c’è da attendersi dalla modifica normativa, se interverrà, che un certo numero di donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno faranno accesso ai nostri istituti penitenziari, aumentando il numero di bambini che vi nasceranno o vi trascorreranno i primi anni di vita. Non credo ci sia bisogno di dilungarsi sulle gravissime conseguenze che questo comporta rispetto al superiore interesse del minore, che in nessun caso può mai essere quello di permanere all’interno di una struttura penitenziaria.
Occorre per altro rappresentare che gli ICAM sono pochissimi nel territorio nazionale. Ciò significa che la permanenza in carcere inevitabilmente distaccherà le madri dai loro territori, e questo distacco significherà anche distacco dai nuclei familiari presenti, e da eventuali altri minori, seppur di età più adulta, che resteranno privati di una madre da loro fortemente allontanata. Vi è il rischio di far vivere alla donna detenuta drammatici conflitti, anche psicologici, tra prosecuzione della gravidanza e cura del minore neonato e inevitabile allontanamento dal nucleo familiare e dagli altri affetti sul territorio.
Vi è la certezza di far sobbarcare al dolente mondo carcerario il peso di persone che avranno uno speciale bisogno di assistenza psicologica e di supporto medico specialistico, con aggravio importante degli obblighi conseguenti in capo a tutti gli operatori coinvolti.
La misura della detenzione domiciliare si è appalesata in questi anni efficacissima per contemperare le contrapposte esigenze in campo. Un grave problema è stato piuttosto costituito dalla assenza di domicili idonei per alcune donne incinte o madri. In tal senso si dovrebbe potenziare il ricorso a case famiglia protette, già previste dalla legge, ma di fatto scarsissime sui territori (credo di conoscere l’esistenza di due sole case del genere in tutta Italia).
Segnalo che, dal punto di vista tecnico, come anche evidenziato nel dossier elaborato dal Senato, la previsione contenuta nel nuovo art. 147 co. 5 può dare adito a dubbi circa la possibilità di provvedere a surrogare il differimento con la detenzione domiciliare, prima che prevedere l’ingresso in ICAM. Andrebbe chiarito che vi è comunque sempre la possibilità di accedere, ove possibile, a quella diversa forma di esecuzione della pena (ai sensi dell’art. 47-ter co. 1-ter ord. penit.).
3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.
Qualche rapida considerazione sull’introduzione dell’art. 415-bis in materia di rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. Per quanto concerne la rubrica dell’articolo mi permetto di osservare che alcune possibili azioni per la maggior sicurezza degli istituti penitenziari sarebbero senz’altro immaginabili, ma le stesse appartengono soprattutto al novero degli interventi di potenziamento delle risorse umane e di quelle materiali, anche attraverso la dotazione di moderni e sicuri sistemi che schermino gli stessi rispetto alle comunicazioni via telefono cellulare, attraverso moderni scan personali come quelli in uso negli aeroporti, mediante la dotazione di elettricità idonea nelle camere detentive, per la sostituzione dei pericolosi fornelli a gas con fornelli elettrici etc. etc.
L’intervento qui immaginato ruota, invece, soprattutto sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. Molto si è già detto sulla parte della disposizione che fa riferimento anche a “condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Mi permetto di aggiungere la mia voce critica su questa previsione che, intanto, appare di difficile interpretazione e foriera di dubbi applicativi, anche per la scarsa determinatezza di espressioni utilizzate come il “contesto”, nozione decisamente troppo vaga per una previsione penale. Più in generale mi pare che la criminalizzazione della resistenza passiva, al pari di quella attiva, con distinguo tecnici difficilmente percepibili dall’utenza, possa creare effetti di paradossale escalation e possa rivelarsi un boomerang. Il momento in cui vi è infatti in atto una forma anche collettiva di resistenza passiva è quello del dialogo, quello in cui le migliori forze dell’amministrazione penitenziaria, in primis i Direttori, possono risolvere tutto senza danni più gravi. Lo scivolamento nell’area della penalità, invece che nell’ambito già segnato dalle sanzioni disciplinari, è a mio avviso grave dal punto di vista culturale ma anche assai controproducente dal punto di vista operativo.
