Sommario: 1. Nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli - 2. Le idee nazionaliste e i gruppi etnici “allogeni”. - 3. Dopo la Seconda guerra mondiale - 4. Il dovere della Memoria
1. Nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli.
La questione delle nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli copre secoli di storia, ancor più antica è la determinazione possibile dei loro confini territoriali.
Quando si volge lo sguardo a quel territorio che ha come limiti la Carinzia e il Friuli a nord, la Macedonia egea e bulgara a sud, per affacciarsi poi in Dalmazia e Istria sull’Adriatico ci si imbatte, come afferma Joze Pirjevec nel suo bel libro “Serbi Croati Sloveni” edito dal Mulino nei primi anni Novanta del secolo scorso, in uno scontro drammatico di popolazioni, civiltà, religioni che per la sua complessità ha pochi eguali nella storia del mondo.
Dopo la conclusione del Primo conflitto mondiale con la conferenza di pace di Parigi del 1919 nacque il regno dei serbi, dei croati e degli sloveni che, per volontà di Alessandro I Karađorđević, si chiamò Iugoslavia.
L’unificazione “a tavolino” di popoli e culture tanto diverse (cattolici i croati, ortodossi i serbi, musulmani i bosniaci) produsse ben presto gravi conflitti interetnici proprio mentre in Italia la crisi del dopoguerra trovava il suo sbocco nell’avvento del fascismo prima come movimento politico, poi come regime totalitario.
Già a partire dal 1919 l’Italia vittoriosa e forte del Patto di Londra del 1915 chiedeva per sé vasti territori in quelle zone di confine come testimonia la “questione fiumana” e l’avventura di Gabriele D’Annunzio che la notte tra l’11 e il 12 settembre del 1919 con i suoi volontari occupò Fiume, instaurò la cosiddetta reggenza del Carnaro e proclamò l’annessione della città all’Italia.
Lo “staterello” fiumano durò quindici mesi durante i quali il poeta vate ne progettò una Costituzione e si impegnò a organizzare plateali manifestazioni patriottiche quasi coreografiche anticipazioni delle adunate fasciste (solo Giolitti col trattato di Rapallo nel ’25 liquidò la questione fiumana e la città fu riconosciuta libera sia dall’Italia sia dalla Iugoslavia).
2. Le idee nazionaliste e i gruppi etnici “allogeni”.
Negli anni Venti, mentre si consolidavano le idee nazionaliste, non si accettava che entro i confini della “Patria” potessero esistere gruppi etnici “allogeni”. Il comportamento delle autorità fu dettato dalla pretesa di una rapida assimilazione di quelle popolazioni alle quali si cercò in ogni modo di togliere non solo le personalità più rappresentative ma pure le organizzazioni che potevano contribuire a mantenerne viva la coscienza e l’identità culturale.
Gli intellettuali, ma anche maestri, professori, impiegati, furono costretti all’emigrazione, mentre scuole, biblioteche ed enti culturali venivano chiusi. Uno dei momenti più drammatici fu quello del luglio 1920 quando fu incendiato il centro culturale sloveno di Trieste. Questo processo si concluse nel ’27 con la proibizione da parte del regime fascista di ogni attività politico-culturale. A questo punto la seconda fase mirò direttamente alla snazionalizzazione e alla “bonifica etnica” col divieto di usare la propria lingua madre perfino nel suo ultimo rifugio: la Chiesa!
Non si possono qui analizzare per intero le tappe di questa lunga e tormentata vicenda delle popolazioni slave di confine costrette o all’emarginazione o alla diaspora. Tutti i provvedimenti furono attuati nonostante il trattato di Rapallo del 1925 avesse stabilito, in ottemperanza ai principi di nazionalità e di autodeterminazione, i rispettivi confini e sovranità.
3. Dopo la Seconda guerra mondiale
La fine della Seconda guerra mondiale, sulla base del recente passato, avrebbe potuto garantire la pace in quei territori?
La repressione Mussoliniana di sloveni e croati attuata nei Balcani dopo l’occupazione militare del 1941 ebbe come effetto l’inasprimento della resistenza antifascista pure in Istria, il territorio riconosciuto all’Italia dopo la Prima guerra mondiale le cui coste erano per lo più abitate da italiani ricchi di una lunga tradizione di civile convivenza con gli slavi. La lotta antifascista si innescò sulla contrapposizione italo-slava alimentata dal regime fascista per l’intero ventennio e diventò tristemente nota come “questione adriatica”.
L’esercito comunista di Tito occupò l’Istria e poi tutta la Venezia Giulia, territori rivendicati perché di tradizione slava.
Questa rivendicazione, almeno all’inizio, trovò appoggio nel Partito Comunista Italiano ma non venne accettata dagli altri partigiani del luogo decisi a difendere i territori italiani dalle mire espansionistiche di Tito. Essi si organizzarono e questo portò alla spaccatura del movimento partigiano con effetti drammatici come l’eccidio di Porzûs, quando fra il 7 e il 18 febbraio del ’45 furono uccisi diciassette partigiani delle brigate Osoppo da partigiani gappisti. Tra loro anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo.
La discussione storiografica su quell’evento è ancora materia di dissidio e di interpretazioni controverse circa il rapporto tra il Partito Comunista Italiano, i comunisti di Tito e la stessa Unione Sovietica. Sta di fatto che nonostante l’opposizione dei partigiani delle Brigate Osoppo l’esercito titino raggiunse Trieste il 1° maggio del 1945, due giorni prima degli Alleati che poi costrinsero le forze di occupazione iugoslave a ritirarsi dal Friuli Venezia Giulia, ma non dall’Istria.
Da quel momento iniziò nell’Istria una lunga serie di azioni violente considerate di “pulizia etnica” da parte iugoslava al fine di liberare il territorio da ogni presenza italiana: esecuzioni di massa dei cittadini, gettati poi vivi o morti nelle più di 1500 cavità naturali prodotte dall’acqua nella roccia carsica dette “foibe”, termine che deriva dal latino fovea ovvero fossa.
Furono forse più di 15mila ad esservi gettati: donne, bambini, giovani, vecchi senza distinzione di idee purché italiani. Si trattò certamente dell’estremo frutto del nazionalismo e del modo di Tito di intendere e realizzare l’ideologia comunista, ma fu anzitutto esecrabile vendetta sulla popolazione italiana inerme.
Gli slavi che avevano subito oppressione e gravissime perdite nella guerra di liberazione risposero con la stessa ferocia ponendo le basi di rancori e recriminazioni mai veramente sopite nonostante la condanna unanime di quei fatti e le relazioni politiche ristabilite nella pace.
4. Il dovere della Memoria
Ricordare e commemorare le Foibe è dovere civile. Creare le condizioni perché i nuovi nazionalismi non abbiano spazio sarà possibile solo in una Europa dei popoli che ancora bisogna impegnarsi a costruire.
Senza questa determinazione le commemorazioni, questa ed altre, rischiano di trasformarsi in retorica celebrativa che è tutto il contrario della memoria storica dolorosa e condivisa.