ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflessioni su minorenni, vaccino anti-Covid e tutela dei diritti
di Maria Giovanna Ruo
La pandemia da COVID-19 ha riportato in emersione alcuni temi che coinvolgono svariati aspetti della questione della somministrazione di vaccini ai figli minorenni: da quello della dignità della persona di età minore e del suo rispetto nell’esercizio di diritti personali, a quello dell’esercizio in via condivisa della responsabilità genitoriale in caso di disaccordo sulla decisione di sottoporre i figli minorenni a vaccinazioni non obbligatorie, all’assenza di strumenti diretti di tutela per i minorenni che vogliono (o non vogliono) vaccinarsi in disaccordo con i genitori NO VAX. Il tutto in un quadro normativo che, nelle interpretazioni giurisprudenziali note, si delinea sempre favorevole alla vaccinazione.
Sommario: 1. Il diritto alla salute della persona di età minore nel quadro costituzionale - 2. Giurisprudenza costituzionale e orientamento della giurisprudenza di merito in tema di vaccinazioni obbligatorie - 3. La legge 219/2017 nel quadro della normativa pattizia: ascolto e consenso delle persone di età minore (rectius del suo rappresentante legale) ai trattamenti sanitari - 4. La pandemia da COVID-19 e i diritti negati alle persone di età minore - 5. Scelte vaccinali e minorenni: i pareri del Comitato Nazionale di Bioetica - 6. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e vaccini (anche anti COVID-19) - 7. Vaccinazione anti COVID-19 in caso di disaccordo dei genitori: giurisprudenza interna di merito - 8. …e quando i figli sono affidati ai servizi sociali? - 9. Minorenni e diritto al ricorso effettivo.
1. Il diritto alla salute della persona di età minore nel quadro costituzionale
La tutela della persona di età minore si iscrive necessariamente nel quadro costituzionale disegnato dagli artt. 2, 3, 30, 31 e 32 della Costituzione, ispirata dal criterio del suo superiore interesse da definirsi principio immanente nell’ordinamento in forza di numerose pronunce della Corte Costituzionale[1]. L’art. 32 ne fa parte, come sensibile e avveduta dottrina[2] rileva da tempo, perché salute per una persona di età evolutiva coincide con le concrete possibilità del suo miglior sviluppo psico-fisico. Da qui l’obbligo positivo dello Stato, anche ai sensi dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, di intervenire per rimuovere tutti gli ostacoli che vi si frappongono con provvedimenti tempestivi ed efficaci e di offrire gli strumenti rimediali opportuni perché ciò si verifichi: il principio del ricorso effettivo di cui al successivo art. 13 CEDU lo pretende. Della salute della persona di età minore fa parte anche la sua possibilità di relazioni affettive e sociali piene: con i genitori, i fratelli, gli ascendenti, parenti di ciascun ramo genitoriale e anche -se non soprattutto dall’adolescenza in poi- con i cd. “pari”. Tale relazione con il progredire delle età diventa sempre più rilevante per il miglior sviluppo della persona di età minore; se deprivata, infatti, le sue potenzialità affettive e relazionali ne subiscono pregiudizio.
Il diritto alla salute delle persone di età minore ha quindi contenuti più ampi e complessi di quelli di un soggetto ormai adulto, perché ricomprende necessariamente anche le prospettive future. Afferma G. Recinto che “la salute assume i caratteri di generale stato di benessere del minore, che non può evidentemente prescindere dai luoghi, dagli ambienti e dai momenti della sua crescita, del suo evolvere, del suo relazionarsi, e che, perciò, ha quali immediati referenti costituzionali, non più soltanto l’art. 32, ma anche, ed inevitabilmente, gli artt. 2, 3, 30, 31, 33 e 34 cost. E da ciò, quindi, una ricostruzione del diritto alla salute, che, a sua volta, come suggerito proprio dalla lettura combinata del dettato costituzionale, non ha una rilevanza limitata esclusivamente al profilo del minore come degente, ma un diritto alla salute che considera il minore di età nella sua complessità, ovvero innanzitutto, e prima di tutto, nei molteplici e variabili contesti ove lo stesso svolge la sua personalità”[3].
Salute per una persona di età minore è quindi “un valore complesso, fatto di integrità fisica, morale, psicologica, emotiva, culturale, ambientale, aspetti questi che si manifestano diversamente in ciascuno di loro e nei differenti momenti del loro divenire, del loro crescere, del loro formarsi”[4].
2. Giurisprudenza costituzionale e orientamento della giurisprudenza di merito in tema di vaccinazioni obbligatorie
La centrale rilevanza del diritto alla salute delle persone di età minore, ai sensi degli artt. 2, 3 30 e 31, si confronta con il disposto dell’art. 32 Cost. che, dopo aver affermato che la salute è diritto fondamentale dell’individuo, dispone che nessuno possa essere obbligato a trattamento sanitario se non per disposizione di legge che non può mai violare i limiti del rispetto della persona umana. La Corte Costituzionale (sent. 307/1990)[5], ebbe a precisare che che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”. Successivamente la Consulta affermò che la tutela della salute implica anche il “dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri” (Corte Cost., sent. 218/1994 in materia di accertamenti sanitari diretti ad accertare l’esistenza o meno di HIV).
In tale perimetro costituzionale, all’inizio dello scorso decennio, si evidenziò la necessità “di emanare disposizioni per garantire in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette alla prevenzione, al contenimento e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica e di assicurare il costante mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza epidemiologica in termini di profilassi e di copertura vaccinale»; nonché la necessità di «garantire il rispetto degli obblighi assunti e delle strategie concordate a livello europeo e internazionale e degli obiettivi comuni fissati nell’area geografica europea». Così recita espressamente il preambolo del D.L. 7 giugno 2017, n. 73 che fu emanato con il dichiarato scopo[6] di raggiungere il 95/% di copertura vaccinale contro malattie a rischio epidemico, soglia raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per il conseguimento della cosiddetta “immunità di gregge” (herd immunity, immunità o resistenza collettiva a un certo patogeno da parte di una comunità o di una popolazione umana). Dal 2013 si era infatti verificata in Italia la tendenza alla diminuzione del ricorso alle vaccinazioni e la copertura vaccinale si era attestata al di sotto di tale soglia; erano aumentati i casi di malattie infettive (soprattutto morbillo e rosolia), anche in fasce di età diverse da quelle classiche, con quadri clinici più gravi e maggiore ospedalizzazione; erano persino ricomparse malattie da tempo debellate. Le coperture italiane erano tra le più basse d’Europa, inferiori ad alcuni Paesi africani[7], secondo dati dell’OMS.
Pertanto, fu ritenuto necessario e urgente estendere e rendere effettivi gli obblighi vaccinali anche in conformità al principio di precauzione, che prescrive di neutralizzare o minimizzare i rischi per la salute umana, anche se non del tutto accertati.
L’art. 1, comma 1, previde, per i minori fino a sedici anni di età, dodici vaccinazioni obbligatorie e gratuite[8]. Di queste, otto (anti-pertosse, Haemophilus influenzae di tipo B, meningococcica di tipo B e C, morbillo, rosolia, parotite e varicella) non erano previste dalla normativa previgente[9].
L’obbligo era escluso in caso di avvenuta immunizzazione a seguito di malattia naturale, nonché di pericolo per la salute in relazione a specifiche condizioni cliniche, da documentare nei modi stabiliti nel medesimo D.L. che prevedeva sanzioni pecuniarie per genitori e tutori inadempienti[10] e la necessità delle vaccinazioni obbligatorie per l’iscrizione scolastica di minori[11].
La Regione Veneto ed altri sollevarono una serie di questioni di legittimità costituzionale, -tutte respinte dalla Consulta con la sentenza 5/2018- il cui cuore fu individuato dalla Corte Costituzionale nell’asserita incompatibilità con l’art. 32 Cost., il quale comporta il diritto di scegliere se, quando e come curarsi e, quindi, anche il diritto di non curarsi e, per quanto qui interessa, di rifiutare la vaccinazione.
La Corte Costituzionale dichiarò non fondate le questioni sollevate alla normativa in tema di obbligo di vaccinazione per i minori fino ad anni 16 e sanzioni amministrative pecuniarie e del divieto di accesso ai servizi educativi per l'infanzia in caso di mancato adempimento. La Consulta specificò come fossero nella questione prevalenti i profili ascrivibili alle competenze legislative dello Stato, relative ai principi fondamentali in materia di "tutela della salute", di "profilassi internazionale" e di "norme generali sull'istruzione". Viene anche in rilievo la competenza di "profilassi internazionale", nella misura in cui le norme in questione servono a garantire uniformità anche nell'attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale. Infine, le disposizioni in materia di iscrizione e adempimenti scolastici si configurano come "norme generali sull'istruzione", garantendo che la frequenza scolastica avvenga in condizioni sicure per la salute di ciascun alunno, o addirittura (per quanto riguarda i servizi educativi per l'infanzia) non avvenga affatto in assenza della prescritta documentazione. Il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica, deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
Per quanto concerne i figli minorenni, dopo le sentenze della Corte Costituzionale, le pronunce di merito si sono orientate nel senso di concentrare in capo al genitore favorevole alla vaccinazione obbligatoria dei figli il diritto di scegliere, senza dare particolare rilievo alla volontà dei figli minorenni. Corte di appello di Napoli, decr. 30 agosto 2017, che ha deciso sul reclamo proposto dalla madre contraria alla vaccinazione -soccombente davanti al Tribunale per i minorenni di Napoli che ne aveva affievolito la responsabilità genitoriale attribuendola al padre coaffidatario del bambino relativamente alla somministrazione delle ulteriori dosi vaccinali (esavalente e trivalente), da eseguirsi a sua cura cui attribuendogli in concreto il diritto dovere di prelevare il figlio, accompagnarlo in ambulatorio per le vaccinazioni e poi riaccompagnarlo a casa. Il tutto dopo una CTU resasi necessaria per verificare se le vaccinazioni avrebbero comportato pregiudizio al bambino, afflitto da una particolare patologia. La CTU aveva concluso negativamente. La Corte di appello partenopea, peraltro, conferma la competenza a decidere in caso di disaccordo tra i genitori in capo al giudice competente ai sensi degli artt. 330 e sgg., in quanto negare la vaccinazione a un bambino è decisione che potrebbe recargli grave pregiudizio e quindi sussumibile nella fattispecie dell’area del pregiudizio cui si riferiscono le norme citate, e non in quella del semplice disaccordo tra genitori. La Corte di appello di Napoli fa sua la motivazione della CTU espletata in I grado affermando che “È assolutamente acclarato il ruolo sociale e il valore etico ed economico delle vaccinazioni. Le vaccinazioni devono essere considerate come un "intervento collettivo ", in quanto oltre a proteggere il singolo permettono anche la protezione in collettività dei soggetti vulnerabili (ad es., immunodeficienti congeniti o immunodepressi, ecc.), permettendo in buona sostanza il controllo della trasmissione delle malattie oggetto del programma vaccinale. Il beneficio è dunque diretto, derivante dalla vaccinazione stessa che immunizza totalmente o parzialmente la persona vaccinata rispetto alle conseguenze di una patologia, e indiretto, in virtù della creazione di una rete di sicurezza a favore dei soggetti non vaccinati. Precedentemente la giurisprudenza di merito era orientata ad attribuire la decisione sulle vaccinazioni al pediatra di base. Così Tribunale di Roma, sez. I, ord. 16.02 2017. Non si sono rinvenute decisioni nelle quali la giurisprudenza abbia ritenuto di nominare invece un curatore speciale la cui funzione è quella di rappresentare la persona di età minore in ipotesi di contrasto anche potenziale del suo interesse con quello dei genitori e/o con la loro opinione di quale sia il suo interesse. Sul versante della giurisdizione amministrativa, TAR Piemonte, 18.09.2018, n. 1034 ha stabilito che l'inadempimento dell'obbligo vaccinale costituisce ragione di per sé ostativa all'accesso alle scuole dell'infanzia (ex art. 3 comma 3 D.L. n. 73/2017), a tutela del minore stesso e dell'intera comunità scolastica.
3. La legge 219/2017 nel quadro della normativa pattizia: ascolto e consenso delle persone di età minore (rectius del suo rappresentante legale) ai trattamenti sanitari
La Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, rat. con l. 176/199 (d’ora in poi denominata anche Convenzione o CRC), all’articolo 3 sancisce il principio del superiore interesse del minore: sussiste l’obbligo per gli Stati Parti di “assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati”. Gli Stati parti hanno altresì l’obbligo di “vigilare affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”. Dopo aver stabilito al successivo art. 12 il diritto assoluto della persona di età minore all’ascolto della sua opinione e a prendere parte a tutte le procedure che la riguardino[12], la CRC si occupa del diritto alla salute dei minorenni in particolare all’art. 24 riconoscendo il diritto del minore “di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi”. L’art. 25 riconosce al minore il diritto di godere del migliore stato di salute possibile e che gli esercenti la responsabilità genitoriale debbano avere tutte le informazioni possibili.
La “Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina”, adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa e firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, (detta anche Carta di Oviedo) che riconosce il diritto ai trattamenti sanitari con opposto diritto al loro rifiuto se non imposti dalla legge. L’art. 5 pone il principio generale secondo il quale un intervento medico non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia rilasciato il proprio consenso libero ed informato. Il successivo art. 6 si occupa del consenso dei cd. incapaci, affermando che il trattamento può essere effettuato solo se a loro beneficio diretto. In questi casi – tenendo in debito conto anche i successivi artt. 17 e 20- “Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e maturità”.
Infine anche l’art. 6 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani dell’Unesco[13] prevede che se sia un soggetto diverso rispetto al minorenne, persona direttamente interessata al trattamento sanitario, ad esprimere il consenso, tuttavia il minorenne dovrebbe essere coinvolto nella forma più estesa possibile nel processo decisionale.
Nella Carta di Nizza il diritto alla salute viene in considerazione non solo come diritto di poter usufruire di un elevato livello di prestazioni sanitarie (art. 35 Carta di Nizza, art. 1 Convenzione Oviedo), ma ancor prima come diritto di autodeterminazione che si esercita mediante il consenso: “nell’ambito della biologia e della medicina” afferma la Carta — deve essere rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge” (art. 3).
Il 6 febbraio 2013 fu presentato al Ministro della Salute il Codice del diritto del minore alla salute e ai servizi sanitari, redatto da un gruppo di lavoro multidisciplinare[14] che trae diretto spunto dalla CRC ed è stato successivamente rielaborato anche nei territori[15]. Fu uno sforzo significativo di costruire una disciplina completa, ma si riferisce sostanzialmente ai diritti della persona di età minore malata e ospedalizzata, non considera la persona di età minore come soggetto in sviluppo psico-fisico il cui diritto alla salute ha una particolare centralità.
Finalmente l’art. 3 della legge n. 219 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), detta anche Legge sul biotestamento, prevede che il consenso o il rifiuto ai trattamenti sanitari sia prestato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla persona di età minore (o dal tutore) tenendo in considerazione la di lei volontà e perseguendone l’interesse. Il contesto deve essere ovviamente “informato” e cioè preceduto da informazione specifica in modo da rendere consapevole chi deve esprimerlo dei dati relativi la questione sanitaria. Quindi l’informazione deve essere completa, aggiornata e comprensibile sia riguardo alla diagnosi sia riguardo alla prognosi e concernere anche le possibili alternative, benefici e rischi di accertamenti e terapie. In caso di minorenni, senza distinzioni di età, il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale deve essere espresso dopo un attento ascolto dei desideri della persona di età minore. Cass. n. 21748/2007 affermò, a proposito del consenso ai trattamenti medici dell’incapace, che il tutore deve agire nel suo esclusivo interesse e nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace. Tuttavia l’art. 3 non sembra lasciare spazio all’effettiva possibilità per il minorenne di esprimere il rifiuto o il consenso autonomo alle cure: pur essendo chiamato ad esprimere la sua volontà valorizzata dal suo ascolto, in definitiva il consenso o il dissenso rispetto al trattamento necessario sono dei genitori o del tutore. In caso di contrasto tra questi e il medico, decide il Giudice tutelare.
Nulla dice infatti la legge nel caso in cui insorga contrasto tra volontà del minore e quella dei genitori sul prestare o rifiutare il consenso. D’altronde lo stesso art. 316 c.c. disciplina solo il contrasto di volontà tra i genitori, ignorando la fattispecie del contrasto tra il figlio minorenne e i genitori. Vi sono tuttavia una serie di casi specifici in cui la legge prevede che anche i minorenni possano esercitare diritti inerenti la loro salute, indipendentemente dai loro genitori o proprio perché in contrasto con gli stessi. Così ad es. l’art. 12 della l. 194/1978 il quale prevede che, in caso di Interruzione Volontaria della Gravidanza di una donna minorenne e di contrasto con gli esercenti la responsabilità genitoriale, il Giudice Tutelare possa essere adito dal consultorio, dalla struttura socio-sanitaria o dal medico di fiducia. La Corte Costituzionale con ordinanza del 19 luglio 2012 n. 196, affermò che l'autorizzazione del Giudice tutelare è solo finalizzata ad integrare la volontà della minorenne (dati i vincoli gravanti sulla sua capacità di agire)[16]. In relazione al parto: «la partoriente di minore età può donare cellule staminali emopoietiche da cordone ombelicale» nonché la placenta e il sangue da cordone ombelicale, previo consenso informato, dato al momento del parto (art. 3, commi 2° e 3°, l. n. 219/2005 sul sangue e i suoi derivati). In relazione alla tossicodipendenza e alle malattie che presentano legami statistici con alcuni tipi di tossicodipendenza, cioè hanno un’incidenza maggiore fra i tossicodipendenti, soprattutto quelli dediti all’eroina, l’art. 120 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 [17] stabilisce che la richiesta di accertamenti diagnostici e di programmi terapeutici e sociali di riabilitazione possa essere fatta anche direttamente dal minore (comma 2) e che gli sia garantito l’anonimato (comma 3), rafforzato dal diritto di ottenere che la propria scheda sanitaria non contenga informazioni identificative (comma 6). L’art. 5 della l. 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’Aids) prevede al comma 4 che i risultati degli accertamenti diagnostici per l’infezione da virus HIV debbano essere resi noti solo all’interessato.
4. La pandemia da COVID-19 e i diritti negati alle persone di età minore
In questo quadro irrompe la pandemia da COVID-19 e la questione delle vaccinazioni per i minorenni acquista nuova rilevanza. Bambini e ragazzi, che hanno una spiccata esigenza di socialità, di scambi tra i pari, di vicinanza fisica, sono rimasti deprivati di mesi di scuola, di attività sportive, ludiche, religiose, sociali, con significative ricadute sulla loro vita relazionale e sul loro sviluppo psico-fisico. Gli indiscutibili progressi nell’affermazione dei diritti, lo stesso sistema di tutela delle persone di età minore, è stato messo in crisi dalla pandemia in una situazione in cui già la sempre più diffusa povertà ne aveva già esposto molte a marginalizzazione, depauperamento di strumenti educativi e opportunità formative; causa anche la povertà educativa che, pur se frequentemente è coincidente con quella economica, ne è anche indipendente, annidandosi anche in situazioni di benessere patrimoniale ma carenti sul piano valoriale e di accudimento delle giovani generazioni.
Nella situazione emergenziale che si è verificata durante il lockdown e nei mesi successivi molte conquiste sul piano dei diritti fondamentali delle persone di età minore sono apparse compromesse.
Scuole, centri ricreativi e sportivi, parrocchie e oratori, sono rimasti chiusi per mesi; in particolare le scuole, anche quando hanno riaperto, hanno funzionato (e funzionano tutt’ora) a intermittenza e a scacchiera per i focolai di contagio che si sono manifestati e si manifestano in varie comunità scolastiche. La didattica a distanza è stata una soluzione emergenziale benemerita, ma che per i suoi limiti strutturali non ha potuto e non può garantire a tutti i fruitori il principio costituzionale di pari opportunità. Ne sono rimaste escluse - o comunque marginalizzate - le fasce di persone di età minore economicamente svantaggiate, quelle nelle cui famiglie non vi è un numero di devices sufficiente per essere utilizzato contemporaneamente da più fruitori; quelle che vivono in spazi domestici angusti, in cui isolarsi per la concentrazione necessaria per lo studio è più difficile; quelle che non hanno avuto genitori disponibili o in grado - per limiti personali, lavorativi, o di cognizioni idonee – di supplire, aiutare e sostenere. Ne sono rimaste escluse le persone di età minore con bisogni speciali, che necessitano più delle altre della relazione “uno ad uno” con gli insegnanti, di programmi individualizzati e alle quali spesso, contemporaneamente, sono stati anche negati i percorsi di cura riabilitativi.
