ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo (nota a Cons. st., sez. II, n. 8546/2020)?
di Marco Mazzamuto
Sommario: 1. Premessa. – 2. I limiti tradizionali nelle classiche controversie di diritto pubblico. – 3. Le zone di intreccio col diritto privato. – 4. Il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato: la giurisdizione esclusiva e la responsabilità. – 5. Concorso di strumenti pubblicistici e privatistici. Rilievi critici. – 6. La subdola parità di fronte al giudice amministrativo. Rilievi critici. 7. Il caso della pronuncia in commento. 8. Conclusioni.
1. Premessa.
Una recente pronuncia (Cons. st., sez. II, n. 8546/2020) costituisce l’occasione per fronteggiare un tema tradizionalmente poco approfondito, ma che è andato emergendo in modo significativo in questi ultimi venti anni: la ricorrenza di azioni della pubblica amministrazione contro un privato innanzi al giudice amministrativo.
Nulla impedisce in linea di principio che l’amministrazione possa promuovere un giudizio contro un privato, così come nulla impedisce in linea di principio che l’amministrazione possa presentare un ricorso al giudice amministrativo. E’ sufficiente ricordare, nel primo caso, l’instaurazione di un giudizio civile[1], e, nel secondo caso, l’impugnazione, in via principale o in via incidentale, di un atto di altra amministrazione[2].
Ciò che si presenta oggi è tuttavia quella che sembrerebbe un’inusuale combinazione, ovvero sia che l’amministrazione agisca contro un privato, questa volta, non di fronte al giudice ordinario, bensì di fronte al giudice amministrativo, mentre il ricorso a quest’ultimo tradizionalmente ha sempre sembrato presupporre che la parte resistente fosse una pubblica amministrazione, tanto è vero che, ancora alla fine del secolo scorso, si ricordava che “la dottrina … la ritiene un'affermazione scontata e ciò, sia se si controverta in sede di giurisdizione generale di legittimità, sia in sede di giurisdizione esclusiva”, riconoscendo che in effetti “tutto il processo è organizzato intorno alla figura dell'amministrazione, parte resistente”[3]. Anche negli odierni manuali di questo ordine di problemi si continua ad avere ben poca traccia.
Non sarebbe però corretto affermare che siffatta inusuale combinazione costituisca un’assoluta novità. Nella storia del contenzioso amministrativo, come vedremo, se ne possono trovare riscontri, sia con riferimento alla tradizione francese, sia con riferimento alle vicende del nostro ordinamento.
2. I limiti tradizionali nelle classiche controversie di diritto pubblico.
Se si guarda alle classiche controversie pubblicistiche, che involgono cioè l’impugnazione di atti amministrativi, non è difficile comprendere perché non si trovino azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo.
In primo luogo, a parte di recente l’organo indiretto, a mente di una famosa pronuncia (Cass. s.u. n. 12221/1990), o più ampiamente i soggetti “equiparati” alla p.a.[4], dove il privato viene comunque rivestito di una coloritura pubblica, e a parte il controinteressato che non può in effetti considerarsi in senso stretto un resistente[5], il privato vero e proprio, che mantiene cioè integra tale sua qualità, non adotta atti amministrativi, sicché manca l’oggetto contro il quale rivolgere il ricorso. Per tale ragione non si può dunque dare il caso di un ente pubblico che impugni un atto amministrativo del privato, così come invece sarebbe possibile nei confronti di un atto amministrativo adottato da un’altra amministrazione.
In secondo luogo, l’amministrazione, per far valere una pretesa pubblicistica nei confronti del privato, non deve agire contro quest’ultimo passando per l’intermediazione del giudice amministrativo, ma esercita direttamene i poteri che le conferisce l’ordinamento.
Così, se intende adottare un provvedimento sfavorevole al privato, a seguito di un procedimento d’ufficio o ad istanza di parte, l’amministrazione non deve prima chiedere al giudice amministrativo di accertare la sussistenza dei relativi presupposti, bensì adotta motu proprio il provvedimento.
Anzi nella logica del sistema, l’amministrazione non solo non deve, ma anche non può adire il giudice amministrativo, poiché è ad essa che l’ordinamento attribuisce, quantomeno in prima battuta, la responsabilità di provvedere. Così non meno nella tradizione francese, ove “le autorità amministrative hanno l’obbligo di esercitare i poteri di cui sono investite”, sicché un loro ricorso al giudice amministrativo sarebbe irricevibile[6].
Sul piano processuale ciò è ben rappresentato dal principio, sempre di origine francese, della cd. décision préalable, che si atteggia appunto a condizione di ricevibilità del ricorso, e che, tra i cugini d’oltralpe, continua a mantenere tutto il suo vigore, coinvolgendo anche le azioni di responsabilità o volte comunque ad ottenere il pagamento di una somma di danaro[7]. Anche nel nostro ordinamento, ciò trova da ultimo conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, nell’art. 34, comma 2, c.p.a. “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”[8]. Un analogo modello possiamo tutt’oggi ritrovare nella giustizia tributaria, pur sempre figlia della tradizione del contenzioso amministrativo[9].
Il principio della décision préalable è normalmente evocato con riguardo al ricorso del privato, ma, a ben vedere, esso deve non meno riferirsi all’amministrazione, costituendo il naturale corollario della suddetta responsabilità: non solo il privato, ma neanche l’amministrazione può presentare previamente un ricorso al giudice amministrativo in ordine all’esercizio dei poteri che le competono.
E’ vero che può ravvisarsi una deroga nel caso del silenzio, almeno da quando nel nostro ordinamento quest’ultimo è stato inteso, sviando dalla tradizione francese sin lì seguita, come silenzio-inadempimento e non più come diniego tacito, nonché da ultimo, ma a certe condizioni, nella sopravvenuta possibilità di accertare la “fondatezza della pretesa” (art. 31, comma 3, c.p.a.). Deve tuttavia ritenersi che siffatte deroghe, che comunque confermano il principio, possano valere soltanto in caso di ricorso del privato, mentre il principio dovrebbe mantenere del tutto integra la sua portata interdittiva riguardo ad un’azione dell’amministrazione.
L’amministrazione non può dunque chiedere un accertamento su un potere non ancora esercitato né in via di azione, né in via di reazione ad un ricorso presentato dal privato.
I poteri pubblicistici non si fermano al primo provvedere e ciò refluisce nuovamente nella prospettiva processuale.
Se intende annullare d’ufficio un proprio provvedimento, l’amministrazione non deve, ma anche non può chiedere previamente al giudice amministrativo di accertare la sussistenza dei relativi presupposti, bensì adotta motu proprio il provvedimento di autotutela.
Ciò vale, anche qui, sia in via di azione, sia in via di reazione, e similarmente al sistema francese[10]: se, ad es., un concorrente impugna la graduatoria lamentando una clausola del bando, l’amministrazione, a differenza di un controinteressato, non potrebbe, con ricorso incidentale e al fine di rimuovere il parametro evocato dal ricorrente principale, impugnare siffatta clausola, bensì, trattandosi di un proprio atto (il discorso sarebbe diverso se si trattasse di atto di altra amministrazione), avrebbe dovuto provvedere con i poteri di autotutela[11].
I poteri pubblicistici non si fermano neanche al provvedere, di primo o di secondo grado, ma investono altresì l’esecuzione del provvedere.
Come è noto, grazie al principio di esecutorietà, unitamente al potere pubblicistico di emanare propri titoli esecutivi, l’amministrazione non deve[12], ma di regola, parimenti alla tradizione francese del privilège du préalable[13], anche non può a tal fine rivolgersi previamente al giudice amministrativo, ma porta direttamente ad esecuzione i propri provvedimenti.
La proiezione sulle vicende dell’esecuzione costituisce in qualche misura un’inevitabile conseguenza della logica del sistema. Ciò fa comprendere perché negli ordinamenti giuspubblicistici, anche in prospettiva comparata, non abbia mai avuto risultati apprezzabili l’idea di riportare l’esecutorietà ad un principio di tipicità normativa. Non diversa sorte ha avuto, nel nostro ordinamento, l’art. 21-ter della legge n. 241/1990[14], la cui previsione, non a caso, è stata sostanzialmente tralasciata dalla giurisprudenza[15].
Ma allora, se non quelle pubblicistiche, quali dovrebbero essere mai le controversie nelle quali l’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo?
Qui il discorso si complica e la linearità dello schema appena rappresentato viene investito dalle ambiguità che caratterizzano quelle zone di confine nelle quali le fattispecie pubblicistiche rimesse alla giurisdizione del giudice amministrativo vengono esposte ad un ritorno di odori privatistici.
3. Le zone di intreccio col diritto privato.
Sono proprio queste zone di confine il luogo elettivo di eventuale emersione delle azioni delle amministrazioni contro il privato, come se, qua e là, possano attivarsi meccanismi che riconducono in qualche misura alla dinamica, anche processuale, dei rapporti privatistici.
Da lungo tempo nella tradizione francese questo fenomeno è emerso nell’ambito del ricorso di piena giurisdizione, dove entravano in campo vicende contrattuali o attinenti alla responsabilità. Ovviamente ciò presupponeva la competenza del contenzioso amministrativo in quel percorso che conduceva alla enucleazione della categoria dei contrats administratif, distinti dai meri contratti di diritto privato, nel contesto dunque di una pubblicizzazione, che però lasciava evidentemente aperto qualche spazio a logiche processuali privatistiche.
Significativo al riguardo è anche il rapporto col principio della décision préalable. La coloritura pubblicistica del modello processuale è sempre stata invero prevalente, tanto che, come ricorda già Laferrière, il suddetto principio vale anche per gli actes de gestion, oggetto di piena giurisdizione, e non solo per gli atti actes de puissance publique, ma vi erano delle eccezioni, come nel caso delle domande d’indennità per danni causati nei travaux publics o dell’estrazione dei materiali[16]. Possono anche ricordarsi le azioni dell’amministrazione relative alle cd. contraventions de grande voierie per danni cagionati dal privato al demanio, risalenti alla legge 29 floréal anno X e ancora contemplate nel diritto vigente (L774-1 ss CJA)[17].
Non si può qui approfondire una materia alquanto complessa, anche dal punto di vista storico, bastando confermare che nella giustizia amministrativa francese ben possono ravvisarsi svariate azioni dell’amministrazione contro il privato, e anche in via riconvenzionale. Per qualche esempio: azioni di responsabilità dell’amministrazione per i danni causati al Comune dall’impresa incaricata di lavori pubblici (CE 30/10/1964, Cne Ussel), azioni di condanna del privato ad evacuare il demanio pubblico (CE 4/2/1976, Elissonde), azioni di condanna ad un facere che l’amministrazione non ha il potere di imporre al contraente o concessionario (CE 13/7/1956 Office HLMde la Seine, 30/10/1963, Sonetra), azioni riconvenzionali dell’amministrazione contro le pretese di un contraente privato (CAA Paris, VII, 29/12/2017, 16PA01978) o chiamate in garanzia da parte dell’amministrazione per il risarcimento dei danni (CAA Lyon, VI, 26/11/2009, 06LY02008) o ancora azioni di rivalsa nei confronti dei funzionari amministrativi (action récursoire), come nel caso di una faute personnelle (CE 12/12/2008, n. 296982; già CE 28/07/1951 Laruelle et Delville). Anzi, sembra che, nei tempi recenti, persino l’ordinamento francese non sia rimasto del tutto immune alle sirene della “civilizzazione”. Se significativa era già l’esistenza di una eccezione risalente per i crediti di origine contrattuale[18], è andata emergendo una tendenza ad espandere questa eccezione, sino a farvi rientrare un’azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale in ragione dell’attitudine dolosa dell’impresa[19].
A ben vedere, anche il nostro ordinamento, nel corso del XIX sec., si stava muovendo nel solco della medesima tradizione d’oltralpe e non a caso non manca una casistica di azioni dell’amministrazione contro il privato, già prima dell’unificazione, nelle “materie” del contenzioso amministrativo in senso stretto, ove i relativi organi esercitavano una funzione giurisdizionale (Real Patenti 31 dicembre 1842 e Real Editto 29 ottobre 1847): così, ad es., può ravvisarsi una causa promossa dalla Comunità di Monticelli contro dei privati in ordine al fatto che una strada rientri tra quelle comunali (Consiglio d’Intendenza Generale di Salluzzo, sentenza 30 giugno 1846, in Rivista amministrativa del Regno, 1850, 115); della Comunità di Giaveno contro degli imprenditori privati in ordine ad un'opera pubblica, se siano tenuti pei danni dipendenti dalla rovina dell'opera medesima (Consiglio d'Intendenza di Torino, sentenza 10 novembre 1849, ivi, 1851, 652). Tale possibilità non aveva dunque ostacoli di principio, per quanto ritenuta meno ricorrente rispetto all’azione del privato, rimanendo semmai ferma la necessaria presenza nella lite di una parte pubblica: “non si può neppure concepire contenzioso amministrativo, dove fra le parti contendenti non si trovi l’Amministrazione, e la questione non verta intorno a materia amministrativa, qual è, come il più spesso avviene, il riclamo di un privato che da un atto amministrativo pretendasi leso nei suoi diritti” (R. Camera dei conti, 2 aprile 1859, ivi, 1859, 405)[20].
Perché oggi si ha allora la sensazione di una novità, bisognosa di un’apposita disamina?
Quelle zone grigie iniziano a dissolversi a seguito della legge abolitiva del contenzioso del 1865. E’ questo il vero scrimen che potrebbe giustificare storicamente la progressiva disparizione nel nostro ordinamento delle azioni dell’amministrazione contro i privati di fronte alla giustizia amministrativa. Se non ottenne alcun apprezzabile risultato sul versante del sindacato sui provvedimenti amministrativi –i quali, prima con la distinzione tra atti di impero e di gestione e poi mutatis mutandis con la degradazione dei diritti soggettivi, rimasero sostanzialmente fuori dalla porta dei tribunali-, il modello della giurisdizione unica determinò pur sempre un irrigidimento nella contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato, soprattutto nel tentativo di riportare nel proprio alveo fattispecie che, dai tempi della Rivoluzione francese, si riteneva fossero state strappate ai tribunali da parte del contenzioso amministrativo[21].
Non a caso nella nostra tradizione si acuirà la distinzione tra atti unilaterali e bilaterali ai fini qualificatori. Si abbandonerà così la possibile via francese dei contrats administratif, in quanto il contratto è soltanto quello di diritto privato, e specularmente la qualificazione pubblicistica dovrà sempre comportare la presenza di un atto unilaterale, il provvedimento amministrativo. Ed infatti quando, a cavallo tra XIX e XX sec., ritornerà il vento della pubblicizzazione, non sarà sufficiente affermare che un contratto di locazione di un bene pubblico è un contratto di diritto pubblico, ma, più radicalmente, dovrà trasformarsi il titolo del rapporto in un provvedimento concessorio.
Ma proprio questo irrigidimento può far comprendere un ulteriore passaggio. Le zone grigie avrebbero potuto ricostituirsi con l’avvento nel 1923 delle materie di giurisdizione esclusiva, se non fosse che, a ben vedere, attraverso tali norme processuali sulla giurisdizione, non solo, come era inevitabile (similarmente ai contrats administratif rimessi al contenzioso amministrativo francese), si finì per avallare una pubblicizzazione sostanziale del rapporto[22], ma non si lasciò alcuno spazio per significative contaminazioni privatistiche. L’unica eccezione furono i “diritti patrimoniali conseguenziali”, che, appunto per questo, rimanevano però fuori dalla giurisdizione del giudice amministrativo.
Si prenda il caso emblematico del pubblico impiego, sulla cui natura giuridica (pubblicistica, privatistica o mista) da decenni si disquisiva: non solo il titolo, ma anche gli atti di gestione del rapporto di lavoro divengono atti “amministrativi”. Il punto di equilibrio con l’origine privatistica, al fine di evitare che il mutamento della qualificazione potesse importare una diminuzione della tutela, ha soltanto bisogno di un piccolo accorgimento, ossìa l’invenzione degli atti amministrativi “paritetici”, la cui impugnazione è sottratta al breve termine decadenziale. Niente di più.
In tal modo, la “materia” ha finito per essere attratta nello schema generale dell’esercizio dei poteri pubblicistici, anche se si parli di atti paritetici e diritti soggettivi, e soprattutto, nella prospettiva processuale, in una sostanziale riproduzione del principio della décision préalable. Anche per quegli aspetti del rapporto dove poteva risuonare l’origine privatistica, ad es. quelli di natura puramente patrimoniale, l’amministrazione non ha bisogno di rivolgersi ad un giudice, ma adotta una decisione, che verrà eventualmente impugnata dal privato, pur, nel caso di atto paritetico, con quella diversa modulazione del termine. Ancor oggi possiamo trovarne le tracce: l’amministrazione nega taluni emolumenti economici e l’interessato chiede l’annullamento degli atti paritetici, benché si osservi che si tratta di una sostanziale azione di accertamento (Tar Lazio Roma II quater n. 12821/2020).
In altre parole, la giurisdizione esclusiva, per lunghi decenni, non sembra aver dato occasione di fare emergere azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo, in quanto il modello delle controversie pubblicistiche, pur con delle modulazioni, ha costituito la cornice nella quale rigorosamente ambientare, anche in tali zone grigie, i rapporti tra privato, azione amministrativa e processo amministrativo.
Tutto questo fa comprendere come le vicende recenti possano in qualche modo apparire come una novità.
4. Il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato: la giurisdizione esclusiva e la responsabilità.
Le premesse per il ritorno delle azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo possono, grosso modo, collocarsi a partire dagli anni novanta del secolo scorso.
Invero, già in precedenza, si era mosso qualcosa di significativo, ma dettato da esigenze pratiche specifiche e non tale ancora da determinare un mutamento di paradigma sul piano sistematico, anche perché non frutto di condivisione tra le giurisdizioni. Si trattò, non a caso, di un’iniziativa della Cassazione in materia di pubblico impiego, che, da un lato, affermò che l’ente pubblico datore di lavoro, per la ripetizione di somme, o non potendo o non volendo avvalersi degli strumenti di attuazione coattivi conferiti dall'ordinamento, è facultato ad esperire i rimedi giurisdizionali ordinari, d’altro lato, che, sussistendo la giurisdizione esclusiva, tali rimedi vanno presentati al giudice amministrativo, ivi compreso il procedimento ingiuntivo (Cass. S.U. n. 1580/1970, n. 6442/1979, n. 8207/1987, n.14215/2002). Posizione invece non condivisa dal Consiglio di Stato, che dichiarerà il proprio difetto di giurisdizione, statuendo altresì che l’amministrazione non può proporre azioni dinanzi al giudice amministrativo (Cons. st. VI n. 991/1987)[23].
La ragione fondamentale per un più deciso ritorno delle azioni dell’amministrazione è, a nostro avviso, da ravvisare nella forte pressione, specie al livello dottrinario, esercitata in vista di una qualche “civilizzazione”, più o meno intensa, del diritto amministrativo e della giustizia amministrativa, cui ha anche concorso il sopravvenire di tematiche nuove, come quella della responsabilità, nel nostro ordinamento tradizionalmente ricondotta all’ambito degli istituti privatistici e alla giurisdizione del giudice ordinario. Tutto questo a partire dall’indimostrato ed errato presupposto che la civilizzazione comporterebbe un rafforzamento della tutela del cittadino[24], mentre vi sarebbe semmai da temere esattamente il contrario.
Si determina così un evidente salto di qualità sia rispetto a quell’irrigidimento determinato dalla legge del 1865, sia rispetto ad una assorbente colonizzazione pubblicistica delle materie di giurisdizione esclusiva. Non si tratta più e soltanto di utilizzare, qua e là, frammenti di origine privatistica, opportunamente assorbiti, con eventuali modulazioni, nel “sistema” giuspubblicistico. In quella che oggi viene indicata come una “osmosi” tra diritto pubblico e diritto privato (ad es. di recente Cons. st II n. 7237/2020), l’interferenza dei riferimenti privatistici inizia ad assumere, quantomeno rispetto al passato, una maggiore densità e autonomia: non si ha così remore, per fare un esempio, ad affermare che, nonostante una convenzione di lottizzazione abbia natura pubblicistica, siano applicabili gli istituti privatistici della risoluzione contrattuale (Tar Lazio Roma IIbis n. 13229/2020). Ben inteso: tutto ciò va misurato e circoscritto nella sua effettiva portata, non potendosi in alcun modo accedere a certe vulgate dottrinarie che molto superficialmente ritengono con un tratto di penna di poter cancellare o ridurre al lumicino la contrapposizione tra sistema pubblicistico e sistema privatistico.
Un punto di partenza potrebbe essere ravvisato nella previsione degli “accordi” della legge sul procedimento (artt. 11 e 15 L. n. 241/90), rimessi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tali accordi, da un lato, spezzano la rigida contrapposizione tra atti unilaterali (pubblicisici) e atti bilaterali (privatistici), riaprendo la porta ai contratti di diritto pubblico, d’altro lato, contengono un espresso rinvio al codice civile (“si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”).
Sul finire degli anni novanta si allunga l’elenco delle materie di giurisdizione esclusiva e si attribuisce al giudice amministrativo il risarcimento dei danni, ampliando così le potenziali zone di confine. La legge n. 205/2000 diviene anche occasione per rivedere più ampiamente la disciplina del processo amministrativo con primi momenti di apparentamento col processo civile.
E’ il caso della previsione che introduce il decreto ingiuntivo: “Nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale, si applica il capo I del titolo I del libro IV del codice di procedura civile” (art. 8 L. n. 205/2000). In applicazione della legge, si conferma da subito che possa essere anche l’amministrazione ad agire, come si evince ad es. nel caso di un Comune che chiede il decreto ingiuntivo nei confronti di un concessionario (ad es. Tar Lazio Roma II n. 6525/2002), con ciò riprendendo l’orientamento già emerso in Cassazione. Specularmente emerge altresì la possibilità che l’amministrazione non solo si opponga al decreto ingiuntivo chiesto dal privato, e sin qui, come è noto, nella veste, in quanto opponente, di convenuto sostanziale, ma possa altresì, e questa volta nella veste di attore anche sostanziale, unire all’opposizione una domanda riconvenzionale (ad es. Tar Lazio Roma II n. 8581/2001; Tar Toscana II n. 613/2002).
Si incomincia così a respirare una nuova aria, come testimonia l’avvento di scritti più decisamente aperti all’ingresso di azioni dell’amministrazione. E’, ad esempio, il caso della dottrina già citata[25] che, alla luce del D.lgs. 80/98 (poi dichiarato incostituzionale), guarda all’intero versante delle materie di giurisdizione esclusiva e pone, a al tal fine, l'esigenza di una rivisitazione strutturale della disciplina processuale. Emblematico è anche lo scritto di un giudice amministrativo[26] che si interroga espressamente sulla possibilità di applicare nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dei giudizi risarcitori istituti processualcivilistici, ed in particolare la domanda (ed eccezione) riconvenzionale e la chiamata in giudizio del terzo. Non si nega il dubbio sulla “ammissibilità di una domanda che venga proposta dinanzi al giudice amministrativo da una amministrazione contro un privato; e ciò con specifico riferimento alla tradizionale nozione della giustizia amministrativa quale strumento di «tutela nei confronti della pubblica amministrazione» (art. 103 cost.)”, ma, significativamente, si afferma che “l'attuale stato di evoluzione della giustizia amministrativa, con attribuzione di giurisdizione esclusiva su «tutte le controversie» relative a materie amplissime (ad es., servizi pubblici ex art. 33, d. lg. n. 80 del 1998) e la trasformazione della nozione di giurisdizione esclusiva quale «giurisdizione piena» sui rapporti, consente, a mio avviso, di superare tale rilievo preliminare”.
Non sorprende così che da quel momento prenderanno corpo svariati riscontri giurisprudenziali nel segno di riconoscere in linea generale la possibilità di un’azione dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrativo. Ma non meno deve sorprendere che vi siano stati anche momenti iniziali di difficoltà o di rigetto di una siffatta prospettiva, come nel caso in cui si è recisamente affermato che la legge n. 205/2000 “non ha modificato affatto la struttura generale del processo amministrativo, che resta - come da tradizione inveterata - un processo ad azione unilaterale” (Tar Lazio Roma I n. 10442/2004).
Limitiamoci a qualche significativa esemplificazione, sino al coinvolgimento dello stesso giudice delle leggi.
In una lite definita nel 2007 (Cons. st. IV n. 6358/2007), un comune chiedeva la risoluzione per inadempimento di una convenzione e il risarcimento dei danni contro una cooperativa nell’ambito di interventi per l’edilizia economica e popolare. Ricondotta la fattispecie alla giurisdizione esclusiva in materia di concessioni (art. 5 legge Tar) o anche di accordi di diritto pubblico (art. 11 l. n. 241/1990), il giudice accoglieva l’azione di risoluzione per inadempimento, qualificata ai sensi dell’art. 1454 c.c. e rigettava, nel merito, quella di risarcimento per mancata prova del danno.