È inoltre previsto l’inserimento di queste fattispecie: art. 415 e 415 – bis nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit., seppure nella c.d. seconda fascia. Ciò significa l’accesso inevitabile al carcere, a prescindere dal quantum di pena irrogata, e più elevate quote per poter accedere ad alcuni benefici penitenziari. Da tempo la dottrina ha posto mente alla necessità di uno snellimento dei cataloghi di reati contenuti nell’art. 4-bis ord. penit., in particolare per quelli che non hanno riferimento alla criminalità organizzata. Il legislatore ha tenuto conto di questo invito, in questi anni, soltanto con la lege 199/2022 di conversione del decreto legge c.d. “anti rave”, ma lo ha fatto esclusivamente per gli autori di reati contro la pubblica amministrazione (i c.d. colletti bianchi). La disposizione normativa si muove in senso distonico rispetto a questo obbiettivo di snellimento, determinando un effetto carcerogeno che, per come detto, è piuttosto drammatico a fronte dell’attuale condizione del mondo penitenziario. Indipendentemente dal quantum di pena irrogata, infatti, per chi ha commesso questi reati le porte del carcere si schiuderanno per un nuovo ingresso, o più probabilmente faranno prorogare il tempo di permanenza.
La strada già tracciata da alcuni anni di incremento delle fattispecie di reato proprio della persona detenuta tende a trasformare sempre di più il carcere in un luogo violento, dal quale si rischia di non uscire, perché si può incorrere in ulteriori reati, oltre quello per cui ci si è entrati. L’esperienza maturata con riguardo alla criminalizzazione del possesso e uso di un telefono cellulare ha per altro evidenziato come possa accadere che siano condannati per questi reati i soggetti più deboli, cui altri detenuti addossano la responsabilità dei fatti, con accertamenti molto difficili per l’autorità giudiziaria. È un meccanismo che potrebbe ripetersi anche qui, coinvolgendo in prima linea persone con disagio psichico, purtroppo largamente presenti nei nostri istituti penitenziari. Io credo che, invece, al carcere dovremmo guardare come a un luogo che, attraverso la valorizzazione delle individualità, non butta la chiave, ma cerca di trovarla. La chiave per restituire all’esterno persone migliori di quelle che sono entrate.
4. In materia di dotazione di videocamere.
Nell’art. 21 del d.d.l. è contenuta una disposizione relativa alla dotazione di videocamere al personale delle Forze di polizia. Si tratta di una disposizione senz’altro condivisibile. Tuttavia mi permetto di sottolineare la necessità di maggiore chiarezza rispetto ai contenuti del comma 2, secondo il quale “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza”. Il perimetro della disposizione, come per altro già sottolineato nel corso di audizioni che mi hanno preceduto, sembra riferibile a luoghi diversi dall’istituto penitenziario. E tuttavia la genericità della previsione imporrebbe di comprendere meglio. Da un lato infatti è stato segnalato da alcuni anni come per tutta una serie di spazi all’interno del penitenziario sia necessaria la presenza delle telecamere a garanzia di lavoratori e persone detenute. La Commissione Ruotolo nel 2021, istituita presso il Ministero della Giustizia, sottolineava l’urgenza di provvedere al più capillare completamento della dotazione, ancora carente in alcune carceri. Dall’altro occorre mettere in conto come una continua videosorveglianza, per persone detenute all’interno delle loro camere, ove non giustificata da peculiari ragioni, finirebbe per avere, a lungo protratta nel tempo, gravi effetti psicologici (andrebbe quanto meno aggiunto un riferimento alla necessità che l’uso della videocamera avvenga nel rispetto della dignità delle persone detenute o internate, affinché le stesse siano collocate in modo da non ritrarne le parti intime, ad esempio nel locale adibito ai servizi igienici). Sembra quindi necessario che la materia sia affrontata con maggior dettaglio. Soprattutto, appare fondamentale che la possibilità di utilizzare le videocamere non sia mai letta come facoltà di non utilizzarle, perché questo finirebbe per risolversi in un arretramento di tutela rispetto a un luogo, come il carcere, che è necessario sia trasparente a garanzia di tutti.
5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Soltanto per completezza meritano un cenno le disposizioni che si vogliono introdurre in materia di lavoro penitenziario e di apprendistato professionalizzante, rispetto alle quali, al di là di formulazioni particolarmente tecniche, e quindi di difficile lettura, può cogliersi un indirizzo positivo, che tuttavia merita di essere coltivato in concreto, sia mediante le modifiche regolamentari cui si rinvia, sia soprattutto attraverso un incremento significativo delle risorse, a fronte di un lavoro intramurario che continua a vedere impegnato un numero troppo esiguo di detenuti, per un numero troppo esiguo di ore settimanali ed in attività che non hanno orizzonti professionalizzanti.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria.