Frequenza scolastica non vuol dire “solo” migliore possibilità di apprendimento delle diverse discipline e abilità: scuola è il mondo di relazione con i pari, dove si impara a vivere nella società, dove nascono amori e amicizie, si affrontano le inimicizie e le rivalità, si apprende il limite di se stessi, il perimetro della liceità del gioco, si conosce la necessità delle regole, si contribuisce alla costruzione di una comunità. Si trasgredisce e si imparano le conseguenze; si collabora, e si gode dei frutti della collaborazione. Insomma, si diviene cittadini di oggi e di domani. Ci sono i tempi prima di entrare e i tempi dopo l’uscita, quelli dei commenti, dell’organizzazione del tempo successivo. Ci sono i compiti fatti insieme nel pomeriggio, tra uno sport, un catechismo, una passeggiata all’aria libera, un gioco con la playstation in compresenza, il commento allo sport, alle medesime relazioni sociali. Ci sono gli amori travolgenti dell’infanzia e dell’adolescenza. Insomma la vita relazionale e affettiva di ogni persona di età minore, e anche poi di molti giovani adulti, in cui ci si conosce, si sperimenta e accresce la propria umanità, si impara a vivere. La brusca interruzione di tutto ciò ha precipitato più generazioni di ragazzi esclusivamente nelle relazioni virtuali con i pari, accompagnata persino dalla negazione del contatto fisico con le generazioni più anziane per le quali hanno anche appreso improvvisamente di poter rappresentare un pericolo; i bambini -accuditi fino al giorno prima dai nonni- hanno dovuto acquisire la consapevolezza di poter essere per loro un veicolo di contagio e ne sono stati separati.
Tutto ciò vuol dire diritti negati; all’uguaglianza, alla dignità e all’identità, alle relazioni affettive primarie, all’istruzione, alla religione, allo sport, alla vita all’aria aperta. Insomma tutto ciò - e molto altro ancora: pensiamo ai minorenni testimoni di violenza nel chiuso delle mura domestiche, dove sappiamo che i comportamenti violenti sono aumentati - ha prodotto un arresto di crescita personale e sociale nei bambini e ragazzi con costi non stimabili oggi ma certo pesanti; ne ha interrotto lo sviluppo psico-fisico, ne ha quindi minato la salute psico-fisica intesa in quella accezione complessa di cui si è detto supra.
5. Scelte vaccinali e minorenni: i pareri del Comitato Nazionale di Bioetica
Anche di questo si è occupato il Comitato Nazionale di Bioetica nel parere 23 ottobre 2020 , COVID-19 e bambini dalla nascita all’età scolare[18]. Il CNB sottolinea le ripercussioni specifiche indotte dalla pandemia sulla salute globale dei bambini e sui principali aspetti bioetici sottesi, con specifica attenzione già dalle primissime correlazioni esistenti nell’unità materno-netoneonatale, fino alle prime fasi dello sviluppo, quali l’infanzia e la fanciullezza. Cfr. in particolare Cap. 3 sulle conseguenze psicologiche e sociali del lockdown sui bambini e sulle conseguenze educative e scolastiche.
Precedentemente[19] il CBN aveva sottolineato l’importanza del benessere del minore, che si realizza necessariamente riconoscendo e tutelando la sua soggettività, attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione nelle scelte personali. Il CBN aveva quindi sollecitato pertanto gli operatori sanitari a personalizzare le cure destinate ai bambini e agli adolescenti con i quali occorre entrare in relazione. L’assenso ai trattamenti terapeutici, in questa prospettiva, -aveva già sottolineato il CBN- contribuisce a creare l’alleanza terapeutica tra il medico e il minore e deve essere ricercato con la dovuta attenzione al grado di maturità raggiunto dal minore stesso, valutando comunque l’importanza dell’intervento richiesto e fatte salve le prerogative dei legali rappresentanti.
All’inizio del 2021 sono finalmente cominciate le vaccinazioni contro COVID-19. Come è noto, la vaccinazione non è obbligatoria[20]. Nel tempo è stata proposta prima alle categorie professionali esposte, ai grandi anziani, ai soggetti fragili e poi mano mano alle altre categorie con un grado inferiore di esposizione e alle fasce di popolazione più giovani.
La questione del vaccino ai minorenni non si è quindi posta nell’immediatezza, ma è tuttavia risultato evidente come la questione avesse considerevole rilevanza etica, sociale, giuridica. Quando si tratta di minorenni, si parla di situazioni profondamente differenziate, anche solo per età: da 0 a 18 anni, con infinite sfumature di capacità di discernimento ed espressione della propria opinione.
È necessario tenere presente quanto stabilito dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2021/953 del 14.06.2021, al considerando 36, “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti Covid -19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate”. Nella situazione dei minorenni, la scelta di non vaccinare avviene per scelta dei genitori ma viene subita dai figli con ulteriori danni al loro sviluppo psico-fisico.
In particolare, sul tema del vaccino ai minorenni il Comitato Nazionale di Bioetica ha emesso un articolato parere in data 29 luglio 2021 con particolare riferimento ai cd. “grandi minori”[21] Il CNB ha sottolineato come la vaccinazione anti-Covid 19 sugli adolescenti possa salvaguardare la loro salute e contribuire a contenere l’espansione del virus nell’ottica della salute pubblica, in particolare in vista del rientro a scuola.
La vaccinazione anti-Covid 19 degli adolescenti richiede nuove e diverse attenzioni e forme di comunicazione adatte all’età da parte delle istituzioni e dei medici. E’ importante l’informazione rivolta ai genitori, che dovrà essere calibrata in base all’età dell’adolescente, con particolare attenzione al bilanciamento di rischi e benefici, diverso rispetto agli adulti e agli anziani. Ma è altrettanto importante l’informazione rivolta agli adolescenti, auspicabilmente mediante un foglio informativo prima del vaccino, affinché possano partecipare in modo consapevole. Necessarie altresì azioni di sensibilizzazione e di educazione di genitori e insegnanti, e attivazione di specifiche iniziative nella scuola. È importante ascoltare l’adolescente e valorizzarne il diritto ad esprimere la sua scelta in relazione alla sua capacità di discernimento.
Se la volontà del “grande minore” di vaccinarsi fosse in contrasto con quella dei genitori, il Comitato ritiene che l’adolescente debba essere ascoltato da personale medico con competenze pediatriche e che la sua volontà debba prevalere, in quanto coincide con il migliore interesse della sua salute psico-fisica e della salute pubblica. Per gli adolescenti con patologie e rientranti nelle categorie identificate dal Ministero della Salute (in una lista aggiornata), per le quali la vaccinazione è raccomandata, emerge in forma ancora più pressante l’obbligo dei rappresentanti legali di garantire ai propri figli il miglior interesse; il CBN raccomanda di ricorrere al comitato di etica clinica o ad uno spazio etico e, come extrema ratio, al giudice tutelare. Sul consenso informato nell’interesse dei minori, il CNB raccomanda un coinvolgimento degli stessi, proporzionato al grado di maturità e di comprensione che essi presentano, fatte salve le prerogative dei genitori e dei rappresentanti legali.
Nel caso dell’adolescente che rifiuti la vaccinazione anti-Covid 19 a fronte del consenso dei genitori, il Comitato ritiene importante e auspicabile che l’adolescente sia informato che la vaccinazione è nell’interesse della sua salute, della salute delle persone prossime e della salute pubblica. In ultimo appare comunque corretto, dal punto di vista bioetico, non procedere all’obbligo di vaccinare in mancanza di una legge, ma porre in essere misure atte a salvaguardare la salute pubblica.
Il CNB ritiene opportuno che nelle circostanze di contrasto tra le parti, la volontà sia certificata per esplicitare con la massima chiarezza le rispettive posizioni, anche al fine di individuare meglio i contrasti nel tentativo di ricomporli. Dal punto di vista bioetico, per quanto non sussista un obbligo di vaccinazione in mancanza di una legge, sussiste tuttavia il dovere morale e civile.
6. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e vaccini (anche anti COVID-19)
Nella sentenza 8 aprile 2021, La Grande Camera della Corte EDU nel caso Vavric ka e altri contro la Repubblica Ceca, (http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-209039 ), su ricorso 47621/13 di diversi cittadini della Repubblica Ceca che denunziavano l’obbligo di vaccinazione contro nove malattie (tra le quali difterite, poliomielite, pertosse, epatite b, morbillo, parotite, rosolia, HIB, infezione da pneumococco) imposto ai propri figli minori, ha ritenuto non sussistesse violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (diritto alla vita privata e familiare) atteso che lo Stato convenuto intendeva legittimamente garantire al contempo sia la salute dei vaccinati che dei non vaccinati, attraverso il raggiungimento della “immunità di gregge” per le nove gravi malattie in questione. Nel caso in esame, inoltre, vi era l’esigenza di rispondere alle preoccupazioni delle più alte Autorità sanitarie per la diffusione delle nove gravi malattie che con la vaccinazione si intendeva contrastare, così rispondendo alla diminuzione del tasso vaccinale tra i bambini, preoccupazione delle Autorità Sanitarie condivisa ed anzi sollecitata dalla Comunità scientifica.
Recentemente la Corte EDU è tornata ad occuparsi della questione vaccinale in riferimento al vaccino anti COVID-19 con la sentenza 21 settembre 2021, ricorso n. 41994/21. In tale decisione la Corte EDU ha dichiarato irricevibile il ricorso di Zambrano contro la Francia. Il Ricorrente aveva invocato violazione degli artt. 3, 4, e 8 della Convenzione EDU da parte delle leggi francesi emesse durante la pandemia e restrittive a suo dire ingiustificatamente di diritti fondamentali (loi n 2021-689 du 31 mai 202 e loi n. 2021-1040 del 5 agosto 2021). La Corte di Strasburgo dichiara irricevibile il ricorso per l’insussistenza di tutti gli elementi richiesti dal Regolamento tra cui la qualità di vittima nel Ricorrente e il mancato esaurimento delle vie interne.
7. Vaccinazione anti COVID-19 in caso di disaccordo dei genitori: giurisprudenza interna di merito
In questo quadro, complesso e multilivello, in cui però è evidente che la vaccinazione sia considerata positivamente anche per le persone di età minore da tutte le Autorità tempo per tempo interessate, si sono succedute alcune vicende giudiziarie relative a queste ultime che hanno come segno distintivo il disaccordo tra genitori in relazione all’opportunità di sottoporre i figli minorenni alla vaccinazione anti-covid 19.
Il Tribunale di Monza, con decreto in data 22 luglio 2021, decide su un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato dalla madre di un quindicenne che aveva espresso consenso alla vaccinazione al fine di poter liberamente espletare attività sociale e sportiva. Il padre, che inizialmente aveva prestato il suo consenso, non aveva poi sottoscritto il modulo di autorizzazione con motivazioni generiche. La madre aveva quindi adito l’autorità giudiziaria ex art. 709 ter c.p.c.; il padre aveva chiesto preliminarmente che il ricorso venisse dichiarato inammissibile, ritenendolo irrituale ai sensi della norma richiamata e aveva confermato il proprio dissenso motivandolo con l’essere il vaccino ancora in fase sperimentale e non ancora testato per l’età del figlio. Il Tribunale di Monza non ha condiviso le eccezioni del Resistente: ha ritenuto ammissibile il ricorso materno, osservando che è stato introdotto proprio per dirimere i dissidi sull’esercizio della responsabilità genitoriale relativamente alle decisioni sulla salute, educazione, istruzione dei figli. Tali decisioni vanno assunte di comune accordo ai sensi dell’art. 337 ter c.c., e la somministrazione del vaccino rientra in tale area, ancorché non sia obbligatorio ma facoltativo. Il Tribunale di Monza, nel merito, richiama la giurisprudenza precedente in tema secondo la quale la vaccinazione può essere esclusa solo quando in concreto, per le condizioni personali e sanitarie del minore, possa rappresentare un rischio maggiore e deve tenere conto della salute pubblica. L’assenza di copertura vaccinale, soprattutto in presenza di varianti sempre più contagiose, “comporta da un lato un maggior rischio per i singoli, ivi compresi i minori, di contrarre malattia e, dall’altro, ripercussioni negative sula vita sociale e lavorativa delle persone e, per quanto riguarda i minori, sul loro percorso educativo, limitando la possibilità di accesso alle strutture formative”. Tenuto conto dell’assenza di rischi certificata dal pediatra, ma della volontà positiva del minore, letta proprio nel contesto della norma di cui all’art. 3 della l. 219/2017, il Tribunale di Monza autorizza la somministrazione del vaccino al figlio quindicenne attribuendo alla madre la facoltà di accompagnare il figlio presso un centro vaccinale e sottoscrivere il relativo consenso informato anche in assenza del consenso dell’altro genitore.
A settembre analogo tema viene portato all’attenzione del Tribunale di Milano (decr.. 2 settembre 2021, inedito)[22], sempre con ricorso ex art. 709 ter c.p.c., da un padre in contrasto con la madre la quale si opponeva alle vaccinazioni obbligatorie, ad altri vaccini utili e persino al tampone per la figlia undicenne; successivamente chiedeva l’autorizzazione alla vaccinazione COVID-19. La Resistente sollevava questione di costituzionalità del DL 73/2017, convertito nella legge 119/2017, che veniva rigettata dal Tribunale di Milano in quanto le medesime questioni erano già state esaminate dalla Consulta e ricordandone le motivazioni. In particolare sottolinea il giudice meneghino che un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. Dunque, i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute
individuale e collettiva (tutelate dall'art. 32 Cost.), anche l'interesse del minore. Vengono respinte in quanto infondate anche le questioni di incostituzionalità relative ai profili dell’obiezione di coscienza e alla violazione della privacy, ugualmente sollevate dalla Resistente, in quanto manifestamente infondate.
Il Tribunale di Milano autorizza quindi il padre alle vaccinazioni obbligatorie non sussistendo motivi sanitari che possano farle ritenere pregiudizievoli per la figlia delle Parti. Autorizza poi anche all’effettuazione dei tamponi “anti-COVID” e alle vaccinazioni facoltative come richiesto dal Ricorrente (a) anti-meningococcica B; anti-meningococcica C; c) anti-pneumococcica; d) anti-coronavirus, trattandosi di vaccini raccomandati dalla scienza medica internazionale a tutela della salute delle popolazioni, tanto che nel nostro Paese sono gratuite. Le obiezioni della Resistente a tali vaccinazioni vengono qualificate come opinioni personali, prive di fondamento scientifico, basate su notizie inveritiere. Infine il Tribunale di Milano autorizza il padre anche all’effettuazione del vaccino anti-COVID-19 come da lui richiesto, per essere la contraria posizione della madre basata ancora una volta su convinzioni personali prive di pregio scientifico, basate sulla teoria del “complotto”, su una “visione pregiudiziale e viziata della realtà espressione di una presa di posizione aprioristica nei confronti della scienza internazionale che non può che essere frutto di ideologie estremistiche” che pretermette di considerare l’autorizzazione di tale vaccinazione ai minori ultradodicenni del’EMA e non considera che tali persone di età minore vanno vaccinate prima di tutto per proteggere loro stesse e poi tutte le persone con le quali entrano in contatto nonché la didattica in presenza.
Il Tribunale di Milano considera quindi il comportamento materno “di grave pregiudizio per la minore” per averla esposta a gravi malattie negandole l’accesso alle vaccinazioni obbligatorie: il che porta il giudice a ritenere di dover limitare la responsabilità genitoriale della madre relativamente alle decisioni sulla salute della figlia afferenti le questioni vaccinali. Ovviamente viene respinta anche la domanda materna di affidamento esclusivo della figlia a se medesima. Circa l’istanza di ascolto della minore, il Tribunale la respinge sottolineando come il CBN, nel suo citato parere del 30.07.2021 ne abbia richiamato la necessità per l’adolescente e il grande minore. Richiama anche il conflitto di lealtà cui sarebbe stata sottoposta la bambina, convivente con la madre e dalla stessa “indottrinata” a giudizio del padre. Il Tribunale meneghino infine condanna la Resistente anche alle spese ex art.96 c.p.c. sottolineando come tale norma risponda a una funzione sanzionatoria di chi abusa del processo anche al fine di dilatarne i tempi.
Altro strumento processuale ha invece scelto in analogo caso il padre di minore sedicenne propenso a vaccinarsi per essere libero di accedere alla vita sociale, relazionale e sportiva, ma con una madre NO-VAX, presentando ricorso al Giudice Tutelare aretino ai sensi dell’art. 337 c.c. e chiedendogli che il minore sia ascoltato. Il Giudice Tutelare autorizza la vaccinazione e raccomanda alla commissione medica vaccinatrice di raccogliere il consenso del ragazzo unitamente a quello del padre.
È ricorsa sempre invece allo strumento ex art. 709 ter c.p.c. al Tribunale di Venezia la madre di una donna separata dal marito per la somministrazione del vaccino anti COVID-19 alla figlia che aveva espresso analoga volontà, Sentita la ragazza che “ha espresso liberamente, chiaramente e univocamente la volontà di sottoporsi al vaccino anti Covid-19, sì da poter svolgere in sicurezza le attività scolastiche ed extrascolastiche che, in seguito all’introduzione dell’obbligo del green pass, lo sono state parzialmente precluse”; acquisito il parere del medico famiglia attestante controindicazioni clinico-mediche alla somministrazione del vaccino alla minore; rilevata l’assenza di pericolo per la salute della minore e le indicazioni univoche della comunità scientifica, la diffusività del virus Covid-19 e la genericità e pretestuosità dei motivi di rifiuto paterni, con decreto del 1 dicembre 2021 il Tribunale di Venezia ha attribuito alla madre ricorrente il potere di decidere in via autonoma e senza il consenso paterno alla somministrazione del vaccino alla figlia minore.
Il giorno dopo, la Corte di appello di Venezia in altro caso, con decreto in data 2 dicembre 2021 ha autorizzato un padre alla somministrazione del vaccino al figlio che aveva invece espresso parere contrario, conforme a quello della madre con lui concivente. La Corte di appello ha osservato che, pur dovendosi tenere conto delle dichiarazioni dell’interessato, il giudice debba orientare la decisione a realizzare l’interesse del minore e dunque possa giungere anche a un convincimento diverso alla volontà manifestata da quest’ultimo.
8. …e quando i figli sono affidati ai servizi sociali?
Un caso particolare di dissenso tra genitori rispetto alla vaccinazione anti covid-19 si è verificato in un caso di affidamento dei figli minori ai Servizi sociali: in questo caso il Tribunale di Roma ha dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso ex art. 709 ter c.p.c. della madre, favorevole al vaccino, in quanto con precedente decreto tutte le decisioni relative anche alle scelte sanitarie per i figli minorenni erano state attribuite al servizio affidatario (Trib. Roma, decr. 29.07.2021). Questo, dopo aver sentito -non senza molte sollecitazioni anche del curatore speciale dei figli minorenni- il pediatra che ha escluso le conseguenze paventate dal padre -non contrario di per sé alla vaccinazione ma preoccupato di risposte allergiche essendo lui stesso un soggetto con varie allergie- ha autorizzato la vaccinazione. In questo caso il figlio minorenne era favorevole al vaccino, in quanto senza lo stesso non avrebbe potuto frequentare lo sport dal medesimo prediletto.
Differentemente invece una ragazza dell’interland milanese, contraria a vaccinarsi e anche lei affidata ai Servizi sociali: cui però non erano stati attribuiti poteri/doveri inerenti le scelte sanitarie con il provvedimento di affidamento (il che peraltro manifesta ancora una volta l’inadeguatezza dei provvedimenti di affidamento ai Servizi che non specifichino con chiarezza quali poteri sono loro attribuiti). Ricorre il padre -favorevole al vaccino- ex art. 709 ter c.p.c. chiedendo di sospendere la responsabilità genitoriale della madre. La figlia dichiara di non essere allo stato favorevole e la madre neutrale. Ma dagli atti Il Tribunale ritiene evidente che ha invece contrarietà alla somministrazione del vaccino e la manipolazione delle fonti informative; la ragazza è stata nelle sue dichiarazioni adesiva alla tesi materna. Citate varie fonti scientifiche, il Tribunale di Milano ritiene di doversi discostare dall’opinione espressa dalla minore, citando Cass. 23804/2021, essendo comunque il giudice a dove valutare l’interesse del minore dato che la stessa non appare , peraltro in questo caso con problematiche varie emerse nel corso di precedenti giudizi, impossibilitata al libero accesso alla figura paterna, priva di vita sociale propria. Citando i precedenti del Tribunale di Milano tutti favorevoli alla vaccinazione (decr. 2/13.9.2021; decr. 7.10.2021; decr. 3.11.2021) autorizza il padre ad assumere in autonomia e in assenza del consenso materno, ogni decisione relativa alla somministrazione della vaccinazione anti Covid19, con l’esplicito mandato di informare la figlia attraverso personale specializzato “della opportunità di proceder alla vaccinazione per tutelare la sua salute” ma senza subordinare l’effettuazione della vaccinazione al consenso della figlia (Tribunale Milano, decr. 22.22.2021).