In un caso definito nel 2010 (Cons. st. VI n. 20/2010), in materia di appalti, l’azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale dell’impresa veniva fronteggiata da una speculare domanda riconvenzionale, tramite ricorso incidentale, dell’amministrazione. La pronuncia affronta direttamente la questione, e dando per scontato, secondo l’unanime giurisprudenza di allora (Cass., sez. un., n. 5084/2008), che la giurisdizione esclusiva in materia di procedimenti di affidamento dei contratti pubblici comprendesse anche la lesione di diritti soggettivi derivanti da atti o comportamenti amministrativi, si chiede se “se la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle procedure di affidamento abbracci pure le azioni a titolo di responsabilità precontrattuale proposte dalle amministrazioni pubbliche nei confronti delle controparti private, per condotte scorrette nella fase delle trattative contrattuali”. Sulla scorta del precedente del 2007 si statuisce che “se la giurisdizione esclusiva abbraccia il rapporto tra p.a. e privato, essa non può essere unidirezionale e perciò riferita esclusivamente alle azioni del privato nei confronti della p.a., ma deve necessariamente essere bidirezionale ed estesa anche alle azioni della p.a. nei confronti del privato, che siano, come nella specie, conseguenza immediata e diretta delle prime”. In tale direzione si metteva in campo anche “il principio di concentrazione delle tutele”, atteso che “diversamente ragionando, una vicenda unitaria, come quella per cui è processo, che postula una cognizione unitaria, verrebbe in modo irrazionale e antieconomico portata alla cognizione di due diversi ordini giurisdizionali, con il rischio di contrastanti giudicati” e si evocava una non nuova giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale, ad eccezione del principio della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, “se in una data materia sono proposte due azioni connesse, una rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’altra in astratto rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario, la prima azione attrae anche la seconda alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., n. 14805/2009).
Il codice del processo amministrativo del 2010 conferma l’ammissibilità dell’azione riconvenzionale, dedicandovi un’espressa disciplina e risolvendo definitivamente il problema della forma di tale azione, che viene ricondotta allo schema del ricorso incidentale (art. 42 c.p.a.).
Di lì a poco sarà il turno dell’Adunanza plenaria (n. 28/2012), che, oltre ad asseverare la giurisdizione esclusiva su una controversia promossa dall’ente pubblico “concernente l’osservanza degli obblighi assunti dal privato nei confronti dell’ente locale, in connessione con l’assegnazione di aree comprese in un piano di zona, volti alla realizzazione di opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi”, avrà modo significativamente di affermare:
-che, in sede di giurisdizione esclusiva, il g.a. “là dove vengano in discussione questioni su diritti, come è per l’appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario”, ritenendo così ammissibile l’azione della stessa amministrazione ai sensi dell’art. 2932 c.c., al fine di garantire il passaggio alla proprietà pubblica delle aree promesse dal privato;
-che non è accoglibile “la tesi secondo cui l’effetto dell’acquisizione delle aree in questione avrebbe potuto essere conseguito dall’amministrazione pubblica utilizzando i propri poteri autoritativi, quale l’acquisizione d’ufficio: a tacer d’altro, è sufficiente al riguardo rilevare che l’eventuale possibilità di esperire poteri amministrativi non rende di per sé inammissibile la proposizione di una domanda giudiziale”.
Questo orientamento non poteva non porre dubbi di costituzionalità, stante, almeno prima facie, il tenore letterale dell’art. 103 c. 1 cost.: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione”. Ovviamente il punto non riguardava più l’ammissibilità di tale tutela nei confronti di soggetti “equiparati” all’amministrazione, sulla quale vi era stato già l’avallo del giudice delle leggi (C. cost. n. 204/2004), bensì una tutela esperita dall’amministrazione nei confronti di un privato vero e proprio.
Anche in tal caso, tuttavia, il giudice delle leggi ha concesso il suo beneplacito:
-“sebbene gli artt. 103 e 113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni – da ciò non deriva affatto che tali giurisdizioni siano esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla pubblica amministrazione; tanto più ove si consideri che essa storicamente e istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse pubblico, così come definito dalla legge”;
-“l’ordinamento non conosce materie ‘a giurisdizione frazionata’, in funzione della differente soggettività dei contendenti. Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi della concentrazione delle tutele che è propria della giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti il giudice amministrativo” (C. cost. n. 179/2016).
L’assist del giudice delle leggi viene subito colto dal Consiglio di Stato (III n. 3755/2016), che, a conferma della propria precedente giurisprudenza, ammette l’esperimento da parte dell’amministrazione o, come nel caso di specie, da parte di un organismo di diritto pubblico di un’azione di responsabilità precontrattuale contro il privato per la mancata stipula del contratto.
Significativa è altresì una successiva statuizione dell’Adunanza plenaria (n. 2/2017). Di contro a taluni precedenti, che ammettevano ex art. 2055 c.c. un’azione risarcitoria del privato non solo contro la p.a. ma, in solido, anche nei riguardi del controinteressato (Cons. st. VI n. 115/2012 e n. 529/2012), si pone un limite all’espansione, sotto il profilo soggettivo, della giurisdizione amministrativa, nel senso che essa non può comprendere liti tra privati, pur connesse a vicende pubblicistiche. La disciplina costituzionale non impedisce dunque azioni della p.a. contro il privato, ma esige pur sempre che nella controversia sia parte una pubblica amministrazione, evocando in tal senso anche la giurisprudenza della Cassazione che aveva poco prima affermato la giurisdizione del giudice ordinario in ordine ad un’azione risarcitoria avverso il funzionario, sul presupposto appunto che “l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati” (Cass., sez. un., n. 19677/2016).
Se non liti tra privati, come del resto già affermavano gli antichi organi del contenzioso amministrativo, ancora un volta si assevera, sul piano dei limiti costituzionali, la possibilità di un’azione dell’amministrazione contro un privato. Rimane impregiudicato, in mancanza di una domanda in tal senso, se la p.a. non potesse, di fronte allo stesso giudice amministrativo, esercitare un’azione di regresso nei confronti del controinteressato in ragione del risarcimento dovuto al ricorrente, ma sembrando lasciare intendere che una siffatta azione sarebbe stata ammissibile.
Tale pronuncia è non meno rilevante perché valorizza il giudizio di ottemperanza anche nei confronti del privato ai sensi dell’art. 112, c.1, c.p.a. (“I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti”):
“La norma è coerente con la constatazione che in moltissimi casi l’esecuzione in forma specifica del giudicato richiede, in particolare se si tratta di attuarne gli effetti restitutori e ripristinatori, oltre all’azione dell’amministrazione, l’ingerenza nella sfera giudica e materiale di soggetti privati, specie nel caso in cui sono stati destinatari di provvedimento favorevoli poi annullati e devono, per effetto del giudicato, adempiere ad obblighi –a ben guardare meramente conseguenziali o riflessi – restitutori e ripristinatori.
Escludere in tali casi la giurisdizione amministrativa solo perché vi è il coinvolgimento indiretto (e inevitabile) di soggetti privati vanificherebbe la funzione del giudizio di ottemperanza e, con essa, il valore fondamentale dell’effettività del giudicato (corollario del principio, di rango costituzionale ed europeo, del diritto di azione in giudizio)”.
E’ vero che l’Adunanza sembra qui fare riferimento a ricorsi dei privati, ma è evidente che, una volta ricondotti gli stessi privati nel novero dei soggetti passivi dell’ottemperanza, si presti il fianco alla possibilità dell’esecuzione di una pronuncia frutto di un’azione dell’amministrazione.
Il cerchio potrebbe così chiudersi: l’amministrazione può agire contro il privato di fronte al giudice amministrativo sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, rectius di ottemperanza.
Va evidenziato al riguardo che anche nell’ordinamento francese è emersa di recente la possibilità che il giudice amministrativo emetta delle astreintes a carico del soggetto privato[27].
Da ultimo, con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato, muovendosi sulla scorta della citata giurisprudenza, sviluppa con tutta ampiezza l’idea della “bilateralità direzionale delle tutele” (Cons. st., sez. II, n. 8546/2020). Se l’Adunanza plenaria (n. 5/2018) ha esteso la latitudine della responsabilità precontrattuale da comportamento dell’amministrazione, vorrà dire che la stessa azione di fronte al giudice amministrativo potrà essere esperita con la medesima latitudine dall’amministrazione contro il privato. Non solo: alla bilateralità si accompagna l’idea di una qualche specularità del regime giuridico, usata, nel caso di specie, a favore del privato sotto il profilo del requisito soggettivo della responsabilità. Si giunge così più generalmente ad affermare che “merita condivisione” e anzi “in un’accezione ancora più estesa” l’assunto del giudice di prime cure per il quale “al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, debbano comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza a parti rovesciate”.
Ovviamente questo orientamento, nell’anfratto della responsabilità, dovrà fronteggiare le diverse propensioni emerse in materia di riparto di giurisdizione nella recente giurisprudenza del giudice della giurisdizione. Qui non si tratta tanto della possibilità che la Cassazione si mostri avversa alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nei riguardi di un’azione dell’amministrazione contro il privato, sia perché è stata proprio la Cassazione che, come abbiamo visto, ha aperto questa breccia, sia perché il punto è stato affrontato e superato dal giudice delle leggi. La questione attiene ad altro angolo di visuale: stabilire cioè a chi spetti la giurisdizione sulla responsabilità precontrattuale. E se, a parte la responsabilità da provvedimento illegittimo, la Cassazione, di contro al giudice amministrativo, ritiene che la responsabilità da comportamento della p.a. spetti al giudice ordinario, lo stesso, nella logica del giudice della giurisdizione, non potrà a fortiori che affermare per il caso inverso, cioè della responsabilità da comportamento del privato nei confronti della p.a.. In altre parole, l’azione della p.a. per far valere la responsabilità precontrattuale nei confronti del privato dinanzi al giudice amministrativo sarebbe da escludere non in quanto tale, sulla base cioè di presunti limiti generali che segnerebbero i presupposti soggettivi del processo amministrativo, bensì in quanto, in tale specifico ambito, quello appunto della responsabilità precontrattuale, ci sarebbe la giurisdizione del giudice ordinario[28].
5. Concorso di strumenti pubblicistici e privatistici. Rilievi critici.
Costituisce una questione risalente lo stabilire se, in presenza di strumenti pubblicistici, l’amministrazione possa o meno ricorrere in alternativa a strumenti privatistici. Non si può dire che, in termini di diritto positivo, si sia mai formata al riguardo una regola uniforme, né ci appare che possa considerarsi dirimente la propensione di questi ultimi decenni ad asseverare in termini generali una siffatta alternatività, se non come ulteriore segno, tutto da misurare nei suoi effetti di diritto positivo, degli orientamenti (in sé discutibili) volti a valorizzare il diritto privato.
Ancor oggi ad es. l’amministrazione non potrebbe stipulare un contratto di diritto privato nelle categorie di dipendenti rimaste nell’alveo pubblicistico o non potrebbe dare in uso un bene demaniale tramite un contratto di locazione in luogo di un provvedimento concessorio[29]. Allo stesso tempo, invece, ai fini ad es. dell’acquisizione della proprietà di un immobile, l’amministrazione ancor oggi potrebbe esperire un procedimento pubblicistico di espropriazione, ma potrebbe anche, appunto in alternativa, stipulare un normale contratto di compravendita.
La risposta diviene ancor più complicata non appena si entri nei meandri del rapporto costituito, sia in ordine a momenti modificativi, sia in ordine a momenti esecutivi.
Così, in presenza di titoli privatistici, le vicende del rapporto possono vedere la presenza di poteri pubblicistici che si accompagnano all’ordinario strumentario privatistico (si pensi, ad es., ai poteri di autotutela in materia di contratti pubblici che concorrono con le cause privatistiche di risoluzione) o possono vedere, anche se l’origine dell’obbligo è privatistica, il ricorso a strumenti di esecuzione alternativi a quelli di diritto comune (ad es. le procedure amministrative di riscossione coattiva dei crediti erariali).
Allo stesso tempo, in presenza questa volta di titoli pubblicistici, le vicende del rapporto, anche in sede esecutiva, possono vedere la presenza di rimedi privatistici che si accompagnano all’ordinario strumentario pubblicistico. Addirittura, nel caso della responsabilità, stante la sua qualificazione tradizionale, il rimedio è solo privatistico.
E’ proprio in quest’ultimo ambito che può entrare in campo il giudice amministrativo, sempre che abbia giurisdizione, poiché, ogni qual volta la presenza di momenti privatistici conduce alla giurisdizione ordinaria, usciamo fuori dal nostro tema, essendo d’altra parte tradizionalmente scontato che l’amministrazione possa agire contro il privato di fronte al giudice civile.
Due sono dunque i presupposti, a fini del nostro discorso, per l’entrata in campo il giudice amministrativo: l’emersione di istituti privatistici in rapporti di diritto pubblico e la giurisdizione del giudice amministrativo. Nel momento in cui ricorrono tali presupposti, potrebbe farsi avanti la logica processuale privatistica ed aprire così la porta, in via principale o riconvenzionale, alle azioni dell’amministrazione contro il privato.
Il primo presupposto esige che, nell’ambito di fattispecie pubblicistiche, si ritenga possibile l’applicazione di istituti privatistici in quanto tali.
Torniamo, per capirci, alle materie di giurisdizione esclusiva. Sin quando i rapporti concernenti tali materie, dove possono prospettarsi zone di confine, sono stati in toto assorbiti nel paradigma pubblicistico, non vi è stata ragione alcuna per prospettare azioni dell’amministrazione, ma, nel momento in cui quella tendenza alla “civilizzazione”, cui si accennava, ha determinato in qualche misura una riesumazione tout court, non più cioè assorbita nel sistema pubblicistico, di istituti privatistici, le cose suonano diversamente.
Si prenda il caso citato del 2007. Siamo certamente nell’ambito di una fattispecie pubblicistica, e pur tuttavia si ritiene di poter applicare la risoluzione per inadempimento della convenzione ai sensi dell’art. 1454 c.c., sicché non si ha remore ad ammettere che la relativa azione possa essere esercitata anche dall’amministrazione.
E ancora, la nuova arrivata, la responsabilità, per come discutibilmente intesa ancor oggi, ha natura privatistica. Così, nel caso citato del 2010, non si ha remore ad ammettere, nel caso di specie in via riconvenzionale, che la relativa azione possa essere esercitata anche dall’amministrazione. Ovviamente la reciprocità tra privato e amministrazione potrà darsi riguardo alla responsabilità da comportamento, non anche per quella da provvedimento, poiché, come si è detto, il privato non adotta atti amministrativi.
Il secondo presupposto esige che, anche per tali aspetti, si ritenga sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo. Ove invece si neghi tale giurisdizione, come potrebbe essere riguardo all’attuale querelle in materia di responsabilità da comportamento, il nostro problema, come dicevamo, cade in radice, rientrandosi nel solco tradizionale di un’azione dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice ordinario.
Resta da chiedersi se, di fronte al giudice amministrativo, l’apertura ai rimedi privatistici nei rapporti di diritto pubblico, o, più esattamente, a rimedi privatistici che rimangono tali, e che proprio per questo inducono alla reciprocità delle azioni, sia la soluzione preferibile. A nostro avviso, deve darsi una risposta negativa sia per l’interesse pubblico, sia per i rapporti tra amministrazione e giustizia amministrativa, sia soprattutto per lo stesso interesse del cittadino, cui deve darsi primaria attenzione.
L’intermediazione giurisdizionale costituisce un sicuro fattore di rallentamento dell’azione amministrativa e potrebbe comportare un’alterazione dei tradizionali e delicati equilibri tra giustizia e amministrazione dagli esiti imprevedibili.
Ma andiamo, per quel che più importa, al cittadino. Potrebbe sembrare più vantaggioso che le pretese dell’amministrazione si colorino di venature privatistiche e passino per l’intermediazione giurisdizionale. A ben vedere vi è proprio da pensare il contrario.
Anzitutto, non ci stancheremo mai di ricordare che la qualificazione privatistica e la tanto vantata condizione di paritarietà determinano una caduta della tutela, poiché il regime privatistico non consente di sottoporre l’atto dell’amministrazione agli stringenti canoni della legalità pubblicistica. L’aggettivo “paritario” è tanto suggestivo quanto traviante, poiché ciò che conta è appunto il regime giuridico: vero è invece che la propensione a qualificare un atto come autoritativo (di per sé pura fantasia ontologica dei giuristi) o più semplicemente come atto di diritto pubblico non è segno di autoritarismo, bensì è l’astuzia che consente di sottoporre l’amministrazione al (di gran lunga) più garantista regime di diritto pubblico. Il sistema giuspubblicistico costituisce invero un gigantesco diritto diseguale, sostanziale e processuale, volto a compensare la diseguaglianza di fatto che intercorre tra l’amministrazione e il cittadino.
Si potrebbe ancora opporre l’argomento della intermediazione giurisdizionale. Qui soccorrono già i motivi della dottrina francese a favore del principio della décision préalable: il cittadino potrebbe ottenere un risultato dall’amministrazione, evitando il processo; la vicenda che porta alla previa decisione amministrativa delimita i contenuti della lite, non solo facilitando il compito del giudice[30], ma anche, a nostro avviso, evitando che il cittadino si ritrovi un reazione processuale soverchiante dell’amministrazione a tutto campo. Non dissimile è del resto la ratio garantista che ha condotto tradizionalmente ad affermare il divieto di integrazione processuale della motivazione.
Nell’insieme il punto è questo: è molto più facile per un cittadino contrastare, e con la stringente legalità pubblicistica, una decisione dell’amministrazione che incorpori l’affaire, quale che ne sia il suo contenuto, e senza pericolo di un allargamento del contenzioso, che difendersi direttamente in un giudizio dove amministrazione e cittadino lottano ad armi pari, con la logica sostanziale e processuale del diritto privato.
In questo, ci piace evocare una pregevole pronuncia del giudice amministrativo, le cui massime andrebbero valorizzate e che merita dunque di essere ampiamente rievocata:
“la pubblica amministrazione ha la possibilità di valersi, da un lato, di strumenti specifici attribuiti in virtù della potestà pubblica, e dall’altro, degli stessi sistemi di tutela del privato, che transitano necessariamente attraverso la verifica giurisdizionale della pretesa. E’ necessario quindi procedere ad una valutazione del rapporto esistente tra le due opzioni operative, verificando quali siano i limiti di fungibilità tra le diverse procedure e se le eventuali diversità riverberino sul potere cognitivo del giudice adito.
Rileva la Sezione che non possa sostenersi una generale alternatività dei mezzi a disposizione della pubblica amministrazione.
In primo luogo, occorre evidenziare in generale la maggiore incisività dello scrutinio del giudice amministrativo nei casi di esercizio del potere, rispetto ai rapporti connotati da profili di pariteticità, quanto meno sotto il profilo della valutazione dell’effettiva funzionalizzazione dell’attività, che implica, tra l’altro, anche la considerazione dei motivi che spingono l’azione della Pubblica amministrazione. Il che permette di ritenere che l’eventuale preferenza per il modulo di tutela contro l’attività autoritativa risponda anche ad esigenze di tutela di maggiore incisività. La funzionalizzazione dell’attività pubblica permette la valorizzazione dei motivi del comportamento della Pubblica amministrazione ed il sindacato esterno sulla globalità dell’intervento, con uno schema di maggiore penetrazione nelle dinamiche decisionali dell’ente pubblico, venendo quindi a svolgere un compito che non necessariamente importa una diminuzione di tutela del privato. L’eventuale attribuzione di un doppio ordine di garanzie in favore della pubblica amministrazione, la quale potrebbe avvalersi dell’uno o dell’altro sistema in base ad una propria arbitraria decisione, non aumenterebbe quindi le garanzie del soggetto amministrato ma le diminuirebbe, permettendo alla parte pubblica di scegliere il modulo in relazione alla propria convenienza ed evitando eventualmente profili di illegittimità o, come potrebbero emergere nel caso, di decadenza connessi al canale pubblicistico.
In secondo luogo, va considerato il valore cogente della normativa. In particolare, va sottolineato come, ove il legislatore abbia esplicitamente previsto l’utilizzo di un determinato procedimento, evidenziandone le garanzie connaturate, l’impiego di strumenti alternativi determini la messa in ombra della scelta medesima... L’attribuzione di un determinato potere alla parte pubblica e la contemporanea attribuzione di correlative posizioni soggettive ai privati non è senza esito, ma ne impone l’utilizzo in quanto, opinando diversamente, si renderebbe vana la predisposizione del modulo procedimentale da parte del legislatore.
Dalla serie di motivi sopra tratteggiati, emerge come non possa essere consentito alla pubblica amministrazione, in presenza di un potere pubblicistico, di agire anche ed indifferentemente alla stregua dell’operatore di diritto privato, quando ciò possa portare all’elisione di ulteriori garanzie procedimentali e pubblicistiche. In questo senso, la presenza di una potestà per il raggiungimento di un determinato risultato impone alla parte pubblica l’utilizzo del modulo autoritativo attribuitole e renda impossibile il ricorso alle ordinarie facoltà riservate ai privati”. (Cons. st. IV n. 2618/2011)[31].
Ben vengano dunque a tutto campo, de iure condito o de iure condendo, le qualificazioni pubblicistiche, la non alternatività degli strumenti privatistici, il principio della décision préalable e l’estromissione, nella giustizia amministrativa, dell’uso di istituti privatistici in quanto tali.
6. La subdola parità di fronte al giudice amministrativo. Rilievi critici.
Se l’ingresso di una logica privatistica determina un caduta della tutela del cittadino, cui viene così sottratto il ben più potente armamentario pubblicistico, non va sottovalutato un altro, e per certi versi, più sottile pericolo, e cioè che quel potente armamentario venga rivolto contro il cittadino.
In altre parole, nel primo caso, il cittadino si ritrova gli spuntati rimedi privatistici, nel secondo caso, si ritrova, con autentico capovolgimento, a subire i penetranti rimedi pubblicistici.
L’argomento non può essere qui approfondito poiché significherebbe parlare di tutto il processo, ma è sufficiente qualche domanda esemplificativa.
Possiamo pensare che il metodo acquisitivo dell’istruttoria processuale, nato per compensare la posizione di debolezza del privato, possa pienamente spiegarsi a tutto campo nei confronti di quest’ultimo, parimenti a come trova tradizionale applicazione nei confronti dell’amministrazione?
Possiamo pensare che il primato della tutela in forma specifica, che informa la giustizia amministrativa, e l’effetto conformativo, che di quel primato è espressione, possano altresì rivolgersi contro il privato?
Possiamo pensare che il penetrante strumento dell’ottemperanza, che ancora di quel primato costituisce corollario in sede di esecuzione, possa essere utilizzato contro il privato, magari con la nomina di un commissario ad acta che al privato si sostituisca?
Questi interrogativi dovrebbero già far comprendere come ci vorrebbe un’estrema prudenza nell’avallare generici proclami di “parità” tra le parti nel processo amministrativo, se non si vuole far diventare questo straordinario sistema di giustizia sorto a tutela del cittadino un autentico Giano bifronte al servizio della pubblica amministrazione.
7. Il caso della pronuncia in commento.
Il caso oggetto della pronuncia in commento si ricollega a quanto appena osservato, sebbene in un’ambientazione privatistica, dato che è in questa l’ambientazione che la giurisprudenza continua (discutibilmente) a collocare il tema della responsabilità nei rapporti di diritto pubblico.
Nella tradizione la responsabilità dell’amministrazione è sempre stata oggetto di un regime più rigoroso, risolvendosi l’illegittimità in una culpa in re ipsa: anzi è proprio questa la ragione che la risalente dottrina, da Vacchelli a Romano o a Cammeo, accampava per giustificare la necessità di addivenire ad una responsabilità di diritto pubblico, affrancata dal paradigma privatistico. Come è noto, oggi, a parte i vincoli del diritto UE, a correzione della infausta riesumazione della colpa da parte della Cassazione (n. 500/1999), la giurisprudenza amministrativa è attestata attorno all’idea di una presunzione relativa.
Il giudice ci dice, come si è visto, che “merita condivisione” e anzi “in un’accezione ancora più estesa” l’assunto del giudice di prime cure per il quale “al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, debbano comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza a parti rovesciate”. E con ciò si giustifica che anche la responsabilità precontrattuale del privato esiga l’accertamento del profilo soggettivo.
Pur salvifico, negli esiti, per il privato, è l’approccio che tuttavia non convince.
Verrebbe subito da dire che è del tutto normale che occorra il profilo soggettivo per la responsabilità del privato, e secondo i criteri ordinari, mentre è del tutto normale che invece tale profilo sia sottoposto ad un regime più rigoroso riguardo all’amministrazione. Ci appare dunque alquanto incongruo che, a “parti rovesciate”, il modello utilizzato per l’amministrazione venga utilizzato come parametro di quello utilizzato per il privato.
Si vuole forse che il modello più rigoroso utilizzato per l’amministrazione valga anche per il privato, ossìa una parificazione in peius per quest’ultimo?
Né affatto ci tranquilizza questa facilità con la quale si prospetta potenzialmente un ricorso in termini di generalità a siffatto schema delle “parti invertite” (“in un’accezione ancora più estesa”).
8. Conclusioni.
Anche questa nuova tematica delle azioni dell’amministrazione contro il privato di fronte al giudice amministrazione costituisce l’ennesima dimostrazione dei danni che possono arrecare al sistema della giustizia amministrativa e soprattutto alla tutela del cittadino le ventate “civilizzanti” di questi ultimi decenni.
E’ bene invece che la “logica” del diritto privato rimanga fuori dal processo amministrativo e che non si vada mai al di là, secondo tradizione, dell’utilizzo occasionale di questo o quell’altro istituto o frammento normativo, ben inteso, non in quanto tale e con la logica segnata dal sistema di provenienza, ma sempre attraverso una rimodulazione interna all’ordito giuspubblicistico.