Il DDL Sicurezza e il carcere
Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)
Sommario: 1. Brevi considerazioni generali. - 2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore. - 3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. - 4. In materia di dotazione di videocamere. - 5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Ringrazio vivamente per l’opportunità di interloquire con la Commissione. Svolgo le funzioni di magistrato di sorveglianza da diciotto anni. Concentrerò quindi il mio breve intervento sulle disposizioni del disegno di legge, che incidono più direttamente sulla materia dell’esecuzione penale e del carcere.
1. Brevi considerazioni generali.
Non posso però esimermi da un, seppur succinto, riferimento più ampio ai complessivi contenuti del DDL Sicurezza proprio in rapporto alla attuale, grave, condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Dal mio, pur limitato, osservatorio, riscontro una condizione di sovraffollamento che non accenna a diminuire e il cui impatto grave sulla capacità degli istituti penitenziari di sviluppare percorsi risocializzanti, necessari per integrare il precetto costituzionale dell’art. 27 terzo comma della Costituzione, e utili alla sicurezza della collettività, è purtroppo evidente nel clima di tensioni interne, suicidi, e crescente fatica di lavoratori e persone detenute, nell’intravedere lo scopo della detenzione e una prospettiva. C’è un problema di spazi, ma c’è soprattutto una assoluta carenza di risorse umane: non solo polizia penitenziaria, ma di educatori, mediatori culturali, psicologi e medici.
In un quadro come questo gli interventi contenuti nel d.l. 92/2024 non hanno portato, e non sono destinati a portare, un sollievo effettivo, ed in tempi rapidi, al quadro descritto.
Viceversa, il ddl “Sicurezza” introduce una serie piuttosto numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore della platea dei soggetti attinti dalla penalità. In ultima analisi si produrrà ancora più esecuzione penale e ancora più carcere, a risorse del carcere invariate. La scelta cade ancora una volta su un uso vasto del diritto penale e, tra le opzioni sanzionatorie, ancora una volta su pene detentive, senza di fatto immaginare pene diverse dal carcere, ad eccezione di quelle pecuniarie.
La ricetta del carcere viene proposta rispetto a fattispecie molto diverse, in larga parte però relative a persone attinte a vario titolo da profili di marginalità sociale. È una utenza nota al mondo penitenziario, che però fa una enorme fatica ad offrire percorsi di integrazione, che sarebbero necessari, e che spesso deve limitarsi ad offrire branda e un po’ di vitto, in un contesto di crescente difficoltà di contrasto rispetto a degrado delle strutture.
2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore.
Passando alle specifiche disposizioni rivolte all’esecuzione penale, viene in primo piano l’art. 15, che prevede l’abrogazione di due commi dell’art. 146 cod. pen. e cioè le fattispecie di differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno. Le stesse ipotesi vengono trasfuse nell’art. 147, divenendo perciò ipotesi di differimento facoltativo della pena, soggetto ad una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che dovrà bilanciare il favor nei confronti del minore con la pericolosità sociale dell’interessata.
Per questa opzione è inserito un quinto comma che afferma che l’esecuzione penale non può essere differita sa dal rinvio derivi una situazione di “pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si tratta di una formula sostanzialmente mutuata dalla corrispondente fattispecie cautelare, in ordine alla quale una giurisprudenza della cassazione ritiene che le esigenze ricorrano anche “in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento” cfr. cass. 48999/2019.
La disposizione prevede ancora che, dove non possa aver luogo il differimento, l’esecuzione deve aver luogo presso un Istituto a custodia attenuata (Icam) se la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, e può avervi luogo, a meno che esigenze di eccezionale rilevanza non lo consentano, nell’ipotesi della madre di prole di età superiore ad un anno e inferiore a tre anni.
A fronte di un sistema normativo che negli anni, anche grazie agli interventi della Corte Costituzionale, ha progressivamente costruito un quadro di importanti tutele per la detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child” secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, l’intervento oggi proposto si pone in decisa controtendenza e segna inevitabilmente un arretramento rispetto al modello normativo sin qui proposto.
La Consulta ha per altro già riconosciuto come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che “l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico” (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).
Dal punto di vista tecnico, anche a normativa vigente, è possibile intervenire rispetto al differimento obbligatorio, prevedendo che lo stesso sia surrogato da una detenzione domiciliare, con ciò quindi tenendosi conto della necessità di contenere una pericolosità sociale della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. In nessun caso però può prevedersi la permanenza in carcere, sia pure presso un Icam. Si tratta di una previsione che affonda le radici nel codice penale scritto in epoca fascista, e che ha costituito fino ad oggi un baluardo culturale importante, qualificante, dei principi e dei valori che l’ordinamento tutela.