9. Minorenni e diritto al ricorso effettivo
La questione, risolta dai provvedimenti citati concentrando sempre in capo al genitore favorevole alla vaccinazione anti COVID-19 del figlio minorenne, esprime un deciso favor per la somministrazione del vaccino. Stupisce che in nessuna delle decisioni richiamate si sia rinvenuto richiamo all’art. 29 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo che, dettando i contenuti del diritto all’educazione del minorenne, esplicitamente richiama anche il tema della responsabilità sociale, affatto estranea alla considerazione giuridica della scelta vaccinale anche nella prospettiva dell’art. 32 Cost.
Ma non è la sola questione senza risposta che emerge dal rapido esame sul tema vaccino anti covid-19 ai minorenni: nell’ambito delle decisioni sulla salute, sul piano sostanziale dovrebbe essere riconosciuta ai cd. “grandi minori” maggiore autonomia decisionale, non essendo sufficiente il loro ascolto nell’ambito della procedura nei casi in cui si trovino in contrasto o in conflitto di interessi con chi esercita la responsabilità genitoriale. Dovrebbe essere garantito loro la rappresentanza autonoma nel procedimento con la nomina di un curatore speciale e dovrebbe essere garantito loro l’accesso alla giustizia per la tutela dei loro diritti di scelta autonoma. Difatti la breve rassegna di provvedimenti in tema di vaccinazioni anti covid-19 dimostra che solo se vi è contrasto tra i genitori, vi è l’intervento del giudice.
Il problema riguarda anche altre fattispecie. Ne è esempio la difficoltà per l’infrasedicenne dell’esercizio del diritto di riconoscere un figlio ai sensi dell’art. 250 c.c., per la cui concreta attuazione e tutela effettiva la giurisprudenza ha dovuto inventare tortuose strade[23]. Oppure la possibilità di contrarre matrimonio per gli ultrasedicenni. La nostra normativa prevede che i minorenni di 14 anni possano prestare consenso al trattamento dei dati personali e possano dare l’assenso al riconoscimento del genitore che non li ha riconosciuti alla nascita, indipendentemente dal dissenso del genitore che ha invece operato immediatamente il riconoscimento. Il minorenne può chiedere il disconoscimento o impugnare di veridicità il suo riconoscimento tramite curatore speciale chiedendone la nomina al Pubblico Ministero (previsione però astratta, non essendo immaginabile per un minorenne l’agevole accesso al PM). Il minorenne invece non può chiedere la dichiarazione giudiziale di paternità, se la madre rimane inerte, perché vi è una surroga ex lege nell’azione e la nomina del curatore speciale nella fattispecie è prevista solo quando vi è un tutore: evidentemente la norma intende salvaguardare la vita privata e familiare del nucleo madre-figlio, lasciando alla prima la valutazione se sia il caso o meno di procedere alla relativa domanda. Tuttavia non sfugge che tale ratio ha le sue radici in una visione obsoleta non solo dei rapporti familiari ma soprattutto della considerazione del figlio, come se non fosse portatore di propri diritti indisponibili all’identità, alle relazioni familiari, alla vita privata e familiare della persona di età minore, considerato non molto più che un’appendice del genitore con il quale vive arbitro assoluto anche dei di lui diritti fondamentali. D’altra parte invece sussistono barriere nella ricerca di autonomia del minorenne in scelte che rivestono comunque importanza nel suo sviluppo psico-fisico. L’art. 316 bis c.c. prevede infatti che il Giudice Tutelare possa intervenire nelle questioni di particolare importanza sulle quali c’è contrasto tra i genitori su ricorso di uno di essi, e non su domanda di una persona di età minore che però deve essere ascoltato. Evidentemente la sua volontà troverà tutela solo se vi sarà stato contrasto tra i genitori e questi avrà adito un giudice. Nelle questioni sanitarie il contrasto della volontà del grande minore con i suoi genitori potrà essere portato a conoscenza del Giudice Tutelare dal medico, come si è già visto.
Tuttavia è evidente che difetta una filosofia di sistema che preveda aree di sua autonomia di accesso alla giustizia, trattandosi di una disciplina frammentaria in cui è difficile persino individuare il perimetro di aree omogenee. Né è possibile che il minore possa rivolgersi direttamente a un avvocato, perché si faccia portatore della sua domanda di giustizia. Ai sensi dell’art. 56 cod. deont. forense, difatti: “L’avvocato non può procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, sempre che non sussista conflitto di interessi con gli stessi. L’avvocato del genitore, nelle controversie in materia familiare o minorile, deve astenersi da ogni forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse”. Pur potendosi sostenere che vi sia conflitto di interessi tra un minorenne che vuole vaccinarsi e genitori che non vogliono, è evidente il rischio professionale insito in questa prospettiva per l’avvocato cui il minorenne dovesse rivolgersi; comunque resta insuperabile il problema della procura, che deve essere conferita da persona munita di capacità di agire e, quindi, o dal rappresentante legale del minore (genitori o tutore) o dal curatore che gli sarà stato nominato, anche su suo ricorso. Sicché i possibili percorsi sono: o che il minorenne si rivolga al Pubblico ministero minorile affinché richieda la limitazione della capacità di agire dei genitori per la scelta vaccinale, attribuendola eventualmente a un curator ad acta; o che si rivolga al presidente del tribunale perché gli nomini un curatore speciale che proponga la domanda al Giudice Tutelare. Percorsi tortuosi e di fatto impercorribili, il che porta ancora una volta a chiedersi quanta strada ancora ci sia perché alle persone di età minore sia riconosciuto il diritto al ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Del che anche la recentissima riforma del processo civile in area persona, relazioni familiari e minorenni, non sembra essersi occupata.
[1] Sul tema dell’interesse del minore, la più approfondita e completa analisi in M. Bianca (a cura di) , The best interest of the child, Roma, 2021. Per una veloce sintesi, che segnalo in quanto attinente al presente tema, rinvio a M.G. Ruo, Il principio dell’interesse del minore: una bussola ai tempi del COVID. Il punto sulle tutele, in Guida al diritto – Il sole 24 ore, N. 48, 5 dicembre 2020, pp. 30-34.
[2] Così G. Recinto, Il diritto alla salute della persona di età minore e il suo superiore interesse, in Persone di età minore e diritto alla salute. Aspetti bioetici, giuridici, medici, psicologici e pedagogici. Matera, 2015, pp. 15-22 che raccoglie gli atti del congresso di CAMMINO, svoltosi a Matera nel 2013. Cfr. anche nello stesso volume i saggi di S. Amato, Bioetica e minori, pp. 23-34 e P. Stanzione, Persona minore di età e salute, diritto all’autodeterminazione, responsabilità genitoriale, pp. 35-47.
[3] Così G. Recinto, ibidem, p. 16.
[4] Così G. Recinto, ibidem, p. 21.
[5] La sentenza 307 del 14-22 giugno 1990 fu pronunciata in materia di vaccinazione poliomelitica e dichiarò l’illegittimità costituzionale della l. 51/1966 nella parte i cui non prevedeva a carico dello Stato un’equa indennità in caso di conseguenze al vaccino.
[6] Così Corte Cost., sent. 5/2018, desumendo dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione, nonché dalla circolare del Ministro della salute del 12 giugno 2017 (Circolare recante prime indicazioni operative per l’attuazione del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, recante “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale”),
[7] Secondo i dati dell’OMS nel World Health Statistics, rapporto pubblicato il 17 maggio 2017.
[8] Fermo restando il rinvio alle specificazioni del calendario vaccinale nazionale riferito a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni obbligatorie e gratuite sono state ridotte nella conversione in legge da dodici a dieci. Restano obbligatorie, quelle contro poliomielite, difterite, tetano ed epatite B, nonché contro pertosse e Hib (comma 1); sono altresì obbligatorie le vaccinazioni contro morbillo, rosolia, parotite e varicella (comma 1-bis). Non sono obbligatorie, ma vengono offerte attivamente e gratuitamente le vaccinazioni anti-meningococcica B e C e, inoltre, quelle contro pneumococco e rotavirus (comma 1-quater).
[9] Legge 6 giugno 1939, n. 891, recante «Obbligatorietà della vaccinazione antidifterica»; legge 5 marzo 1963, n. 292, recante «Vaccinazione antitetanica obbligatoria»; legge 4 febbraio 1966, n. 51, recante «Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica»; legge 27 maggio 1991, n. 165, recante «Obbligatorietà della vaccinazione contro l’epatite virale B».
[10] Rispettivamente previste, dallo stesso art. 1 del d.l. n. 73 del 2017, ai commi 2 e 3 e successivamente ridotte in sede di conversione che ha anche introdotto un procedimento amministrativo con convocazione degli esercenti la responsabilità genitoriale alla ASL.
[11] Precedentemente la Consulta era intervenuta sul tema delle vaccinazioni anche con le sentenze n. 423/2000, n. 27/1998, n. 268/2012 e con la sentenza n. 268/2017.
[12] Art. 12 CRC: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. Cui fa riscontro, da parte dell’ordinamento interno, l’art. 315 bis c.c.
[13] Dichiarazione di norme universali di bioetica elaborato dal Comitato internazionale di bioetica (CIB) dell'UNESCO, ed approvato nel 2005.
[14] Il Codice è stato redatto da un gruppo di lavoro multidisciplinare ed è il frutto di un lavoro intrapreso nel 2008 per iniziativa dell'Istituto Nazionale per i Diritti dei Minori (Indimi). Hanno preso parte alla redazione del Codice la Società italiana di pediatria (Sip), l'Associazione culturale pediatri (Acp), la Società italiana di medicina dell'adolescenza (Sima), la Società italiana di Scienze infermieristiche pediatriche (Sisip), con la collaborazione di Unicef Italia e degli Ospedali Pediatrici Gaslini, Burlo Garofalo, Meyer e Bambin Gesù (https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Docs/Ministero-della-Salute-Codice-del-diritto-del-minore-alla-salute-e-ai-servizi-sanitari).
[15] Ad es. ad opera del Garante infanzia delle Marche: https://www.garantediritti.marche.it/storage/2020/09/codice_salute_minore.pdf
[16] Le ragazze minorenni hanno il diritto di rivolgersi personalmente ai consultori familiari anche all’insaputa dei genitori, per ottenere la prescrizione di farmaci contraccettivi che necessitano di controllo medico: gli operatori sono tenuti a rispettare unicamente le convinzioni etiche delle richiedenti. In particolare, dall’età di 14 anni possono richiedere anche visite ginecologiche. Sono ammessi accertamenti diagnostici, anche di laboratorio, e cure qualora si presentino sintomi di insorgenza di una malattia trasmessa sessualmente.
[17] Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
[18] Parere del Comitato Nazionale di Bioetica 23 ottobre 2020https://bioetica.governo.it/media/4114/p139_covid-19-e-bambini-dalla-nascita-all-eta-scolare_it.pdf
[19] Bioetica con l’infanzia, parere 22 gennaio 1994, https://bioetica.governo.it/it/pareri/pareri-e-risposte/bioetica-con-linfanzia/. Ancor prima cfr. Parere 20 giugno 1992, Informazione e consenso all’atto medico https://bioetica.governo.it/it/pareri/pareri-e-risposte/informazione-e-consenso-allatto-medico/
[20] L’obbligo è stato imposto dal decreto legge del 1 aprile 2021 n. 44, convertito dalla legge 28 maggio n. 76, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura ed assistenza.
[21] Sui “grandi minori” cfr. intervista del Prof. Roberto Sinigaglia in Diritti in cammino: Rubrica Dove va il diritto di famiglia: i cd grandi minori. https://www.youtube.com/watch?v=brVd9h0tHpY&ab_channel=CAMMINOAssociazioneAvvocati. Bisogna lasciarsi alle spalle l’idea dell’infradiciottenne come incapace di scegliere, nell’ambito dei diritti personali e in particolare dei diritti sanitari. Nonostante la legge 219/2017 preveda che il consenso debba essere espresso dai genitori, pur tenendo conto della volontà del minore. Genitori e medici si debbono mettere in ascolto della persona di età minore. Cfr. anche il codice privacy che riconosce al grande minore (in Italia dai 14 anni) la possibilità di esprimere il consenso al trattamento dei suoi dati personali.
[22] Ringrazio l’Avv. Grazia Ofelia Cesaro, presidente dell’UNCM e difensore del padre, per avermene reso disponibile copia anonimizzata.
[23] Quando un bambino nasce da un’infrasedicenne, su ricorso del Pubblico Ministero Minorile viene aperto il procedimento di adottabilità (art. 9 l. 184/1983). Il Tribunale per i minorenni sospende il procedimento se la minorenne vuole riconoscere il figlio (art. 11 l. 184/1983) e le nomina un curatore speciale che ricorra al Tribunale ordinario per richiedere la relativa autorizzazione.
Scienze, neuroscienze e accertamento multifattoriale delle infermità psichiche*
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso” – 2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche – 3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche – 4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso.
1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso”
A partire dagli anni Sessanta si è sviluppato un acceso dibattito scientifico sul tema dell’imputabilità, alimentato dalla mancanza di parametri scientifici univoci sulle nozioni di infermità psichica e di capacità di intendere e di volere[1]. Tali contrasti interpretativi discendono dalle posizioni estremamente diversificate assunte dalla psichiatria forense nostrana sul tema dell’imputabilità, che traggono a loro volta origine dai contrasti esistenti in ordine allo stesso apporto di questa disciplina scientifica al processo penale e che le recenti aperture alle problematiche neuro-scientifiche hanno ulteriormente accentuato[2].
Per comprendere tale situazione di incertezza interpretativa è sufficiente richiamare le parole di Tullio Bandini e Uberto Gatti, che, in un loro studio sulla valutazione clinica dell’imputabilità degli anni Ottanta, così commentavano il dibattito scientifico interno alla psichiatria forense su questo tema: «Nell’attuale momento storico si è quindi giunti ad una situazione di contrasto, che vede contemporaneamente presenti da un lato la richiesta di estendere l’intervento psicologico e psichiatrico all’interno del processo penale, attraverso la sistematica utilizzazione della cosiddetta perizia “criminologica”, e dall’altro lato la richiesta di limitare o addirittura escludere l’intervento della psichiatria nel sistema della giustizia, fino a giungere alla proposta di considerare sempre imputabili i rei affetti da patologia mentale»[3].
In questa situazione di pluriennale incertezza interpretativa, a metà dello scorso decennio, si inseriva risolutivamente la Suprema Corte, intervenendo con una pronuncia a Sezioni Unite con la quale veniva definitivamente rivisitata la nozione di imputabilità, aprendo nuovi spazi ermeneutici ad approcci clinici nuovi e certamente affascinanti come quello neuro-scientifico.
Le Sezioni Unite, in particolare, intervenivano per stabilire se, ai fini del riconoscimento del vizio parziale o totale di mente, rientrassero nel concetto di infermità psichica i gravi disturbi della personalità tradizionalmente inquadrati nell’ambito delle anomalie psichiche riconducibili all’art. 90 c.p. Con il loro intervento le Sezioni Unite risolvevano la questione oggetto di rimessione affermando il principio secondo cui i gravi disturbi della personalità sono ascrivibili al novero delle infermità psichiche e possono dare luogo al vizio di mente previsto dall’art. 88 c.p. a condizione che siano di intensità e gravità tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’agente e sussista un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta delittuosa[4].
Veniva, conseguentemente, affermato il seguente principio di diritto, a tutt’oggi insuperato, secondo cui: «Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”»[5].
Per raggiungere tali conclusioni, le Sezioni Unite rivisitavano la nozione di imputabilità, inquadrandola nell’ambito della capacità penale e adeguandola alle più recenti acquisizioni della psichiatria forense, che venivano reinterpretate in una prospettiva clinica aperta ai possibili apporti della ricerca scientifica.
Si giungeva, in questo modo, a definire l’infermità psichica come una condizione di disagio mentale di consistenza tale da escludere o ridurre consistentemente la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato. In questa prospettiva interpretativa, dunque, non è tanto la condizione di infermità psichica dell’agente a rilevare sul piano dell’accertamento processuale della capacità di intendere e di volere, quanto il suo disagio mentale, la cui consistenza deve essere tale da incidere negativamente sulla sua capacità di determinarsi liberamente in rapporto al singolo evento delittuoso[6].
2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche
Per inquadrare l’orientamento interpretativo che si è richiamato nel paragrafo precedente occorre analizzare preliminarmente i presupposti sistematici di tale impostazione allo scopo di comprenderne l’effettiva portata applicativa.
In tale ambito, cominciamo con l’osservare che, secondo la Suprema Corte, l’imputabilità non è solo una condizione psichica indispensabile per attribuire un reato all’agente, ma esprime la sua capacità penale, sul presupposto che non può esservi colpevolezza senza consapevolezza delle proprie azioni. L’imputabilità, dunque, è la condizione soggettiva indispensabile per affermare la responsabilità penale dell’agente, a condizione che questi, al momento del fatto, versi in una condizione di rimproverabilità riscontrata processualmente[7].
Ne discende che non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità per la condotta tenuta dal soggetto attivo del reato, per sanzionare la quale è necessario riscontrare l’effettiva coscienza dell’antigiuridicità del fatto in capo all’agente.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la verifica della colpevolezza del soggetto attivo del reato costituisce un momento insostituibile del giudizio di responsabilità penale in conseguenza delle finalità di rieducazione della pena affermate dall’art. 27, comma terzo, Cost., alla luce delle quali deve essere reinterpretato l’orientamento ermeneutico che si sta considerando. Infatti, la sanzione penale può svolgere la sua funzione di rieducazione del condannato soltanto a condizione che sia stato effettivamente commesso un fatto dannoso da parte del soggetto che deve essere rieducato e sia stata attuata con forme compatibili con il rispetto della persona imposto dall’art. 27, comma terzo, Cost.
Ne deriva ulteriormente che la sanzione penale può svolgere un’effettiva funzione di rieducazione solo a condizione che il condannato abbia maturato la consapevolezza degli effetti lesivi del suo comportamento, attivando in conseguenza di tale percorso interiore un processo di reinserimento sociale all’interno o all’esterno del circuito penitenziario[8]
In altri termini, è possibile parlare di rimproverabilità di un comportamento delittuoso solo se l’agente è consapevole dell’antigiuridicità del fatto che gli deve essere attribuito, sulla base di una verifica processuale sulla consapevolezza della sua condotta e non di una relazione meramente meccanicistica.
Ne discende che il processo rieducativo del condannato non può mai essere dato per scontato, presupponendo la piena consapevolezza del reo e l’accettazione del percorso sanzionatorio attuato nei suoi confronti. Tali principi, del resto, possono ritenersi ormai pacificamente accettati e acquisiti al patrimonio concettuale del nostro sistema penale[9].
Tutto questo porta a escludere ogni forma di coercizione, fisica o psichica, nel perseguimento delle finalità di rieducazione del condannato, che costituiscono un obiettivo tendenziale della pena perseguibile solo in presenza di una disponibilità del soggetto passivo del trattamento, sul presupposto della sua capacità di determinarsi liberamente[10].
Da questo punto di vista, si ritiene di dovere ulteriormente affermare che la necessità di stabilire un collegamento tra l’imputabilità e la funzione sociale della pena è una conseguenza della centralità riconosciuta nel nostro sistema processuale al principio del libero convincimento del giudice affermato dall’art. 192 c.p.p., che è individuati nell’obbligo di motivare la sentenza attraverso un percorso giustificativo coerente rispetto alle argomentazioni poste a suo fondamento e alle finalità perseguite dalla sanzione penale. Questo principio di origine illuministica, nella sua storia secolare, ha trovato la sua giustificazione nell’esigenza di limitare il pericolo di sentenze logicamente contraddittorie o emotive, imponendo una verifica rigorosa delle emergenze processuali riscontrate in relazione ai reati di volta in volta contestati e alla pena comminata all’esito del processo penale[11].
L’accoglimento di tale principio nel nostro ordinamento comporta che qualsiasi elemento probatorio possa contribuire alla formazione del convincimento del giudice, senza che possano crearsi artificiose gerarchie processuali tra le fonti di prova legittimamente acquisite. Di conseguenza, il giudice, per formare il suo convincimento, può utilizzare tutti gli elementi probatori che ritiene utili per la decisione della vicenda sottoposta al suo vaglio processuale, avvalendosi anche di eventuali accertamenti neuro-scientifici, purché dia conto nella motivazione dell’attendibilità e della pertinenza delle fonti di prova utilizzate, che non devono essere valutate empaticamente.
In tale prospettiva, ci sembra evidente che il principio del libero convincimento del giudice segni il passaggio fondamentale dalla fase della dimostrazione dei reati contestati all’imputato a quella della verità processuale trasfusa nella sentenza, che deve fondarsi sulle emergenze probatorie e tenere adeguatamente conto della consapevolezza del soggetto attivo del reato, rispetto alla quale le verifiche neuro-scientifiche, in quanto tali, possiedono un valore neutro, soggiacendo ai parametri generali affermati dalla sentenza “Raso”[12].