Forse a tal fine sarebbe alquanto opportuno rivalorizzare l’origine amministrativa del reclutamento dei consiglieri di Stato, mentre quello attuale sembra invece pendere oltre misura a favore di soggetti provenienti dalla giurisdizione ordinaria, con una qualche inevitabile propensione ad un inquinamento privatistico della giustizia amministrativa.
[1] Più latamente, può anche evocarsi il giudizio di responsabilità amministrativa. Per quanto rimesso all’azione della procura contabile, è comunque significativo che la giurisprudenza contabile ammetta un qualche spazio d’iniziativa processuale dell’amministrazione: "l'Ente che si presume danneggiato (può) partecipare alla definizione della vertenza, che lo vede indubbiamente interessato, nella forma dell'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, col quale l'Ente stesso non fa valere un diverso autonomo diritto e nemmeno uno dipendente da quello oggetto del giudizio in corso, ma si limita a sostenere le ragioni del requirente contabile, avendone un evidente interesse” (C. conti, Sezioni Riunite n. 1/2003; da ult. C.conti d’appello, sez. III, n. 86/2020).
[2] M. Mazzamuto, Liti tra pubbliche amministrazioni e vicende della giustizia amministrativa nel secolo decimonono, in Dir. proc. amm., 2019, 344 ss.
[3] E. Follieri, Il privato parte resistente nel processo amministrativo nelle materie i cui agli artt. 33 e 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, in Dir. proc. amm., 1999, 635-6.
[4] Ma già nella giurisprudenza francese, oltre al caso in cui il concessionario eserciti un potere autoritativo, T.C 8 juillet 1963 Société entreprise Peyrot, dove un contratto tra un concessionario privato e un’impresa privata è considerato un contratto amministrativo, in quanto concluso dal concessionario per conto dello Stato (cd. eccezione dell’azione pour le compte de), vedi CE, 10 mars 1971, Maurin, n. 76482; CE, 3 juin 2009, Sté Aéroports de Paris, n. 323594. Più di recente è emersa tuttavia una tendenza a restringere la portata di tale eccezione, facendo salva una qualificazione privatistica del rapporto contrattuale: TC, 9 juill. 2012, Cie générale des eaux, n. 3834, TC, 16 juin 2014, Sté d’exploitation de la Tour Eiffel n. 3944.
[5] E. Follieri, op. cit., 638, riguardo al controinteressato, e 644: l’organo indiretto “è resistente in quanto, nell'espletamento dell'attività diretta a scegliere il contraente, è parte «pubblica». Si tratta, dunque, di una apparente eccezione al principio che parte resistente debba essere un soggetto pubblico”.
[6] R. Chapus, Droit du contentieux administratif, Parigi, 2011, 351; già CE 30 maggio 1913 Préfet de l’Eure.
[7] “La giurisdizione non può essere adita che per via di ricorso formato contro una decisione, e questo, nei due mesi a partire dalla notificazione o dalla pubblicazione della decisione attaccata.
Allorché la domanda tende al pagamento di una somma di danaro, essa non è ricevibile se non a seguito dell’intervento della decisione presa dall’amministrazione su una domanda preventivamente presentatale” (R421-1 CJA). Persino la tradizionale eccezione dei lavori pubblici è stata di recente rimossa dal legislatore.
[8] M. Mazzamuto, Il principio del divieto di pronuncia con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati, Dir. proc. amm., 2018, 67 ss.
[9] Si tratta infatti di un processo che non può riguardare liti tra privati, ma che ha per oggetto l’impugnazione di un atto amministrativo, sicché non sono ammesse azioni dell’amministrazioni né in via diretta, né in via riconvenzionale: vedi, con i relativi riferimenti giurisprudenziali, F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 58 ss..
[10] Nel sistema francese già CE, Ass., 1er juin 1956, ville de Nîmes c/ Pabion: l’amministrazione “non può formare un ricorso contro sé stessa” in via riconvenzionale.
[11] Da ultimo, invero, R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in www.federalismi.it, 2017, ha sostenuto che, in conseguenza della riforma Madia, “la previsione di un termine perentorio per illegittimo esercizio di un potere di annullamento d’ufficio potrebbe produrre l’effetto di ampliare il perimetro di esperibilità del ricorso incidentale da parte delle amministrazioni resistenti in giudizio”. Una siffatta e innovativa prospettazione non sembra però avere riscontri giurisprudenziali e il cui avvento, a nostro avviso, non è nemmeno augurabile, sulla scorta delle perplessità già evidenziate da M. Del Signore, L' amministrazione ricorrente. Considerazioni in tema di legittimazione nel giudizio amministrativo, Torino, 2020, 38: “Si tratta di comprendere se così ricostruito il ricorso incidentale non finisca per rappresentare un’ipotesi di abuso di diritto. La scelta del legislatore di precludere all’amministrazione di intervenire su atti ampliativi oltre un certo limite temporale, e la conseguente valutazione in favore della necessità di una tutela privilegiata dell’affidamento del cittadino, verrebbe infatti stravolta attraverso l’espediente del ricorso incidentale”.
[12] E. Follieri, op. cit., 638: “del tutto non necessario ed inutile è il ricorso al giudice da parte della pubblica amministrazione che, attraverso l'esercizio dei poteri autoritativi, si impone ai destinatari della sua azione, con atti esecutivi ed esecutori, regolando il rapporto”.
[13] Da ult., CE 24 février 2016, n° 395194, département de L’Eure: “è irricevibile la domanda di una collettività pubblica al giudice amministrativo perché pronunci una misura ch’essa ha il potere di prendere. In particolare, le collettività territoriali, che possono emettere titres exécutoires nei confronti dei loro debitori, non possono adire direttamente il giudice amministrativo con una domanda tendente al recupero del loro credito”.
[14] F. Saitta, Articolo 21 ter, in N. Paolantonio, A. Police e A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 445
[15] Vedi al riguardo l’approfondita panoramica di G. Grüner, Il principio di esecutorietà del provvedimento amministrativo, Napoli, 2012, il quale peraltro ben evidenzia come il tentativo di scimmiottare l’ordinamento inglese fosse anacronistico, poiché anche in quell’ordinamento con l’avanzare del diritto amministrativo l’esecutorietà si era da tempo incardinata.
La giurisprudenza continua tutt’oggi a parlare di un “principio” di esecutorietà, trovando anche argomento nel combinato disposto degli artt. 2, comma1, e 21-quater della stessa legge: “al dovere di concludere il procedimento, previsto dall’art.2, comma 1, l. n.241/1990, si accompagna l’art. 21-quater della legge medesima, il quale dispone che ‘i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente’, sicché l’applicazione congiunta delle due disposizioni configura, in esplicazione del principio di esecutorietà dei provvedimenti amministrativi – ossia, della loro idoneità ad essere eseguiti, direttamente e coattivamente, dall’amministrazione senza necessità di precostituire un titolo esecutivo giudiziale – un potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento.” (Cons. st., sez. VI, n. 2565/2013). V. di recente ex multis Tar Calabria Catanzaro, sez. II, n. 1500/2020; Tar Campania Napoli, sez. VIII, n. 4515/2019; Tar Puglia Lecce, sez. I, n. 1837/2019; Tar Sicilia Palermo, sez. II, n. 1029/2019.
[16] Già E. Lafferière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, Paris, 1887, I, 414 : “Bisogna guardarsi da una assimilazione troppo stretta tra il diritto privato e il diritto amministrativo. In diritto privato, una parte può sempre citare direttamente il suo avversario davanti ad un giudice al quale espone la propria pretesa… In diritto amministrativo, al contrario, la parte non può, in generale, citare direttamente in giudizio un’amministrazione pubblica dinanzi la giurisdizione amministrativa per fare giudicare de plano le sue pretese; egli non può che deferire gli atti, le decisioni dell’amministrazione che pretende contrari ai suoi diritti. Questi atti o decisioni sono in qualche sorta la materia prima del dibattito contenzioso, se non esistono, bisogna che la parte li provochi al fine di poterli denunciare al giudice .. il Conseil d'État è il giudice degli actes de gestion e degli actes de puissance publique emanati da l’amministrazione tutte le volte che un altro giudice non ha ricevuto la missione di conoscerne”.
In nota precisa: “Questa regola soffre eccezione in certe contestazioni sottoposte ai consigli di prefettura, che possono farsene carico de plano senza che una décision administrative préalable sia necessaria per la ricevibilità dell’azione (per esempio, le domande d’indennità per danni causati dai lavori pubblici; per l’estrazione dei materiali, etc.). Ma queste sono delle eccezioni che confermano la regola”.
In sede di ricostruzione storica del ricorso di piena giurisdizione di fronte al Conseil d’Etat, lo ricorda anche S. Cassese, Il diritto amministrativo: storia e prospettive, Milano, 2010, 129: “almeno nella materia contrattuale, la giurisdizione amministrativa opera nei due sensi, sia per un privato che proponga azione contro l’amministrazione, sia per l’amministrazione che proponga azione contro un privato”.
[17] Di recente, sembra riportare più ad una ragione “tecnica” che processuale l’origine di queste eccezioni, ovvero sia alla necessità, stabilita dalla legge, di rivolgersi ad un organo consultivo composto da ingegneri e capace di determinare il danno, J. Ziller, Verwaltungsgerichtsbarkeit: Frankreich, in A. von Bogdangy, P. Cruz Villalón and PM Huber (eds), Ius Publicum Europaeum, Band VIII. Grundlagen und Grundzüge staatlichen Verfassungsrechts, 2nd edn (Heidelberg, CF Müller), p. 205: “Con la legge del 28 Pluviôse dell'anno VIII (17 febbraio 1800), che ha portato alla riforma territoriale e amministrativa napoleonica (loi concernant la division du territoire de la République et l'administration), sono stati anche istituiti i Conseils de préfecture. In linea di principio, i ministri rimanevano giudici ordinari di primo grado (juges de droit commun de premier ressort) ma solo in modo residuale, perché gran parte delle controversie amministrative era in realtà assegnata a questi organi collegiali consultivi separati dalla cosiddetta amministrazione attiva, ossìa dagli organi con poteri decisionali.
Questa legge del 28 Pluviôse dell'anno VIII conferiva ai Conseils de préfecture, composti da ingegneri e amministratori, giurisdizione in materia di edilizia pubblica e ingegneria civile (travaux publics), imposte dirette e vendita di proprietà demaniale, e una legge del 29 Floréal dell'anno X (19 maggio 1802) le cosiddette contraventions de voirie (sanzioni amministrative per danni al demanio). Il CE era l'organo di appello sia per le decisioni dei ministri che per quelle dei Conseils de préfecture. Va notato che questo riparto della giurisdizione ha portato allo sviluppo di competenze legali e tecniche in materia di responsabilità nei Conseils de préfecture e nel CE, poiché essi dovevano risarcire i danni arrecati da privati al demanio, così come soprattutto i danni subiti da privati a causa di opere di ingegneria civile o a causa dello stato di strade, ponti ed edifici demaniali. Questo spiega perché fu facile per il Tribunal des Conflits nel caso Blanco nel 1873 affidare alla magistratura amministrativa la giurisdizione in materia di responsabilità pubblica”.
[18] Già CE 30 mai 1913 Préfet de l’Eure. Vedi le conclusioni di Luc Derepas nel caso Cne de Lattes del 2007 (2 juillet 2007, n° 294393): “la volontà di limitare il carattere unilaterale dell’azione amministrativa e la preoccupazione di lasciare ai meccanismi contrattuali tutto il loro spazio, compreso ciò che concerne il ruolo del giudice del contratto, vi ha portato a riconoscere la possibilità per l’amministrazione, parallelamente alla procédure de l’état exécutoire, di domandare a questo giudice di condannare il cocontrattante a pagare le somme che deve in applicazione della clausole contrattuali” .
[19] CE 24 février 2016, n° 395194, département de L’Eure, cit… Vedi anche le conclusioni di M. Gilles Pellissier che dà conto della progressiva espansione della evocata eccezione.
Non vanno inoltre dimenticate le espresse previsioni codicistiche che consentono di adire il juge des référés (R. 541-1 e R532-1 CJA).
[20] Già Consiglio d’Intendenza Generale di Alessandria, sentenza 6 marzo 1845, ivi, 1850, 127, riguardante opere praticate da un privato col mezzo di alzamento di diga in un fiume regale a danno di un terzo : “la contestazione si ridurrebbe tra privato e privato per interesse meramente privato, senza che siavi interessato quello del pubblico, per cui ne verrebbe che il tribunale amministrativo non potrebbe giudicare la controversia in così fatto modo stabilita, perché eccederebbe la sfera della sua competenza”. Tuttavia, non era un limite assoluto, come mostra l’articolo 22, n. 8 delle regie patenti 31 di cembre 1840, giusta il quale furono attribuite alla cognizione dei Consigli d'intendenza le controversie relative ai danni cagionati a terzi dal fatto degli imprenditori nell'eseguimento dei lavori pubblici dalle amministrazioni ordinanti, pur precisando Consiglio d’Intendenza Generale di Casale, sentenza 16 aprile 1845, ivi, 1850, 279, che doveva trattarsi di controversia insorta per danni provenienti da lavori “in attuale esecuzione”, e non quelli già “condotti a fine e collaudati”.
[21] Basti ricordare quanto affermato da Silvio Spaventa nel famoso discorso di Bergamo del 7 maggio 1880, in ciò che Egli riteneva di positivo nella legge abolitiva del contenzioso amministrativo: “abolire quell'istituto, nei termini in cui si trovava costituito poiché l'usurpazione mostruosa, che gli era stata permessa, di giudicare anche sopra controversie di puro privato diritto, - inter privator et fircum - non era più tollerabile, anche se ai suoi giudici fosse stata data l'indipendenza e le garentie di procedimento concesse e prescritte ai giudici ordinari”.
Non a caso, nelle riforme della seconda metà del XIX, si è visto recidere quel nesso tra obbligazioni e atti amministrativi presente sin dalle origini del contenzioso amministrativo: F. Merusi, Dal 1865 ... e ritorno ... al 1864. Una devoluzione al giudice ordinario della giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione a rischio di estinzione, in Dir. proc. amm., 2016, 671.
[22] Puntualmente E. Follieri, op. cit., 648, “È … accaduto che l'attribuzione delle materie in via esclusiva al giudice amministrativo, ha determinato una «pubblicizzazione» dei rapporti attraverso l'applicazione dei principi relativi all'azione autoritativa anche nel caso dei diritti soggettivi obblighi”. Vedi su questi sviluppi della giurisdizione esclusiva, M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008, 88ss..
[23] La vicenda è ben riportata da E. Follieri, op. cit., 649.
[24] E’ all’insegna di una siffatta discutibile vulgata che si basa, non a caso, tutto un impegno monografico per valorizzare la domanda riconvenzionale, A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004.
[25] E. Follieri, op. cit., 650 ss..
[26] S. Veneziano, Ampliamento dell’oggetto del giudizio “amministrativo” risarcitorio: domanda riconvenzionale e chiamata in giudizio del terzo, in Foro amm. TAR, 2002, 3081 ss..
Di lì a poco verrà pubblicata una prima monografia sulla domanda riconvenzionale: A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004.
[27] Vedi G. Eveillard, Le juge administratif et les astreintes prononcées contre les personnes privées, comm. CE, 5 févr. 2014, n° 364561, in Droit Administratif, 2015, 36 ss..
[28] Per una critica alla tendenza della Cassazione ad intromettersi in materia di responsabilità derivante da rapporti di diritto pubblico, M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell'affidamento, in Dir. proc. amm., 2011. Da ult., su queste tematiche, G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), e M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), entrambi in questa Rivista, 2020.
[29] Ex multis Cass. s.u. n. 6019/2016: «costituisce principio pacifico e risalente nella giurisprudenza di legittimità che l'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile … può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente titolare del bene solo mediante concessione amministrativa».
[30] R. Chapus, op. cit., 478.
[31] In senso contrario, Cons. st. IV, n. 2833/2015; Ad. pl. n. 28/2012 cit.. Anche M. L. Guida, L’esecuzione coattiva delle pretese amministrative, in Federalismi, 2017, 6, ritiene che “il criterio dell’alternatività degli strumenti di tutela (e quindi dell’inesistenza di un obbligo di agire in autotutela e della facoltà di avvalersi anche degli strumenti di tutela giurisdizionale ordinari) appare tuttavia il più affidabile”.
Ma già E. Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 123: “In virtù del principio dell’esecutorietà, l’autorità amministrativa di solito non promuove giudizi, ma si avvale del potere di autotutela. Pure può accadere che preferisca rendersi attrice, sia perché voglia realizzare l’effetto pratico ripromessosi assistita dalla particolare autorità della cosa giudicata, sia perché l’effetto non sia conseguibile con l’esecutorietà, sia ancora perché questa nella specie manchi”.
Il caso Schwazer. Tra metodo scientifico, prova logica e libero convincimento
di Maurizio Ascione
L’Autore descrive le caratteristiche della legge speciale in materia di doping ed affronta poi il percorso motivazionale seguito dal Gip di Bolzano, in particolare l’approccio rigorosamente scientifico, che il giudice ha mostrato, nella disamina della vicenda a carico dello sportivo altoatesino. Emerge dal testo chiaramente come il giudice abbia inteso scrupolosamente analizzare tutte le possibili cause della positività del materiale biologico riferibile all’atleta, tenuto conto, al tempo stesso, della anomalia derivante dalla forte concentrazione di DNA nei valori delle urine di Schwazer. Il gip, nell’iter argomentativo, stigmatizza la gestione a dir poco pressapochista del materiale biologico, per palese violazione delle fondamentali regole sottese alla c.d. catena di custodia del campione destinato all’esame, essendone derivata la completa inaffidabilità del risultato oggetto della contesa, con grave pregiudizio all’immagine dell’atleta e alla credibilità di tutto il movimento olimpico, nello sport regina quale è la atletica leggera.
Le conclusioni si apprezzano per essere espressione di analisi scientifica e specialistica della materia, dato che la soluzione della indagine penale richiedeva la precondizione della acquisizione consapevole, e poi della elaborazione responsabile, di dati e informazioni di portata metagiuridica e di particolare rilevanza. Inoltre, le conclusioni del gip sono il segno del rinnovato riconoscimento di piena dignità alla prova logica, ovvero alla ricostruzione indiretta e problematica degli avvenimenti storici, nel difetto o nella inutilità di evidenze che non scontano eccezioni.
Il metodo scientifico contiene in sé leggi matematiche, ma poi anche leggi suscettibili di interpretazione e discussione, il che impone al giudice uno sforzo ulteriore e maggiormente responsabile, ai fini del decidere, e proprio qui è possibile meglio saggiare il profilo del libero convincimento. Il contrasto e la opinabilità delle regole cautelari di settore non dovrebbero, di per sé, costituire motivo di denegata giustizia, in materie peraltro di rilevanza assoluta, come lo sono quelle della tutela penale del diritto alla salute e alla integrità della persona, che il Costituente richiede vengano affermate senza condizioni, senza arretramenti.
Sommario: 1. L’archiviazione della indagine - 2. La catena di custodia – 3. Il metodo scientifico – 4. La prova logica – 5. Il libero convincimento del giudice.
1. La archiviazione della indagine
L’ordinanza di archiviazione del Gip presso il Tribunale di Bolzano, datata 18.2.21, interviene sulla nota vicenda, risalente al gennaio 2016, di sospetta assunzione sostanze dopanti da parte del campione di atletica leggera Alex SCHWAZER, indagato in relazione all’art. 9, co. 1, legge n. 376 del 14.12.2000 (attualmente art. 586-bis c.p.), perché questi avrebbe fatto uso di testosterone al fine di migliorare le prestazioni sportive.
Va ricordato che la tutela penale del doping, con la legge del 2000, ha trovato una propria collocazione sistematica, mediante la introduzione di una fattispecie che tende ad anticipare l’intervento giudiziario, dinanzi ad interessi di rango costituzionale, quali la salute pubblica e la integrità psico-fisica di atleti, professionisti o dilettanti, per il ricorrere inoltre della esigenza del regolare e trasparente svolgimento delle competizioni agonistiche.
E, infatti, il legislatore persegue ogni attività prodromica alla concreta assunzione della sostanza, introducendo un reato di pericolo che previene già solo il rischio della messa in circolazione dei relativi farmaci, senza attendere la l'individuazione di specifici acquirenti – assuntori[1]; il reato di assunzione di sostanze dopanti non si consuma, cioè, al momento dell'assunzione della sostanza vietata, in ragione del fatto che, per la natura di reato di pura condotta e di pericolo presunto, il dato della alterazione delle prestazioni agonistiche permane fino a quando la sostanza dopante è idonea a modificare le condizioni psicofisiche e biologiche dell'atleta che l'ha assunta[2].
Ed è in tale contesto che il Gip di Bolzano interviene, individuando in particolare una serie di standard cautelari per la conservazione e la analisi dei campioni biologici, da cui ricavare la eventuale presenza di sostanze dopanti; ciò, evidentemente, da un lato, nell’obiettivo di assicurare la bontà e la attendibilità del risultato tecnico di esame (ai fini poi del buon esito dell’accertamento delle responsabilità penali e civili per le condotte illecite commesse), dall’altro lato, allo scopo di garantire per primo l’atleta dal rischio di risultati falsati e pregiudizievoli della propria carriera di sportivo.
Da qui muove, dunque, quella parte della ordinanza giudiziale di Bolzano che elenca e sviscera le condizioni tecnico – prevenzionali dirette a garantire la seria ed effettiva “catena di custodia” del materiale biologico da esaminare.
Il Gip realizza un tale sforzo ricostruttivo attraverso la censura, forte, delle tante e gravi carenze nella conservazione e nella gestione del campione di urine di Schwazer, necessario per stabilire la presenza o meno nell’organismo dell’atleta della sostanza dopante testosterone.
Il campione era stato custodito presso il Centro tedesco per la ricerca preventiva sul doping della Deutsche Sporthochschule di Colonia, primo Osservatorio europeo per l’individuazione precoce dei metodi e dei farmaci potenzialmente dopanti.
Il Centro di Colonia si occupa di tenere contatti e cooperare con l'industria farmaceutica, ricercare in letteratura scientifica le sostanze con effetti di miglioramento delle prestazioni (anche mediante esperimenti sugli animali), valutare le domande di brevetto e gli annunci in borsa dell'industria farmaceutica, cooperare con le autorità nazionali ed europee dei farmaci, monitorare il mercato nero e i suoi sviluppi attraverso una stretta collaborazione con la polizia e le dogane.
I relativi risultati vengono trasmessi all'Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), che decide se aggiungere una nuova sostanza alla lista delle sostanze proibite.
Tuttavia, la vicenda Schwazer del gennaio 2016 si era mostrata fin da subito dubbia, il Gip aveva riscontrato, cioè, che proprio quelle Autorità internazionali, chiamate ad elaborare tecniche e protocolli di monitoraggio e contrasto alla produzione e circolazione di sostanze dopanti, come World Anti-Doping Agency (WADA), nella specie, avevano mostrato una certa riluttanza alla collaborazione e alla implementazione del materiale istruttorio processuale, necessario ad accertare il reale svolgersi dei fatti, nell’ambito del procedimento penale a carico dello sportivo altoatesino.
Il giudice di Bolzano, all’esito del procedimento, quindi non ha potuto risparmiare pesanti critiche alla condotta processuale di WADA, a quella anche della Associazione Internazionale delle Federazioni di atletica leggera (IAAF), oltre che dello stesso laboratorio antidoping di Colonia, siccome ritenuti di aver fornito un cattivo contributo al lavoro della magistratura italiana e di quella tedesca, ai fini dell’accertamento della responsabilità nel caso Schwazer del 2016; in una vicenda, tra l’altro, di sicuro interesse internazionale, non soltanto sportivo, in ragione della prossimità degli eventi in disamina alle Olimpiadi di Rio, e ovviamente per gli enormi interessi commerciali e pubblicitari legati al settore dello sport, e dell’atletica leggera in particolare, a livello olimpionico, laddove si assiste al concorso di atleti in grado di rendere prestazioni di portata mondiale.
2. La catena di custodia
Proprio stigmatizzando la condotta della Organizzazione internazionale anti – doping, il Gip ricava, a contrario, quelle regole cautelari, specifiche del settore, che occorre necessariamente adottare, al fine di garantire un affidabile, genuino, risultato sulla possibile presenza di sostanze dopanti all’interno di campioni biologici di persona dedita professionalmente (piuttosto che come dilettante) ad una certa disciplina sportiva.
La disamina del giudice di Bolzano è dunque chiara manifestazione di un approccio “scientifico” all’istruttoria processuale[3], in una materia, come quella del doping, dove non è possibile sottrarsi alla interpretazione e alla applicazione di protocolli e di procedure tecniche di analisi, che la comunità scientifica, di livello internazionale, mette a disposizione dell’operatore giuridico, per la soluzione del caso concreto.
Nella vicenda Schwazer in particolare, il metodo scientifico viene dal giudice impiegato al fine di saggiare la serietà e il rigore nel trattamento, nella conservazione, nella elaborazione e nella gestione dei campioni biologici dell’atleta, da cui eventualmente riscontrare la presenza di sostanze dopanti.