Da un esame della giurisprudenza formatasi in materia cautelare, quindi, c’è da attendersi dalla modifica normativa, se interverrà, che un certo numero di donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno faranno accesso ai nostri istituti penitenziari, aumentando il numero di bambini che vi nasceranno o vi trascorreranno i primi anni di vita. Non credo ci sia bisogno di dilungarsi sulle gravissime conseguenze che questo comporta rispetto al superiore interesse del minore, che in nessun caso può mai essere quello di permanere all’interno di una struttura penitenziaria.
Occorre per altro rappresentare che gli ICAM sono pochissimi nel territorio nazionale. Ciò significa che la permanenza in carcere inevitabilmente distaccherà le madri dai loro territori, e questo distacco significherà anche distacco dai nuclei familiari presenti, e da eventuali altri minori, seppur di età più adulta, che resteranno privati di una madre da loro fortemente allontanata. Vi è il rischio di far vivere alla donna detenuta drammatici conflitti, anche psicologici, tra prosecuzione della gravidanza e cura del minore neonato e inevitabile allontanamento dal nucleo familiare e dagli altri affetti sul territorio.
Vi è la certezza di far sobbarcare al dolente mondo carcerario il peso di persone che avranno uno speciale bisogno di assistenza psicologica e di supporto medico specialistico, con aggravio importante degli obblighi conseguenti in capo a tutti gli operatori coinvolti.
La misura della detenzione domiciliare si è appalesata in questi anni efficacissima per contemperare le contrapposte esigenze in campo. Un grave problema è stato piuttosto costituito dalla assenza di domicili idonei per alcune donne incinte o madri. In tal senso si dovrebbe potenziare il ricorso a case famiglia protette, già previste dalla legge, ma di fatto scarsissime sui territori (credo di conoscere l’esistenza di due sole case del genere in tutta Italia).
Segnalo che, dal punto di vista tecnico, come anche evidenziato nel dossier elaborato dal Senato, la previsione contenuta nel nuovo art. 147 co. 5 può dare adito a dubbi circa la possibilità di provvedere a surrogare il differimento con la detenzione domiciliare, prima che prevedere l’ingresso in ICAM. Andrebbe chiarito che vi è comunque sempre la possibilità di accedere, ove possibile, a quella diversa forma di esecuzione della pena (ai sensi dell’art. 47-ter co. 1-ter ord. penit.).
3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.
Qualche rapida considerazione sull’introduzione dell’art. 415-bis in materia di rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. Per quanto concerne la rubrica dell’articolo mi permetto di osservare che alcune possibili azioni per la maggior sicurezza degli istituti penitenziari sarebbero senz’altro immaginabili, ma le stesse appartengono soprattutto al novero degli interventi di potenziamento delle risorse umane e di quelle materiali, anche attraverso la dotazione di moderni e sicuri sistemi che schermino gli stessi rispetto alle comunicazioni via telefono cellulare, attraverso moderni scan personali come quelli in uso negli aeroporti, mediante la dotazione di elettricità idonea nelle camere detentive, per la sostituzione dei pericolosi fornelli a gas con fornelli elettrici etc. etc.
L’intervento qui immaginato ruota, invece, soprattutto sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. Molto si è già detto sulla parte della disposizione che fa riferimento anche a “condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Mi permetto di aggiungere la mia voce critica su questa previsione che, intanto, appare di difficile interpretazione e foriera di dubbi applicativi, anche per la scarsa determinatezza di espressioni utilizzate come il “contesto”, nozione decisamente troppo vaga per una previsione penale. Più in generale mi pare che la criminalizzazione della resistenza passiva, al pari di quella attiva, con distinguo tecnici difficilmente percepibili dall’utenza, possa creare effetti di paradossale escalation e possa rivelarsi un boomerang. Il momento in cui vi è infatti in atto una forma anche collettiva di resistenza passiva è quello del dialogo, quello in cui le migliori forze dell’amministrazione penitenziaria, in primis i Direttori, possono risolvere tutto senza danni più gravi. Lo scivolamento nell’area della penalità, invece che nell’ambito già segnato dalle sanzioni disciplinari, è a mio avviso grave dal punto di vista culturale ma anche assai controproducente dal punto di vista operativo.