Si ritorna in questo modo alla centralità dell’art. 27 Cost., nell’ambito del quale deve essere inquadrato il principio della presunzione d’innocenza sancito nel suo secondo comma – nella sua duplice valenza di strumento di raggiungimento della verità processuale e di insostituibile regola di argomentazione – che impone all’autorità giudiziaria di formulare un giudizio di responsabilità penale dell'imputato solo quando la sua colpevolezza è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed è per questa ragione che riteniamo indispensabile collegare ulteriormente il principio del libero convincimento del giudice con il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, nella convinzione che tali principi costituiscano la piattaforma sistematica indispensabile per comprendere il significato più intimo dell’opzione interpretativa tesa a ricondurre i disturbi mentali nell’alveo dell’incapacità di intendere e di volere riconosciuta dall’art. 88 c.p.
Sotto questo profilo, l’ingresso nel nostro ordinamento della regola di giudizio fondata sul principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio comporta il rifiuto categorico dell’assunto secondo il quale i processi si possono risolvere con il solo metodo dell’intuizione personale del giudice, che dunque non si potrà spingere fino a sostituirsi alle acquisizioni consolidate della psichiatria forense per valutare l’imputabilità dell’agente. In altre parole, laddove le evidenze scientifiche riscontrate nel caso di specie dovessero risultare incerte o comunque contraddittorie, lasciando residuare consistenti margini di dubbio sull’imputabilità e sulla sua colpevolezza, il giudice dovrà assolvere[13].
A ben vedere, questa opzione interpretativa esprime una consapevolezza da tempo presente nelle scienze criminali nostrane, rafforzando il significato e la portata applicativa del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. In questa direzione, possiamo affermare che il responsabile dell’evento delittuoso può essere colpito dalla sanzione penale solo quando si raggiunge la certezza processuale che, al momento del fatto, fosse imputabile e che la sua capacità di intendere e di volere non fosse gravemente compromessa dalla presenza di patologie psichiche, rispetto alla quale – occorre ribadirlo – le verifiche neuro-scientifiche possiedono un valore neutro, essendo indispensabile vagliarne gli esiti alla luce della giurisprudenza richiamata nel paragrafo precedente[14].
D’altra parte, lo scopo di sanzionare con una norma penale il comportamento del soggetto attivo del reato deve essere raggiunto attraverso il superamento di ogni ragionevole dubbio sul fatto che la sua condotta abbia effettivamente e consapevolmente causato l’evento delittuoso che si è preso in considerazione in sede processuale. Ne consegue ulteriormente che, qualora all’esito della verifica probatoria compiuta dall’autorità giudiziaria dovessero sussistere ragionevoli dubbi sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e sulla consapevolezza dell’azione criminosa oggetto di accertamento processuale, si dovrà ritenere non dimostrata la colpevolezza dell’agente che dovrà essere prosciolto dalle contestazioni che gli sono state mosse[15].
In altri termini, non si può stabilire un collegamento processuale tra la condotta del soggetto attivo del reato e l’evento delittuoso oggetto di osservazione al di fuori delle regole di giudizio che governano nel nostro sistema l’accertamento della responsabilità penale, a meno di non stravolgere i principi fondamenti del nostro processo penale, tra i quali a buon diritto devono collocarsi tanto il principio del libero convincimento del giudice quanto il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio[16].
3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche
Una delle conseguenze più significative della posizione interpretativa che si sta considerando è rappresentata dalla necessità che la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e la sua imputabilità non siano valutate in astratto ma all’interno del processo penale, con le regole probatorie utilizzabili in tale ambito giurisdizionale e tenendo conto delle metodologie cliniche funzionali all’inquadramento della patologia psichica, di volta in volta, considerata.
Tali conclusioni postulano, a loro volta, un rapporto simbiotico tra il sapere scientifico proveniente dalla psichiatria forense – rispetto a cui assumono una dignità non secondaria, ancorché non decisiva, gli esiti delle verifiche neuro-scientifiche[17] – e il materiale probatorio esaminato dall’autorità giudiziaria, che deve beneficiare di questa simbiosi processuale. Sotto questo profilo, non possiamo che condividere la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’ultimo decennio, si è mostrata sensibile agli orientamenti più raffinati delle discipline psicopatologiche, tra cui le neuroscienze, valorizzando, al contempo, una prospettiva interdisciplinare che punta al rafforzamento del rapporto di collaborazione tra giustizia penale e psichiatria forense[18].
Ne discende che la condizione di infermità psichica dell’agente assume rilevanza ai fini dell’imputabilità solo in quanto risulti comprensibile il quadro bio-psicologico al quale associarla, con la conseguenza che è alla psichiatria forense che il giudice deve rivolgersi per individuare i dati clinici che gli consentiranno di ritenere l’individuo imputabile o non imputabile; ed è in tale contesto, necessariamente interdisciplinare, che il supporto delle neuroscienze può essere utile per l’accertamento dell’infermità psichica dell’imputato, ferma restando l’assenza di connotazioni salvifiche di tali metodiche diagnostiche.
Da questo punto di vista, è condivisibile la scelta della Suprema Corte di sancire il definitivo superamento del paradigma organicistico, che non riteneva possibile l’inquadramento delle anomalie psichiche nel novero delle categorie nosografiche, dando spazio a prospettive cliniche nuove, tra le quali, a buon diritto, si collocano le verifiche neuro-scientifiche, laddove risolutive per accertare l’intensità obnubilante delle capacità psichiche della patologia psichiatrica oggetto di accertamento[19].
In questo modo, ha trovato definitiva consacrazione quell’orientamento giurisprudenziale originariamente elaborato con riferimento alle sole “reazioni a corto circuito”, secondo cui le gravi alterazioni psichiche – anche se normalmente riferibili a stati emotivi e passionali non integranti una condizione patologica secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p. – possono costituire «manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni»[20].
L’ingresso delle “reazioni a corto circuito” nel dibattito giurisprudenziale risale alla seconda metà degli anni Ottanta, quando alcune Corti di Assise, pronunciandosi in materia di infanticidio, affermavano che i disturbi della personalità, se caratterizzati da particolare intensità, possono assurgere al rango di infermità psichica, facendo ritenere non imputabile quel soggetto che – in una situazione emotiva particolarmente coinvolgente e per effetto delle patologie di cui soffre – commette un fatto delittuoso. Tale impostazione partiva dall’assunto secondo cui l’infermità psichica idonea a compromettere la funzione intellettiva e ad abolire quella volitiva, anche solo transitoriamente, esclude che si possa applicare la disciplina dell’art. 90 c.p., che invece si riferisce a una condizione di turbamento passeggero dell’equilibrio psichico dell’agente conseguente all’insorgenza di fatti che toccano la sfera emotiva ovvero traggono origine da sentimenti più radicati nell’animo umano come la gelosia, l’amore, l’invidia o l’ambizione[21].
Si è ritenuto, in questo modo, che, a prescindere dalle catalogazioni nosografiche, quello che occorre verificare in sede processuale è l’assetto psichico complessivo dell’agente da intendere come il possesso, in un determinato momento, delle sue facoltà di autodeterminazione. Si è così attribuita rilevanza giuridica anche a quei disturbi mentali – non necessariamente inquadrabili nosograficamente o rilevabili neuro-scientificamente – che, per la loro intensità o per la loro persistenza, siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere del soggetto rapportabile in relazione al singolo evento delittuoso, escludendo o riducendo fortemente la sua capacità di autodeterminarsi[22].
Ne discende che non si tratta di affermare o escludere, sic et simpliciter, la rilevanza delle neuroscienze come metodica diagnostica ai fini dell’accertamento delle infermità psichiche e della loro eventuale rilevanza penale, ma di accertare se e in quale misura tali metodologie cliniche possono consentire di individuare patologie non altrimenti rilevabili e rispondere all’unico quesito che rileva in tema di capacità penale: l’imputato al momento del fatto era capace di intendere e di volere?.
In questa prospettiva, come acutamente evidenziato da Isabella Merzagora Betsos, le nuove metodiche diagnostiche neuro-scientifiche devono essere inquadrate in un corretto contesto nosografico, essendo utilizzabili laddove consentano di individuare clinicamente i disturbi della personalità. Tali metodiche, dunque, possono rilevarsi utili, qualora siano «in grado di stanare patologie che senza l’impianto concettuale e gli strumenti tecnici loro propri erano trascurate o non individuate […]»[23].
Seguendo questo percorso interpretativo si è ritenuto che anche i disturbi della personalità possono essere ritenuti idonei a concretizzare il vizio totale di mente previsto dall’art. 88 c.p., che può essere anche transeunte – connotazione quest’ultima differente dalla temporaneità del disturbo – ancorché riconducibile a una medesima condizione patologica. Da tali deduzioni deriva l’impegno del giudice nel distinguere gli stati di infermità psichica passeggeri da quelli che non possiedono siffatte connotazione cliniche e dai meri stati emotivi e passionali, i quali devono essere ritenuti irrilevanti ai fini dell’esclusione dell’imputabilità, secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p.[24]
4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso
A questo punto è chiaro che il dibattito che si è sviluppato in questi ultimi anni tra sostenitori del metodo di accertamento neuro-scientifico delle patologie psichiatriche e sostenitori del metodo di accertamento delle infermità mentali di impianto tradizionale, se portato alle estreme conseguenze, conduce a risultati aberranti.
L’accertamento delle patologie psichiatriche, infatti, postula un percorso di verifica multifattoriale, che mette al centro dell’attenzione giurisprudenziale non tanto il metodo seguito ma il risultato della verifica, occorrendo dimostrare, sulla base delle emergenze probatorie, la sussistenza di un nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto di reato, che consenta di ritenere il primo determinante per il verificarsi del secondo. In questa cornice, non è rilevante il metodo clinico utilizzato per accertare la patologia psichiatrica da cui è affetto l’imputato, ma l’esito dell’accertamento diagnostico, che può certamente essere effettuato con metodiche neuro-scientifiche, ma che, in ogni caso, deve consentire di affermare, in termini di certezza processuale, quale fosse la condizione di capacità penale dell’imputato al momento del fatto.
Invero, questo principio era stato già espresso in alcune risalenti pronunce di legittimità[25], ma non costituiva espressione di un orientamento consolidato, fino all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, che hanno assunto al riguardo una posizione esegetica inequivocabile, adottando una soluzione applicativa condivisa da tutti i commentatori[26].
Tale posizione interpretativa ha incontrato il consenso degli esponenti più autorevoli della psichiatria forense nostrana che, da tempo, ritengono scientificamente plausibile che un malato di mente possa essere chiamato a rispondere del suo operato solo se viene stabilita una correlazione fra i disturbi mentali da cui è affetto e il reato commesso[27].
Tale posizione interpretativa appare condivisibile anche nella prospettiva di un potenziamento del rapporto tra la psichiatria forense e la giurisdizione troppo spesso rimasto su un piano larvale. Nessun dubbio, infatti, può nutrirsi sulla necessità di verificare quali siano le condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, proprio per quell’indispensabile collaborazione che deve intercorrere tra il sapere scientifico e la iuris dictio del giudice.
Per la verità, l’affermazione apodittica di un sapere giuridico astrattamente fondato sul principio di causalità non può considerarsi del tutto appagante sotto il profilo epistemologico, se si tiene presente il carattere di indeterminatezza delle scienze mediche e la neutralità solo apparente delle acquisizioni scientifiche. Non v’è dubbio, infatti, che l’avere trascurato di inquadrare la medicina nel dibattito sul carattere indeterminato delle scienze naturalistiche inevitabilmente comporta un indebolimento complessivo dei modelli di riferimento scientifico utilizzati dalla Suprema Corte in relazione al problema dell’imputabilità[28].
D’altra parte, pur con i limiti epistemologici che si sono evidenziati, l’opzione interpretativa che si sta considerando ha l’indubbio merito di avere affrontato alla radice il problema del rapporto tra il disturbo mentale e l’agire criminoso dal punto di vista del diritto penale sostanziale, senza trascurare e anzi valorizzandone i profili probatori e gli effetti processuali. Infatti, il procedimento di accertamento della responsabilità penale seguito dal giudice – nonostante l’inevitabile tensione tra razionalità scientifica e logicità processuale – richiede un’intima coerenza con le leggi scientifiche generalmente condivise, tanto è vero che per inquadrare la causalità penale, da tempo, la Suprema Corte utilizza l’espressione “necessaria condivisione sociale dell’agire giurisdizionale”[29].
Da questo punto di vista, ferma restando l’autonomia scientifica – e naturalmente professionale – del perito che esegue le verifiche delegategli dal giudice in ordine alle condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, il rapporto di cooperazione tra i due soggetti processuali deve essere coordinato dal giudice che deve fornire al suo collaboratore tutte le indicazioni necessarie per l’espletamento del suo accertamento. Le due figure processuali, infatti, devono operare in un ambito di condivisione interdisciplinare, che impone l’esatta delimitazione del contesto bio-psicologico nel quale si inserisce l’intervento del perito, al quale conseguentemente non potrà essere conferita una delega in bianco sulle modalità della verifica sull’infermità psichica.
Sotto questo profilo, particolare importanza deve essere attribuita alla storia clinica dell’autore del reato e agli esiti delle indagini psicodiagnostiche che sono state eseguite nei suoi confronti prima dell’intervento peritale, allo scopo di verificare se il disturbo mentale si è manifestato con un’intensità, qualitativa e quantitativa, tale da escludere o attenuare la capacità di intendere e di volere dell’agente in modo permanente o temporaneo[30].
Allo stesso tempo, essendo l’accertamento peritale finalizzato a consentire al giudice di valutare la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato, il perito dovrà dare conto dei termini con cui si è sviluppato il dibattito scientifico sui temi dell’infermità psichica e dell’imputabilità nell’ambito della psichiatria forense, allo scopo di evitare gli incombenti pericoli di decisioni emozionali o irrazionali svincolate dal percorso giurisprudenziale rigoroso che si è delineato in queste pagine; ed è proprio questo, a ben vedere, il pericolo di un utilizzo improprio delle metodiche neuro-scientifiche che, laddove disancorate da parametri nosografici rigorosi, possono sfociare in decisioni, per l’appunto, emotive o irrazionali.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che sul concetto di infermità psichica la Suprema Corte ha individuato degli argini interpretativi ineludibili, in linea con i principi richiamati dalla Corte Costituzionale in materia di coscienza dell’illiceità e di funzione sociale della pena, che costituiscono un punto di riferimento insostituibile nella valutazione della condizione di colpevolezza dell’imputato.
D’altronde, è difficile ipotizzare, nel breve periodo, un diverso approdo scientifico in tema di infermità psichica – nell’auspicabile direzione di un potenziamento di quel connubio tra i profili sindromici del disturbo mentale e quelli patogenetici – con la conseguenza che il problema dell’accertamento dell’imputabilità comporta la risoluzione di una questione preliminare, finalizzata a verificare se lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle metodologie utilizzabili in sede peritale possa comportare profili di indeterminatezza della fattispecie in violazione del principio di tassatività[31].
Il vero è che l’accertamento dell’imputabilità del soggetto attivo del reato non può che fondarsi su un approccio multifattoriale dell’infermità psichica da cui è affetto e non può prescindere dalla consapevolezza del carattere multicausale della medicina moderna e dalla necessità di analizzare il processo di causazione di un disturbo mentale come conseguenza di una pluralità di fattori generalmente non isolabili. Soltanto un approccio multifattoriale, infatti, ci consente di comprendere che, nella rete di causazione di un disturbo mentale, molto spesso, non è isolabile il ruolo esclusivo o determinante di un’unica causa, con la conseguenza che l’infermità psichica non sempre si può attribuire, in termini di certezza scientifica, a un fattore piuttosto che a un altro[32].
Tali conclusioni ci sembrano incontrovertibili se solo si considera che i parametri scientifici per definire il rapporto tra la causa e l’effetto di un evento patologico si sono notevolmente indeboliti rispetto al passato, come ci viene efficacemente rappresentato da Paolo Vineis, che contesta l’attualità della stessa nozione di causa, affermando: «Il vocabolo causa viene ad assumere pertanto un senso modificato rispetto alla tradizione aristotelica, e il concetto di causazione multipla […] emerge come modello interpretativo principale. Tale modello è associato all’interpretazione delle malattie croniche in termini di processi a più stadi: non è più singola esposizione nel corso del tempo, a costituire un complesso causale sufficiente»[33].
Tuttavia, tali considerazioni finiscono per indebolire la posizione interpretativa della Suprema Corte che, nell’individuare quale requisito indispensabile dell’accertamento dell’imputabilità la sussistenza di un nesso eziologico tra condotta delittuosa e il disturbo mentale, finisce per trascurare il carattere multicausale della psichiatria forense e la difficoltà di selezionare i fattori causalmente rilevanti rispetto al disturbo mentale che affligge il soggetto attivo del reato. D’altra parte, l’impossibilità di circoscrivere l’origine del processo di causazione di taluni disturbi mentali tipici della società tecnologica è incontrovertibile, se solo si considera che nemmeno su tutte le patologie di origine paranoica, nella psichiatria forense, si dispone di dati scientifici idonei a stabilire con esattezza quali fattori possono ritenersi causalmente rilevanti rispetto al processo di degenerazione psichica[34].
Ne discende che l’opzione interpretativa seguita dalla Suprema Corte in tema di nesso eziologico tra disturbo mentale e condotta delittuosa, seppure meritevole sul piano delle finalità di politica criminale perseguite, costituisce una semplificazione epistemologica, costituendo un’acquisizione incontrovertibile della moderna psichiatria forense quella secondo cui i fattori di acutizzazione di una patologia psichica sono difficilmente individuabili, in considerazione del lungo periodo di maturazione patogenico e della presenza di elementi di predisposizione soggettiva variabile da paziente a paziente. Senza considerare, per altro verso, che un’ipotetica ricostruzione degli elementi di predisposizione soggettiva dell’infermità psichica appare ulteriormente complicata dalla presenza di aspetti familiari di difficile selezione, anche ricorrendo a metodiche interdisciplinari, non potendosi fare a meno di valutare la rilevanza di profili di predisposizione genetica della patologia, con un’operazione che è possibile soltanto ricostruendo lo stato di salute mentale di tutti i familiari del soggetto clinico; operazione, questa, rispetto alla quale le metodiche neuro-scientifiche possono consentire l’acquisizione di risultati utili alla verifica sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato
Si trae conferma, in questo modo, dell’assunto secondo cui la storicità della patologia psichica oggetto di osservazione è il frutto di un processo di maturazione stratificato – estremamente complesso e spesso risalente nel tempo – che si perfeziona con una successione di fattori espositivi più o meno rilevanti, rispetto ai quali non è possibile indicare con esattezza il momento della patogenesi, che ovviamente non coincide mai con quello dell’accertamento diagnostico della patologia psichica[35].
È questo, a ben vedere, uno dei punti di maggiore criticità del rapporto tra neuroscienze e accertamento delle infermità psichiche, su cui probabilmente occorre uno sforzo interpretativo maggiore, nella direzione di quell’auspicabile potenziamento del rapporto tra giurisdizione e psichiatria forense, al quale più volte ci siamo riferiti nel corso di questo intervento e che, troppo spesso, è rimasto a uno stadio meramente programmatico[36].
* Questo intervento, che è in corso di pubblicazione nel volume a cura di S. Aleo, Evoluzione scientifica e profili di responsabilità, Pacini, Pisa, 2022, fa parte delle riflessioni condotte nell’ambito del gruppo di ricerca “Responsabilità, neuroscienze, processi di predeterminazione sociale”, composto, oltre che dal sottoscritto, da alcuni docenti del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Catania, costituito con il contributo del Piano di incentivi per la ricerca di Ateneo 2020-2022.
[1] Sul dibattito sviluppatosi in seno alla psichiatria forense a partire all’inizio degli anni Sessanta sul tema dell’imputabilità, si richiamano gli studi condotti da T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito nell’ambito del processo penale, in Riv. it. med. leg., 1982, pp. 321 ss.; Id., Nuove tendenze in tema di valutazione clinica della imputabilità, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, diretta da F. Ferracuti, Giuffrè, Milano, 1988, XIII, pp. 152 ss.
[2] Sull’influenza del dibattito sulle neuroscienze rispetto al problema dell’accertamento delle infermità psichiche si veda il recente S. Aleo, Diritto penale e neuroscienze, in Resp. med., 2020, 2, pp. 171 ss.; si vedano anche, sul piano più generale, D. Oliviero, De rerum neuroscientiarum natura. Dai laboratori di genetica alle aule di tribunale, Milano, 2018; R. Dell’acqua-M. Turatto, Attenzione e percezione. I processi cognitivi psicologia e neuroscienze, Roma, Carocci, 2006; A. Siracusano-A.I. Rubino, Psicoterapia e neuroscienze, Roma, Il Pensiero Scientifico, 2006.
[3] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., p. 152.
[4] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, in Cass. C.E.D., n. 230317-01; si muovono nella stessa direzione ermeneutica anche le più recenti Cass. pen., Sez. I, 16 aprile 2019, Mazzeo, in Cass. C.E.D., n. 252686-01; Cass. pen., Sez. I, 31 gennaio 2013, Venzi, in Cass. C.E.D., n. 258444-01; Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2012, Bondì, in Cass. C.E.D., n. 276616-01; Cass. pen., Sez. VI, 27 ottobre 2009, Bolognani, in Cass. C.E.D., n. 245253-01.
Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale, si rinvia ai commenti, coevi alla pronuncia e sostanzialmente favorevoli alla svolta ermeneutica determinata dall’intervento delle Sezioni Unite, di M. Bertolino, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9163, Raso, in Dir. pen. proc., 2005, 7, pp. 119 ss.; M.T. Collica, Anche i “disturbi della personalità” sono infermità mentale, in Riv. dir. proc. pen., 2005, 1, pp. 394 ss.; I. Merzagora Betsos, I nomi e le cose, in Riv. it. med. leg., 2005, 2, pp. 372 ss.
[5] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit.
[6] Si recuperava, in questo modo, la concezione dell’imputabilità in senso relativo affermatasi in seno alla psichiatria forense nel corso degli anni Settanta, secondo cui tale condizione soggettiva dell’agente non deve essere valutata come generica attitudine a rispondere di un reato, ma come capacità rapportabile al singolo evento delittuoso esaminato. Sosteneva, in particolare, questa concezione dell’imputabilità G. Canepa, Personalità e delinquente, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 64 ss.; Id., Persectives d’innovation dans le domaine de l’expertise psychiatrique, in Revue de Police Tecnique, 1985, 3, pp. 59 ss.
[7] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit.
[8] La funzione sociale della sanzione penale è analizzata negli studi di E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1979, pp. 479 ss.; L. Eusebi, La «nuova» retribuzione. L’ideologia retributiva e la disputa sul principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, pp. 493 ss.
[9] Si veda E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, cit., pp. 483-485.
[10] Si tratta di un orientamento interpretativo recepito dalla Corte Costituzionale, fin dalla metà degli anni Settanta, in C. Cost., 19 maggio 1976, n. 134, in Giust. cost., 1976, 1, pp. 938 ss.
[11] Esemplare, sotto questo profilo, ci appare il punto di vita di uno dei più importanti studiosi del diritto penale contemporaneo come M. Maiwald, Causalità e diritto penale, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 101-102, che afferma: «Il principio del libero convincimento del giudice nel processo penale è principio comune agli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale e deriva dal patrimonio ideologico dell’illuminismo francese».
[12] Si occupano esplicitamente di questo tema, attribuendo un valore probatorio neutro o comunque non risolutivo alle verifiche psichiatriche neuro-scientifiche, le pronunzie Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, n. 28964; Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, n. 12558.
[13] In questa prospettiva ermeneutica, ci sembra utile il richiamo a F. D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione "moderna" della Corte di cassazione sull’"oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 749, dove il fondamento storico-sistematico di questo principio viene così individuato: «La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, infatti, costituisce il fondamento più genuino della giustizia penale delle grandi democrazie, nelle quali è incrollabile la consapevolezza che “è molto peggio condannare un innocente che lasciare in libertà un colpevole”. Quando questa consapevolezza viene meno, come è accaduto in larga parte d’Europa con l’affermazione dei regimi autoritari e totalitari, crolla anche la forza morale del diritto penale, perché si insinua, nella comunità, il lacerante sospetto che i giudici condannino degli innocenti».
[14] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, cit.
[15] In questo senso, ci sembra fondamentale un ulteriore riferimento alla posizione interpretativa di M. Maiwald, Causalità e diritto penale, cit., p. 116, quando afferma la centralità del principio in dubio pro reo ai fini della valutazione della responsabilità penale del soggetto attivo del reato: «In questi casi, secondo i nostri principi processuali, si può solo applicare il principio in dubio pro reo. Se, infatti, sussistono delle divergenze di opinioni tra gli esperti sulla esistenza di determinate regolarità in natura, allora il giudice deve porre a fondamento della sua sentenza il punto di vista più favorevole all’imputato».
[16] È questo il portato dell’orientamento giurisprudenziale affermato dalla Suprema Corte in Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese, in Cass. C.E.D., n. 222139-01.
Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale si rinvia al commento di R. Blaiotta, Con una storica sentenza le Sezioni unite abbandonano l'irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, n. 332, pp. 1176 ss.
[17] Si muove in questa direzione O. Di Giovine, Ripensare il diritto attraverso le (neuro-)scienze, Giappichelli, Torino, 2019; Id., Prove “neuro”-tecniche di personalizzazione della responsabiltà penale, in AA.VV, La prova scientifica nel processo penale, a cura di G. Carlizzi e G. Tuzet, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 324 ss.
[18] Su questi temi si rinvia a B. Magro, Infermità di mente: nozione giuridica e ruolo delle neuroscienze, in www.quotidianogiurico.it, 16 giugno 2017, pp. 10 ss.
[19] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, cit.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 16 dicembre 1994, Sciumè, in C.E.D. Cass., n. 200687-01.
[21] In questo senso, si veda la storica sentenza sull’inquadramento delle “reazioni a corto circuito” pronunciata dalla Corte Assise App. Milano, Sez. I, 2 marzo 1988, Maresca, in Arch. pen., 1988, pp. 606 ss.
[22] Si rinvia, ancora una volta, a G. Canepa, Personalità e delinquente, cit. pp. 65-66.
[23] Si veda I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?”, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 172.
[24] Sulla natura transeunte dei disturbi della personalità si rinvia a Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 2014, Guidi, in C.E.D. Cass., n. 2613399-01; Cass. pen., Sez. I, 4 aprile 2012, Chiodini, in C.E.D. Cass., n. 252289-01; Cass. pen., Sez. VI, 7 aprile 2003, Spagnoli, in C.E.D. Cass., n. 225560-01; Cass. pen., Sez. I, 22 novembre 2005, Volontè e altro, in C.E.D. Cass., n. 233278-01.
[25] Per la prima volta questo principio veniva espresso in Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1986, Ragno, in Cass. C.E.D., n. 172789.
[26] Per tutti, si rinvia al commento di G. Amato, Un’estensione del concetto di “infermità” vincolata ai riscontri su causa ed effetto, in Guida al diritto, 2005, 17, pp. ss.
[27] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., pp. 323-324.
[28] In questa prospettiva, fortemente critica nei confronti dell’utilizzo del principio di causalità nella medicina moderna, riteniamo opportuno il riferimento a P. Vineis, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Einaudi, Torino, 1990, pp. 4-5, che, nella prefazione del suo lavoro, osserva condivisibilmente: «Il complicarsi dell'idea di causalità negli ultimi decenni non ha ovviamente interessato la sola medicina né le sole discipline scientifiche. Un’idea di causalità indebolita, incerta e probabilistica si è fatta strada perfino nella letteratura. Talvolta questo interesse si è manifestato sotto forma di caricatura di un'idea forte di causalità».
[29] Si vedano Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999, Hariolf, in C.E.D. Cass., n. 216210-01; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001, Covili, in C.E.D. Cass., n. 220953-01.
[30] Si veda U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, cit., pp. 247-248.
[31] Su questi temi, si veda l’approccio critico di M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, in www.discrimen.it, 27 novembre 2018, pp. 14 ss.
[32] Si veda P. Vineis, Modelli di rischio, cit., pp. 4-5.
[33] Si veda P. Vineis, op. ult. cit., p. 21.
[34] Su questi temi si rinvia a V. Lingiardi, La personalità e i suoi disturbi. Un’introduzione, il Saggiatore, Milano, 2001, pp. 23 ss.
[35] Si veda M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, cit., pp. 16-17.
[36] Si veda M. Bertolino, op. ult. cit., pp. 16-17.
La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni - rimedi - prassi condivise e nuove forme di tutela
di Sebastiana Ciardo
Sommario: 1. La violenza delle donne basata sul genere: riflessioni generali - 2. Definizione ed analisi dei dati - 3. Strumenti di giustizia preventiva - 4. Prospettive di riforma - 5. Conclusioni.
1. La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni generali
Nella giornata del 25 novembre, che celebra il triste fenomeno della violenza di genere, si sono susseguite manifestazioni, riflessioni, articoli, analisi statistiche, proteste che inducono a riflettere su un aspetto che lascia a dir poco sgomenti: negli ultimi anni il panorama normativo, giudiziario e repressivo si è via via sempre più arricchito anche grazie al fondamentale apporto del diritto eurounitario e delle convenzioni internazionali[1], ma allora perché il numero delle donne uccise aumenta di anno in anno, come ci ha ricordato ieri il Primo Presidente della Corte di Cassazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario alla presenza del Presidente Mattarella? Perché il fenomeno sta diventando una sorta di “genocidio” senza che alcuno strumento, tra quelli previsti, possa arginarne la drammaticità?
La notizia di cronaca che quasi quotidianamente ci riporta un fatto di sangue a danno di una donna provoca un senso di profonda impotenza e rabbia, in ognuno di noi operatori della giustizia, perché non siamo riusciti, ancora una volta, ad ideare ed apprestare alcuna tutela effettiva a quella povera vittima tale da prevenirne la morte insensata.
I dati drammatici emergono dal rapporto pubblicato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza: “nel periodo 1° gennaio – 7 novembre 2021 sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne di cui 87 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Analizzando gli omicidi del periodo sopra indicato, rispetto a quello analogo dello scorso anno, si nota un lieve decremento (-2%) nell’andamento generale degli eventi (da 251 a 247), con le vittime di genere femminile che mostrano un aumento più significativo, passando da 97 a 103 (+6%). I delitti commessi in ambito familiare/affettivo mostrano una leggera crescita (+2%), passando da 124 a 127; le vittime di genere femminile, da 83 nel periodo 1° gennaio - 7 novembre 2020, arrivano a 87 nell’analogo periodo dell’anno in corso (+5%). Stesso incremento (+5%) per le donne vittime di partner o ex che passano da 57 a 60”. [2]
I dati drammatici ci pongono di fronte ad una valutazione di inevitabile “inefficienza” dell’apparato di repressione. Siamo chiamati a comprendere e capire quali siano le falle del sistema, dove si annidi in misura preponderante il pericolo, quali siano le fonti di maggiore rischio ed avviare una seria analisi dei dati, raccolti da organismi di elevata professionalità, allo scopo di modulare meglio e in maniera più efficace gli interventi.
2. Definizione ed analisi dei dati
Per comprendere meglio un fenomeno gli analisti ci insegnano che è necessario, in primo luogo, definirlo enucleandone i contorni e, in secondo luogo, esaminarne gli effetti anche se drammatici per prevenirne, nel futuro, le ulteriori manifestazioni.
La Convenzione di Istanbul fornisce una precisa definizione di tutte le forme di violenza contro le donne: per violenza nei confronti delle donne, si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata;
la violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; il termine “genere” si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; la violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato.
Questa ampia definizione racchiude e connota il fenomeno nel senso più ampio, ricomprendendo tutti i fatti di sangue consumati ai danni di una donna ma anche tutte le altre forme di “assoggettamento” ad un potere altrui, esercitato su una persona appartenente all’altro “genere”, che può estrinsecarsi in forme di gravi condizionamenti economici, psicologici, sessuali all’interno di un nucleo familiare.
Definire la violenza consente di individuarla tempestivamente e di distinguerla dalla conflittualità tra persone di sesso diverso che, per quanto esasperata e connotata da particolare intensità emotiva, si distingue dalla violenza e deve essere fronteggiata con gli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento per ogni forma di disgregazione familiare.
Nel corso di un importante incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura [3], che ha visto la partecipazione di magistrati con funzioni di giudici della famiglia e minorili, penali, pubblici ministeri ordinari e minorili, svolto in forma laboratoriale, all’esito del quale sono state elaborate proposte di linee guida di coordinamento tra tutti gli uffici giudiziari coinvolti nella trattazione di casi di violenza, è stata predisposta una scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno e dell’altro fenomeno: la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio. Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato.
L’importante studio condotto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato e presieduta dall’on. Valente [4], ha consentito di raccogliere ed analizzare dati estrapolati dai numerosi procedimenti esaminati nei diversi distretti giudiziari e i risultati fanno emergere una serie di importanti informazioni che possono essere così sintetizzati:
a) i femminicidi avvengono in comuni di ogni dimensione e si distribuiscono in modo proporzionale alla popolazione residente;
b) le vittime più numerose si collocano tra le giovanissime o anziane, a dimostrazione della maggiore condizione di fragilità in cui in una parte dei casi si trova la donna rispetto all’uomo;
c) il 35,5% delle donne vittime di femminicidio risulta non occupata (29 disoccupate, 18 pensionate, 15 inattive, e 8 studentesse), mentre il 39,6% risulta occupata (78 su 197).
Il dato più significativo mostra che più della metà delle 197 donne vittime di femminicidio (113 su 197, il 57,4%) sono state uccise dal proprio partner (inteso come marito, compagno, fidanzato, amante) il quale nel 77,9% dei casi (88 su 113) coabitava con la donna; il 12,7% (25) sono state uccise, invece, dall’ex partner e, nei casi in cui è il partner a commettere il femminicidio, in 4 coppie su 10 sono stati riscontrati, negli atti dei fascicoli esaminati, segnali di rottura dell’unione, in particolare nel 4,4% dei casi la coppia era separata di fatto, nel 9,7% la separazione era in corso e nel 23,9% la donna aveva espresso la volontà di separarsi. Nella maggioranza dei casi, dunque, la rottura dell’unione non è emersa dagli atti neanche come intenzione della vittima.
Drammatiche, infine, sono le modalità cruente con le quali sono state perpetrati gli omicidi: il 28% delle donne sono state uccise con modalità efferate, la più frequente è l’accoltellamento (32%), seguono l’uso di armi da fuoco (25%) e di oggetti contundenti usati per picchiare/colpire la donna con lo scopo di provocarne la morte. Tra gli oggetti usati, che sono stati rilevati, nel 54% dei casi risultano: spranghe, tubi o pestelli di ferro, bastoni, martelli, asce, pietre, mazza da baseball, bottiglia di vetro, batticarne.
Dagli atti dell’inchiesta condotta dalla Commissione ancora emerge la profonda solitudine nella quale versa la donna maltrattata che denuncia poche volte gli abusi subiti, tant’è che il 63% (123 su 196) delle donne uccise non aveva riferito a nessuna persona o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo, a riprova della difficoltà incontrata nel cercare aiuto e la inefficienza delle istituzioni nell’apprestare una rete di tutele adeguata[5].
La sintesi delle informazioni così enucleata mostra un dato comune: il fulcro delle violenze è certamente rinvenibile all’interno dei nuclei familiari e trova tragico epilogo nell’assenza di un sistema di rete idoneo a prevenire e tutelare la vittima.
La recente Risoluzione adottata dal Parlamento Europeo il 6 ottobre 2021[6] pone al centro dei considerando e delle raccomandazioni indirizzate agli Stati una riflessione evoluta dei rapporti tra le coppie disgregate, ove la prioritaria esigenza deve essere quella di tutelare la possibile vittima di violenza, in ogni sua forma, ed anche i rapporti genitoriali, gli affidamenti dei minori e la regolamentazione delle relazioni tra ex partners deve essere modulata con un’attenzione particolare verso la prevenzione, anche se questo potrebbe determinare una limitazione della bigenitorialità nei confronti del genitore violento. È chiaramente detto, dopo avere rammentato la preminenza del superiore interesse del minore, “che la violenza da parte del partner è chiaramente incompatibile con l'interesse superiore del minore e con l'affidamento e l'assistenza condivisi, a causa delle sue gravi conseguenze per le donne e i minori, compreso il rischio di violenza successiva alla separazione e di atti estremi di femminicidio e infanticidio; sottolinea che, al momento di stabilire le modalità per l'attribuzione dell'affidamento e i diritti di accesso e visita, la protezione delle donne e dei minori dalla violenza e l'interesse superiore del minore devono essere di primaria importanza e dovrebbero prevalere su altri criteri; pone pertanto l'accento sul fatto che i diritti o le richieste degli autori o dei presunti autori dei reati durante e dopo i procedimenti giudiziari, anche per quanto riguarda la proprietà, la vita privata, l'affidamento dei minori, l'accesso, i contatti e le visite, dovrebbero essere determinati alla luce dei diritti umani delle donne e dei minori alla vita e all'integrità fisica, sessuale e psicologica e orientati al principio dell'interesse superiore del minore; sottolinea pertanto che la revoca dei diritti di affidamento e di visita del partner violento e l'attribuzione dell'affidamento esclusivo alla madre, se questa è stata vittima di violenza, possono rappresentare l'unico modo per prevenire ulteriori violenze e la vittimizzazione secondaria delle vittime; evidenzia che l'attribuzione di tutte le responsabilità genitoriali a tale genitore deve essere accompagnata da meccanismi di compensazione pertinenti, ad esempio prestazioni sociali e l'accesso prioritario a servizi di assistenza collettiva e individuale” (art. 9). Tale indicazione costituisce una svolta nel sistema dei valori e degli interessi fino ad ora enucleati dal legislatore europeo, anche di carattere culturale, nel senso che, seppur il sistema delle relazioni debba essere tale da salvaguardare l’interesse del minore ad intrattenere rapporti costanti ed intensi con entrambi i genitori, tale esigenza può essere sacrificata o posticipata se ciò serva ad apprestare tutela alla possibile vittima di violenza. Ma la chiave di lettura delle importanti raccomandazioni di matrice europea deve essere quella per cui il genitore “violento” ha anche carenze educative e di accudimento del figlio, tali da minare la sua competenza genitoriale e da incidere in senso negativo sul sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico del minore.
3. Strumenti di giustizia preventiva
Il solco tracciato dal legislatore europeo individua due obiettivi, a mio avviso, prioritari ed ineludibili: a) costituire e far funzionare un sistema vero ed efficiente di rete e di coordinamento; b) intervenire con efficacia nella fase di immediata disgregazione del vincolo affettivo, mettendo immediatamente in protezione la donna ogni qualvolta emergano anche solo potenziali indici di violenza.
Rispetto al primo segmento di azioni, gli interventi devono essere tali da consentire, a tutti gli operatori che, in qualche modo e a vario titolo, siano entrati in contatto con la vittima, di interagire e relazionarsi costantemente sì da costruirle attorno una “protezione” vera e garantista. Ciò imporrà il costante scambio di informazioni, di relazioni, un controllo continuo e costante tra i servizi, la polizia giudiziaria, i magistrati della Procura ordinaria e minorile nel caso in cui siano coinvolti minori, il giudice della famiglia se è già pendente un procedimento di separazione o di affidamento, il giudice minorile, il tutto in tempi assolutamente ridotti e celeri.
La cura della tempistica deve necessariamente costituire l’obiettivo riformatore essenziale. Non possono essere tollerati più ritardi nello scambio di informazioni né nella somministrazione di protezione immediata e, sul punto, si potrebbe concepire l’utilizzo di nuovi strumenti informatici adeguati con la creazione di una rete che consenta a tutti gli operatori un costante dialogo e scambio di informazioni.
Le Linee Guida del CSM del 2018[7], hanno individuato una metodologia di lavoro tra uffici ispirata all’esigenza di specializzazione, di coordinamento tra magistratura civile, penale e requirente, di maggiore conoscenza dei procedimenti spesso paralleli relativi ad una stessa situazione di fatto, di coordinamento istruttorio anche per evitare “vittimizzazione processuale” secondaria, di maggiore coerenza nell’esito dei procedimenti penali e di quelli relativi all’affido dei figli minori, ancorché, alla luce degli esiti della Commissione di inchiesta e della nuova Risoluzione del Parlamento Europeo si imporrebbe un aggiornamento delle Linee Guida, per molti versi generiche, non sempre efficaci e in molti uffici rimaste inattuate.
La seconda azione deve necessariamente investire il giudice della famiglia, competente a regolamentare i rapporti tra ex coniugi/partners e ad adottare provvedimenti in materia di affidamento dei figli, oggetto di particolare attenzione anche da parte del legislatore europeo.
Il ruolo centrale rimane l’affidamento dei figli e ogni provvedimento adottato deve presupporre in primo luogo, l’individuazione rapida degli indici di violenza e la completa informazione del Giudice su tutti gli elementi già in possesso di altre autorità, con l’ausilio del Pubblico Ministero, specializzato ed attivo che veicoli i dati necessari nel processo.
In secondo luogo, il Giudice deve attivare i propri poteri officiosi conducendo un’istruttoria serrata su tutti gli aspetti rilevanti della vicenda che ha contrassegnato i rapporti di quella coppia, ciò allo scopo di accertare o di negare la violenza allegata.
In questa fase preliminare, è necessario adottare provvedimenti di affidamento dei minori compatibili con un’allegazione di violenza, evitando ogni forma di contatto tra i partners, anche con affidamenti esclusivi alla madre e/o con il coinvolgimento dei servizi o di soggetti estranei che favoriscano gli incontri, se possibile.
In terzo luogo, ogni intervento deve essere rapido: i tempi processuali devono necessariamente essere compatibili con le esigenze di tutela nella consapevolezza che il ritardo, nelle fasi iniziali della disgregazione dei vincoli affettivi, quando la emotività, la rabbia e le rivendicazioni possono raggiungere livelli elevatissimi ed esasperati, costituisce una fonte pericolosa che alimenta la violenza.