Ebbene, il Gip di Bolzano intravede qui una serie di carenze e lacune di una gravità tale da indurre l’organo giudicante medesimo a considerare, non soltanto completamente inattendibile il risultato tecnico che si attendeva, ma addirittura l’atleta altoatesino come vittima di una preordinata alterazione delle prove biologiche, allo scopo di pregiudicarne, mediante condotte che il Gip stesso non esita in conclusione a definire di rilevanza penale, i successivi sviluppi di carriera sportiva.
Le provette contenenti i campioni biologici di Schwazer, infatti, sarebbero state non anonime, non sarebbero state sigillate e sarebbero state scongelate anzitempo; peraltro, quand’anche le medesime provette fossero state sigillate, esse risultavano suscettibili di manomissione a piacimento, senza che di ciò rimanesse traccia; non era poi custodito, presso un laboratorio terzo, un ulteriore campione biologico dello sportivo, con conseguente definitivo pregiudizio della possibilità di incrociare i risultati ed evitare errori nelle conclusioni.
Sono queste emergenze fattuali ad indurre il Gip a denunciare la presenza quanto meno di lacune nella c.d. catena di custodia dei campioni biologici dell’indagato.
3. Il metodo scientifico
L’approccio scientifico al caso caratterizza tutto l’iter motivazionale del provvedimento, perché poi il giudice cerca di scandagliare tutti i possibili fattori eziologici concorrenti, esclusivi o compatibili che siano, servendosi in questo del contributo tecnico fornito dai consulenti e dalle investigazioni di PM e difesa, calando nella vicenda di interesse tutta la miglior scienza ed esperienza di settore, disponibile nel momento storico[4].
Il Gip segue cioè un rigoroso percorso di analisi delle possibili cause di presenza della sostanza dopante, e soprattutto della anomala concentrazione di DNA, all’interno del campione biologico dell’atleta, studiando le diverse ipotesi e scartandole soltanto dopo averle guardate in tutte le prospettive, e dopo averle poste a confronto con gli ulteriori eventuali fattori concorrenti.
Il Gip di Bolzano ha dovuto affrontare il problema della presenza, sì, di testosterone nelle urine dello sportivo, ma unitamente alla anomala concentrazione di DNA nel campione biologico; ed è stato proprio quest’ultimo dato ad indurre il giudice a dubitare della “naturalità”, della genuinità, del campione prelevato e, mediante una istruttoria processuale di portata appunto scientifica, farlo concludere nel senso della avvenuta manipolazione del materiale biologico, a danno in primo luogo dell’atleta interessato dalla vicenda penale in quanto indagato.
Viene evidenziato nell’ordinanza di archiviazione che tutti i campioni di comparazione hanno mostrato decadimento di oltre il 90 %, dunque quantità minimale di DNA, ad eccezione dell’urina prelevata ad Alex Schwazer, che nello stesso termine di paragone variava ancora tra 1000 e 2500 pg/μl, era perciò tra le venti e le cinquanta volte superiore a quella normalmente presente nell’urina appena prelevata, e centinaia di volte superiore a quella congelata.
Dato ancor più eclatante, prosegue il gip, se si considera che i campioni dell’atleta erano stati già più volte scongelati e ricongelati presso il laboratorio di Colonia (in sede di analisi, controanalisi e consegna al perito), subendo così un maggior stress termico, rispetto a tutti gli altri campioni acquisiti in corso di perizia, scongelati e ricongelati un numero minore di volte (considerando che lo stress termico costituisce per tutti i campioni ulteriore causa di decadimento del DNA ivi presente).
Il giudice rileva poi come l’anomala concentrazione di DNA non possa essere stata determinata da una patologia sofferta dall’indagato al tempo del prelievo, per essere del tutto impensabile che uno sportivo, abituato ad allenamenti quotidiani estremi, possa trascurare, per giunta a pochi mesi dalle Olimpiadi, di sottoporsi ai dovuti accertamenti sanitari, nel caso abbia avuto qualche sintomatologia, fosse anche solo un po’ di generica debolezza.
Il giorno del prelievo urinario (risalente all’1.1.16), evidenzia il gip, Schwazer marciava per quaranta chilometri, in preparazione della gara per vincere una medaglia olimpica e, nonostante un intenso allenamento quotidiano, egli non accusava alcun sintomo; a tutto concedere, prosegue il giudice, occorrerebbe pensare ad una patologia, non soltanto completamente asintomatica, ma anche non particolarmente incidente sulla condizione atletica, visto l’impegno di marcia quotidiano e svolto per percorsi lunghi; ma Schwazer poi si sottoponeva a continui e accurati accertamenti sanitari, impostigli dall’allenatore, presso una struttura ospedaliera.
Analogamente, viene dal Gip escluso che la forte concentrazione di DNA sia piuttosto ricollegabile alla presenza di doping nelle urine: infatti, si legge in ordinanza, essere estremamente inverosimile che l’assunzione di una dose o, ipoteticamente, di alcune dosi dal dicembre 2015, possa produrre effetto dopante (i controlli del periodo avevano, del resto, fornito esito negativo sulla presenza di doping).
Ma qui è la stessa assunzione della dose ad apparire inverosimile, in quanto, per determinare lo sperato incremento delle prestazioni sportive, l’assunzione del doping deve protrarsi per un tempo molto più lungo, e sino in prossimità dell’evento sportivo, sicché un’ipotetica assunzione del genere, avvenuta molti mesi prima delle Olimpiadi di Rio, sarebbe stata del tutto insensata; non vi è comunque alcuna evidenza scientifica del fatto che anche una massiccia assunzione di testosterone possa produrre un aumento della concentrazione del DNA.
Una tale serie di equivoci avvenimenti spinge, quindi, il Gip a giustificare diversamente, e in termini inquietanti, la anomala concentrazione di DNA nel campione in esame: ossia come conseguenza di una preordinata, criminale, manipolazione del campione biologico, a danno dell’immagine e delle prospettive agonistiche dell’indagato, ma in fondo a danno della fiducia riposta in tutta la comunità internazionale impegnata nella promozione e nella organizzazione delle gare olimpiche.
Dice il Gip: addizionando all’urina di Schwazer altra urina dopata, eventualmente depurata del DNA, ove proveniente da altro soggetto, mediante semplice esposizione ai raggi UVA, e poi, riequilibrando la diluizione così creata mediante concentrazione dell’urina, per esempio tramite riscaldamento ed evaporazione dell’acqua onde riconcentrare il testosterone ed i suoi metaboliti, si sarebbe ottenuta la positività del campione, ma finendo però per concentrare anche tutto il resto, incluso il DNA.
Il perito ha, infatti, chiarito come sia sufficiente esporre un campione d’urina ai raggi ultravioletti, apparecchiatura presente, per ragioni di disinfezione, in qualunque laboratorio, per distruggere totalmente il DNA in esso contenuto. Il risultato sarà, comunque, quello di un’urina che presenta solo il DNA della provetta non esposta al predetto trattamento, cioè quella che si vuole manipolare.
La circostanza che nell’urina dell’1.01.2016 non sia stato trovato DNA diverso da quello di Alex Schwazer non consente, dunque, affatto di escludere che la stessa sia stata manipolata con l’aggiunta di altra di un soggetto dopato, previamente reso agevolmente del tutto irrintracciabile nel modo, rapido e non invasivo, appena citato.
L’effetto di tale procedura finalizzata a concentrare la sostanza dopante, per esempio tramite il riscaldamento dell’urina e l’evaporazione di parte dell’acqua in essa contenuta, è una progressiva concentrazione di tutte le sostanze in essa contenute che sfuggono all’evaporazione.
Ciò comporta, non solo la concentrazione del testosterone esogeno, voluta dal manipolatore, ma anche di tutto il resto, incluso il DNA e ciò che la perizia ha definitivamente accertato è proprio una concentrazione del tutto anomala, innaturale, del DNA.
Del resto, la manipolazione, oltre a costituire l’unica spiegazione verosimile della concentrazione di DNA riscontrata (a differenza di pregressa patologia o altra causa), non poteva che essere del tutto agevolata dalla non anonimità dei campioni e dal sostanziale aggiramento della catena di custodia (provette non sigillate all’interno del laboratorio di Colonia o liberamente alterabili).
E tali conclusioni, precisa il giudice, non possono essere demolite dalla alternativa di una più semplice aggiunta di testosterone all’urina di Schwazer: perché, in tal senso, si evidenzia, per simulare in maniera credibile l’assunzione di doping, occorrerebbe aggiungerne la giusta dose.
Se ne viene aggiunto un quantitativo eccessivo, il valore potrebbe apparire del tutto inverosimile e diverso da tutti gli altri casi di positività riscontrati alla stessa sostanza; viceversa, se ne viene aggiunto troppo poco, si rischia di non raggiungere la soglia di rilevazione della positività.
Ma si potrebbe prediligere anche un altro metodo: quello di aggiungere altra urina già dopata, anche se naturalmente l’effetto di diluizione creato dall’aggiunta deve essere controbilanciato, concentrando l’urina mediante riscaldamento ed evaporazione: l’effetto di nuovo è di concentrare tutto il contenuto, il DNA compreso.
Del resto, dal punto di vista tossicologico la “semplice” aggiunta di testosterone sarebbe stata facilmente smascherata da una analisi tossicologica, perché quello che si rileva nell’urina non è una singola molecola esogena (il testosterone appunto), ma una “famiglia” di molecole, che costituisce un pattern che con la molecola “madre” raggruppa diverse molecole “figlie” (metaboliti e cataboliti). E questa situazione è molto difficile da simulare.
4. La prova logica
Dunque, la analisi approfondita del caso, mediante un opportuno e pregevole approccio scientifico, induce il gip a ritenere che l’unica spiegazione della concentrazione di DNA sia quella che l’urina abbia subito un trattamento artificiale, attraverso il riscaldamento che ha provocato, per evaporazione, una progressiva concentrazione di tutte le sostanze contenute.
Il passaggio motivazionale del Gip, quindi, costituisce espressione proprio dell’esercizio “logico” di ponderazione e di valutazione delle evidenze fattuali a disposizione del processo; un esercizio non necessariamente agganciato a soli dati oggettivi, documentali e diretti.
Verosimilmente la conclusione per la archiviazione del caso (dunque un atto favorevole all’indagato) ha consentito al gip di poter più agevolmente poggiare sulla prova indiretta, maggiormente esercitando un certo potere discrezionale di apprezzamento, nell’esercizio del principio del libero convincimento; mentre magari una alternativa processuale meno favorevole al reo avrebbe fatto incontrare al decidente maggiori ostacoli per una scelta, per così dire, meno vincolata e più espressione di confronto e dialettica di giudizio.
Questo sembra del resto trasparire da quel passaggio della ordinanza di archiviazione in cui si legge: noi non abbiamo una prova diretta della manipolazione, ma abbiamo un dato, quello appunto relativo alla concentrazione del DNA, che trova, allo stato, adeguata ed unica spiegazione proprio nell’ipotesi della manipolazione. L’assenza di una prova diretta, della “pistola fumante”, è indubbia, ma certo tale circostanza non consente di considerare irrilevante o addirittura insussistente il quadro di contesto che ha prodotto numerosi, gravi e convergenti elementi indiziari che tale ipotesi sostengono in modo coerente e notevolmente significativo.
Nel lungo e articolato contraddittorio non sono emerse ipotesi alternative, pur ampiamente esplorate, che, anche solo parzialmente, fornissero coerenza e logicità.
In altre parole non solo l’ipotesi manipolazione consente di spiegare come e perché sia avvenuta quella anomala concentrazione del DNA, ma questa costituisce, allo stato, anche l’unica spiegazione convincente.
La possibilità che essa possa essere connessa al super allenamento cui gli atleti si sottopongono è stata, infatti, sperimentalmente esclusa.
La possibilità che essa sia dovuta ad una qualche patologia transeunte e asintomatica si è rilevata sfornita di qualsiasi appiglio concreto ed è smentita dai continui accertamenti medici cui l’indagato si sottoponeva.
L’ipotesi che tale così elevata concentrazione derivi proprio dal doping è del tutto inverosimile, e tale è ritenuta anche dal consulente della stessa WADA (che riferisce: “non si capisce per quale meccanismo i dopati dovrebbero urinare più cellule” e ciò vale a più forte ragione per chi abbia assunto testosterone per breve tempo).
Rimane quindi la manipolazione, che è di gran lunga l’ipotesi più concreta, convincente e coerente con le evidenze, tra esse non ultime le enormi lacune della catena di custodia, come: a) il fatto che l’atleta, al quale il campione d’urina si riferisce, è immediatamente riconoscibile; b) vi sono aliquote d’urina non sigillate e perciò stesso liberamente utilizzabili da quanti vi abbiano accesso; c) anche i campioni sigillati possono essere agevolmente manomessi lasciando tracce che solo una perizia potrebbe accertare ; d) non vi è alcuna reale garanzia per l’atleta, visto che tutte le aliquote sono custodite nel medesimo laboratorio e nessuna è preservata in luogo terzo).
Si tratta, certo, di una prova logica, ma proprio in quanto fondata su un dato concreto, altrimenti non spiegabile, corredato, peraltro, da una serie impressionante di indizi gravi, precisi e concordanti, essa è non meno solida di una prova documentale.
5. Il libero convincimento del giudice
Il dato di fondo che si ricava dalla pronuncia in commento è quello della possibile convivenza tra l’istruttoria basata sul metodo e sul sapere scientifico (istruttoria resa necessaria e indifferibile dall’emergere di regole di condotta specialistiche, a cui bisogna rapportare la vicenda del caso concreto) ed una decisione che sia reale espressione del principio libero convincimento del giudice (mediante il giusto peso probatorio da attribuire anche alle evidenze probatorie logiche o indirette; e non soltanto ai dati fattuali di indiscussa ed immediata percezione, ed anche quando l’esito processuale non si prospetti del tutto favorevole all’indagato).
La vicenda Schwazer andrebbe, cioè, messa a confronto con tante per certi versi analoghe vicende giudiziali, in cui, di nuovo, la componente tecnico - scientifica gioca un ruolo fondamentale per il giudice, ai fini della analisi e della valutazione del caso concreto; il quale (caso), a stretto rigore, andrebbe sempre guardato nella esclusività dei suoi contorni e delle sue peculiarità, e non andrebbe perciò mai confuso con altro caso, seppur (apparentemente) ad esso quasi o del tutto sovrapponibile.
Nell’ambito dei c.d. reati professionali o di impresa, sia quelli puniti a titolo di dolo, sia soprattutto quelli che richiedono la prova della colpa speciale e specialistica, occorre certamente fare riferimento al metodo scientifico e all’approccio competente e responsabile alla singola vicenda; ma non tutte le regole cautelari e non tutto il sapere scientifico poggiano inevitabilmente su criteri matematici e di automatismo risolutivo.
Molte discipline, infatti, pur pacificamente assurgendo al rango di scienza, non possono, per proprie caratteristiche strutturali, garantire risultati in termini di certezza e di riscontro matematico[5]; ciononostante esse conservano una propria dignità ai fini della ricostruzione dei processi causali ed, anzi, sempre maggiore nella pratica e nelle relazioni sociali ed economiche si presenta il numero di discipline, non universali, a cui occorre comunque guardare ai fini del giudizio.
Si afferma che le leggi scientifiche sono non soltanto quelle della certezza (c.d. leggi universali), che esprimono come tali una regolarità di successioni dei fenomeni non smentita da eccezioni, perché scientifiche sono anche le leggi statistiche (o probabilistiche), che ugualmente possono rientrare nel bagaglio istruttorio, specialistico, a disposizione del giudice ai fini della decisione del caso.
In quest’ultima ipotesi, evidentemente, spetterà al giudice un onere motivazionale particolarmente puntuale e rigoroso, per dar conto di una scelta che si caratterizzerà per l’esercizio di una certa discrezionalità; la quale, tuttavia, non dovrebbe rappresentare attentato alcuno alle garanzie difensive di portata costituzionale dell’imputato, quando ovviamente (la discrezionalità) venga esercitata attraverso approccio consapevole e responsabile dell’organo decidente, il quale guardi e riguardi a ciascun possibile fattore causale concorrente, in tutte le sue sfaccettature, lo ponga poi in relazione con gli altri fattori, saggiandone la compatibilità piuttosto che il conflitto e, in definitiva, ne fornisca il giudizio di valore ed il peso specifico nella vicenda concreta, alla luce dei dettami di cui agli artt. 40 e 41 codice penale.
Del resto, la inadeguatezza delle leggi universali per spiegare il succedersi di tutti i fenomeni, connessa al loro ristretto numero, in rapporto alla infinità e alla esclusività della casistica processuale, unitamente al dato obiettivo secondo il quale non sono sempre conosciute tutte le condizioni necessarie o l’intero meccanismo di produzione di un evento di danno, non dovrebbe avere come conseguenza la resa e la sostanziale abdicazione nella tutela, anche in sede penale, di beni giuridici assoluti e di rango costituzionale, come la salute del singolo e la salute pubblica, la tutela del patrimonio ambientale e la vita umana (artt. 2, 9, 32 Cost.).
Una soluzione alternativa può e deve essere quella della risposta giudiziale alla domanda di giustizia, attraverso lo sforzo massimo, rigoroso e severo, da parte del giudice, chiamato ad affrontare la singola vicenda, anche la più critica, anche quella più contrastata.
Ai fini dell'accertamento sull'esistenza di una legge scientifica di copertura il giudice, infatti, tramite documentata analisi della letteratura scientifica in materia, con l'ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, è tenuto a valutare l'attendibilità di una determinata teoria attraverso la rigorosa verifica di una serie di parametri oggettivi, tra cui la validità degli studi che la sorreggono, le basi fattuali su cui gli stessi sono stati condotti, l'ampiezza e la serietà della ricerca, le sue finalità, il grado di consenso che raccoglie nella comunità scientifica e l'autorevolezza e l'indipendenza di chi ha elaborato detta tesi; ed il contrasto di opinioni scientifiche non è di per sé sufficiente ad escludere l'esistenza di una legge di copertura, ove non si verifichi il grado di indipendenza degli esperti e la validità delle argomentazioni sottese alle opinioni antagoniste [6].
Una soluzione che, invece, esiga automatismi e regole valide per tutte le stagioni[7], dove al giudice venga sottratto ogni potere di conformazione della regola cautelare al caso concreto, e venga in definitiva impedito il passaggio dalla fase della norma generale e astratta alla fase della individualizzazione e del riscontro pratico, potrebbe costituire un indietreggiamento nella difesa di valori di portata costituzionale (come salute e ambiente), che il legislatore pretende che avvenga anche in sede penale, nonostante lo stretto perimetro delle garanzie sostanziali e procedurali ivi presente, grazie ad un impegno interpretativo e di reale adattamento del sapere scientifico alla molteplicità della casistica processuale.
[1] Cass. Sez. 3^ , Sentenza n. 26289 del 14/05/2019 Ud. (dep. 14/06/2019 ) Rv. 276083 – 01; Cass. Sez. 2^, Sentenza n. 2640 del 10/11/2016 Ud. (dep. 19/01/2017 ) Rv. 269315; Cass. Sez. 2^, Sentenza n. 43328 del 15/11/2011 Ud. (dep. 24/11/2011 ) Rv. 251377 – 01
[2] Cass. Sez. 3^, Sentenza n. 27279 del 21/06/2007 Ud. (dep. 12/07/2007) Rv. 237143 – 01
[3] Cass. Sez. 4^, Sentenza n. 49884 del 16/10/2018 Ud. (dep. 02/11/2018) Rv. 274045 – 01; Cass. Sez. 4^, Sentenza n. 54795 del 13/07/2017 Ud. (dep. 06/12/2017 ) Rv. 271668 - 01
[4] F. MANTOVANI, Diritto Penale, CEDAM, 1992, pagg. 179 e ss.
[5] F. MANTOVANI, cit., pag. 181
[6] Cass. Sez. 3^, Sentenza n. 11451 del 06/11/2018 Ud. (dep. 14/03/2019 ) Rv. 275174 – 01.
[7] Cass. Sez. 4 - , Sentenza n. 25532 del 16/01/2019 Ud. (dep. 10/06/2019 ) Rv. 276339 – 02; Cass. Sez. 4 - , Sentenza n. 48541 del 19/06/2018 Ud. (dep. 24/10/2018 ) Rv. 274358 – 01.
Sulla rilevanza dei piani regolatori dei porti (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 28 dicembre 2020 n. 8356)
di Marco Ragusa
1. La fattispecie
La pronuncia qui annotata ha annullato il provvedimento del Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata con il quale era stata respinta una domanda di accertamento di conformità urbanistica presentata nel novembre del 2015, ai sensi dell’art. 2 del d.p.R. 18 aprile 1994, n. 383, dall’Autorità portuale di Brindisi, avente a oggetto alcuni interventi di infrastrutturazione (già realizzati), strumentali a esigenze di security e ricadenti nell’area in cui è situata la stazione marittima del porto pugliese.
In estrema sintesi, la controversia oggetto del giudizio può essere così descritta.
Al tempo di presentazione dell’istanza, l’Autorità portuale di Brindisi – alla stregua delle altre Autorità portuali istituite dall’art. 6, c. 1, della legge 28 gennaio 1994, n. 84 («legge Porti») – era l’ente titolare, fra l’altro, delle funzioni relative all’infrastrutturazione del porto: funzioni che essa svolgeva in lineare continuità con quelle (di progettazione, programmazione ed esecuzione di opere e impianti) già proprie del Consorzio del porto di Brindisi, di cui la legge Porti aveva disposto la soppressione (artt. 2, c. 1, lett. i, e 20) [1].
Ai sensi dell’art. 5, c. 1, l. n. 84 del 1994 (nel testo vigente all’avvio del procedimento di accertamento di conformità), nei porti di categoria II[2], «l’ambito e l’assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all’attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie, sono rispettivamente delimitati e disegnati dal piano regolatore portuale [«PRP»] che individua altresì le caratteristiche e la destinazione funzionale delle aree interessate».
L’Autorità portuale di Brindisi, soppressa nel 2016[3], non si è mai dotata, nel corso della propria (non brevissima) esistenza, di tale strumento pianificatorio: a fare da cornice dell’ambito dello scalo è rimasto così un piano regolatore portuale adottato dal Consorzio del porto nel 1975.
Gli interventi realizzati dall’Autorità portuale sull’area della stazione marittima non erano contemplati da tale piano e, anche sulla scorta di questo rilievo, il Provveditorato ne aveva accertato la non conformità urbanistica. Tale difformità aveva peraltro condotto all’indizione di una conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 3 del citato d.p.R. n. 383/1994, la quale non era però riuscita a rimediare al rilevato contrasto tra le opere realizzate dall’Autorità portuale e il quadro pianificatorio di riferimento. Da qui il rigetto dell’istanza, oggetto dell’impugnativa dell’Autorità del Sistema portuale («AdSP») del Mare Adriatico meridionale (succeduta alla originaria istante a far data dal 2016).
Punto centrale della decisione in commento, sul quale si concentrano le brevi osservazioni che seguono, è la (parziale) adesione del Consiglio di Stato alla tesi sostenuta già in primo grado dall’AdSP e integralmente disattesa, invece, dal TAR[4]: tesi secondo cui la conformità urbanistica degli interventi de quibus non avrebbe potuto essere valutata (come aveva fatto l’organo ministeriale) sul metro di un piano regolatore portuale adottato in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1994, n. 84 e all’introduzione del modello di pianificazione portuale disegnato dal suo art. 5.
La pronuncia suscita, sotto tale profilo, almeno un dubbio relativo alla correttezza della soluzione offerta alla specifica res litigiosa e alcune riflessioni concernenti la prospettiva implicitamente adottata nell’inquadramento del più ampio (e da tempo dibattuto) tema del rapporto tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica.
2. Il fondamento della decisione: quale l’errore del TAR Lecce, secondo il Consiglio di Stato?
Per questa breve analisi, occorre prendere le mosse dai profili di sintonia riscontrabili tra il decisum di primo grado e quello di appello: entrambe le sentenze, infatti, rifiutano la tesi più radicale sostenuta dall’Autorità ricorrente, secondo la quale in nessun caso la pianificazione portuale potrebbe affiancarsi alla (o tenere luogo della) pianificazione comunale, fungendo da paradigma nella valutazione di conformità urbanistica per gli interventi di modificazione del territorio del porto «da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale» e per le «opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti» (art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994).
Per il Tar Puglia, come per il Consiglio di Stato, è infatti indubbio che la funzione pianificatoria affidata, con l’entrata in vigore della l. n. 84 del 1994, al PRP disciplinato dall’art. 5 sia una funzione urbanistica in senso stretto: per tale ragione la legge prevede che il piano non possa contrastare con gli «strumenti urbanistici vigenti»[5] e, per la sua adozione, impone il raggiungimento di una previa intesa tra l’Autorità portuale e i comuni nel cui territorio ricade lo scalo marittimo[6].
Se, dunque, la non conformità urbanistica fosse stata accertata con riferimento a un piano regolatore portuale adottato successivamente all’entrata in vigore della legge n. 84 del 1994, anche il Consiglio di Stato avrebbe ritenuto legittimo l’operato del Provveditorato, confermando la decisione di primo grado. Il punto di divergenza tra l’approccio del Tar e quello dei Giudici di appello è, insomma, integralmente relativo alla circostanza che la pianificazione del porto di Brindisi non fosse regolata da un PRP ‘di nuova generazione’, ma da un piano portuale adottato prima dell’entrata in vigore della legge Porti.
Secondo la sentenza di primo grado, tale circostanza non muta i termini della questione.