È inoltre previsto l’inserimento di queste fattispecie: art. 415 e 415 – bis nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit., seppure nella c.d. seconda fascia. Ciò significa l’accesso inevitabile al carcere, a prescindere dal quantum di pena irrogata, e più elevate quote per poter accedere ad alcuni benefici penitenziari. Da tempo la dottrina ha posto mente alla necessità di uno snellimento dei cataloghi di reati contenuti nell’art. 4-bis ord. penit., in particolare per quelli che non hanno riferimento alla criminalità organizzata. Il legislatore ha tenuto conto di questo invito, in questi anni, soltanto con la lege 199/2022 di conversione del decreto legge c.d. “anti rave”, ma lo ha fatto esclusivamente per gli autori di reati contro la pubblica amministrazione (i c.d. colletti bianchi). La disposizione normativa si muove in senso distonico rispetto a questo obbiettivo di snellimento, determinando un effetto carcerogeno che, per come detto, è piuttosto drammatico a fronte dell’attuale condizione del mondo penitenziario. Indipendentemente dal quantum di pena irrogata, infatti, per chi ha commesso questi reati le porte del carcere si schiuderanno per un nuovo ingresso, o più probabilmente faranno prorogare il tempo di permanenza.
La strada già tracciata da alcuni anni di incremento delle fattispecie di reato proprio della persona detenuta tende a trasformare sempre di più il carcere in un luogo violento, dal quale si rischia di non uscire, perché si può incorrere in ulteriori reati, oltre quello per cui ci si è entrati. L’esperienza maturata con riguardo alla criminalizzazione del possesso e uso di un telefono cellulare ha per altro evidenziato come possa accadere che siano condannati per questi reati i soggetti più deboli, cui altri detenuti addossano la responsabilità dei fatti, con accertamenti molto difficili per l’autorità giudiziaria. È un meccanismo che potrebbe ripetersi anche qui, coinvolgendo in prima linea persone con disagio psichico, purtroppo largamente presenti nei nostri istituti penitenziari. Io credo che, invece, al carcere dovremmo guardare come a un luogo che, attraverso la valorizzazione delle individualità, non butta la chiave, ma cerca di trovarla. La chiave per restituire all’esterno persone migliori di quelle che sono entrate.
4. In materia di dotazione di videocamere.
Nell’art. 21 del d.d.l. è contenuta una disposizione relativa alla dotazione di videocamere al personale delle Forze di polizia. Si tratta di una disposizione senz’altro condivisibile. Tuttavia mi permetto di sottolineare la necessità di maggiore chiarezza rispetto ai contenuti del comma 2, secondo il quale “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza”. Il perimetro della disposizione, come per altro già sottolineato nel corso di audizioni che mi hanno preceduto, sembra riferibile a luoghi diversi dall’istituto penitenziario. E tuttavia la genericità della previsione imporrebbe di comprendere meglio. Da un lato infatti è stato segnalato da alcuni anni come per tutta una serie di spazi all’interno del penitenziario sia necessaria la presenza delle telecamere a garanzia di lavoratori e persone detenute. La Commissione Ruotolo nel 2021, istituita presso il Ministero della Giustizia, sottolineava l’urgenza di provvedere al più capillare completamento della dotazione, ancora carente in alcune carceri. Dall’altro occorre mettere in conto come una continua videosorveglianza, per persone detenute all’interno delle loro camere, ove non giustificata da peculiari ragioni, finirebbe per avere, a lungo protratta nel tempo, gravi effetti psicologici (andrebbe quanto meno aggiunto un riferimento alla necessità che l’uso della videocamera avvenga nel rispetto della dignità delle persone detenute o internate, affinché le stesse siano collocate in modo da non ritrarne le parti intime, ad esempio nel locale adibito ai servizi igienici). Sembra quindi necessario che la materia sia affrontata con maggior dettaglio. Soprattutto, appare fondamentale che la possibilità di utilizzare le videocamere non sia mai letta come facoltà di non utilizzarle, perché questo finirebbe per risolversi in un arretramento di tutela rispetto a un luogo, come il carcere, che è necessario sia trasparente a garanzia di tutti.
5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Soltanto per completezza meritano un cenno le disposizioni che si vogliono introdurre in materia di lavoro penitenziario e di apprendistato professionalizzante, rispetto alle quali, al di là di formulazioni particolarmente tecniche, e quindi di difficile lettura, può cogliersi un indirizzo positivo, che tuttavia merita di essere coltivato in concreto, sia mediante le modifiche regolamentari cui si rinvia, sia soprattutto attraverso un incremento significativo delle risorse, a fronte di un lavoro intramurario che continua a vedere impegnato un numero troppo esiguo di detenuti, per un numero troppo esiguo di ore settimanali ed in attività che non hanno orizzonti professionalizzanti.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.