4. Prospettive di riforma
Su ciascuno dei punti indicati è necessario intervenire, perché gli apparati giudiziari e normativi non sono ancora pienamente adeguati a fornire risposte efficienti di tipo preventivo.
Un interessante progetto organizzativo “pilota”, adottato al Tribunale di Terni[8], ha previsto alcune soluzioni di tipo organizzativo e metodologico, nel senso dianzi indicato, laddove, in presenza di allegazioni di violenza, i singoli procedimenti sono trattati rapidamente, ricevendo una “corsia preferenziale” sui quali vengono svolti i seguenti adempimenti:
- apposizione di elementi distintivi sulla copertina del fascicolo cartaceo per una rapida identificazione dello stesso come procedimento con allegazioni di violenza domestica;
- fissazione della prima udienza di comparizione delle parti con urgenza rispetto agli altri procedimenti in materia (in un lasso di tempo che va da un minimo di 15 giorni - per assicurare la regolare citazione dell’altra parte – ad un massimo di 60 giorni);
- attivazione di poteri officiosi da parte del giudice assegnatario del procedimento per acquisire, già dalle prime fasi del procedimento, gli atti dei procedimenti penali, eventualmente pendenti, anche in fase di indagine (ove ostensibili), con diretta richiesta al Pubblico Ministero (interveniente necessario nei procedimenti in oggetto), e con sollecitazione rivolta al P.M. di presenziare in udienza ovvero di proporre proprie memorie ai sensi dell’art. 72 c.p.c.. Queste richieste vengono formulate, per i casi più gravi, già nel decreto di fissazione dell’udienza ovvero all’esito della prima udienza di comparizione delle parti;
- attivazione di poteri officiosi da parte del giudice civile assegnatario per acquisire, già nelle prime fasi (con richiesta contenuta nel decreto di fissazione dell’udienza o all’esito della prima udienza), gli atti dei procedimenti eventualmente pendenti dinanzi al Tribunale per i minorenni;
- adozione di misure necessarie per evitare la c.d. vittimizzazione secondaria assicurando, nei casi di maggiore gravità (per esempio in ipotesi di presenza di misure cautelari nell’ambito di paralleli procedimenti penali), la presenza della forza pubblica nell’udienza civile, ovvero assicurando le necessarie cautele per evitare la contemporanea presenza nel medesimo contesto di entrambe le parti (ad esempio prevedendo la comparizione delle parti in orari differenziati ovvero lo svolgimento dell’udienza con modalità di collegamento da remoto tramite l’applicativo TEAMS);
- valutazione a confronto delle dichiarazioni delle parti sui fatti di violenza già dalla prima udienza di comparizione, stimolando il contraddittorio sulle affermazioni contrastanti;
- attenzione ad evitare qualunque forma di invito alla mediazione familiare;
- attivazione già dalle prime fasi del procedimento, e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori (per esempio prima dell’emanazione dei provvedimenti presidenziali) dei poteri officiosi del giudice al fine di verificare, il fumus circa la fondatezza delle allegazioni di violenza (per esempio disponendo l’escussione quali informatori di soggetti che possano aver assistito ovvero possano riferire sui fatti di violenza; acquisendo documenti presso uffici pubblici o Forze dell’Ordine intervenute, pur in assenza di procedimenti penali pendenti);
- ascolto diretto dei minori da parte del giudice procedente già dalle prime fasi del procedimento e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti presidenziali o provvisori;
- formulazione di richieste ai responsabili del Servizio Sociale o di quesiti ai CTU che tengano in considerazione la presenza di potenziale violenza domestica, per evitare anche in tali contesti forme di vittimizzazione secondaria, ovvero accertamenti incompleti proprio in ragione della mancata considerazione di eventuali agiti violenti.
- applicazione dei contenuti della “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, cd. Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge del 27 giugno 2013, n. 77, in particolare: dell’art. 31 nel quale è previsto che “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione” e che devono essere adottate misure necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini; dell’art. 48 che vieta la mediazione familiare in presenza di violenza domestica.
Infine, la recentissima Legge delega per la riforma del processo civile n. 206/2021 pubblicata nella G.U. il 9.12.2021, all’art. 23 lett b), testualmente prevede, nella parte relativa alla riforma del rito avente ad oggetto il contenzioso familiare e minorile, che il governo, nell’adottare i decreti delegati, “in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate: su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, avvalendosi delle misure di cui all’articolo 342 -bis del codice civile; le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; l’abbreviazione dei termini processuali nonché specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria. Qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, prevedere che il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell’affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza” [9].
5. Conclusioni e riflessioni
Le indicazioni provenienti dal legislatore europeo ed italiano tentano di individuare un sistema serrato di interventi nella consapevolezza che l’apparato di norme repressive, seppur necessario, non abbia consentito di prevenire né di ridurre l’escalation di violenza e di femminicidi sempre più drammatica, inevitabilmente acuita dall’emergenza pandemica, dalla forzata convivenza e dalla depressione economica. Ed allora, sarà necessario ripensare l’intero sistema organizzativo, nella convinzione che solo una rapida ed efficace tutela preventiva e “protettiva”, anche di tipo culturale e sociale, potrà servire a fronteggiare nel miglior modo possibile questo orrendo crimine[10].
L’ultima riflessione deve essere riservata alla formazione: solo operatori informati e formati possono comprendere ed agire in maniera efficace ed efficiente, manovrando nel modo corretto gli strumenti offerti dal legislatore e dal sistema organizzativa, la realtà quotidiana lo impone senza che ogni intervento sia più rinviabile.
[1] Tra le fonti più importanti, si rammentano: Convenzione di Istanbul 11 maggio 2011, ratificata in Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in vigore nel mese di agosto del 2014; Risoluzione del parlamento europeo del 26 novembre 2009; Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (Cedaw), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata in Italia con la legge n.132 del 1985; Direttiva 2012/29/UE: norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato recepita ed attuata con il decreto legislativo n.212 del 2015; in ultimo, la Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini.
[2] Relazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione centrale della polizia criminale - Servizio analisi criminale pubblicato nel mese di novembre 2021.
[3] Corso P19040 tenuto a Scandicci il 13-15 maggio 2019
[4] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere (Istituita con deliberazione del Senato della Repubblica del 16 ottobre 2018e prorogata con deliberazione del Senato della Repubblica del 5 febbraio 2020)
[5] Solo il 35% (69 su 196) aveva parlato della violenza con una persona vicina, il 9% (18 su 196) si era rivolta ad un legale per chiedere consiglio, e il 15% (29 su 196) aveva denunciato/querelato precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai suoi danni.
[6] Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini (2019/2166)
[7] Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 9 maggio 2018
[8] Progetto Pilota per la rilevazione e la trattazione dei procedimenti di famiglia che presentino allegazioni di violenza domestica – novembre 2020
[9] LEGGE 26 novembre 2021, n. 206. Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata.
[10] Definito da Papa Francesco, nell’omelia tenuta durante la messa del 26.12.2021 come “peccato demoniaco”.
Ponti versus muri, o muri e ponti.13) Chi aiuterà il giudice a dialogare col minore nel nuovo processo di famiglia? L’esperto come San Cristoforo
di David Cerri
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Oggi più che mai il ruolo del consulente nel processo civile può e deve essere valorizzato, in particolar modo per le funzioni conciliative che possono essergli affidate, e nell’ambito specifico del diritto di famiglia, dove non è sufficiente per la tutela dell’interesse del minore affidarsi a magistrati ed avvocati autodidatti.
San Cristoforo
Narra Iacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea (seconda metà del ‘200) che a Reprobo (diranno i CTU cui questo contributo è dedicato: si comincia male…), robustissimo traghettatore cananeo, una mattina si presentò un bambino per attraversare il fiume. Se lo caricò sulle spalle ed entrò col suo bastone in acqua: ma il peso del piccolo si rivelò insospettabilmente smisurato; alla fine ce la fece, a stento, a finire la traversata, ma se ne lamentò subito. Al che il bambino gli rispose di non meravigliarsi, perché in realtà lui aveva trasportato su di sé non solum totum mundum, ma anche chi lo aveva creato. Da questa rivelazione il nuovo nome del buon (in precedenza non troppo) uomo, Cristoforo.
Consapevole di “averla presa larga”, il riferimento mi è sembrato opportuno per inquadrare immediatamente il ruolo del consulente dell’ufficio, come - più che un "pontiere" da Genio militare - appunto un San Cristoforo che traghetta le parti dal loro nebbioso porto di partenza a quello giudiziale d'arrivo, con la grande responsabilità di tradurre al meglio le posizioni delle parti attraverso l’accertamento dei fatti che vengono da loro allegati e portati in giudizio, e la loro trasformazione da significanti a significati (non è questa la sede per ricordare le distinzioni tra consulenza deducente e percipiente ecc.); un peso davvero smisurato, e con la consapevolezza del rischio di mutarsi da Santo in Caronte (almeno per una delle parti). Giusto mi è parso, allora, trattarne la figura in questa serie di contributi dedicati a ponti e muri, ma con l’avviso al lettore che ne parlerò solo in riferimento al processo civile.
Inizierò allora a sottolineare che se mai c’è stato un tempo nel quale la definizione di traghettatore o costruttore di ponti meglio si attagli al CTU, è questo, il nostro; perché è il legislatore ad aver dato una chiara indicazione in tal senso. Mi riferisco naturalmente alla condizione di procedibilità introdotta dalla cosiddetta legge Gelli-Bianco del 2017 a proposito delle azioni di risarcimento del danno per responsabilità sanitaria. Il necessario richiamo all'articolo 696 bis c.p.c. (e, pare ancora non per molto, all’alternativa della mediazione, già statisticamente irrilevante nella prassi) ha infatti introdotto tra le capacità di cui i consulenti devono dotarsi quella di sapersi destreggiare nelle tecniche di composizione della lite; che poi, di fatto, tali requisiti siano rispettati è una domanda alla quale purtroppo si potrà dare una soddisfacente risposta solo dopo che nelle categorie professionali interessate si sarà offerta e praticata una formazione adeguata anche sotto quel profilo, come si è iniziato a fare quantomeno in alcune Scuole di specializzazione in medicina legale; del resto, dobbiamo anche dirci francamente che l'attenzione sul tema non è eccessiva neppure in quei documenti - come il Protocollo CSM - CNF - FNOMCEO dell’aprile 2018, ed anche nelle relative, precedenti delibere dell’organo di autogoverno della magistratura – che hanno messo a punto linee guide operative per i nuovi Albi dei consulenti.
La consulenza su famiglie e minori
Se c’è però un campo nel quale è necessaria, oltre ad una capacità tecnica, anche una sensibilità particolare – proprio in funzione del dialogo che qui ci interessa - è certamente quello delle consulenze in materia di famiglia; e qui la riflessione si fa ancora più attuale, in vista della riforma del codice di rito civile di cui alla legge delega di recente approvata (AC 3289, ora L.206 del 26.11.2021). Le (talvolta relative) novità affidate ai futuri decreti legislativi che più ci interessano sono:
A. La predisposizione di autonoma regolamentazione della consulenza tecnica psicologica
B. L'individuazione dell'esperto per determinati interventi
C. Il piano genitoriale
e le tratterò brevemente di seguito, con una appendice a proposito dell'ascolto dei minori che costituirà anche una sorta di riepilogo delle mie opinioni.
A. La futura nuova regolamentazione della CTU psicologica (lett.dd) c.23 dell’art.1 L.206/2021) comporta in primo luogo l’adeguamento degli albi dei consulenti tenuti dai tribunali con l'inserimento della specifica categoria dei neuropsichiatri infantili, degli psicologi delle dell'età evolutiva e degli psicologi giuridici o forensi; tutte categorie che gli esperti del settore ben conoscono ma che (in particolare per l'ultima) non godevano di un riconoscimento normativo apposito. il comma 34 del medesimo articolo introduce da subito un nuovo n.7) nel terzo comma dell'art.13 delle disposizioni di attuazione del codice, e soprattutto inserisce un nuovo comma all'art.15, riguardante i requisiti della “speciale competenza tecnica”.
I requisiti indicati sono - alternativamente o congiuntamente - i seguenti:
- al n.1 si richiede una comprovata esperienza professionale in materia di violenza domestica e nei confronti di minori
- al n.2 si indica il possesso di adeguati titoli di specializzazione o di approfondimento post universitari nelle categorie indicate, con la richiesta di almeno 5 anni di anzianità negli albi professionali
- al n.3 si chiede lo svolgimento per almeno 5 anni di attività clinica con minori presso strutture pubbliche o private.
Si tratta certamente di indicazioni che si inseriscono in un quadro già delineato in diverse sedi, ma credo utile un confronto con i principali elementi di valutazione della “speciale competenza”, ai fini dell’inserimento negli Albi dei consulenti, che si leggono nel cit. Protocollo CSM - CNF - FNOMCEO e che consistono:
a) nell’esercizio della professione nella disciplina interessata per un periodo minimo, successivo alla specializzazione, orientativamente non inferiore a 5 anni;
b) in un adeguato curriculum formativo post-universitario, indicante sia i corsi di livello universitario o assimilato, sia i corsi di aggiornamento rilevanti ai soli fini del circuito ECM, nonché le eventuali attività di docenza;
c) in un adeguato curriculum professionale, indicante le posizioni ricoperte e le attività svolte nella carriera professionale (“a titolo esemplificativo: ruoli svolti, datori di lavoro, strutture ove si è prestato servizio, tipi e aree di attività praticate, attività di consulenza professionale svolta presso imprese ecc.”);
d) nell’eventuale possesso di un curriculum scientifico, indicante attività di ricerca e pubblicazioni, oltre all’iscrizione a società scientifiche;
e) nell’eventuale possesso di riconoscimenti accademici o professionali o di altri elementi che possono connotare l’elevata qualificazione del professionista.
Credo che il legislatore delegato possa tenere fruttuosamente conto di tali ulteriori indicazioni, valutando in particolare quello del concreto esperimento di attività professionale per un congruo periodo, che a mio parere sarebbe stato opportuno abbinare, e non prevedere in forma alternativa, al possesso di idonei titoli di studio.
Salta all'occhio che non c'è un riferimento espresso alle capacità in tema di conciliazione; e mi chiedo – ed in realtà vorrei suggerire…- se i decreti attuativi non possano individuare in modo esplicito quantomeno l’opportunità di possederle allorquando, magari anche in forma solo esemplificativa, potranno individuare più nel dettaglio i “titoli di specializzazione o di approfondimento post universitari”, specialmente se sì considera che tali titoli dovrebbero essere “adeguati“.
Non mi pare, invece e purtroppo, che si potrà pretendere che venga richiesto anche lo svolgimento di un tirocinio pratico sotto quel profilo, requisito che sarebbe in realtà essenziale e che come tale è previsto dalla normativa generale in materia; si deve dedurre che il legislatore della delega abbia supposto che l'anzianità di iscrizione negli albi professionali, o quella lavorativa, di per sé consentano l'acquisizione di quelle skills, ciò che effettivamente potrebbe avvenire in buona parte dei casi, giustificando però in questo modo un sotteso riferimento alla mera “competenza per esperienza”, che non può essere sufficiente: tornerò sul punto.
A me pare, a questo ed altri propositi, che il consulente tecnico in operazioni concernenti famiglie e minori non possa limitarsi ad un'indagine esclusivamente clinica, non solo trascurando - atteggiamento temo diffuso - atti e fatti allegati in causa, ma anche ponendo in sottordine i conflitti esistenti tra i genitori, spesso apparentemente insanabili, ovvero e più probabilmente valutandoli in vitro senza affrontarli, con l'unica conseguenza del suggerimento di successivi percorsi terapeutici individuali o di coppia, oggetto di eventuali monitoraggi. Mi rendo conto che considerare in modo adeguato tali profili possa significare un ampliamento degli obiettivi di una consulenza tecnica che può apparire indebito, sconfinando in indicazioni di tipo terapeutico; ma credo che in realtà una precisa formulazione dei quesiti che tenga conto anche di tale necessità sia uno degli strumenti migliori per consentire la tutela di quel preminente interesse del minore di cui tutti ci riempiamo la bocca. Giusto per fare un esempio, se leggo la proposta di quesito contenuta nelle Indicazioni operative per la CTU su famiglie e minori del Tribunale di Milano dello scorso ottobre, constato che al §2 si chiede al consulente di valutare quali siano le competenze genitoriali, “con particolare riguardo alle funzioni di cura protezione ed educazione, funzione riflessiva… empatica/affettiva e organizzativa, capacità di garantire l'accesso all’altro genitore e di salvaguardarne la figura agli occhi dei figli, assunzione attiva di responsabilità ivi incluse quelle indispensabili ad un esercizio condiviso della genitorialità”. Ebbene, confesso di dubitare che il mero possesso di titoli di istruzione, o la mera anzianità operativa, e neppure una consolidata esperienza di consulenze, consentano autonomamente all’esperto di fornire al giudice quelle indicazioni pratiche - si pensi soltanto al regime dei rapporti e contatti tra i genitori ed i figli - che giustamente le parti si attendono, e che costituiscono le modalità materiali per assicurare l'interesse del minore, se quell’esperto non ha saputo in primo luogo far dialogare tra loro i genitori per un semplice difetto di preparazione. Mi si dirà: ma non è possibile che uno psicologo, un neuropsichiatra infantile, ecc., non annoveri nel suo curriculum teorico e pratico anche tali specifiche capacità… meglio, risponderò, allora proprio niente impedirebbe che esse fossero esplicitamente richieste e valutate ai fini del conferimento degli incarichi. Bisogna dare al costruttore mattoni e putrelle, malta e bulloni per erigere il ponte: che male c’è a controllare la bolla di consegna dei materiali ?
B. L'esperto per determinati interventi: la previsione di cui alla lett.ee) dell’art.1 L.206, della facoltà per il giudice di nominare un professionista, anche al di fuori dell’albo dei consulenti tecnici, “dotato di specifiche competenze in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare conflitti tra le parti, per fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli”, è subordinata alla richiesta concorde di entrambe le parti (requisito necessario anche per la nomina fuori dall'albo). Ora, a me pare che simile presupposto costituisca un notevole limite alla operatività dell'istituto; ed anche che la giustificazione datane nei lavori della commissione Luiso (sub lett.ff) art.15 ter progetto) sia la spia del fallimento della tutela dei diritti nel nostro sistema. Mi riferisco alla considerazione, che vi si legge, che il primo motivo per tale concorde richiesta sia quello dei costi, che saranno a carico delle parti. Sarò un inguaribile ingenuo, ma credo che quantomeno per ciò che coinvolga i minori non si valuti a sufficienza e sistematicamente il conflitto di interessi coi genitori, anche se solo potenziale; e lo dico senza infingimenti in modo strumentale, per indicare la possibilità dell'accesso al gratuito patrocinio, soprattutto oggi che nella delega viene valorizzata la figura del curatore speciale. Credo che l'alternativa che viene inevitabilmente suggerita, vale a dire il ricorso agli ordinari strumenti di ausilio (come i servizi sociali) sia deludente e non tanto (o meglio, non soltanto) per una possibile differenza qualitativa tra l’apporto dell'esperto e quello delle strutture indicate (v. pro futuro la lett.ff) del c.23) ma per la constatazione, che è sotto gli occhi di tutti, dei limitati poteri di intervento di queste ultime, in primo luogo per difetto di risorse materiali ed umane.
Il secondo motivo che giustificherebbe la richiesta congiunta è più interessante: la particolarità degli interventi da attuare necessiterebbe della collaborazione delle parti, ovviamente impossibile se ci fosse un contrasto sulla stessa decisione di ricorrere a questo tipo di esperto. Che dire ? che è vero, ma anche che si torna al punto di partenza: non si può far altro che prendere atto del diniego di una parte, o piuttosto si potrebbe affidare preliminarmente all'esperto il compito di mediare (se lo sa fare) giusto allo scopo di ottenere quel consenso ? un simile risultato, se ottenuto, costituirebbe probabilmente un buon viatico per la migliore definizione delle questioni indicate dal giudice e dalle parti, ovvero per l'attuazione degli interventi opportuni.
In questa ottica, tornando sul profilo dei costi, trovo che a livello territoriale non dovrebbe essere impossibile la stipula di convenzioni con gli ordini professionali interessati per la redazione di tariffe “calmierate” relative a prestazioni dall'ambito ridotto come questa qui suggerita: tornerò sull'argomento tra poco a proposito dell'ascolto.
C. In più luoghi della riforma appaiono espliciti riferimenti al piano genitoriale, che assume un rilievo specifico negli atti introduttivi (v. lett.f c.23) e nei provvedimenti provvisori ed urgenti (lett.r). Senza entrare nel dettaglio di una possibile definizione (mi accontento di quella di un accordo dei genitori per la tutela dei figli nella nuova condizione creata dalla rottura del rapporto personale tra i primi) o dei contenuti (dove me la cavo rimandando ad alcuni modelli che circolano già da alcun tempo, come quelli del Tribunale di Civitavecchia), mi limito a sottolineare per quel che qui interessa l'indispensabilità del contributo di un consulente, tanto per l'attività delle parti (per la quale saranno i difensori a doversi munire di una simile collaborazione tecnica) quanto per quella del giudice (che non vedo come possa contare esclusivamente sulla propria competenza, anche nel caso che abbia alle spalle una adeguata esperienza). E proprio quest'ultima nota mi consente di andare alla conclusione con un cenno all'ascolto del minore.