Ai sensi dell’art. 27, c. 3, della legge n. 84/1994, infatti, i piani regolatori portuali eventualmente adottati in epoca anteriore mantengono efficacia fino al proprio aggiornamento, da effettuarsi ai sensi dell’art. 5: di modo che le prescrizioni dei ‘vecchi’ piani costituiscono a pieno titolo uno dei parametri impiegabili nel giudizio di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994, essendo a esse riferibile, in virtù del citato art. 27 l. n. 84/1994, la stessa valenza urbanistica propria di quelle contenute in un ‘nuovo’ PRP.
Il Consiglio di Stato afferma, al contrario, che «i Piani Regolatori Portuali approvati antecedentemente alla legge n. 84 del 1994, non hanno effetti di conformazione del territorio» e, pertanto, anche «il Piano regolatore portuale di Brindisi, risalente al 1975, non poteva essere considerato come parametro giuridico ai fini della valutazione di conformità urbanistica degli interventi in contestazione»[7].
La previsione dell’art. 27, c. 3, cit. non consentirebbe, in altri termini, di riferire ai ‘vecchi’ piani una funzione urbanistica a essi originariamente estranea: i piani delle dismesse organizzazioni portuali, a differenza del nuovo PRP, «costituivano soltanto strumenti di programmazione delle infrastrutture strumentali allo svolgimento delle attività del porto, erano cioè piani di “opere”»[8]: la realizzazione di interventi non contemplati da tali piani o in contrasto con essi non porrebbe, insomma, una questione di «conformità urbanistica».
La motivazione della decisione, mediante una sintetica ricostruzione storica della legislazione italiana relativa ai rapporti tra pianificazione urbanistica e pianificazione portuale, illustra le ragioni di questa conclusione, evidenziando come l’art. 5 della legge Porti abbia introdotto per la prima volta uno strumento di raccordo tra la potestà pianificatoria degli enti locali (già a far data dal 1967 estesa all’intero territorio comunale, ivi incluso il demanio marittimo[9]) e le funzioni degli enti portuali relative all’infrastrutturazione dello scalo.
Il citato art. 5, infatti, da un lato ha imposto univocamente agli interventi di trasformazione del territorio portuale il rispetto di un quadro pianificatorio urbanistico, introducendo, in tal modo, un vincolo non espressamente contemplato dalla legislazione previgente; d’altro canto, la definizione di questo quadro non è stata tout court rimessa alla generale potestà comunale di governo del territorio, ma a uno strumento specificamente riferito (e limitato) all’ambito portuale, la cui emanazione è di competenza dell’ente che gestisce lo scalo.
È da tale premessa, appunto, che la sentenza in commento trae le proprie conclusioni: fino a che uno scalo di categoria II non venga assoggettato a un PRP approvato ex art. 5 l. n. 84 del 1994, eventuali prescrizioni dettate da un piano portuale ancora efficace in virtù dell’art. 27 cit. non possono assumere rilievo urbanistico ed essere impiegate al fine dell’accertamento di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994.
3. I punti critici delle premesse e delle conclusioni della decisione
Tra i dubbi suscitati dalla pronuncia in commento, il primo concerne la ricostruzione storica effettuata dal Consiglio di Stato.
Se è vero, infatti, come sottolineato in motivazione, che la legislazione anteriore al 1994 non aveva disciplinato in modo compiuto l’istituto della pianificazione portuale e che le uniche previsioni normative relative ai piani portuali (al plurale) erano essenzialmente finalizzate alla realizzazione delle opere in essi inserite, è anche vero che in molti casi, sotto il profilo strutturale, l’oggetto di tali piani non differiva molto dal modello disegnato dall’art. 5 della legge Porti; così come è vero che la loro adozione (talora avvenuta con legge, talaltra mediante decreti ministeriali, sulla base dei provvedimenti istitutivi degli enti portuali) aveva visto spesso il previo coinvolgimento dei comuni interessati e, a volte, perfino l’assunzione, da parte degli stessi enti locali, della veste di promotori dell’iniziativa pianificatoria[10].
L’impossibilità di riferire ai vecchi piani portuali la valenza urbanistica propria del nuovo PRP, pertanto, non sembra possa essere ancorata all’intrinseca inadeguatezza di tali strumenti a svolgere una siffatta funzione, ma esclusivamente alla interpretazione della portata precettiva dell’art. 27, c. 3, della legge Porti, che di quei piani dispone l’ultravigenza.
Così stando le cose, per verificare se la posizione espressa dal Consiglio di Stato sia condivisibile (o almeno più condivisibile di quella accolta dal Giudice di primo grado) sembra necessario interrogarsi su quale sia la ratio del citato art. 27 c. 3 e dunque, più a monte, su quale sia la ratio dell’art. 5 della legge, rispetto alla cui applicazione la norma assume la natura e la funzione di disposizione transitoria.
Introducendo una forma di pianificazione speciale per tutti i porti di categoria II, l’art. 5 ha mirato a raggiungere due principali obiettivi.
Il primo è la razionalizzazione dell’attività di infrastrutturazione di ciascuno scalo marittimo, che il legislatore ha inteso sottrarre a iniziative episodiche e non supportate da una chiara e armonica prospettiva di sviluppo del porto: è sul piano portuale, non solo sul progetto di singole opere, che il Consiglio superiore dei lavori pubblici è chiamato a esprimere il proprio parere ai sensi dell’art. 5, c. 3 (ora c. 2 quater, lett. b) l. n. 84/1994. Ed è del piano, non solo (e, anzi, non tanto) del singolo intervento infrastrutturale che può ben valutarsi la coerenza con gli obiettivi della pianificazione generale dei trasporti: aspetto imprescindibile per ogni lettura che intendesse prendere (anche soltanto un po’) sul serio il vincolo teleologico posto all’interprete dall’art. 1 della legge Porti[11].
Il secondo obiettivo è, di primo acchito, più direttamente attinente all’oggetto della controversia risolta dalla pronuncia qui annotata. Si tratta, appunto, di creare le condizioni di co-esistenza tra la pianificazione del territorio portuale e quella dell’ambiente urbano che gravita intorno a esso: un obiettivo che può essere perseguito, in astratto, tracciando una netta linea di confine tra la potestà pianificatoria comunale e quella dell’ente portuale, oppure stabilendo una gerarchia tra strumenti pianificatori, o ancora istituendo forme di raccordo tra le potestà pianificatorie facenti capo agli enti coinvolti, affidando la pianificazione portuale alla co-decisione dell’ente locale e dell’Autorità portuale. Quest’ultima è, appunto, la scelta ambiziosa adottata dalla legge n. 84 del 1994: l’art. 5, da un lato, nega al PRP l’idoneità derogatoria tendenzialmente propria di ogni strumento pianificatorio di settore rispetto agli strumenti urbanistici, dall’altro impone che per l’adozione del piano debba essere raggiunta un’intesa tra l’Autorità portuale e i comuni interessati[12].
In entrambe le prospettive teleologiche, il piano portuale rappresenta uno strumento di sintesi tra interessi differenti e potenzialmente confliggenti. Il primo obiettivo, infatti, inerisce alla dialettica tra l’interesse all’incremento dei traffici di un singolo scalo, perseguito da ciascuna Autorità portuale, e l’interesse generale a un’armonica ed efficiente pianificazione dell’intero sistema portuale – e, più in generale, trasportistico – nazionale. Il secondo obiettivo si inquadra, invece, nel conflitto tra gli interessi della città e gli interessi dello scalo marittimo: un conflitto che lo sviluppo di un porto moderno, tendenzialmente, determina in misura molto maggiore rispetto al recente passato[13].
Così ricostruita la ratio dell’art. 5 della legge Porti, è facile comprendere quale sia quella dell’art. 27, c. 3.
La norma, nel disporre l’ultravigenza dei piani portuali anteriormente adottati, ha fatto sì salva la possibilità di realizzare le opere in essi contemplate, ove ancora non eseguite, ma ha anche inteso limitare a tali opere le trasformazioni apportabili al territorio portuale nelle more dell’aggiornamento dei vecchi piani (o dell’adozione ex novo di un PRP). E ciò, a dire il vero, indicherebbe come non percorribile la stessa via intrapresa, nella fattispecie oggetto di giudizio, dal Provveditorato per le Opere pubbliche, una volta accertata la non conformità urbanistica delle opere realizzate dall’Autorità portuale di Brindisi ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994. In difetto dell’adozione di un nuovo PRP, infatti, non pare che una conferenza di servizi indetta ai sensi del successivo art. 3 potesse rimediare a tale difformità (a meno che, al suo interno, non si fosse provveduto all’aggiornamento del piano portuale del 1975, ex art. 27, c. 3, l. n. 84/1994, nel rispetto delle modalità procedimentali dettate dall’art. 5 e senza possibilità di superare l’eventuale dissenso dell’amministrazione comunale ai sensi dell’art. 3, c. 4, del d.p.R. n. 383/1994[14]).
L’impossibilità di tenere in considerazione un vecchio piano portuale nella valutazione di conformità urbanistica ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994 appare così una tesi decisamente distonica rispetto al quadro normativo vigente: per non essere soggetta ai vincoli nascenti dal nuovo modello di pianificazione portuale, infatti, sarebbe sufficiente all’Autorità portuale non dotarsi affatto di un nuovo PRP. A meno che, accogliendo questa tesi, il Consiglio di Stato non abbia inteso ritenere legittima la realizzazione delle sole opere che, sebbene non contemplate da un piano portuale di nuova generazione, siano comunque previste dagli strumenti di pianificazione urbanistica comunale.
Sotto questo aspetto, la motivazione della sentenza è tutt’altro che chiara. Non si comprende bene, infatti, quale dei motivi oggetto del ricorso di primo grado (e riproposti in appello) il Consiglio di Stato abbia inteso accogliere: a rendere illegittimi i provvedimenti impugnati è un mero vizio di motivazione (il riferimento operato dall’amministrazione al vecchio piano portuale) ovvero è il contenuto dispositivo degli stessi? Accogliere l’una o l’altra interpretazione determina, all’evidenza, il riconoscimento alla decisione di un ben diverso effetto conformativo sul procedimento ex art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994 che il Provveditorato dovrà rinnovare.
Dalla lettura della sentenza di primo grado, si evince che la conformità delle opere alla pianificazione comunale generale e agli strumenti attuativi non fosse affatto pacifica tra le parti in causa: il Tar, tuttavia, aveva omesso di approfondire tale questione, poiché, una volta accertata la non conformità già alla luce del vecchio piano regolatore portuale, aveva ritenuto di potere respingere, sulla base di tale principale rilievo, il ricorso dell’AdSP.
E anche la sentenza di appello, che al contrario di quella riformata nega al vecchio piano portuale ogni valenza urbanistica, non si sofferma affatto sulla questione della difformità delle opere realizzate dall’Autorità portuale rispetto al quadro pianificatorio descritto dalla pianificazione del Comune di Brindisi (anch’essa rilevata nel corso del procedimento di accertamento condotto dal Provveditorato): se, come afferma la pronuncia del Tar, gli interventi dell’Autorità portuale consistono, oltre che nella recinzione della stazione marittima, anche in edifici ai varchi, in impiantistica di supporto al sistema di security, in una strada a quattro corsie, in un ponte e una tettoia in cemento armato, non dovrà il Provveditorato accertarne, comunque, la non conformità, sulla base del vigente piano regolatore generale e degli strumenti di attuazione, che di tali opere non fanno menzione?
La risposta affermativa – che sembrerebbe imposta anche dalla ricostruzione delle rationes degli artt. 5 e 27 della legge Porti a cui poc’anzi si è accennato – potrebbe essere messa in discussione valorizzando il passo della sentenza in commento nel quale, al fine di escludere la rilevanza giuridica del piano portuale del 1975, il Consiglio di Stato si preoccupa di precisare che non risulta che le prescrizioni di tale strumento siano state “recepite” dal piano regolatore generale[15]. La pronuncia, insomma, potrebbe essere letta nel senso di ritenere sufficiente, al fine di accertare la conformità urbanistica degli interventi, il fatto che questi ultimi non contrastino con la pianificazione comunale (che non siano, cioè, incompatibili con specifiche previsioni del PRG o degli strumenti attuativi).
Così interpretata, tuttavia, la decisione del Consiglio di Stato sarebbe senz’altro non condivisibile: essa determinerebbe la arbitraria sostituzione del paradigma di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383/1994 (la conformità urbanistica) con il più labile limite che l’art. 5 della legge Porti fissa non per la realizzazione di singoli interventi infrastrutturali, ma per il Piano regolatore portuale in cui gli stessi dovrebbero essere contemplati (il non contrasto). Si determinerebbe, in tal modo, una tanto netta quanto abnorme pretermissione dell’interesse urbanistico alle esigenze di infrastrutturazione dello scalo marittimo.
4. Il valore della decisione alla luce della disciplina vigente in materia di rapporti tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica
La questione affrontata da Cons. Stato n. 8356/2020 ha una rilevanza ben più ampia del contesto locale brindisino, teatro della controversia. La conclusione per essa raggiunta dal Consiglio di Stato – che per l’ampiezza del principio di diritto espresso sembra estensibile a ipotesi in cui le opere da localizzare ‘fuori piano’ siano più imponenti rispetto agli adeguamenti della security di una stazione marittima – potrebbe costituire, peraltro, un precedente impiegabile nella soluzione di controversie soggette al nuovo testo dell’art. 5 della legge Porti.
Sotto il primo aspetto, è noto che la difficoltà di dare alla luce un PRP ha contraddistinto, a far data dal 1994, l’esperienza della gran parte delle Autorità portuali istituite dall’art. 6 della legge Porti. Lo scoglio principale su cui si sono infranti i tentativi di adottare un nuovo piano portuale (o di aggiornare un piano preesistente) è rappresentato proprio da quell’intesa con i comuni interessati che il previgente comma 3 dell’art. 5 rendeva indefettibile e che, nella pratica, si è spesso rivelata pressoché impossibile da raggiungere. Altrettanto noto è che la legge Porti, nell’impianto anteriore al 2016, non contemplava meccanismi di superamento del dissenso dell’ente locale: l’intesa prevista dall’art. 5, c. 3, rappresentava, infatti, un modulo consensuale «endoprovvedimentale»[16], sostanzialmente assimilabile a un accordo contrattuale e pertanto contraddistinto dall’incoercibilità del consenso delle parti trattanti.
Se l’inedito indirizzo espresso dalla sentenza in commento avesse preso piede già qualche anno fa, probabilmente, le amministrazioni portuali italiane avrebbero avuto una ben maggiore forza negoziale; e maggiori possibilità di raggiungere un esito concreto avrebbero così avuto i procedimenti di adozione dei PRP (al costo, naturalmente, di una forzatura della lettera di legge e dell’equilibrio tra gli interessi della città e gli interessi del porto a essa sotteso).
A far data dal 2016, il legislatore ha posto mano al procedimento de quo, anche al fine della sua semplificazione.
Il d.lgs. n. 169 del 2016 – il quale, come anticipato, ha sostituito le Autorità portuali istituite nel 1994 con le Autorità di sistema portuale, ciascuna delle quali provvede oggi alla gestione di una pluralità di scali marittimi – ha modificato anche l’art. 5 della legge Porti, al fine di adeguare la pianificazione portuale alla rilevante modifica organizzativa introdotta. La norma è stata peraltro oggetto, da quella data, di ulteriori integrazioni e riformulazioni.
Il vigente art. 5, c. 1, della legge n. 84 del 1994 prevede l’adozione di un Piano regolatore di sistema portuale (PRSP), «strumento di pianificazione del sistema dei porti ricompresi nelle circoscrizioni territoriali delle Autorità di sistema portuale», il quale si compone di un Documento di pianificazione strategica di sistema (DPSS) e di tanti piani regolatori portuali (PRP) quanti sono i porti rientranti nella circoscrizione dell’AdSP.
Quel che può essere qui rilevante evidenziare è che, tra le funzioni rimesse alla nuova pianificazione di sistema, rientra la delimitazione tra le aree destinate a funzioni strettamente portuali e retro-portuali, i collegamenti infrastrutturali di ultimo miglio con i singoli porti del sistema, gli attraversamenti del centro urbano e infine le «aree di interazione porto-città»[17](art. 5, c. 1 bis, lett. b).
La pianificazione (ma non la delimitazione) di queste ultime aree è affidata, in sede di adozione del PRSP, ai comuni interessati, previo parere della competente AdSP; «con riferimento esclusivo» alla pianificazione delle stesse aree «di interazione» è ora richiesto alle Autorità di sistema, in sede di adozione di ciascun PRP, di raggiungere un’intesa con i comuni interessati (art. 5, c. 1 ter); in caso di dissenso, trova applicazione il procedimento di opposizione di cui all'art. 14 quinquies l. n. 241 del 1990.
I fautori dell’esigenza di liberare la forza di sviluppo dei porti italiani dall’ostacolo rappresentato dalle resistenze localistiche possono quindi confidare che, per il futuro, l’evenienza di uno stallo decisionale in sede pianificatoria sarà più remota, risultando compressi, rispetto al passato, non solo l’oggetto (le aree di interazione città-porto), ma la stessa intensità del ruolo partecipativo del comune: da «endoprovvedimentale», l’intesa è infatti divenuta «endoprocedimentale».
Tuttavia, il ridimensionamento di quello che abbiamo definito il secondo obiettivo perseguito dal testo originario dell’art. 5 cit. (la ricerca di integrazione tra pianificazione urbanistica e portuale), si accompagna, nella norma novellata, a una ben più marcata esigenza di perseguimento del primo obiettivo, vale a dire l’armonico inserimento dell’infrastrutturazione programmata a livello di ciascun porto (e di ciascun sistema portuale) all’interno della pianificazione nazionale dei trasporti.
Il nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL), fulcro della disciplina dettata dal nuovo Codice dei contratti pubblici in materia di infrastrutture e insediamenti prioritari[18], è infatti assunto dall’art. 5 della l. n. 84 del 1994 come strumento di indirizzo e limite del PRSP (art. 5, c. 1 bis) e, conseguentemente, di ogni PRP.
Tuttavia, il nuovo PGTL (a distanza di più di quattro anni dalla sua istituzione) non è ancora stato approvato e questa circostanza infonde nell’osservatore il fondato timore che l’adozione degli atti di pianificazione portuali di ‘ultimissima generazione’ possa subire ulteriori ritardi: se il timore si rivelasse fondato, l’indirizzo coniato dalla sentenza in commento potrebbe acquisire una rilevanza pratica di indubbio peso anche nel contesto del rinnovato quadro normativo.
[1] Il Consorzio del porto e dell’area di sviluppo industriale di Brindisi, costituito con d.p.R. 20 dicembre 1949, n. 1607, e regolato da uno statuto approvato con d.p.R. 28 giugno 1960, n. 805, rientrava, in particolare, tra le organizzazioni portuali nate o sviluppatesi su impulso della legislazione speciale per il Mezzogiorno: a questi enti era affidata la gestione di porti posti a servizio di aree e nuclei di sviluppo industriale, a cui era destinata una consistente parte dei finanziamenti erogati nell’ambito dell’intervento straordinario della Cassa (art. 9 della legge 29 settembre 1962, n. 1462): cfr. M. Casanova, Gli enti portuali, Milano, 1971, 115 s.; G. Sirianni, L’ordinamento portuale, Milano, 1981, 123 ss.; da ultimo M. Ragusa, Porto e poteri pubblici. Una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, 2017, 62 s.
[2] Ai sensi dell’art. 4, c. 1, l. n. 84 del 1994, appartengono alla categoria II tutti i porti e le aree portuali diversi da quelli finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato, qualunque ne sia la rilevanza economica (classi I, II e III) e la concreta vocazione funzionale (art. 4, c. 3).
[3] Il Decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169 (Riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84), attuativo della delega di cui articolo 8, comma 1, lettera f), della legge 7 agosto 2015, n. 124, ha infatti sostituito le Autorità portuali istituite dall’originario art. 6 della legge n. 84 del 1994 con le Autorità di sistema portuale, enti di gestione portuale la cui circoscrizione comprende, oltre al porto-sede dell’Autorità, altri scali marittimi che, insieme, costituiscono appunto il «sistema portuale». Ai sensi dell’art. 6 e del nuovo allegato A della l. n. 84 del 1994, in particolare, il porto di Brindisi è stato inserito, insieme a quelli di Manfredonia, Barletta e Monopoli, nel sistema portuale del Mare Adriatico meridionale, il cui porto centrale è quello di Bari, sede dell’Autorità del sistema.
[4] Tar Puglia, Lecce, I, 15 luglio 2019, n. 1225
[5] Così il comma 2 dell’art. 5, legge Porti nel testo applicabile ratione temporis; lo steso divieto di contrasto è oggi disposto dall’art. 5, c. 2 sexies.
[6] La funzione dell’intesa originariamente imposta dall’art. 5, c. 3, l. n. 84 del 1994 è radicalmente mutata a seguito delle modifiche apportate alla legge a far data dal 2016: v. infra, § 4.
[7] Così la sentenza, al par. 1.2.
[8] Ibid.
[9] La legge 6 agosto 1967, n. 765 («legge ponte») ha modificato la legge urbanistica (17 agosto 1942, n. 1150) , inserendo all’art. 31, c. II, la previsione secondo cui, per le «opere da eseguire su terreni demaniali, compreso il demanio marittimo, ad eccezione delle opere destinate alla difesa nazionale, compete all'Amministrazione dei lavori pubblici, d'intesa con le Amministrazioni interessate e sentito il comune, accertare che le opere stesse non siano in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore generale o del regolamento edilizio vigente nel territorio comunale in cui esse ricadono». Sull’evoluzione dei rapporti tra pianificazione urbanistica e demanio marittimo cfr. A. D’Amico Cervetti, Demanio marittimo e assetto del territorio, Milano, 1983; M. Casanova, Demanio marittimo e poteri locali, Milano, 1986; Id., Il demanio marittimo, in A. Antonini (a cura di), Trattato breve di diritto marittimo, I, Milano, 2007, 209 ss.; M.L. Corbino, Il demanio marittimo. Nuovi profili funzionali, Milano, 1990; per ulteriori indicazioni bibliografiche v. M. Ragusa, op. cit., 120 ss. e 386 ss. e Id., La costa, la città e il porto. Il coordinamento tra pianificazione urbanistica e portuale nei porti di interesse nazionale e internazionale, in M.R. Spasiano (a cura di), Il sistema portuale italiano tra funzione pubblica, liberalizzazione ed esigenze di sviluppo, Napoli, 2013 393 ss.. Da ultimo F. Francario,
Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in www.sipotra.it
[10] G. Pericu, Porto (Navigazione marittima), in Enciclopedia del diritto, 1985, 430 ss.; sulle singole esperienze dei principali porti italiani, comunque fra loro molto differenti, v. i contributi citati alle precedenti note 1 e 9.
[11] Ai sensi del suo art. 1, la l. n. 84 del 1994 «disciplina l'ordinamento e le attività portuali per adeguarli agli obiettivi del piano generale dei trasporti, dettando contestualmente princìpi direttivi in ordine all'aggiornamento e alla definizione degli strumenti attuativi del piano stesso». In argomento v. M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit., segn. 135 ss. e 172 ss.
[12] Cfr. G. Acquarone, Il piano regolatore delle autorità portuali, Milano, 2009, 285 ss.; M. Ragusa, La costa, la città e il porto, cit.
[13] H. Ghiara (ed.), The New Economic Port Landscape. Economic Performance and Social Progress, Milano, 2012; M. Ragusa, op. ult. cit., 403 ss.
[14] Ai sensi dell’art. 3, c. 4, d.p.R. n. 383/1994 applicabile ratione temporis «L’approvazione dei progetti, nei casi in cui la decisione sia adottata dalla conferenza di servizi, sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le concessioni, anche edilizie, le autorizzazioni, le approvazioni, i nullaosta, previsti da leggi statali e regionali. Se una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso nell'ambito della conferenza di servizi, l’amministrazione statale procedente, d’intesa con la regione interessata, valutate le specifiche risultanze della conferenza di servizi e tenuto conto delle posizioni prevalenti espresse in detta sede, assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell’opera. Nel caso in cui la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell'opera non si realizzi a causa del dissenso espresso da un’amministrazione dello Stato preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità ovvero dalla regione interessata, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616».
[15] Così la sentenza in chiusura del par. 1.3.
[16] La distinzione tra il paradigma dell’intesa «endoprocedimentale» (che rileva come mera «variante organizzativa», poiché il consenso dell’amministrazione assolve essenzialmente al ruolo, appunto, di un apporto procedimentale) e quello dell’intesa «endoprovvedimentale» (che non è raggiunta all’esito di un vero procedimento amministrativo, ma di una fase preparatoria in cui gli interessi si confrontano «mediante l’esercizio di un’autonomia che sembra essere, in larga misura, di tipo negoziale») è quella proposta da R. Ferrara, Gli accordi di programma. Potere, poteri pubblici e modelli dell’amministrazione concertata, 1993, segn. 55 ss., 62 ss. e 145 ss.
[17] Nel senso di una limitazione al sotto-ambito di interazione città-porto le competenze della pianificazione urbanistica, cfr. già G. Acquarone, Il piano regolatore cit., 273 ss.; la distinzione tra l’ambito del porto operativo e quello di interazione città-porto è stata in passato accolta dal Consiglio superiore dei lavori pubblici: cfr. la Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 17778 del 15 ottobre 2004, «Linee guida per la redazione dei piani regolatori portuali».
[18] D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 200 ss.. In argomento M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit. 189 ss.
Note de iure condito e de iure condendo sulla valutazione di professionalità dei magistrati[1]
di Giuliano Scarselli
1. Il tema della valutazione della professionalità dei magistrati, voluta nei termini attuali dalla riforma Mastella di cui alla legge n. 111/2007, non è argomento semplice, perché si presta all’esposizione di banalità.
Ed infatti, una volta detto che dette valutazioni consentono ampi margini di discrezionalità agli organi preposti a pronunciarle, e che sarebbe meglio, come normalmente si dice fra serio e faceto, che queste fossero più oggettive e con meno aggettivi, probabilmente non v’è molto altro da aggiungere, e il tema sfugge ad una analisi più propriamente giuridico/teorica.
Che dire, dunque?
Io, evitando di esporre la normativa che darei per conosciuta, affronterei il tema sotto un duplice profilo:
a) de iure condito proverei a offrire una lettura delle norme che evidenzi i punti di relatività del procedimento, e ciò non tanto per dar conferma dell’esistenza di questa discrezionalità del giudizio, quanto piuttosto per prenderne consapevolmente atto anche dal punto di vista normativo ai fini di ogni correttivo immaginabile;
b) e, de iure condendo, e sulla base di quanto analizzato, proverei altresì a dare alcuni suggerimenti di riforma, anche tenuto conto di quanto già si trovi in tal senso nel progetto Bonafede di riforma dell’ordinamento giudiziario.
Situazione de iure condito
2. Dunque, se da una parte è senz’altro vero che il giudizio circa la professionalità del giudice lascia grandi margini di manovra a chi lo conduce, dall’altra, forse, è utile approfondire questo aspetto, che prima ancora che dipendere dal comportamento umano, dipende dal sistema di norme che lo regolano.
Ed infatti, una prima relatività è data dalla circostanza che i parametri con i quali la professionalità del magistrato è giudicata, sono tutti rappresentati da termini elastici, quali, appunto, quelli della capacità, laboriosità, diligenza e impegno (v. Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. IV).
E’ evidente, infatti, che, nell’elasticità di queste espressioni, non solo un medesimo magistrato potrebbe essere capace per taluni e incapace per altri, ma anche che da un parametro potrebbe dedursi l’esistenza di altri: e così, infatti, se una separazione di questi si ha tra capacità e laboriosità, poiché un giudice può certo essere capace e non laborioso o al contrario essere laborioso e non capace, più difficile è separare i parametri di diligenza e impegno, poiché, dinanzi a questi è invece difficile immaginare un magistrato che sia diligente ma non si impegni, o un magistrato che si impegni ma non sia diligente.
Ne segue, direi, che, al di là dello sforzo, comunque lodevole, che il legislatore ha fatto nell’indicare dei precisi parametri, resta insuperato il dato che tale giudizio è qualcosa di ampiamente discrezionale anche una volta dati detti parametri.
2.2. Proprio per queste ragioni, ovvero proprio perché v’è consapevolezza che il giudizio sulla professionalità di un magistrato è un giudizio ampiamente discrezionale, tanto la legge n. 111/2007, quanto la Circolare del CSM del 2007 (e sue successive integrazioni e/o modificazioni), hanno individuato degli indicatori, ovvero dei criteri per arrivare ad esprimere il giudizio (v. Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. V).
Così, in tanto un magistrato può ricevere un giudizio positivo, in quanto possieda quegli elementi che sono considerati dalla normativa come indicatori.
Questo metodo di giudizio, a pensarci, è quello che noi conosciamo come tecnica delle presunzioni di cui all’art. 2727 c.c.: dall’esistenza di uno o più fatti noti (indicatori), si risale all’esistenza dei fatti ignoti (parametri).
Se le cose stanno in questi termini, noi vediamo, allora, che alla relatività dei parametri se ne aggiunge una successiva avente ad oggetto il percorso logico che unisce gli indicatori ai parametri, e che è costituito dal giudizio “grave, preciso e concordante” (art. 2729 c.c.).
Ed inoltre, mentre la tecnica delle presunzioni di cui agli artt. 2727 c.c. muove comunque sempre da un fatto (noto) che deve essere certo e oggettivo (e ove non lo sia il giudice non può ammettere la presunzioni, v. Cass. 28 settembre 2020 n. 20342, per la quale: “Una presunzione giuridicamente valida non può fondarsi su dati meramente ipotetici”), nel nostro caso i fatti c.d. noti, ovvero gli indicatori, non sono invece in senso stretto dei fatti, poiché a loro volta sono semplicemente dei giudizi che si danno al magistrato esaminando.
Giudizi sono, infatti, e faccio degli esempi, il possesso di tecniche di argomentazione, la preparazione giuridica, la capacità di condurre l’udienza, la capacità di dirigere i collaboratori, ecc….(v. ancora Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. V).
Cosicché, può dirsi, che nel giudizio di valutazione della professionalità del magistrato è ammessa, ed anzi è la regola, la praesumptio de praesumpto, che al contrario è normalmente e tassativamente vietata dalla giurisprudenza in altri ambiti (v. Cass. 18 gennaio 2019 n. 1278; Cass. 9 aprile 2002 n. 5045; Cass. 28 gennaio 1995 n. 1044).
2.3. Si fa poi riferimento alle c.d. fonti di conoscenza, ovvero a quegli strumenti con i quali ritenere esistenti gli indicatori, e quindi deducibili i parametri (Circolare CSM n. 20691/2007, Cap. VII).
Le fonti di conoscenza altro non sono che i mezzi di prova: con essi si ha la conoscenza, ovvero la prova, dell’indicatore, e con la prova dell’indicatore si ha conseguentemente la possibilità di affermare l’esistenza del parametro.
Orbene, il problema è che anche le fonti di conoscenza non sono mezzi di prova in senso tradizionale, non hanno niente di dimostrativo del fatto, ma sono, ancora una volta, espressione di un ulteriore giudizio che va a sommarsi agli altri giudizi già espressi.
E ciò vale soprattutto per le principali fonti di conoscenza, che sono il rapporto del capo dell’Ufficio e la relazione del magistrato interessato.
Peraltro, questi dati sono acquisiti con una procedura del tutto deformalizzata, poiché ne’ la legge ne’ la Circolare del CSM contengono regole procedurali relative al giudizio di valutazione della professionalità, se si fa esclusione delle poche cose che si leggono nell’art. 11, comma 14, del d. lgs. 160/2006; e soprattutto questi dati sono acquisiti senza minimi meccanismi di contraddittorio, poiché al c.d. “magistrato interessato”, che ovviamente porterà acqua al suo mulino, non si contrappone nessun altro se questi non si è fatto delle inimicizie.
2.4. Arriviamo, cosi, ai criteri di giudizio, ovvero alla parte conclusiva della Circolare del CSM n. 20691/2007.
I criteri di giudizio indicano il percorso logico che deve essere seguito per esprimere il parere: sulla base di certe fonti di conoscenza si danno per esistenti certi indicatori, e sulla base dell’esistenza di certi indicatori si deduce l’esistenza di certi parametri.
I criteri di giudizio non aggiungono niente dunque, semplicemente confermano che il percorso logico da seguire è quello.
Il problema, semmai, è che le conclusioni logiche di tutto questo percorso devono essere poi sintetizzate in un modulo predefinito ove si devono semplicemente mettere delle crocette su dei pallini, nei quali sta scritto “positivo”, “carente” “gravemente carente”.
Dal che, direi, il giudizio di valutazione della professionalità oltre a presentare quelle relatività/discrezionalità evidenziate, termina con risposte secche, che consentono di evitare, per chi voglia evitarlo, analisi più dettagliate o approfondite.
3. Ciò premesso, desidero poi porre l’attenzione su una ulteriore dato, che è quello che un magistrato, prima ancora di essere capace, laborioso e diligente, deve essere indipendente e imparziale; e tuttavia su questi criteri, che dovrebbero essere i primi, la legge n. 111/2007 non dice niente, e nella Circolare del CSM n. 20691/2007 si trova solo qualcosa di molto sintetico al Capo II e nient’altro.
La circolare, infatti, si limita a dare sul punto delle tautologie, poiché dice che si ha l’indipendenza quando il giudice decide senza condizionamenti, si ha l’imparzialità quando il giudice decide in modo obiettivo ed equo, e si ha l’equilibrio quando il giudice decide con senso della misura e moderazione.
Manca, in questi casi, una disciplina più dettagliata, e del tutto assente è poi un ulteriore parametro di valutazione del giudice, che è quello, a mio parere di non secondaria importanza, del senso pratico.
La Circolare del CSM n. 20691/2007 afferma poi sul tema dell’indipendenza del giudice che “Gli orientamenti, politici, ideologici o religiosi del magistrato non possono costituire elementi rilevanti ai fini della valutazione della professionalità”, e che “La valutazione della professionalità non può riguardare l’attività di interpretazione di norme di diritto, ne’ quella di valutazione del fatto e delle prove” (Capo II, punto 6 e 7).
Ora, se questo è giusto e certamente condivisibile, lo diventa meno, a mio parere, se questi due elementi vengono messi in connessione tra loro.
Ed infatti, l’interpretazione delle norme può dipendere (anche) dall’orientamento politico o ideologico del giudice, cosicché, se presi separatamente questi elementi non devono costituire criteri di valutazione, quando invece un giudice tenda ad interpretare la legge in un certo modo perché quello è il modo conforme al suo orientamento politico o ideologico, allora lì un rilievo nel giudizio sulla professionalità dovrebbe ammettersi.
Stando al processo civile, esso è colmo di momenti sensibili, ove gli aspetti ideologici e politici possono avere rilevanza: si pensi al diritto all’immigrazione, alle cause di lavoro, a quelle societarie e dell’impresa, alle controversie di famiglia, agli sfratti.
Scriveva Calamandrei (Studi sul processo civile, Padova, 1956, VI, 67) che “E’ possibile che un giudice, nel contrasto tra un ricco e un povero, o tra un ateo e un credente, dia ragione senza accorgersene all’uno o all’altra non per ragioni oggettive della causa, ma per la propensione morale che egli prova verso la categoria sociale a cui l’uno o l’altro appartiene”.
Calamandrei sottolineava senza accorgersene, poiché certo non è in discussione la buona fede del giudice; e tuttavia si tratta di aspetti che non andrebbero trascurati in un giudizio sulla professionalità, e che invece sono del tutto messi in angolo dalla legge n. 111/2007 e dalla Circolare n. 20691/2007 del CSM.
4. Ne’, con riferimento a tutto questo, gioca un ruolo di un certo rilievo il controllo giurisdizionale.
Stando alla giurisprudenza amministrativa (v. per tutte Consiglio di Stato 31 agosto 2017 n. 4149), la valutazione della professionalità rientra tra i poteri discrezionali del Consiglio superiore della magistratura ai sensi dell’art. 105 Cost. e ciò esclude il controllo giurisdizionale “con la sola eccezione di vizi di carattere formale, ovvero logici, a fronte cioè di provvedimenti irragionevoli, incoerenti o contraddittori”.
Dunque, nessun sindacato è ammesso sulle valutazioni di merito del CSM, e poiché le decisioni del CSM sono quasi sempre conformi ai pareri dati dai Consigli giudiziari, va da sé che anche le attività dei Consigli giudiziari non sono soggette ad alcun controllo giurisdizionale, considerato che l’esistenza di vizi formali appare ipotesi rarissima.
Peraltro, poi, si tratta pur sempre di un controllo giurisdizionale a senso unico, poiché l’intervento giurisdizionale può essere richiesto dal magistrato che non abbia ottenuto la valutazione positiva di professionalità, ma non v’è (normalmente) nessuno che possa al contrario chiedere il controllo giurisdizionale nelle ipotesi nelle quali il magistrato sia stato valutato positivamente in assenza dei presupposti.
Prospettive de iure condendo
5. Veniamo alle prospettive future.
Lo stesso progetto Bonafede contiene in punto di valutazione di professionalità due proposte di riforma:
a) una attiene al c.d. diritto di tribuna, ovvero alla possibilità che anche i laici del Consiglio giudiziario possano partecipare alle discussioni sulla valutazione di professionalità dei magistrati, seppur senza diritto di parola e di voto;
b) e l’altra attiene alla procedura, che andrebbe, si dice, meglio e più semplicemente regolata.
Alla luce di quanto ho premesso, esterno il mio pensiero anche su questi aspetti.
6. Per quanto attenga al diritto di tribuna, se una prossima riforma dovesse riconoscere ai laici questo diritto, essa solo in parte introdurrebbe una novità, poiché il diritto di tribuna, nel silenzio della legge, è già riconosciuto a livello di regolamento da molti Consigli giudiziari, cosicché la novità sarebbe solo per quei Consigli giudiziari che ad oggi, con loro regolamento, non ammettono i laici all’audizione delle discussioni in ordine alla valutazione di professionalità dei magistrati.
Ma:
a) da una parte, se il tema è quello di determinare il ruolo dei laici in ordine alla valutazione di professionalità dei giudici, il diritto di tribuna, che esclude comunque agli stessi la partecipazione al dibattitto e al voto, non sembra soluzione soddisfacente;
b) e, da altra parte, sembra altresì una soluzione del tutto inutile ove si voglia parimenti affermare il diritto alla riservatezza su quanto avvenga all’interno dei Consigli giudiziari.
V’è da chiedersi, infatti, a cosa serva che taluni avvocati partecipino alle discussioni sulle valutazioni di professionalità dei giudici se questi avvocati, poi, ammessi come semplici auditori, non possono esternare quanto hanno ascoltato, ne’ rendere pubblico quanto hanno appreso.
6.2. Io credo, allora, che l’intervento da fare sia altro.
Penso si possa affermare che i compiti attribuiti al Consiglio giudiziario dall’art. 15 del d. lgs. 25/2006 si dividano in due ambiti: alcuni non attengono strettamente a quelli previsti dall’art. 105 Cost. (quali, ad esempio, le c.d. variazioni tabellari), e altri, tutto al contrario, sono pienamente riconducibili a quelli, e tra questi ultimi vi rientrano i giudizi di valutazione della professionalità dei magistrati, che infatti sono provvedimenti di competenza del CSM, seppur emanati a seguito di parere del Consiglio giudiziario.
Orbene, se questo è vero, v’è da affermare che in tutti i casi nei quali il Consiglio giudiziario operi in materie strettamente riservate al CSM ai sensi dell’art. 105 Cost., il Consiglio giudiziario debba procedere e decidere con le stesse proporzioni, e con le stesse modalità di esercizio del potere, proprie del CSM, e cioè con la presenza di un terzo di laici che abbiano su ciò il diritto di discussione e di voto.
I Consigli giudiziari, soprattutto quelli relativi ai distretti più grandi, non hanno al loro interno un terzo di laici, poiché la misura è normalmente minore, e decresce ulteriormente all’aumentare del numero dei giudici del distretto.
Dunque, la proposta di riforma è chiara: i Consigli giudiziari, quando operano in materie di cui all’art. 105 Cost. devono essere composti di un terzo di laici, e devono decidere con il voto di un terzo di laici.
La diversa scelta, cui oggi abbiamo, non solo non sembra equilibrata, ma potrebbe addirittura essere incostituzionale.
Ed infatti, nella misura in cui la valutazione di professionalità è materia assegnata dall’art. 105 Cost. al CSM, e nel momento in cui le decisione del CSM devono essere prese ai sensi dell’art. 104 Cost. con un terzo di componenti laici, l’art. 16, d. lgs. 25/2006, per essere conforme agli artt. 104 e 105 Cost., deve prevedere che ogni decisione riconducibile a detta materia debba essere presa con un terzo di laici.
Detta riforma appare tanto più necessaria quanto più, e come sopra abbiamo visto, il giudizio di valutazione di professionalità dei magistrati è un percorso che lascia a chi lo compie ampi margini di discrezionalità; cosicché la partecipazione (anche) di avvocati e professori universitari secondo le misure dell’art. 104 Cost. appare dovuta.
Questa proposta io già la facevo molti anni fa (v. SCARSELLI, Ordinamento giudiziario e forense, IV ed., Milano, 2013, 179); la speranza è che oggi siano maturi i tempi per realizzarla.
6.3. A questo proposta di riforma vanno però aggiunte due considerazioni:
a) una prima è che mentre gli avvocati componenti del CSM non possono, per tutta la durata del mandato, svolgere la professione, gli avvocati del Consiglio giudiziario non hanno questo limite, anche perché non sono retribuiti per il compito che svolgono, e possono così, contestualmente, sia esercitare la professione forense, sia sedere in Consiglio giudiziario.
Questo, evidentemente, costituisce un problema, poiché, mentre un avvocato componente del CSM può liberamente esprimersi su un giudice senza alcun possibile conflitto di interesse, lo stesso non può dirsi con riferimento all’avvocato che sieda in un Consiglio giudiziario, visto che questo potrebbe giudicare un giudice in Consiglio giudiziario e poi il giorno dopo quel giudice potrebbe giudicare una causa di quell’avvocato.
E’ ovvio che questo problema esiste e va risolto.
Credo, però, che questo rilievo non debba far venir meno l’idea della riforma che si suggerisce; semplicemente si tratta di trovare una soluzione che renda impossibile un simile conflitto di interesse, creando una incompatibilità, da studiare e verificare, tra l’avvocato consigliere giudiziario e l’esercizio della professione forense.
b) Una seconda considerazione attiene alla preparazione degli avvocati e dei professori universitari in ordine all’ordinamento giudiziario.
Non ho remore ad affermare che sia gli uni che gli altri, quasi sempre, hanno conoscenze assai limitate della materia.
Peraltro, l’ordinamento giudiziario è materia che nemmeno si insegna nei dipartimenti di giurisprudenza, è materia che non si ha agli orali dell’esame di avvocato, è materia sulla quale poche sono anche le occasioni di studio in ordine alla formazione e all’aggiornamento professionale successivo, e addirittura è ora materia che sembra (ma forse è solo una mia impressione) ridimensionata anche nell’orale del concorso in magistratura, se si tiene conto del progetto di riforma Bonafede (v. art. 28, lettera f) di quel progetto).
Si tratta, tutto al contrario, di diffondere le conoscenze della disciplina dell’ordinamento giudiziario, poiché solo su una simile premessa sarà possibile che il maggior peso dei laici in Consiglio giudiziario produca dei frutti.
7. La seconda proposta di riforma attiene, come detto, al procedimento.
Non si tratta, a mio parere, di operare una semplificazione della procedura, poiché certe precisazioni e puntualizzazioni delle questioni sono, a mio parere, seppur con i limiti che mi sono divertito ad esaltare, necessarie e dovute, e non si tratta nemmeno di irrigidire il sistema di valutazione oltre una certa misura, poiché credo che al di là delle ampie discrezionalità che i meccanismi della Circolare del CSM n. 20691/2007 offrono, il giudizio non possa che rimanere elastico, anche perché non è pensabile che un magistrato ogni quattro anni debba, in un certo senso, e altrimenti, superare quasi ex novo, un concorso.
Si tratta, a mio parere, di suggerire solo qualche minima regola procedurale, in grado, se si vuole, di compensare l’ampia discrezionalità di merito che il giudizio sulla valutazione della professionalità ha.
E in questa ottica, se mi è consentita una proposta extravagante, a me viene in mente Papa Benedetto XIV e la sua Bolla del 3 novembre 1741.
Papa Benedetto XIV, constatato che dinanzi ai tribunali ecclesiastici l’annullamento dei matrimoni si concedeva con gran facilità e talvolta con grandi abusi, istituì, con la bolla su menzionata, il defensor matrimonii, che aveva il compito di difendere il vincolo matrimoniale nella procedura prevista per l’udienza delle cause matrimoniali che implicavano la validità del matrimonio.
Il defensor matrimonii aveva il compito di vigilare, era parte necessaria di ogni procedimento di annullamento del matrimonio, e assicurava la regolarità del contraddittorio e la fondatezza delle prove che venivano poste a sostegno della domanda.
Qualcosa del genere potrebbe esser pensato anche con riguardo all’odierno giudizio di valutazione della professionalità dei magistrati, date, evidentemente, le dovute differenze.
Non sarebbe impensabile, per ogni valutazione, immaginare che il relatore della pratica abbia anche una funzione di defensor, con un ruolo, se si vuole, un po’ più incisivo.
Ciò assicurerebbe, in una certa misura, una sorta di contraddittorio oggi inesistente in ordine agli indicatori e alle fonti di conoscenza che sopra abbiamo ricordato, e consentirebbe altresì un eventuale controllo duplice in sede giurisdizionale: poiché, mentre oggi ogni impugnativa al giudice amministrativo è del magistrato giudicato, con questo sistema l’impugnazione potrebbe essere altresì assegnata alla legittimazione del defensor in tutti quei casi in cui lo stesso ritenga sia stato commesso un eccesso.
[1] Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della magistratura in data 8 febbraio 2021 in un incontro di studio dedicato a L’Ordinamento giudiziario.
Il fine vita e il legislatore pensante
3. Il punto di vista dei filosofi del diritto
Considerazioni di Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato e Carla Faralli
Introduzione di Angelo Costanzo
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci)]
Introduzione
Angelo Costanzo
Le decisioni della Corte di cassazione della Corte costituzionale sulle questioni del fine-vita e l’esplicitazione del principio di libertà di autodeterminazione terapeutica (con il correlato strumento del consenso informato) nella legge n. 219/2017 non forniscono sufficienti principi normativi generali che regolino sia la posizione della persona interessata sia quella di coloro (sanitari, amministratori, familiari) che operano al suo intorno. Occorrono ulteriori leggi che definiscano la reale portata delle decisioni delle Corti e gli ambiti da queste non considerati. Resta, in ogni caso, il problema (in sé irresolubile) che sorge quando si tratta di sostituire una altrui volontà a quella di un soggetto che più non la possiede (o non può esprimerla), come se a quel soggetto in quel momento tale volontà effettivamente appartenesse. I pochi ordinamenti giuridici che disciplinano la materia possono suggerire modi per affrontare le questioni, ma, in assenza di nette scelte legislative, è possibile che per risolvere i casi concreti siano seguiti valori di fonte extralegislativa.
Con un taglio prevalentemente ma non esclusivamente filosofico, rispondono alle domande:
- il prof. Lorenzo d’Avack, professore emerito di filosofia del diritto, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica;
- il prof. Salvatore Amato, professore ordinario di Filosofia del Diritto dell’Università di Catania, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica;
- la prof.ssa Carla Faralli, professore ordinario di Filosofia del Diritto, attualmente insegna Bioetica nell’Università Alma Mater di Bologna, è componente del Comitato Etico di area vasta Emilia Centro.
D’Avack evidenzia l’eterogeneità dei disegni di legge presentati in parlamento e il loro discostarsi dai canoni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale. Ritiene ottima la legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) perché è riuscita a affermare l’autonomia di scelta del paziente rispetto ai trattamenti sanitari (anche a quelli ritenuti ‘salva vita’). Rileva che il diritto all’obiezione di coscienza non è espressamente previsto ma che se fossero imposti ai sanitari obblighi relativi all’aiuto al suicidio allora ne andrebbe tutelata l’autonomia professionale. Per altro verso, osserva che gli orientamenti della giurisprudenza in materia biogiuridica sono fra loro difformi e mostrano eccessi esegetici che non giovano alla certezza del diritto.
Amato osserva che in materia di fine-vita i giudici attingono a decisioni adottate in altri ordinamenti e così introducono principi normativi nuovi. Rimarca che l’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute è il fondamento ma anche il limite della bioetica perché non esistono un diritto a morire o un dovere di vivere assoluti e il diritto si rivela imperfetto quando regola situazioni in cui la vita perde la sua pienezza. Considera che sui giudici, in assenza di norme legislative adeguate, grava un sovraccarico morale che li porta a farsi legislatori, così avvicinandosi al cittadino ma allontanandosi dal quadro istituzionale. Ritiene che il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente rientri nel “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica non nell’obiezione di coscienza.
Faralli descrive alcuni fra i casi più rilevanti affrontati dalla giurisprudenza nei diversi sistemi giuridici. Ripropone la questione se il diritto debba disciplinare le situazioni che interessano la bioetica, esprimendo, comunque, preferenza per le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico rispetto al modello della legislazione autoritaria. Ritiene che introdurre l’obiezione di coscienza nella legge n. 219/2017 sarebbe stato inappropriato ma che risulterebbe necessario se si allargasse l’applicazione della legge al caso del suicidio medicalmente assistito. Auspica una regolazione che consenta ai Comitati per l'etica nella clinica di essere consultati; in particolare quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appaia necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione su questioni etiche.
1. l valore “normativo” della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
Prof. Lorenzo d’Avack
Dovrebbe essere almeno un punto di partenza per il legislatore o almeno uno stimolo.
La ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio evidenzia la preoccupazione del Giudice delle leggi di regolamentare legislativamente il più possibile l’ambito del proprio operato e di non lasciare un “vuoto normativo”. A tal fine nell’ordinanza si era data al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità per completare una ricostruzione dell’articolo 580 c.p. Dal momento, tuttavia, che nelle more di un anno la Corte ha dovuto prendere atto che nessuna normativa in materia era sopravvenuta, ha con sentenza pronunciato nel merito delle questioni in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale, già riscontrato con l’ordinanza e ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.