L’ascolto, uno dei temi più dibattuti in materia, da tempo e per fortuna, vede nella riforma diversi accenni (v. lett.s) e t) c.23) ed in particolare un più ampio impegno al riordino “anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento” (lett.dd), richiamo che nei lavori della Commissione Luiso è reso esplicito con la menzione del Regolamento UE 2019/1111 (si tratta in particolare del Considerando 39 e degli artt.21 e 26) relativo “alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, e alla sottrazione internazionale di minori”, destinato a sostituire dall'agosto 2022 il Regolamento 2003/2201.
Ciò significa dare al minore (Considerando 39) “una possibilità concreta ed effettiva di esprimere la propria opinione e garantire che tale opinione sia presa debitamente in considerazione ai fini della valutazione dell’interesse superiore del minore”. La nota più rilevante della riforma sul punto è l’espressa previsione che l’ascolto non sia delegabile (lett.t) c.23), così ponendo fine a prassi di vario tipo. L’indicazione è del tutto condivisibile, tuttavia vi vedo un rischio: che si legittimi (tra le righe: non c’è affatto scritto) un ascolto da parte del solo giudice, non tanto per la tralaticia definizione di quest’ultimo come peritus peritorum, quanto per l’assolutizzazione della sua “competenza per esperienza”, profilo che ho già più volte negativamente ricordato.
È invece proprio qui che il ruolo del consulente come facilitatore del rapporto con il giudice ai fini dell’accertamento della reale condizione del minore vede la sua esaltazione: chi se non l’esperto può davvero rendere concreta ed effettiva la comprensione dell’espressione della opinione del minore, che non può non essere il presupposto della valutazione di quell’interesse superiore ? Ho scritto espressione dell’opinione, e non solo opinione, proprio per sottolineare il lavoro di “traduzione” compito specifico del consulente.
Il legislatore del precedente tentativo di disegno di legge delega (AS 2284) tra i principi direttivi per l’istituzione dei tribunali della famiglia (art.1, lett.b), n.13.2.2) aveva pensato di menzionare espressamente “l'assistenza di un ausiliario specializzato in psicologia o psichiatria ove il giudice lo ritenga opportuno”, che corrisponde poi alla realtà normativa che già conosciamo (art.336 bis c.c.: “anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari”) ed a quella or ora modificata a proposito delle misure di protezione, laddove nei comma aggiunti all’art.403 c.c. si conferma che il giudice relatore “procede inoltre all'ascolto del minore direttamente e, ove ritenuto necessario, con l'ausilio di un esperto”. Nel veloce percorso dell’AC 3289 era poi destinato a soccombere alla fiducia un emendamento tra i tanti (1.95 Bellucci ed a.) secondo il quale l’ascolto del minore avrebbe dovuto essere condotto “in presenza di uno psicologo infantile”. Ed in ambito penale più volte si ricorre (art.351, 362 c.p.p.) o si può ricorrere (art.498) all’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria infantile. Mi pare strano che lo si possa fare quanto il minore è un teste, e non quando è nel suo interesse…
È presto per dire se l’ufficio del processo, con la presenza dei giudici onorari al suo interno, potrà costituire – come auspico - lo strumento utile a facilitare quella comprensione del “messaggio” lanciato dal minore al suo giudice (v. al c.24, lett.i), tra le altre, le funzioni di conciliazione e di ausilio all’ascolto), considerato comunque anche che nei nuovi tribunali per le persone già i magistrati dovranno essere scelti tra quelli dotati di specifiche competenze nelle materie de quibus; ma non è facile capire quanto sia voluto l’omesso riferimento alla presenza dell’esperto. Se, volendo esser maliziosi, tra le ragioni inespresse ci fosse ancora quella relativa ai costi, analogamente a quanto sopra già osservato una risposta potrebbe esser data da accordi almeno su base territoriale con gli ordini professionali, dei quali potrebbero farsi promotrici, oltre agli stessi tribunali, le associazioni forensi specialistiche.
Una volta di più, per gettare ponti tra le parti e tra queste e il giudice (ed un vero e proprio salvagente al minore), occorre una competenza specifica che, oltre a costituire un dovere deontologico, deve essere oggetto di un percorso formativo verificato; soprattutto, si impone al magistrato ed all’avvocato che operano in questi ambiti un esame di coscienza che, ove condotto con umiltà, possa quando opportuno spingerli a chiedere aiuto a chi ne sa più di loro.
La Corte costituzionale salva i dpcm e la gestione della pandemia. Riflessioni e interrogativi a margine della sent. n. 198/2021
di Alberto Arcuri*
Sommario: 1. Inquadramento generale della pronuncia - 2. Due interrogativi su due scelte di percorso verso un esito condivisibile - 2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?) - 2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?) - 3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile).
1. Un inquadramento generale della pronuncia
Con la sentenza n. 198 del 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il meccanismo di gestione della crisi pandemica sollevata in via incidentale dal giudice di pace di Frosinone[1], che si era trovato, a sua volta, a decidere sull’opposizione contro una sanzione di 400 euro inflitta ad un cittadino per aver disatteso il divieto - imposto da uno dei dpcm “del covid-19” - di uscire dalla propria abitazione senza giustificato motivo. Secondo il giudice rimettente la sanzione inflitta avrebbe rappresentato il prodotto finale di una catena viziata a monte da una delega sostanziale di funzione legislativa, realizzata ad opera di un decreto-legge in favore di «meri atti amministrativi» del Governo. Questa interlocuzione tra decreto-legge e dpcm avrebbe violato, sempre secondo la convinzione del giudice a quo, il principio di tipicità delle fonti primarie del diritto (posto che l’esercizio della funzione legislativa può essere delegata al Governo solo per mezzo di una legge-delega e che deve essere esercitata attraverso decreti legislativi) «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante, quella dello stato di guerra». Questo dubbio è confluito in una denuncia di incostituzionalità per violazione degli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione, da parte, in particolare: [1] degli articoli 1, 2 e 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 e [2] degli articoli 1, 2 e 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n.19.
La questione ha dunque rappresentato per la Corte costituzionale la seconda occasione per occuparsi della gestione della pandemia, dopo che sette mesi prima (con la sentenza n. 37 del 2021) aveva già avuto modo di risolvere una questione concernente i rapporti, e il riparto di competenze, fra Stato e Regioni, riportando le misure adottate con dpcm alla materia di esclusiva competenza statale della «profilassi internazionale» (art. 117, co. 2 lett. q). A dire il vero, già in quell’occasione la Corte costituzionale lasciò tra le righe della propria decisione almeno due indicazioni che in qualche modo proiettano un ponte ideale con la sentenza che ora si sta commentando: (1) da un lato il tema della legittimità delle misure adottate, seppur non era oggetto di quella questione, fu comunque sfiorato[2]; (2) dall’altro, la stessa riconduzione delle misure adottate alla materia della “profilassi internazionale” produsse l’effetto di vanificare una delle principali conseguenze applicative del problema della natura (normativa o amministrativa) dei dpcm, che invece si sarebbe posto quale interrogativo ineludibile nel caso di riconduzione alla “tutela della salute” (art. 117 co. 3) che, in quanto materia di competenza concorrente, avrebbe comportato l’attivazione dell’art. 117 co. 6, ai sensi del quale: «la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia».
In ogni caso, l’ordinanza di remissione del giudice di pace di Frosinone, seppur (come vedremo) sollevando molte perplessità sul suo contenuto, ha avuto senz’altro il merito (per certi versi storico) di portare la Corte costituzionale ad esporsi e a far luce sulla natura giuridica, prima e in funzione di un giudizio sulla sua legittimità, di un atto (il dpcm) che in questi due anni ha attratto e intersecato l’interesse accademico e quello popolare in un modo che, per certi versi, non ha precedenti. La questione da cui sorge la sentenza n. 198 del 2021 rappresenta infatti il momento in cui alla Corte è stato chiesto direttamente di esporsi sulla legittimità del meccanismo di gestione della pandemia in base alla natura degli strumenti utilizzati (e in particolare della filiera decreti-legge e dpcm).
Il quesito che ha interrogato la Corte ha, dunque, una struttura diretta unitariamente alla natura del potere attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, che si rivolge, però, ad un oggetto duplice: (1) il decreto-legge n. 6 del 2020 e (2) il decreto-legge n. 19 del 2020. Per questo motivo duplice è stato anche il dispositivo della decisione. Quanto al primo segmento (decreto-legge n. 6 del 2020) la Corte si è espressa con una dichiarazione di inammissibilità per difetto di rilevanza, accogliendo quanto era stato eccepito dell’Avvocatura generale dello Stato, e cioè che, poiché il fatto da cui era scaturito il giudizio a quo era stato commesso il 20 aprile 2020, esso non doveva ritenersi soggetto al dpcm del 22 marzo 2020, ma al dpcm del 10 aprile 2020, e dunque - per quanto importa l’oggetto del giudizio di costituzionalità - che non era soggetta alla sfera applicativa del decreto-legge n. 6 del 2020 ma a quella del decreto-legge n. 19 del 2020 (a cui il dpcm del 10 aprile ha dato espressamente attuazione). Ad essere rimasta in piedi oltre la soglia dell’ammissibilità, pertanto, è stata unicamente la seconda parte della questione, ossia quella che ha riguardato il decreto-legge n. 19 – che d’altra parte ha rappresentato il fondamento del modello che è stato detto standard[3] di gestione della crisi.
Questa seconda parte della questione è stata giudicata dalla Corte infondata, in esito ad un’argomentazione costruita tutto attorno ad un perno: la tassatività delle misure di contenimento menzionate dal decreto-legge n. 19 del 2020 che, secondo la Corte, tipizzando il contenuto dei provvedimenti attuativi, avrebbe conformato in senso amministrativo la discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio. In questo la pronuncia ha trovato un supporto comparativo molto utile – seppur celato per lo più nel non detto della decisione - nelle misure contenute dal suo predecessore (decreto-legge n. 6 del 2020) nei cui riguardi, per converso, sembra potersi ricavare un implicito (e non così pacifico[4]) giudizio di incostituzionalità.
L’elemento centrale del ragionamento della Corte è, comunque, la tassatività degli interventi. E’ attraverso di essa infatti che la Corte definisce la natura giuridica dei dpcm escludendo (implicitamente) la natura normativa del potere attribuito e (esplicitamente) la riconducibilità dello stesso alla categoria del potere d’ordinanza, smentendo in questo non solo la tesi dell’Avvocatura dello Stato (come vedremo) ma anche un’interpretazione che, soprattutto in un prima fase, era stata prevalente in dottrina[5]. La tipizzazione delle misure non risolve però interamente la cassetta degli attrezzi usati dalla Corte costituzionale per salvare la normativa denunciata. Sono altre le garanzie introdotte dal decreto-legge n.19 del 2020 che, ponendosi a corredo di un contenuto più stringente, la Corte ha preso in considerazione: un’interlocuzione più frequente e strutturata con il Parlamento, l’introduzione dei requisiti di «adeguatezza e proporzionalità» quali criteri di esercizio della discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio, il coinvolgimento del Comitato tecnico-scientifico e la vigenza per «periodi predeterminati» dei dpcm.
In estrema sintesi, si può dire che la sentenza n. 198 del 2021 ha risolto la questione con una soluzione (duplice) che ci pare nel complesso condivisibile e che, nondimeno, lascia spazio a taluni interrogativi. Sono due, soprattutto, le scelte compiute dalla Corte su cui può valere la pena riflettere: (1) la scelta di assumere la tipizzazione delle misure e la natura esecutiva della funzione attribuita quali criteri sufficienti a qualificare come amministrativi i dpcm “del covid-19”; e (2) la scelta di ricondurre i dpcm “del covid” alla nozione di “atto amministrativo necessitato”.
2. Due interrogativi su due scelte di percorso (verso un esito condivisibile)
2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?)
La prima scelta che ci interroga è stata quella di enfatizzare (in senso quasi risolutivo) gli elementi (a) della tipizzazione delle misure e (b) della funzione esecutiva del dpcm, nella riconduzione nell’alveo della discrezionalità amministrativa del potere attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto del giudizio. Questo secondo interrogativo assume evidentemente due presupposti: (1) che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo il dpcm non è «pacificamente mero atto amministrativo», ma può essere tranquillamente (e peraltro è stato di frequente ed è sempre più spesso) la forma di esercizio di un potere normativo di tipo regolamentare[6]; e (2) che astrattamente potrebbe essere questo il caso, posto che - come noto - mentre il catalogo delle fonti di rango primario è considerato chiuso, nel senso che le fonti primarie sono tutte tassativamente previste in Costituzione (numerus clausus), quelle di rango secondario sono invece tradizionalmente ricondotte ad un sistema aperto e il loro riconoscimento passa anche per l’utilizzo – di volta in volta - di indici di natura sostanziale[7].
Su questi due punti preliminari vale la pena di soffermarsi un attimo.
Quanto al punto n. 1: un atto che porta la denominazione di dpcm non è necessariamente [tanto meno «pacificamente»] un atto [«meramente»] amministrativo. La formula di “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” non è nient’altro che la denominazione con cui si manifesta all’esterno la volontà del Presidente del Consiglio. E’, cioè, un “guscio neutro”: un contenitore che astrattamente può contenere e veicolare contenuti estremamente diversi. E infatti dpcm può essere un atto amministrativo o di alta amministrazione (auto-organizzazione della Presidenza del Consiglio, nomina o delega di poteri) ma, soprattutto, può essere anche un vero e proprio atto a contenuto normativo, estrinsecazione di un “atipico” (perché non menzionato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988) potere regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri. Ora, se è vero che questa varietà sostanziale è stata tradizionalmente ricondotta ad una certa unità definitoria e funzionale (coerente con le attribuzioni di cui all’art. 5 della l. n. 400 del 1988 e, ancora prima, con il dettato dell’art. 95 Cost.) coincidente con la rilevanza interna delle funzioni, e quindi degli atti (organizzazione, direzione e coordinamento dell’attività del Governo e autorganizzazione della Presidenza del Consiglio) è vero anche che, a partire da questo, l’evoluzione sia proseguita nel segno di un forte consolidamento (quantitativo e qualitativo) del potere regolamentare del Presidente del Consiglio e, pertanto, del dpcm quale vero e proprio atto normativo secondario[8].
Quanto al punto n. 2: tra la disciplina costituzionale delle fonti primarie e quella delle fonti secondarie ci sono due importanti differenze che determinano la necessità di indagare il contenuto di un atto per escluderlo in tutti i sensi dalla categoria delle fonti secondarie. La prima è che la Costituzione contiene una disciplina organica degli atti “legislativi” e dei loro procedimenti di adozione (che determina, appunto, la “chiusura” della categoria). La seconda è che, mentre per gli atti con forza di legge del Governo, la legge n. 400 del 1988 ha imposto, con una scelta che è parsa risolutiva[9], la corrispondenza espressa tra nomen iuris e formula di pubblicazione dell’atto, per gli atti secondari è stata percorsa un’opzione diversa, perché è stata mantenuta la formula di pubblicazione generica di “decreto” (del Presidente della Repubblica, Ministeriale o del Presidente del Consiglio dei Ministri) ed è stato stabilito che il riferimento al nomen di Regolamento debba essere solo incorporato nel titolo dell’atto (co. 4 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988). Ne deriva che, a differenza di quanto avviene per le fonti primarie, l’aspetto esteriore non è risolutivo per il riconoscimento dell’atto. Tanto è vero che tanto la Corte quanto il Consiglio di Stato hanno (anche se implicitamente e con atteggiamento evasivo la prima[10] e, seppur esplicitamente, in modo ondivago il secondo[11]) ammesso l’astratta possibilità del controllo sulla forma dell’atto alla luce del suo contenuto.
Nella sentenza n. 198 del 2021, la Corte costituzionale ha svolto esattamente questa operazione, escludendo però che i dpcm “del covid” siano atti normativi di rango secondario (non lo dice, ma lo si ricava agevolmente dalla loro qualificazione quali provvedimenti amministrativi) e lo ha fatto con una spiegazione che ruota tutto attorno alla tipizzazione delle misure e alla natura “esecutiva” del potere esercitato tramite i dpcm. Al fatto cioè, che il decreto-legge si limita ad autorizzarlo a dare esecuzione ad una serie di misure nominate e tipizzate nel contenuto (punto 6.3 del considerato in diritto). Il punto però è questo: non avvertendo l’esigenza di approfondire il percorso che ha condotto da questi due elementi alla natura amministrativa della discrezionalità esercitata, la Corte sembra aver sfumato in modo davvero eccessivo (secondo qualcuno perfino escluso[12]) la distinguibilità tra norme e atti amministrativi, posto che è assolutamente comune (anche se non inevitabile[13]) che il potere regolamentare sia funzionalmente predisposto all’attuazione e all’esecuzione di rinvii contenuti in fonti primarie. Certo, rimane l’elemento della tipizzazione, ma fondare solo sul quantum di questa variazione la natura dell’atto è davvero estremamente problematico, posto che la tipizzazione del contenuto e la conseguente riduzione dello spazio normativo attribuito alla fonte secondaria è connotato tipico della sua posizione esecutiva (così è, infatti, per i c.d. regolamenti di esecuzione e, ancora più chiaramente, per quelli definiti di “stretta” esecuzione). A voler insistere su questa strada si dovrebbe pertanto poter individuare un criterio-soglia comprensibile e replicabile nella realtà multiforme e complessa che si incontra quando se ne vorrà fare un qualche altro uso pratico.
L’interrogativo nasce, dunque, non tanto della decisione in sè di ricondurre il potere esercitato dal Presidente del Consiglio al paradigma del “provvedere”, quanto piuttosto da quella di lasciare quasi interamente nel non detto i passaggi del percorso argomentativo che ha portato la Corte a questa convinzione, così da demandaare all’interprete il compito di capire se, effettivamente, gli elementi della tipizzazione e della natura esecutiva abbiano risolto interamente la riconduzione teorica dell’atto alla categoria o se invece abbiano rappresentato solo l’ultimo segmento di un percorso più ampio. Pur non essendo stati quasi mai menzionati nella pronuncia, quella svolta dalla Corte è infatti senza dubbio un’indagine a cui sono applicabili i tradizionali criteri di riconoscimento sostanziale della normatività: l’innovatività, la generalità e l’astrattezza. Criteri che in effetti parrebbero essere stati utilizzati (anche se solo ad adiuvandum) dalla Corte, posto che in un passaggio della sentenza (6.2 del considerato in diritto) ha avvertito l’esigenza di precisare che la discrezionalità attribuita dal decreto-legge sarebbe stata di tipo amministrativo, «ancorché ad efficacia generale». Non ci sono molti dubbi, in effetti, che i dpcm in questione siano atti generali (i cui precetti sono cioè riferibili ad un numero indeterminabile di destinatari). Notoriamente però, la generalità del precetto non è un elemento risolutivo. Nonostante quello della specialità sia tradizionalmente predicato quale carattere tipico dell’atto che provvede in concreto, infatti, si è nel tempo progressivamente formata, e ormai consolidata, la nozione di atto amministrativo generale, che ha tolto all’atto normativo “l’esclusiva” sul carattere della generalità[14].
Se, come sembra verosimile, la riconduzione è stata effettivamente condotta alla luce di queste categorie, essa non può che essere passata per gli altri due caratteri: l’astrattezza e l’innovatività. Quanto al primo: l’astrattezza è la caratteristica dell’oggetto della prescrizione, sta ad indicare la ripetibilità del precetto in un numero indeterminabile di casi, e dunque in riferimento ad un numero indeterminato di comportamenti. Una disposizione è astratta, in altre parole, quando si rivolge ad un tipo (inteso come classe indeterminata) di comportamenti. Quanto ai dpcm del covid-19, un elemento di impedimento per l’attribuzione di questo connotato potrebbe essere rappresentato dalla temporaneità delle misure previste, ma a rigore va detto che, affinché siano inquadrate come astrattamente ripetibili, le misure introdotte non devono essere necessariamente stabili. E in ogni caso, che la misura oggetto del giudizio a quo e (forse ancora di più) le altre demandate dal decreto-legge n. 19 del 2020 all’attuazione dei dpcm, non siano l’oggetto di prescrizioni applicabili ad un numero indeterminato di comportamenti non è affatto scontato. Si pensi, soprattutto, alla «limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni altra forma di riunione o di assembramento in luogo pubblico o privato» (lett. g), alla «limitazione o sospensione dei servizi di apertura al pubblico o chiusura dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura» (lett. n), alla «limitazione o sospensione delle attività commerciali di vendita al dettaglio o all'ingrosso» (lett. u), alla «limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti» (lett. v) o alla «limitazione o sospensione di altre attività d'impresa o professionali» (lett. z).