Tuttavia, emergono aspetti problematici di questa decisione che inevitabilmente avranno una incidenza sull’auspicato e necessario intervento del legislatore perché provveda ad assicurare alla prestazione di aiuto medicalizzato ai pazienti all’interno della cornice regolatoria, tracciata dalla Corte, la chiarificazione dei contenuti e della procedura, così da evitare abusi, ma anche limiti che ne rendano difficile la realizzazione.
Non possiamo ora immaginare quale sarà la strada che verrà percorsa da una eventuale futura legge, una strada di fatto già accidentata vista l’eterogeneità dei disegni di legge presenti oggi in parlamento e tendenzialmente portati a legittimare l’eutanasia, ma ben poco conformi alle regole e ai principi ricavabili dalla sentenza della Corte. Ciò preoccupa, dato che non è la prima volta che i parlamentari e i partiti politici non adempiono ai loro compiti. È frequente che il Parlamento ignori o lasci troppo a lungo senza risposta le indicazioni della Corte costituzionale che segnala la necessità di mettere la legislazione in linea con la Costituzione.
L’ auspicio è allora che in questa vicenda di fine-vita il legislatore faccia un passo avanti, non lasciando che il ‘diritto a morire’ continui a restare nel vago di diverse letture giurisprudenziali.
Prof. Salvatore Amato
Un paio di premesse a questa e a tutte le altre domande. L’attivismo giudiziario è un fenomeno che riguarda tutti i paesi a democrazia avanzata, perché la tutela della salute, la qualità della vita, il rispetto dell’integrità personale coinvolgono radicalmente quei principi di libertà, uguaglianza e solidarietà che stanno alla base del tessuto costituzionale. Abbiamo una sorta di cosmopolitismo giudiziale con cui si tenta di dare voce alle tensioni morali che emergono da singole istanze individuali, per parlare alla coscienza della società oltre le norme, perché spesso manca un quadro legislativo definito, ma dentro le norme, perché il diritto è considerato uno strumento vivo. Significativamente la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la prima volta in cui nel 2015 è intervenuta sul suicidio medicalmente assistito nel caso Pretty, ha parlato del diritto come un living instrument. Del resto, la stessa CEDU si è autodefinita “the conscience of Europe” in un volume del 2010 con cui celebrava i cinquant’anni della propria attività.
A questo fenomeno è legato un singolare sviluppo della tecnica argomentativa, la transnazionalizzazione dei flussi giuridici o judicial borrowing, vale a dire l’assunzione di concetti giuridici, assunti etici, espedienti tecnici, tratti dall’elaborazione giurisprudenziale di altri paesi. Il giudice non si sente più vincolato solo al diritto statale nella misura in cui trova, anche se in decisioni maturate in altri contesti, il segno di un cambiamento di fronte al quale non può restare indifferente. La sentenza della Corte di cassazione italiana sul caso Englaro è estremamente significativa in questo senso (se non ha addirittura introdotto questo modello nel nostro paese), perché fonda gran parte dei propri assunti su alcune decisioni della giurisprudenza americana (Quinlan, Cruzan, Glucksberg), dell’Alta Corte Inglese (Ms. B), del Bundesgrerichtshof, oltre che naturalmente della CEDU (Pretty).
Senza questo espediente, che è tecnico e culturale nello stesso tempo, la Cassazione non avrebbe potuto giustificare il rilievo non meramente interpretativo, ma chiaramente normativo del punto più delicato della sua decisione: l’interruzione delle cure nei confronti di un soggetto di cui si ignora la volontà, perché è in stato vegetativo persistente da diversi anni. L’unico modo per trovare un fondamento a questa drammatica conclusione negli art. 13 e 32 II comma della Costituzione era ricorrere alla suggestione retorica di decidere “non per Eluana, ma con Eluana”. Questa aspirazione a stare “con” Eluana, a rispettare e realizzare le sue volontà, non sarebbe stata possibile se i giudici non avessero “importato” il modello del “consenso presunto” o “subsistuted judgement” dalla giurisprudenza americana. Modello desunto inoltre da altri due istituti, il living will e il power of attorney, estranei, anch’essi, al nostro orizzonte normativo.
Dico “importato” perché nella sentenza della Cassazione c’è un inciso, un obiter dictum, che è diventato una norma, “e non abbia… specificamente indicato… attraverso dichiarazioni di volontà anticipate”. Come avrebbe potuto Eluana compilare delle Dat, se non esisteva nulla del genere nel nostro ordinamento giuridico? Con poche parole, ripeto meramente incidentali, è stato legittimato un nuovo istituto e poi, in forza di questa particolare creazione, si è ritenuto di poter dare voce a chi non poteva parlare, attribuendo al rappresentante legale il diritto a chiedere l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.
È difficile non comprendere e non condividere la tensione etica che sta dietro questa decisione, ma è altrettanto difficile ricondurla entro i canoni dell’art. 12 delle preleggi. La cosa è ancora più singolare perché tanto negli Stati Uniti quanto in Italia nessuna legge attribuiva esplicitamente tale potere al rappresentante legale. Negli Stati Uniti le law of agency di vari Stati, sul modello di una legge della Virginia degli anni ‘50, avevano ampliato il potere del procuratore investendolo di compiti che andavano oltre la cura degli interessi patrimoniali, ma non contemplavano le questioni di fine-vita. È stata la giurisprudenza ad allargare l’orizzonte, “benché la legge non autorizzi esplicitamente la concessione di un’autorizzazione permanente a prendere decisioni di carattere medico” (In Re Peter 529 A. 2d 419 N.J. 1987).
In Italia è avvenuta la stessa cosa: la dizione dell’art. 357 del Codice civile, “il tutore ha la cura della persona”, si è dilatata finendo per assorbire ogni dimensione esistenziale. Non so se questo sia avvenuto solo per spirito emulativo della giurisprudenza degli altri paesi o per una strutturale forza espansiva dell’istituto. Fatto sta che, a partire dal caso Englaro e ben oltre il caso Englaro, l’amministratore di sostegno ha assunto definitivamente una “particolare” declinazione giudiziale, mentre le Dat sono entrate a far parte del nostro tessuto normativo.
Il caso Englaro punto di arrivo o punto di partenza? Faccio rispondere a una nota decisione del Tribunale di Modena (Decreto 5.11. 2008) che fa rilevare “l’assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamentario biologico”, perché già esistevano gli strumenti normativi per esprimere le proprie volontà. Quindi molto più di un punto di arrivo: un vero e proprio vincolo giudiziale all’operato del legislatore, perché una volta riconosciuti determinati diritti non è facile rimetterli in discussione.
Non posso dire lo stesso del caso Cappato. Qui, per me, la Corte ha aperto (penso senza rendersene conto) una voragine a cui può o, forse meglio, deve porre rimedio solo il legislatore. Ma vorrei chiarire questa mia convinzione, rispondendo a una delle domande successive.
Prof. Carla Faralli
Nell’ambito della bioetica/biodiritto un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza sia nei sistemi di common law sia nei sistemi di civil law.
Negli Stati Uniti sul tema del fine-vita i casi che per primi e in maniera particolarmente significativa hanno aperto il dibattito e influenzato l’orientamento delle corti sono i ben noti casi di Karen Ann Quinlan e di Nancy Cruzan.
Nel 1976 il padre di Karen Ann Quinlan chiese l’autorizzazione alla Corte Suprema del New Jersey di staccare il respiratore che, unitamente a una sonda gastrica, teneva in vita la figlia. La Corte con sentenza del 31 marzo dello stesso anno, per la prima volta, riconobbe un «right to die» quale espressione di un più generale diritto alla privacy, argomentando che l’interesse della ragazza alla rimozione del respiratore artificiale era superiore all’interesse dello Stato alla conservazione della vita. La sentenza della Corte introdusse anche il principio del «giudizio sostitutivo» (substituted judgement) che estende il potere decisorio (surrogate decision making) a coloro che sono legati al paziente da un rapporto di particolare vicinanza – familiare, amico intimo, ecc – tale da permettere loro di affermare che l’avente diritto avrebbe consentito all’interruzione delle cure se avesse potuto manifestare la sua volontà e, quindi, di adottare, in sua vece, decisioni di ordine medico.
Orientamento più restrittivo emerge dall’altro caso che ho sopra citato: il caso Cruzan. Nel 1990 i genitori di Nancy Cruzan, una ragazza in stato vegetativo persistente a causa di un incidente occorsole sette anni prima, chiesero che le fosse tolto il tubo attraverso il quale era alimentata artificialmente, ma la loro richiesta fu respinta dai medici. Seguirono due giudizi contrastanti (uno della Trial court che autorizzava e uno della Corte Suprema del Missouri che negava l’autorizzazione) e del caso, su iniziativa degli stessi genitori di Nancy Cruzan, fu investita la Corte Suprema. Questa accolse la decisione della Corte del Missouri, non essendovi la certezza che la volontà espressa in vita da Nancy fosse stata nel senso di non essere più alimentata in quelle condizioni.
Tale sentenza ridimensiona quindi notevolmente la portata del diritto alla privacy e mette in primo piano il problema del consenso, affermando che, in mancanza di una volontà effettiva e cosciente del paziente, non è sostenibile il ricorso ad alcun giudizio sostitutivo quando non vi sia la prova, certa, chiara e convincente (clear and convincing evidence) della precedente volontà del paziente incosciente, tenuto conto anche dell’irreversibilità degli effetti di tale atto.
In Italia un ruolo analogo è stato svolto dai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro.
Alla fine del 2006 Piergiorgio Welby, come è noto, dopo una lunga battaglia civile, volta ad affermare il diritto a rifiutare le cure, e una sentenza del Tribunale di Roma , che aveva respinto la sua richiesta dichiarata inammissibile a causa del vuoto legislativo in materia (il diritto al rifiuto delle cure viene definito dai giudici un “diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento”), morì grazie all’intervento del medico anestesista Marco Riccio che procedette al distacco del respiratore e alla somministrazione di sedazione.
Il medico, autodenunciatosi, fu prosciolto da ogni accusa, prima dall’Ordine dei medici, che riconobbe la piena legittimità del suo comportamento etico e professionale, poi dal Tribunale di Roma, che ordinò il non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato. Il giudice richiama l’art. 41 del Codice penale italiano che prevede la non punibilità per il medico che adempie al dovere di dare seguito alle richieste del malato, compreso il rifiuto delle cure sancito dall’art. 32 della Costituzione.
Pochi anni dopo, nel 2009, arriva a conclusione anche il caso altrettanto noto di Eluana Englaro.
A partire dal 1999 il padre e tutore di Eluana aveva iniziato una battaglia giudiziaria volta a chiedere la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie, battaglia giunta in Cassazione, che nell’ottobre 2007 aveva inviato il caso alla Corte d’appello di Milano, fissando due presupposti per l’autorizzazione all’interruzione dell’alimentazione artificiale e delle terapie:
- che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”;
- che “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce della paziente medesima, fatta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
La Cassazione sottolinea che chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, quindi, consentendo all’incapace di esprimere il rifiuto di ogni tipo di cura per mezzo del rappresentante legale, si ristabilisce piena parità di trattamento tra i soggetti competenti e quelli che non sono in grado di esprimere le proprie determinazioni.
La Cassazione, inoltre, non riconosce al legale rappresentante il diritto di decidere al posto dell’incapace o in nome dell’incapace, ma insieme all’incapace, condizione quest’ultima che si dà quando il legale rappresentante dà sostanza e coerenza all’identità complessiva della persona che rappresenta e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della vita.
Ed è quanto ha fatto la I° sezione civile della Corte d’Appello di Milano, alla quale la causa è stata rinviata, nella pronuncia del 9 luglio 2008, dopo aver accertato entrambe le condizioni, autorizzando il padre/tutore non al posto di Eluana ma con Eluana ad interrompere l’alimentazione artificiale e la terapia.
I due leading cases della bioetica di fine vita in Italia hanno aperto la strada, insieme ad altre sentenze sul consenso informato, alla legge 219 del 22 dicembre 2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
All’art. 1 comma 5 la legge prevede: “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha inoltre il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento…. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici” e al comma 6 “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile e penale”.
L’art. 1 della legge 219 nei due commi sopra citati riguarda casi analoghi a quello di Welby, cioè soggetti capaci; per quanto riguarda invece soggetti incapaci, come Eluana Englaro, la legge prevede le disposizioni anticipate di trattamento attraverso le quali (art. 4):” ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in presenza di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte può esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia … che ne faccia le veci o la rappresenti nella relazione con il medico e con le strutture sanitarie”.
Nel caso di patologie croniche e invalidanti, caratterizzate da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, la legge 219 all’art. 5 prevede la pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico “alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
Il caso di aiuto al suicidio oggetto delle due pronunce della Corte costituzionale del 2018 e del 2019 sul caso del DJ Falbo esula dalle previsioni della legge 219, come affermato dalla stessa Corte costituzionale: la legislazione in vigore in Italia “non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte”.
Alla luce di ciò nella prima pronuncia del settembre 2018 la Suprema Corte aveva ritenuto di rinviare al Parlamento “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale” “ogni opportuna riflessione e iniziativa e solo davanti all’inerzia del legislatore è intervenuta con la seconda pronuncia del settembre 2019 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, ribadendo peraltro “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”.
2. Alla ricerca di un bilanciamento fra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute. Potrà mai essere trovato “per legge” dopo gli interventi della Corte costituzionale? La vulnerabilità e le scelte di fine vita.
Prof. Lorenzo d’Avack
Ritengo che questo sia già avvenuto, anche se con grave ritardo senza la necessità di un intervento costituzionale. La legge n. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento è una ottima legge che è riuscita, con molte difficoltà, ad affermare l’autonomia e responsabilità del paziente nei confronti delle scelte in merito ai trattamenti sanitari, anche quelli ritenuti ‘salva vita’. Nel rispetto di principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dopo decenni di colpevole silenzio e di ondivaghi interventi giurisprudenziali (Welby, Riccio, Englaro, Testimoni di Geova, ecc.), finalmente troviamo stabilito per legge che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Come già avvenuto in altri Paesi (ad es. Francia, Germania, ecc.) il legislatore, pur conservando l’implicito divieto all’eutanasia, ha voluto rendere legittime all’interno dell’alleanza terapeutica e della relazione di cura le autonome decisioni del paziente sulla propria salute, richieste che ricadono nell’ambito di una più ampia tutela dei diritti della persona.
Prof. Salvatore Amato
L’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute costituisce il fondamento della bioetica, ma anche il suo limite, perché delinea una zona grigia sempre variabile in cui si scontrano e si incontrano sensibilità e modelli culturali diversi. Tutti sono d’accordo nel ritenere che dignità, vita, libertà, salute siano valori indiscutibili, ma ognuno li legge a suo modo. Nel caso Englaro la dignità è stata invocata tanto per giustificare l’interruzione dei trattamenti quanto per rivendicare il dovere di preservare la vita.
La nostra Corte costituzionale nel caso Cappato (242/2019) muove dalla premessa che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”, salvo poi a relativizzare questa affermazione in nome del diritto all’autodeterminazione.
Potremmo concludere che non esiste un diritto assoluto a morire e non esiste un dovere assoluto di vivere. L’esperienza morale e giuridica si muove a tentoni tra questi due estremi, senza riuscire a individuare un canone certo su cui fissare le prospettive normative. Forse è un bene che sia così, perché le questioni di fine vita sono talmente diverse, l’una dall’altra, da impedire qualsiasi facile generalizzazione. È in contrasto con la dignità della persona “condannarla” a restare attaccata a una macchina ed è in contrasto con la dignità della persona “abbondonarla” alla morte. Anche chi crede che la vita sia “sacra” non può non avere dubbi su quanto la tecnologia stia condizionando, se non falsando, il senso della fine della vita.
Ce ne rendiamo conto proprio attraverso il concetto di vulnerabilità che, praticamente assente nel linguaggio giuridico fino alla fine del secolo scorso, è divenuto ormai una costante della lettura giurisprudenziale e legislativa delle esigenze umane, ponendo l’accento su un numero sempre più ampio di situazioni in cui si delineano, per i motivi più eterogenei, condizioni di emarginazione, sfruttamento e disagio, se non addirittura di oppressione sociale o esistenziale. Un “catalogo aperto”, per usare un’espressione della Cassazione (11110/2019) in tema di protezione umanitaria. Talmente aperto che, sempre nel caso Cappato, la Corte costituzionale ci pone di fronte a una sorta di vulnerabilità della vulnerabilità, quando affida alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale il compito di verificare le modalità̀ di esecuzione del suicidio assistito, per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, e poi riserva ai Comitati etici il compito di “intervenire” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili” (per inciso saremmo l’unico paese al mondo che attribuisce ai Comitati etici questo compito). Quando si diventa “particolarmente” vulnerabili? Sempre? In alcuni casi? Mai? D. J. Fabo era “solo” vulnerabile o anche “particolarmente” vulnerabile? Forse dietro questo scivolamento linguistico, si fa strada la convinzione che la sofferenza dell’uno non sia mai la sofferenza dell’altro. Più il diritto tenta di scendere negli orizzonti insondabili in cui la vita perde la sua pienezza e più scopriamo quanto sia imperfetto ed approssimativo.
Prof. Carla Faralli
Il rapporto tra diritto e morale è tema classico della filosofia del diritto. Negli ultimi decenni, caduta la rigida distinzione tra diritto e morale che aveva caratterizzato il positivismo giuridico fino ad Hart, si è aperta la via per una filosofia del diritto normativa, impegnata in questioni con una forte ricaduta politica e morale, comprese quindi le questioni bioetiche.
Contro la tesi giuspositivistica della separazione tra diritto e morale (Trennungsthese, come la definisce Robert Alexy) si è sviluppata la tesi della connessione tra diritto e morale (Verbindungsthese, sempre seguendo Alexy). Tale ultima tesi assume connotazioni diverse, riconducibili però a due filoni principali, quelle delle concezioni perfezioniste e quello delle concezioni proceduraliste.
Per le concezioni perfezioniste, nella forma forte, tutte le scelte sia pubbliche sia private devono perseguire un ideale di vita buona. Tipico rappresentante John Finnis il quale, come è noto, sostiene che occorre un’organizzazione della società che sia in grado giuridicamente e politicamente di garantire il perseguimento della piena fioritura umana (human floroushing) attraverso la valorizzazione dei sette beni fondamentali, indeducibili e indimostrabili, che presiedono ogni valutazione moralmente rilevante. Tali beni rimandano a norme morali inderogabili, gli “assoluti morali”, la cui validità non ammette eccezioni e che il diritto deve tutelare.
L’eutanasia, ad esempio, è un caso paradigmatico di azione che è sempre sbagliata, perché è una scelta contro uno dei beni fondamentali, la vita, e nessun argomento può giustificare un atto contro la vita. La nozione di bene comune è per Finnis costitutiva del diritto, nel senso che rappresenta il criterio a partire dal quale è possibile legittimare il diritto positivo. Nel caso dell’eutanasia, Finnis sostiene che il diritto deve proibire gli atti che vanno contro il valore vita.
C’è anche una versione meno assoluta e radicale di perfezionismo, quella, ad esempio, dei comunitarians, che sostengono che l’oggettività dei criteri morali deriva dalla storia di un determinato popolo, storia che determina una sorta di moralità diffusa.
è la tesi espressa da Lord Devlin, nella polemica con Hart sul Wolfenden Report, riguardante, come è noto, la questione dell’opportunità della repressione penale della omosessualità e della prostituzione in Inghilterra. Contro Hart che, alla luce della tesi positivista della separazione tra diritto e morale, aveva sostenuto che il diritto non deve entrare in comportamenti non offensivi per il prossimo (le self regarding actions di J. Stuart Mill), Devlin sostenne che una morale condivisa –di cui, a suo parere, le regole che condannano l’omosessualità e la prostituzione devono essere considerate parte- è una componente irrinunciabile dell’organizzazione sociale, nel senso che rappresenta un aspetto essenziale della struttura di una società e ne determina l’identità, quindi la società, anche attraverso il ricorso alle norme coercitive del diritto, può e deve difendersi per evitare la propria distruzione.
Al lato opposto delle concezioni perfezioniste, soprattutto nella loro forma più forte, le concezioni proceduraliste, in base alle quali si sostiene che i criteri delle scelte non devono riguardare le concezioni sostanziali del bene e che si possa giungere a scelte eque di giustizia a partire da procedure che abbiano determinate caratteristiche.
Il merito di queste concezioni è quello di prendere sul serio “il fatto del pluralismo” – come l’ha definito Rawls -, vale a dire il fatto che esistono diverse concezioni sostanziali del bene e che primo dovere dell’uomo è rinunciare alla pretesa di fare delle proprie personali credenze il modello universale del conoscere e dell’agire, e proporre scelte ragionevoli che non rimandano cioè ad una presunta verità o falsità, giustizia o ingiustizia di una realtà precedente alla deliberazione stessa, ma che ricevono, in forza delle procedure di giustificazione seguite, un generale consenso, ovvero un “consenso per intersezione”, per dirla sempre con le parole di Rawls. Sulla stessa linea si muove Jurgen Habermas: anche il filosofo tedesco prende atto che non esiste un’unica concezione del bene e conseguentemente non sono possibili accordi sostanziali sui valori ma solo accordi procedurali.
Queste concezioni proceduraliste sono alla base delle teorie neo- costituzionaliste di Dworkin e Alexy che, pur nelle loro diverse declinazioni, affermano la non riducibilità del diritto al mero diritto formalmente valido e l’inclusione in esso di contenuti morali espressi dai principi e dai diritti inviolabili degli individui racchiusi nelle Costituzioni. Dal che discende il vincolo del legislatore di fronte ai principi e ai diritti e il ruolo decisivo dei giudici per la loro attuazione attraverso lo sviluppo di nuove forme di decisione giudiziale, come, ad esempio, il bilanciamento.
Su questo sfondo il filosofo del diritto si trova ad affrontare il problema se il diritto debba o meno disciplinare le questioni bioetiche e, in caso di risposta affermativa, come devono essere le norme giuridiche che le regolano. Semplificando e schematizzando si può dire che da una parte vi sono coloro che nutrono dubbi o addirittura rifiutano una regolazione giuridica in ambito bioetico; dall’altra quanti ritengono utile, se non necessario, che il diritto disciplini i diversi ambiti della bioetica attraverso il cosiddetto biodiritto.
Se si cerca di esaminare più da vicino le due posizioni si scopre che al loro interno sono estremamente composite e diversificate. Tra gli avversari, per così dire, della regolazione giuridica della bioetica alcuni, innanzitutto, temono che il diritto possa creare ostacoli allo sviluppo scientifico; altri (soprattutto esponenti di orientamenti religiosi) pensano che disciplinare, anche severamente e restrittivamente, certe pratiche (ad es. procreazione medicalmente assistita o eutanasia) significhi pur sempre legittimarle; altri ancora ritengono che le autoregolamentazioni della comunità scientifica (ad es. i codici deontologici), i pareri dei comitati etici, le dichiarazioni di principio adottate dalla comunità internazionale dei medici e degli scienziati siano sufficienti a garantire la correttezza dell’operare; altri ancora che gli interventi giuridici nell’ambito della bioetica costituiscano un’intrusione inaccettabile della sfera pubblica nella sfera privata delle persone, imponendo quasi sempre modelli di comportamento conformi a una particolare concezione morale. Come si vede, si va da posizioni estreme di chi sostiene che il diritto non deve entrare in nessuna forma nelle questioni bioetiche, a posizioni più moderate di chi manifesta uno sfavore relativo, limitato cioè allo strumento legislativo, e ritiene che non occorrono strumenti normativi nuovi con cui disciplinare le questioni bioetiche in quanto ogni controversia può essere risolta ricorrendo al diritto che c’è già, applicato in via analogica, o con il riferimento ai principi sanciti a livello internazionale o a livello interno nelle Costituzioni.
Passando quindi al partito dei fautori della regolazione giuridica in materia bioetica, anche in questo si trovano posizioni diverse che sono, tuttavia, riconducibili sostanzialmente a due. Da una parte c’è chi sostiene che le questioni bioetiche debbano essere disciplinate in maniera conforme a particolari valori morali; dall’altra chi ritiene che il diritto nell’ambito della bioetica dovrebbe garantire a ogni individuo la possibilità di perseguire i propri valori nelle azioni che non danneggiano gli altri, realizzando quindi un equilibrio tra interessi diversi, rinunciando a imporre una particolare concezione morale e salvaguardando l’autonomia delle persone.
La prima posizione è riconducibile al perfezionismo di cui si è detto sopra: si presuppone cioè l’esistenza (e la conoscibilità) di valori e principi morali assolutamente giusti o, quanto meno, suscettibili di raccogliere generale consenso e si afferma che il diritto debba porre al servizio di questi il suo apparato coercitivo.
Ne consegue la richiesta di una legislazione che fissi modelli rigidi, ponendo divieti e limiti rigorosi, una legislazione autoritaria che finirà per sancire la superiorità di una particolare concezione morale e non sarà in grado di comporre in maniera adeguata i conflitti tra diverse concezioni morali presenti nelle moderne società pluraliste.
La seconda posizione ha sullo sfondo le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico sopra ricordate: si riconosce la difficoltà di fare appello a criteri morali condivisi e si guarda al diritto non come ad un mezzo per imporre particolari concezioni morali (come sosteneva Stuart Mill compito del diritto d’altra parte non è quello di obbligare i cittadini a essere virtuosi), ma come a un mezzo per permettere la convivenza sociale e il confronto tra posizioni diverse, riconoscendo che, con l’unico limite del danno agli altri, ogni individuo (adulto e consapevole) ha il diritto di vivere secondo le proprie convinzioni.
Ne consegue la richiesta di una legislazione che può essere definita “mite” con Zagrebelski o “leggera” e “aperta” con Rodotà: “leggera”, perché richiede che le regole giuridiche siano poco numerose e il più possibile povere di contenuti morali rivolte cioè a regolamentare gli aspetti tecnici e procedurali; “aperta”, perché rende possibile realizzare diversi modelli di vita, diverse “morali”, non privilegiando un unico punto di vista.
Personalmente ritengo questa seconda opzione preferibile alla prima, non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista pratico.
Dal punto di vista teorico tale posizione è coerente con un’etica, che, semplificando tra le tante classificazioni proposte, possiamo definire della responsabilità, in contrapposizione all’etica dei principi. Quest’ultima poggia sull’idea che esistono dei principi universali, assoluti, oggettivi, validi per tutti e si coniuga con il cognitivismo etico, incorrendo nella fallacia naturalistica (denunciata da Hume) di far derivare l’ought dall’is, ossia il dover essere dall’essere. L’etica della responsabilità, invece, parte dalla premessa che i giudizi di valore non sono conoscitivi, ma costitutivi, ossia soggettivi e relativi, in quanto l’uomo è soggetto non oggetto della legge morale (senza che tale relativismo implichi lassismo morale) e si coniuga con il non cognitivismo etico, evitando così di violare la legge di Hume.
Dal punto di vista pratico, poi, tale posizione meglio risponde a una società pluralistica e multietnica come quella contemporanea.
3. L’obiezione di coscienza del medico. Quale disciplina?
Prof. Lorenzo d’Avack
L’obiezione di coscienza appartiene al genus della resistenza al potere e come tale è per definizione contra legem. Quando l’ordinamento rimette all’individuo la scelta tra comportamenti alternativi è più corretto parlare di ‘opzione di coscienza’, alludendo così non più ad un gesto di resistenza, ma ad uno spazio di scelta individuale pienamente legittimato dall’ordinamento vigente. Di fatto si scrive abitualmente di ‘diritto all’obiezione di coscienza’.
Si è molto discusso in dottrina sull’opportunità o meno di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza nel caso della L. 219/2017. Di fatto questo non è espressamente previsto, dato il presupposto che non si tratta di porre in essere un’attiva causazione della morte, bensì di restituire al paziente le condizioni per un processo naturale del morire maggiormente consono alla sua volontà. La sentenza della Corte costituzionale a sua volta non crea alcun obbligo di legge al medico per procedere all'aiuto al suicidio e quindi nell'ipotesi prevista dalla Corte non si menziona il diritto obiezione di coscienza. Se, tuttavia, il legislatore nell’ambito dell’aiuto al suicidio medicalizzato dovesse imporre l’obbligo per il medico, anche solo di preparare la cd ‘pozione fatale' e a più forte ragione di somministrarla, vi sarebbero motivi per riconoscere il diritto all’obiezione, considerato che vi sono profonde difformità in merito ai valori professionali del medico e del personale sanitario, coinvolti in una pratica che comporta un cambiamento di paradigma nell’ambito del rapporto medico/paziente.
Emerge un problema di tutela dell'autonomia professionale sia dal punto di vista della libertà della comunità di professionisti di autoriflettere e determinare le finalità specifiche della professione esercitata, sia dal punto di vista della libertà del singolo professionista nei confronti di una eventuale eterodeterminazione legale riguardo alle finalità del proprio operare. In questo secondo caso il diritto all'obiezione di coscienza si presenta perciò come diritto della persona che uno Stato costituzionalizzato e sensibile alla libertà di coscienza non può non tutelare giuridicamente.
Prof. Salvatore Amato
Non vorrei entrare nel merito della questione, che divide da tempo la nostra dottrina, se sia possibile un’obiezione praeter legem o addirittura contra legem e se sia un atto individuale o se possa essere esercitato da un’istituzione nel suo complesso. Mi limito a riflettere sulla legge 219/2017 e sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato.
Credo sia decisivo che la legge 219, nel rispetto delle richieste del paziente, lasci al medico uno spazio decisionale. Il n. 5 dell’art. 4 afferma che il medico può disattendere le DAT quando appaiano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Questa prescrizione va letta assieme all’ indicazione di carattere generale dell’art. 1 n. 6 secondo cui “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Non ci troviamo, quindi, di fronte all’imposizione astratta di un comportamento che si pone a priori e incondizionatamente in contrasto con un sistema di valori, come nel caso della soppressione del feto nell’aborto o dell’accettazione della guerra nel servizio militare.
Non vi è una contrapposizione che impedisce l’alleanza terapeutica, ma l’assunzione di una responsabilità professionale che passa per un processo diagnostico all’interno del rapporto tra possibilità terapeutiche e aspettative del paziente. Non vi è l’obbligo di praticare l’eutanasia, ammesso che l’eventuale rifiuto delle cure possa essere considerato eutanasia, ma di dare ascolto alle ragioni del paziente in stretta correlazione con le sue effettive condizioni. Non ci troviamo di fronte a una scelta di campo, ma a una scelta terapeutica. Nulla esclude che un medico contrario all’eutanasia possa ritenere la richiesta del paziente, in quella specifica circostanza, assolutamente ragionevole e, viceversa, che uno strenuo sostenitore dell’eutanasia ritenga che le condizioni non siano tali da giustificare l’interruzione del trattamento.
Mi pare sia corretto, quindi, lasciare il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente dentro il “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica. L’unico fondamento di una dichiarazione astratta di obiezione di coscienza alle DAT, in quanto tali, potrebbe essere l’insistenza terapeutica elevata a principio etico assolutamente vincolante. L’insistenza terapeutica è l’altra faccia dell’ostinazione irragionevole. Nell’una il medico si trova di fronte alla possibilità estrema di tentare un rimedio, nell’altra all’impossibilità di aiutare il malato. È innegabile che il medico abbia il dovere di prolungare le terapie tutte le volte in cui vi sia una speranza. Il problema è se questo dovere sussista indefinitamente e indipendentemente dalla volontà del paziente. Gli obblighi del medico non si definiscono in astratto sui manuali di medicina, ma all’interno di una situazione specifica e determinata che ha nella soggettività del paziente uno dei suoi elementi costitutivi. Se è illegittimo, eticamente prima che giuridicamente, intubare un soggetto contro la sua volontà, non vi è motivo per negare il diritto di esercitare analogo rifiuto attraverso una DAT.
In termini di civiltà giuridica e di sensibilità etica le DAT sono il naturale prolungamento del diritto fondamentale di ciascun paziente di essere informato e di decidere sulle terapie che dovrà subire. Pretendere o minacciare un’obiezione di coscienza, astratta, generica e incondizionata non è solo in contrasto con quanto il codice di deontologia medica è andato indicando in questi anni, ma è privo di qualsiasi fondamento. Sarebbe un’obiezione all’alleanza terapeutica, all’ascolto del paziente, alla valutazione del singolo caso, se non alla stessa responsabilità della diagnosi. Il dovere del medico di decidere per il bene del paziente non è separabile dal dovere di ascoltarlo. L’insistenza terapeutica esiste per “qualcuno” e non per qualcosa. L’accanimento terapeutico si può manifestare anche nel rendere la vita un rigido rituale imposto da altri.
Penso alle belle parole di Jonas: “…il medico dovrebbe essere disposto a onorare il significato fondamentale della morte per la vita terrena (contro la sua moderna valutazione a male che si deve rimuovere) e a non negare a un morente la sua prerogativa di entrare in rapporto con la fine che si avvicina, e di farla propria, a suo modo, rassegnandosi, rappacificandosi con lei o rifiutandola, in ogni caso comunque nella dignità del sapere".
È diverso il caso del suicidio medicalmente assistito, perché presuppone un coinvolgimento del medico molto più intenso rispetto all’ipotesi precedente. Si è parlato trionfalmente (saremmo il primo paese al mondo) di una sentenza che avrebbe smantellato il modello ippocratico (Maurizio Mori). Mi sembra, quindi, un escamotage retorico l’affermazione della Corte secondo cui, esistendo un diritto del paziente a porre fine alle proprie sofferenze ma non un dovere del medico, sarebbe fuor di luogo prevedere la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se si può parlare di smantellamento del modello ippocratico, allora è l’impostazione complessiva dell’identità e del ruolo del medico ad essere messa in discussione. Sarebbe, quindi, grave non disciplinare le modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza. E questo anche a tutela della dignità del paziente, perché sappia con chiarezza a chi rivolgersi, senza dover ricorrere, come nella triste vicenda Welby, a una “coscienza a nolo”, a un appello pubblico per essere aiutato a morire.
Si poteva, con una sentenza, disciplinare un istituto così delicato? No, a mio avviso. E così torno alla prima domanda e mi avvicino alla prossima. La Corte costituzionale, in questo caso, sembra non voler guardare la crepa aperta nel nostro ordinamento. Crepa che avrebbe potuto colmare soltanto scendendo nei dettagli. I dettagli propri di quegli articolati provvedimenti normativi che spetta al legislatore elaborare.
Prof. Carla Faralli
La legge 219 non contiene alcuna previsione all’obiezione di coscienza, come alcuni avrebbero voluto, previsione che, a mio parere, sarebbe stata del tutto inappropriata, perché la legge non prevede alcuna pratica a danno del paziente e tantomeno consente l’eutanasia. D’altra parte “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali: a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali”, ma entro questi limiti “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo” e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6).
Particolare attenzione merita il caso del paziente che intende rinunciare o rifiutare le cure, ma che si trova in uno stato tale da richiedere l’intervento del medico per attuare concretamente la sua scelta. Il tema è stato ampiamente dibattuto dal CNB (v. parere del 24 ottobre 2008) con posizioni molto differenti: alcuni hanno sostenuto che, soprattutto se si tratta di rinuncia/rifiuto di cure salvavita, l’intervento del medico presenta profili di attrito con il dovere di curare il paziente e tutelarne la vita; altri hanno sottolineato la priorità dell’autodeterminazione del paziente, anche al fine di evitare esiti discriminatori, in quanto si creerebbe una disparità tra i pazienti in grado di sottrarsi autonomamente alle cure e i pazienti non in grado di farlo, che perciò si vedrebbero negato in concreto l’esercizio di un diritto garantito ai primi.
Solo qualora l’opzione indicata dalla Corte Costituzionale nel caso del DJ Fabo, di cui si dirà, di allargare l’ambito di applicazione della legge 219 ai casi di suicidio medicalmente assistito, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe, io credo, necessaria.
4. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?
Prof. Lorenzo d’Avack
La L. 219/2017 è importante perché valida le ‘Disposizioni anticipate di trattamento’ (DAT). Le DAT non erano legittimate fino ad allora, sebbene alcuni Comuni le registrassero. Ma non avevano alcun valore giuridico e soprattutto non rappresentavano alcuna garanzia per il paziente e per il medico.
Non riscontro alcuna necessità di modifiche, anche perché le DAT, diversamente dalla terminologia utilizzata (“disposizioni” anziché “dichiarazioni”), che fa presumere una vincolatività del documento, non sono tali in relazione alla reale situazione clinica del paziente in rapporto agli eventuali sviluppi della scienza medica.
Per quanto concerne l’aiuto al suicidio medicalizzato, la sentenza della Corte costituzionale non le prevede, ritenendo che la volontà del paziente, oltre che libera ed informata, debba essere attuale
Altre legislazioni eutanasiche muovono dalla possibilità per un paziente di avvalersi delle DAT.
Prof. Salvatore Amato
Non credo che le DAT abbiamo alterato il nostro impianto normativo, perché sono il naturale ed eticamente doveroso prolungamento del diritto all’autodeterminazione, consentendo al soggetto incapace di pretendere quelle stesse cose che avrebbe potuto esigere se fosse stato capace. Del resto, come mette in luce il decreto del Tribunale di Modena di cui ho parlato precedentemente, si sono inserite nel nostro contesto normativo ben prima della L. 219/2017. La legge ha naturalmente definito il quadro complessivo, ampliandolo ad esempio con la pianificazione condivisa delle cure, ma ha sostanzialmente un carattere riepilogativo di quanto, oltre ad essere asseverato in molte disposizioni giudiziali, era già presente nella pratica clinica e nelle regole deontologiche.
Non è così per la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato. Come ho detto viene già letta come il definitivo ripudio della differenza tra far morire e lasciar morire con evidenti riflessi sul modello ippocratico delle tradizionali linee di lettura del nostro ordinamento giuridico. Non so se sia effettivamente così. Probabilmente non era questa l’intenzione di alcuni o della maggior parte dei giudici della Corte. Non lo sapremo mai, finché non introdurremo il principio della motivazione individuale delle sentenze, proprio della cultura anglosassone. Purtroppo, noi continuiamo a nasconderci dietro il modello del giudice “senza anima”, “bocca della legge” a cui forse non credeva veramente neppure Montesquieu, se guardiamo alla confusa costruzione della magistratura come un potere nullo che tuttavia avrebbe dovuto frenare gli altri poteri.
Quali che fossero le intenzioni della Corte, questa sentenza ha creato dei vuoti dalle conseguenze imprevedibili. Sul piano generale è, a mio avviso, illusorio pretendere di normalizzare o, forse meglio, “normativizzare” l’eccezione: lasciare, cioè, invariato l’impianto del nostro Codice penale, restringendone l’efficacia quando ricorrono situazioni ben determinate e circoscritte. Le maglie si sono subito allargate, come attesta la sentenza della Corte d’Assise di Massa 27.07.2020 nel caso Trentini che, con una singolare disinvoltura semantica, ha sostenuto che “per trattamento di sostegno vitale deve intendersi qualsiasi trattamento sospeso il quale si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida”. Anche un antibiotico, quindi.
Ma mi vorrei soffermare, tra i tanti aspetti discutibili (ad esempio la confusione tra i Comitati etici “territoriali” previsti dalla legge 11 gennaio 2018 n. 3, ma non ancora istituiti, e i Comitati etici regolamentati dalle Regioni ai sensi del decreto 8 febbraio 2013, che sono gli unici attualmente esistenti; e ancora l’incomprensibile riferimento all’uso compassionevole dei farmaci), su un aspetto particolare.
Con innegabile acribia, la Corte non teme di vestire i panni del legislatore, istituendo oltre al suicidio medicalmente assistito, un sistema di controlli per la sua attuazione. Per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, garantire la dignità̀ del paziente ed evitare al medesimo ulteriori sofferenze attribuisce alle strutture pubbliche del servizio sanitario il compito di “verifica” delle modalità̀ di esecuzione. Aggiunge, poi, che i Comitati etici (come ho detto non è chiaro a quali Comitati si faccia effettivamente riferimento) “intervengono” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili”.
A questo punto tutto diventa abbastanza contraddittorio e confuso.
Il primo problema è cosa si intenda con “strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”? Chi assume una decisione così delicata? Un dirigente amministrativo o un organismo appositamente istituito, come ha proposto ad esempio il Comitato etico della Toscana? L’ “intervento” del servizio sanitario è per verificare o per attuare? Si può attuare senza verificare? E verificare con quali poteri, con quali limiti, attraverso quali competenze? In assenza di un provvedimento normativo che fornisca chiare e omogenee direttive a livello nazionale, c’è il forte rischio di un’applicazione della sentenza affrettata ed eterogenea con intollerabili differenze territoriali nella tutela dei pazienti e nell’adeguatezza dei sistemi di assistenza. Proprio l’opposto di quello che auspica la Corte.
Ancora più complesso è il problema dell’identità e del ruolo dei Comitati etici. Se le espressioni “intervento” e “verifica” sono estremamente vaghe, i loro rapporti sono ancora più equivoci. Il Comitato etico è l’unico organismo a dover “verificare” o si trova a realizzare “una verifica della verifica”? E quando opera questa verifica? Sempre? Solo nel caso di soggetti “particolarmente vulnerabili”? Che natura ha, poi, questa verifica? È meramente orientativa o è assolutamente vincolante?
Ci troviamo innegabilmente di fronte a una sentenza piena di buone intenzioni, ma non bastano a definire un coerente quadro normativo. Abbiamo sicuramente tante nuove norme e tanti orpelli burocratici. Quella che manca è un’effettiva regolamentazione.
Prof. Carla Faralli
Come si è detto, la legge 219 non contiene alcuna previsione relativa al suicidio assistito, come ribadito nella pronuncia della Corte Costituzionale sul caso del DJ Fabo, ma la Corte osserva che “una disciplina delle condizioni di attuazione delle decisioni di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda e continua e con relativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’articolo 580 del Codice Penale, inserendo la disciplina stessa nel contesto della Legge 219 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, opportunamente valorizzata dall’articolo 1 della legge medesima.” A parere della Corte “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”, “senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio di dignità umana oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Certo, come si è detto, qualora l’opzione indicata dalla Corte di allargare l’ambito di applicazione della Legge 219 fosse seguita, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe necessaria.
Personalmente auspico che si possa arrivare ad una legge ad hoc sulla fattispecie del suicidio assistito piuttosto che procedere ad un inserimento nella legge 219 che a tre anni dall’entrata in vigore manifesta alcune problematicità sul piano attuativo.
Consenso informato, disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa delle cure stentano ad essere considerati l’esito finale di un processo comunicativo in grado di costruire un’alleanza fiduciaria tra due persone, medico e paziente, entrambe portatrici di proprie competenze e valori e rischiano di divenire l’ennesimo atto burocratico di firme su fogli prestampati. Ancora carente è inoltre la formazione dei medici e degli operatori sanitari, come la legge 219 prescrive (art. 1 comma 10) in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative in modo che essi non vivano, come spesso accade, l’impossibilità di intervenire su certe patologie, la rinuncia e il rifiuto delle cure da parte del paziente come una sconfitta della loro professione.
Quanto alle disposizioni anticipate di trattamento, si riscontrano difficoltà soprattutto sul piano attuativo. Dopo l’entrata in vigore della legge 219, l’8 febbraio 2018 il Ministero dell’Interno, con propria circolare, ha chiarito che gli sportelli competenti a ricevere le disposizioni anticipate di trattamento (consegnate personalmente da soggetti residenti nel comune) sono solo gli uffici demografici municipali; che la legge non disciplina l’istituzione di un nuovo registro dello stato civile; che gli uffici comunali devono limitarsi a registrare “un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate e ad assicurare la loro adeguata conservazione in conformità ai principi di riservatezza dei dati personali”; che gli uffici anagrafe devono assicurare un raccordo organizzativo tra di loro per garantire “la corretta trattazione delle fattispecie riguardanti quei disponenti che, migrati da altri comuni, consegnino al nuovo comune di residenza nuove disposizioni anticipate di trattamento modificative di quelle precedenti o revoche delle stesse”.
Il 31 luglio 2018 il Consiglio di Stato ha risposto ad alcuni quesiti formulati dal Ministero della Salute in ordine in particolare al registro nazionale previsto dalla Legge 219 (art. 4, comma 7), sottolineando che esso non dovrebbe limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT, ma dovrebbe anche raccoglierle, consentendo in tal modo di renderle conoscibili a livello nazionale, evitando che esse abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese, il che vanificherebbe la realizzazione concreta della normativa. Il Consiglio rileva che è opportuno che in esso siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al Servizio sanitario nazionale per garantire a tutti i medesimi diritti.
Solo il 10 dicembre 2019, dopo il via libera del garante della privacy, è uscito il Regolamento concernente la banca dati nazionale delle DAT (originariamente previsto per il 30 giugno 2018) che è entrato in vigore il 1° febbraio 2020.
5. A quale domanda, diversa da quelle qui formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema?
Prof. Lorenzo d’Avack
I giudici sono preparati in merito alle problematiche etiche che nelle sentenze debbono affrontare?
Certamente No. Va ricordato che gli interventi dei giudici nei c.d. ‘casi difficili’ con sensibili ricadute etiche non sono riusciti a creare regole di diritto e orientamenti sufficientemente certi in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra i diritti della persona e il progresso della scienza, tra gli interessi individuali (tutela della persona) e gli interessi collettivi (salute pubblica).
Questi settori sono stati caratterizzati da orientamenti giurisprudenziali difformi, incoerenti, dominati prevalentemente dalle ideologie proprie del giudice, dagli eccessi esegetici che sovente niente altro sono che dei paraventi, per altre finalità (politiche, sociali, personali), con ricadute negative sui principi cardine quali legalità e tassatività in altre parole: ‘certezza del diritto’. Non è certo possibile dire che siano stati forniti elementi sufficienti per guidare il processo di costruzione di nuovi assetti sociali e politici riguardanti la scienza e le nuove tecnologie in relazione con i principi etici propri dei diritti fondamentali.
Prof. Salvatore Amato.
I giudici devono o vogliono divenire legislatori?
Devono. Come ho cercato di mettere in luce nella lunga premessa alla prima domanda, potremmo dire che il giudice è quasi costretto a divenire l’interprete delle attese sociali, perché è su di lui che si scaricano le rivendicazioni dei diritti individuali. Tra il diritto alla salute e il diritto a interrompere le cure, tra il diritto a interrompere le cure e il diritto a morire vi sono tante tragedie individuali che non possono restare senza tutela. In assenza di un adeguato supporto normativo, il giudice si trova a sopportare da solo questo pesante sovraccarico morale.
Vogliono. Mi sembra che ormai i giudici non avvertano più lo smarrimento e i rischi di questa solitudine che più li avvicina al cittadino e più li allontana dal rispetto del quadro istituzionale. È estremamente significativa dell’assuefazione a questo ruolo di supplenza una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di rifiuto dell’emotrasfusione da parte dei testimoni di Geova (4 – 23 dicembre 2020, n. 29469). Con apprezzabile garbo teorico buona parte della sentenza è dedicata a spiegare come, “in mancanza della disciplina per fattispecie legale”, sia possibile ricavare una norma dai principi costituzionali. Ecco i passaggi che ci vengono illustrati: ricostruzione del caso concreto, individuazione dei principi costituzionali rilevanti, ponderazione tra i vari principi in relazione alle loro prospettive attuative, e infine il giudizio, “il quale consta non della diretta applicazione del principio costituzionale, ma della regola di diritto formulata per il caso concreto sulla base della combinazione del detto principio, se del caso bilanciato con altro principio concorrente, con le circostanze del caso”. Voilà… il giudice si è fatto legislatore e coltiva con elegante disinvoltura il proprio spazio creativo.
Prof. Carla Faralli
Quale ruolo per i CE nei casi di aiuto al suicidio?
Nella sentenza del 2019 sul caso del DJ Fabo la Corte Costituzionale ha fissato alcuni principi circa la legittimità dell’aiuto al suicidio che così possono essere riassunti:
- La persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili
- La persona è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli
- La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve essere affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario e deve vedere l’intervento di un Comitato etico quale “organismo di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possono presentarsi nella pratica sanitaria”.
In un parere del 31 marzo 2017 il CNB, richiamando pareri precedentemente espressi, rileva che la normativa vigente prevede, seppur in via residuale, che i Comitati etici per la sperimentazione possano svolgere anche altre funzioni (il Decreto 8 febbraio 2013 recita: “ove non già attribuita a specifici organismi, i CE possono svolgere una funzione di consultazione in relazione a questioni etiche connesse con attività scientifiche assistenziali allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona; i CE inoltre possono proporre iniziative di formazione degli operatori sanitari relativamente a temi in materia bioetica”), ma constata che tali Comitati come attualmente composti e organizzati svolgono quasi esclusivamente valutazioni per la sperimentazione farmacologia. La pratica clinica pone agli operatori sanitari problemi sempre più complessi in conseguenza degli sviluppi tecnologici, che alimentano nuove speranze e aprono nuovi interrogativi, e dell’accresciuta consapevolezza da parte dei pazienti della propria autonomia di scelta, problemi che richiedono competenze diverse rispetto a quelle previste per i Comitati etici per la sperimentazione.
Se le valutazioni sulle sperimentazioni farmacologiche – sottolinea il CNB – hanno carattere tendenzialmente impersonale e procedurale, l’etica clinica, invece, accentua le condizioni individuali ed esistenziali del rapporto con i pazienti, di qui l’esigenza dei Comitati per l’etica nella clinica che non devono sovrapporsi, sostituire o interferire nel rapporto tra medico, equipe medica e paziente, ma rafforzare tale rapporto quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appare necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione e allargare gli orizzonti del dialogo. In questi casi il Comitato per l’etica nella clinica può fornire un parere senza togliere al medico o all’operatore sanitario autonomia e responsabilità decisionali.
Molti paesi si sono forniti di questi organismi: ad esempio in Spagna vi sono i Comités Asistencial de Etica, nel Regno Unito i Clinical Ethics Cmmittees, strutture analoghe negli Stati Uniti e in Francia. In Italia pionieristico è il caso della Regione Veneto che fin dal 2004 ha adottato linee guida per la costituzione e il funzionamento dei Comitati etici per la pratica clinica.
Mi auguro che i Comitati per l’etica nella clinica trovino un’adeguata attenzione legislativa e amministrativa per evitare che gli operatori sanitari siano lasciati soli a prendere decisioni in situazioni particolarmente drammatiche, quali quelle relative al suicidio assistito, ma non solo, decisioni che non devono basarsi su criteri astratti ritenuti oggettivamente validi, ma contestualizzate e individualizzate nei casi concreti, al “letto del malato".
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