Veniamo allora all’altro carattere: quello dell’innovatività, inteso come capacità di produrre un effetto prescrittivo nuovo. Il punto in cui è più convincente che il carattere dell’innovatività potrebbe essere escluso è, evidentemente, la tipizzazione puntuale delle misure da parte dell’atto primario, che potrebbe (non necessariamente a torto) far pensare che l’introduzione delle stesse sia riferibile ad esso. Anche su questo punto però, potrebbero essere astrattamente sollevate alcune perplessità, posto che se la novità è da intendersi come introduzione di un effetto prescrittivo nuovo allora essa va intesa non solo in relazione all’atto introduttivo delle misure, ma anche quello produttivo dei loro effetti. Ed è noto, infatti, come la dottrina gradualistica del diritto, che non considera l’innovatività caratteristica esclusiva della norma giuridica, ha fatto emergere come un certo grado di novità, seppur progressivamente graduato dal restringersi dello spazio di decisione che si ricava dall’atto sovraordinato, sia in astratto propria di tutti gli atti che producono effetti (e quindi anche di quelli amministrativi e giurisdizionali).
2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?)
Con la qualificazione in senso amministrativo della potestà attribuita al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto della questione, il dubbio sollevato dall’ordinanza di rimessione parrebbe aver trovato piena e definitiva soddisfazione. L’ultimissima parte del quesito infatti - quella per cui la delega di potestà legislativa sarebbe avvenuta «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante dello stato di guerra» - dovrebbe, a rigor di logica, essere ritenuta interamente assorbita dalla rimozione del suo presupposto (l’avvenuta delega sostanziale di funzione legislativa)[15]. Nonostante questo, però, la Corte costituzionale ha ritenuto di aggiungere un pezzo in più (il punto n. 8 del Considerato in diritto) interrogandosi sulla riferibilità dei dpcm “del covid-19” alla nozione di atto (in senso lato, come vedremo) necessitato.
A questo punto occorre fare un piccolo passo indietro e introdurre nel discorso, seppur in modo essenziale, la nozione attorno a cui quest’ultima parte della pronuncia ruota. La nozione di “atto necessitato” nasce nella teoria generale del diritto ed è stata elaborata usando l’attributo “necessitato” nel senso letterale di accadimento che, dato un altro accadimento, non può non essere. Da questo significato originario se ne è tratto (soprattutto per merito della riflessione di Massimo Severo Giannini[16]), in ambito amministrativo, uno ulteriore, meno rigoroso e «più enfatico», con cui si indica un atto che «trova come presupposto una situazione di necessità che impedisce di seguire quella che altrimenti sarebbe la strada normale»[17]. L’elemento caratterizzante degli atti amministrativi necessitati rispetto a tutti gli altri “non necessitati” non è dunque la sua struttura bensì il suo presupposto: ossia il fatto di incorporare la necessità quale elemento di fatto che ne integra il fondamento giuridico[18]. L’atto necessitato si caratterizza, in altre parole, perchè incorpora la necessità quale fatto giuridicamente rilevante nel presupposto. Questo come detto (e come vedremo) non intacca la struttura dell’atto, che è del tutto assimilabile a quella tipica dei “normali” provvedimenti amministrativi, ma proietta sullo stesso una certa conformazione funzionale: negli atti necessitati, cioè, il legislatore si sostituisce all’autorità amministrativa a cui basta accertare in fatto l’esistenza di una situazione di necessità.
Per comprendere in termini più concreti il significato della nozione e dei suoi elementi caratterizzanti può essere utile menzionare alcuni esempi proposti. Massimo Severo Giannini ad esempio, indicava quale caso tipico di “atto necessitato” l’art. 71 della legge sulle espropriazioni (n. 2359 del 25 giugno 1865)[19], il quale disponeva che «nei casi di rottura di argini, di rovesciamenti di ponti per impeto delle acque, e negli altri casi di forza maggiore o di assoluta urgenza, i Prefetti ed i Sottoprefetti [...] possono ordinare la occupazione temporanea dei beni immobili che occorressero alla esecuzione delle opere all'uopo necessarie» e che «se poi l'urgenza fosse tale da non consentire nemmeno l'indugio richiesto per fare avvertire il Prefetto ed il Sottoprefetto ed attenderne il provvedimento, il sindaco può autorizzare la occupazione temporanea dei beni indispensabili per l'esecuzione dei lavori [...]». Altri casi più recentemente citati sono nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), e in particolare: l’art. 63, che disciplina l’aggiudicazione di appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara quando, «per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati» e l’art. 163 che dispone l’immediata esecuzione di lavori da parte del responsabile del procedimento e del tecnico dell'amministrazione competente «al ricorrere di circostanze di somma urgenza»[20] e nel t.u. espropriazioni (d.P.R. 8.6.2001, n. 327) e, in particolare, l’art. 22-bis, che regola l’occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione «quando l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza, tale da non consentire, in relazione alla particolare natura delle opere, l'applicazione del procedimento ordinario»[21].
La nozione di atto necessitato è stata poi accettata e ripresa anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 4 del 1977 (relatore Crisafulli) la utilizzò per operare una cesura tra il potere attribuito al prefetto dall’art. 20 del t.u. della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n. 383 e la categoria delle ordinanze necessitate (in quel caso rappresentate dalle ordinanze ex art. 2 tulps). Il criterio distintivo tra “atti” necessitati e “ordinanze” necessitate - aventi entrambi come presupposto l’urgente necessità del provvedere – era già stato diffusamente chiarito dalla dottrina[22], e la Corte, nel farne applicazione, si è limitata (nel 1977 come nella sentenza che si sta commentando) a richiamarli in quella forma, dicendo che i primi, sono «emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto», mentre le altre «nell’esplicazione di poteri soltanto genericamente prefigurati dalle norme che li attribuiscono e perciò suscettibili di assumere vario contenuto, per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni» (sentenza n. 4 del 1977).
Dopo la sentenza del 1977 la nozione di “atto necessitato” venne poi ripresa da altri studi, e in particolare da Aldo Maria Sandulli nel 1989[23] e Roberto Cavallo Perin nel 1990[24], che, a quasi mezzo secolo dalla prima elaborazione ritennero maturi i tempi per perfezionare la classificazione attraverso un’ulteriore sistemazione lessicale. Essi ritenevano infatti che il nome “atti necessitati” fosse stato originariamente scelto da Giannini perché al tempo la locuzione "provvedimenti di necessità e urgenza" era ancora di frequente utilizzata per designare le ordinanze di necessità e urgenza. Superata questa esigenza, ritenevano possibile e più opportuno riferirsi a quelli che Giannini aveva chiamato “atti necessitati” con il nome di “provvedimenti necessitati”, e di usare la locuzione “atti necessitati” per indicare il genus degli atti che hanno a presupposto legittimante l’urgente necessità del provvedere, al cui interno sarebbe pertanto pertanto possibile distinguere le species dei (a1) provvedimenti necessitati (quelli che Giannini chiamava “atti necessitati”), definiti come provvedimenti che, pur avendo anch'essi a presupposto una situazione di necessità, «trovano il contenuto della loro imposizione già predeterminato dalla legge»[25], e delle (a2) ordinanze necessitate, definiti come provvedimenti della pubblica amministrazione che hanno a presupposto una situazione d'eccezione e il cui contenuto è soltanto genericamente predeterminato dalle norme istitutive.
L’appartenenza al medesimo genus e il fatto che la nozione di atto necessitato sia stata usata per lo più per distinguere alcuni atti dalla categoria delle ordinanze necessitate, però, non deve indurre nell’equivoco di ritenere che la prima sia tratta “per derivazione” dalla seconda. L’identità comune del genus, infatti, vale prima di tutto a distinguere entrambe le categorie dagli atti amministrativi “non necessitati”. E infatti gli studi sull’atto amministrativo necessitato si preoccupano prima di tutto di distinguerlo dai provvedimenti amministrativi non necessitati e, solo dopo, di recidere il nesso che astrattamente potrebbe legarli alle ordinanze necessitate.
Nella sentenza in esame, invece, la Corte costituzionale qualifica i dpcm “del covid” quali atti necessitati curandosi per lo più di rilevare l’elemento distintivo della species rispetto a quella delle ordinanze necessitate (la tipizzazione) ma senza dar conto dell’esistenza di quelli che caratterizzano, a monte, il genus. E allora viene da pensare che possa essere questa la ragione per cui la stessa Corte ha lasciato nel testo una riserva che segnala l’esistenza di qualche dubbio su questa riconducibilità - accostando tali atti a quelli necessitati «solo per certi versi» (senza dire, però, per quali). Il dubbio della Corte infatti non può stare, verosimilmente, nella scelta tra la dicotomia atti-ordinanze necessitate, posto che in questo poteva fare un affidamento piuttosto solido nella tipizzazione puntuale operata dal decreto-legge n. 19 del 2020[26]. Se un punto fragile nella riconduzione esiste, esso non può che stare nell’individuazione dei criteri distintivi del genus. E la Corte, in effetti, nulla dice circa l’esistenza dei due elementi che lo caratterizzano: il presupposto e la conformazione funzionale. E la cosa sorprende, perché non sembra affatto scontato né (il presupposto) che per i dpcm del covid la necessità sia riconoscibile quale parte - di fatto - integrante il presupposto legittimante - di diritto - della loro adozione, né (la conformazione funzionale) che si tratta di provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità.
Quanto al primo punto (l’esistenza del presupposto tipico dell’atto necessitato), verrebbe da chiedersi che cosa distingua la catena di decreti-legge e dpcm dai meccanismi di interlocuzione “ordinaria” (in questo caso nella forma dell’esecuzione) tra fonti primarie e fonti secondarie o atti amministrativi. In questo senso, il presupposto legale dei dpcm sembra infatti prescindere totalmente da elementi di fatto e, in particolare, dall’esistenza di una situazione emergenziale: la loro base legale è costituita in modo autosufficiente dai vari decreti-legge emanati (lo stesso dpcm 10 aprile 2020, definisce le proprie disposizioni «attuative» del d.l. n. 19 del 2020). L’an della loro adozione non dipende dal riconoscimento in fatto di una situazione di necessità (tutt’al più essa è già stata riconosciuta a monte dall’atto primario) ma trova piena soddisfazione nel fondamento fornito dal decreto-legge. L’elemento fattuale interagisce certamente con il contenuto dell’atto, ma come elemento esterno, e in particolare come elemento di fatto che orienta la discrezionalità e, quindi, integra il parametro di giudizio, attraverso i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità. Riguarda, in altre parole, non il suo presupposto ma il suo contenuto, e in particolare il quantum delle misure introdotte dai dpcm che, ai sensi dell’art. 1 co. 2 del decreto-legge n. 19 del 2021, devono essere «adottate secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente».
Quanto al secondo punto (la conformazione funzionale dell’atto): l’indice della difficoltà di sostenere che i dpcm del covid siano provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità è rappresentato plasticamente dall’art. 2 co. 1 del decreto-legge n. 19 del 2021 che, secondo una formulazione introdotta in sede di conversione dispone che «il Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare ai sensi del presente comma, al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati». Si tratta di una norma che dimostra una certa discrezionalità nella decisione demandata al dpcm, posto che la possibilità per le Camere di formulare indirizzi rispetto alla adozione degli stessi (ferma restando la disposizione primaria attuata), segna l’esistenza di un certo spazio di agibilità politica, in cui – a ragione - lo stesso legislatore ha ritenuto fosse cosa buona coinvolgere il Parlamento. Spazio di agibilità politica che sarebbe incompatibile con una lettura che vorrebbe costringere la discrezionalità del presidente del Consiglio al mero accertamento delle condizioni di fatto che ne impongono l’adozione.
3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile)
Dicendo che questi dpcm si distaccano concettualmente dal modello delle ordinanze contingibili e urgenti, la Corte ha contraddetto una posizione ripetutamente sostenuta in dottrina, fino ad essere condivisa dalla stessa Avvocatura dello Stato che, nel contestare la fondatezza della questione ha sostenuto che non vi sarebbe stata un’assunzione di poteri emergenziali in violazione dell’art. 78 Cost., proprio perché il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe «esercitato il potere di ordinanza conferitogli dall’art. 5 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), previa deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale, adottata in conformità all’art. 24 del medesimo decreto legislativo».
La posizione della Corte ci pare assolutamente condivisibile. I dpcm del “covid-19”, infatti, sono atti che non hanno né l’aspetto esteriore del sotto-tipo particolare e positivo (le ordinanze disciplinate dal Codice di Protezione), mancandone tutti gli elementi essenziali: il nomen, l’indicazione delle norme a cui si intende derogare e la motivazione (che a rigor di codice dovrebbe pure essere esaustiva), ne tanto meno hanno – ed è questo il punto davvero importante – la natura e la sostanza del tipo generale (ordinanze contingibili e urgenti), essendo atti (normativi o meno) che attuano fonti primarie senza derogare ad alcuna norma di legge. E il richiamo alla dichiarazione dello stato d’emergenza nel preambolo dei vari dpcm è apparso fin da subito sembrato un mero richiamo motivazionale ad adiuvandum e nonvla menzione del proprio fondamento[27]. Sono, d’altra parte, gli stessi dpcm a chiarire il proprio fondamento, dicendo espressamente che le proprie disposizioni sono «attuative» dei vari decreti-legge. Ma il punto che può essere interessante far emergere non è tanto la condivisibilità in astratto della posizione della Corte, quanto piuttosto l’assoluta comprensibilità in concreto del fatto che la gestione dell’emergenza non sia stata realizzata attraverso il sistema di protezione civile ma (anche e soprattutto) attraverso un meccanismo diverso e alternativo. A scanso di equivoci, sappiamo bene che il sistema di protezione civile non ha mai smesso di funzionare e che il Capo del Dipartimento di protezione civile ha continuato ad emanare ordinanze, ma ad un certo punto – molto vicino all’origine – dell’emergenza il sistema di gestione è stato articolato in questi termini: sul sistema di protezione civile è stata scaricata la funzione (dalla natura marcatamente tecnica e amministrativa) del coordinamento tecnico, mentre le decisioni politiche sono state adottate nell’ambito di un’architettura nuova: la filiera decreti-legge-decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri[28].
La “deviazione” dal sistema di protezione civile non deve stupire: quel sistema, e dunque anche il potere d’ordinanza di protezione civile (che ne è un segmento) non è stato pensato per aderire indistintamente ad ogni fatto materiale possibile. La cosa, di per sé, non è troppo strana: tutti i modelli prescrittivi scontano un margine di inadeguatezza rispetto ai fatti imprevedibili, e d’altra parte è proprio dalla componente di eccezionalità insita nei fatti emergenziali che può scaturire l’imprevedibilità che non consente l’aderenza del dettato prescrittivo al fatto. Detto brutalmente: posso dire oggi come mi comporterò domani fintanto che domani accadono eventi che oggi posso prevedere. È normale, insomma, che quando un fatto imprevedibile sposta il piano su cui il diritto vorrebbe agire impedendo l’incastellatura concettuale e quella prescrittiva, al diritto si impone la necessità di conformarsi al fatto imprevisto, con soluzioni adeguate alla sua fisionomia.
Il presupposto di questa lettura è, ovviamente, che esiste un tipo di fatto emergenziale attorno a cui il sistema di protezione civile è stato pensato, la cui fisionomia può essere verificata nell’identità dei fatti a partire da cui si è sviluppata (prima) la riflessione teorica e (poi) la prassi applicativa: i terremoti, ovviamente, ma anche eventi meteorologici d’altro genere, come alluvioni, frane, ed emergenze provocate da attività umane come il crollo di edifici e infrastrutture. Tutti questi fatti hanno un’identità materiale comune: sono eventi, accadimenti che spezzano il tempo in un prima e dopo sufficientemente chiaro e netto da permettere l’operabilità di un meccanismo pensato affinché fino a quando il fatto non si realizza, si prevedano e si prevengano i rischi del suo verificarsi e poi, quando il fatto si è già realizzato, vengano gestiti gli effetti che ha prodotto. Questa potrebbe sembrare una divagazione teorica ma non lo è affatto: è esattamente questo che fa sì che il sistema di protezione civile (e le ordinanze quale sua parte) non possa funzionare quando si tratta di assumere decisioni volte alla gestione (dunque politica) dell’emergenza in medias res. Che il potere d’ordinanza di protezione civile è stato pensato per (o almeno a partire da) questi fatti non solo emerge dalla comprensione complessiva della sua natura, ma è scritto, e in almeno due punti del Codice. Il primo è l’art. 2 che, nello scandire l’attività di protezione civile ripercorre esattamente questa scansione temporale: prima che l’evento si verifichi l’attività è volta alla previsione, cioè all’identificazione del rischio (art. 2, co. 2 del Codice) e alla prevenzione, cioè ad evitare che in conseguenza dell’evento si verifichino danni o danni ulteriori (art. 2 co. 3 del Codice), e poi, una volta che l’evento si è verificato la gestione dell’emergenza è preordinata al soccorso e all'assistenza alle popolazioni colpite (art. 2 co. 6 del Codice). Il secondo è l’art. 25, che determina - al co. 2, lett. a)-f) - l’ambito di applicazione del potere d’ordinanza pensandolo esattamente in funzione del ripristino e della gestione tecnico-amministrativa degli effetti prodotti da un evento accaduto ed (in questo senso) esaurito[29].
Se così è, allora la filiera di decreti-legge e dpcm può essere compresa come un adattamento fisiologico alla conformazione materiale del fatto emergenziale. E a ben vedere non sarebbe un caso che questo sistema sia apparso, di fatto oscurando quello di protezione civile, non appena la realtà materiale ha cominciato a delinearsi secondo quella che poi sarebbe stata la propria conformazione. L’osservazione delle date restituisce, in effetti, un quadro piuttosto indicativo: il 31 gennaio 2020 è stato attivato – con deliberazione del Consiglio dei Ministri - il sistema di protezione civile, dopo che il giorno precedente si era registrata la notizia dei primi casi “importati”, e dunque localizzati e controllabili (si tratta di due turisti in Italia), di contagio. Tutto resta fermo fino al 23 febbraio - quando la filiera decreti-legge-dpcm è stata inaugurata – meno di 48 ore dopo aver registrato i primi casi interni di contagio. E’ proprio la presenza “incontrollata” del virus sul territorio ad aver rappresentato il momento in cui si è compiuto lo stravolgimento, anche qualitativo, dell’emergenza in un senso inedito, eliminando la dimensione territoriale (perché la prevenzione non è più stata legata al contenimento del virus in luoghi circoscritti) ma soprattutto modificando la struttura temporale dell’evento che, se fino a quel momento rendeva in qualche modo possibile (e replicabile) l’astratta distinzione tra prevenzione - intesa come attività di gestione ex ante volta ad evitare la realizzazione dell’evento - e gestione – intesa come intervento ex post sugli effetti prodotti dall’evento - di li in avanti prevenzione e gestione si sono confuse in un tutt’uno. Ma non è tutto: a guardar bene non stupisce nemmeno che il sistema normativo di gestione dell’emergenza si sia sviluppato proprio attraverso l’emersione del dpcm e l’esaltazione (lato sensu) “normativa” della figura del Primo ministro. La vicenda Covid-19, in questo senso, non ha fatto altro che portare ad un compimento esemplare una parabola che era già in atto da qualche tempo. Diversi commentatori (supportati peraltro da un rapporto del servizio studi della Camera[30]) hanno segnalato come la figura del dpcm sia uscita dal recinto funzionale della direzione e del coordinamento della politica generale del Governo, rivelandosi sempre più frequentemente la forma dell’esercizio di un vero potere di decisione amministrativa e normativa[31]. In un primo momento questo percorso si è realizzato attraverso una sorta di attrazione della figura del Presidente del Consiglio verso il modello ministeriale e in particolare il fenomeno dell’espansione degli ambiti di intervento attivo e della dilatazione del suo apparato burocratico (editoria, sicurezza, funzione pubblica, protezione civile ecc.)[32]. Successivamente, però, la valorizzazione del ruolo “decisorio” del Presidente del Consiglio ha assunto una conformazione più propriamente “normativa” (questa necessità di qualificare i dpcm come atti normativa deriva da un pregiudizio: che la discrezionalità politica, e la funzione di governo, passi sempre e comunque da un atto normativo) ed è passata per scelte politiche contingenti, attraverso leggi che - di volta in volta, ma finendo poi per sedimentarsi intorno ad alcune ricorrenze materiali e funzionali - hanno scelto di demandare la loro attuazione non al potere regolamentare del Governo, né a quello dei Ministri - singolarmente o nella forma inter-ministeriale - ma a quello del Presidente del Consiglio dei Ministri.
* Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Scuola Superiore Sant’Anna (alberto.arcuri@santannapisa.it)
[1] Con l’ordinanza di rimessione n. 27 del 23 dicembre 2020.
[2] Riconoscendo la possibilità che l’esecutivo potesse intervenire anche con «nuove risposte normative e provvedimentali».
[3] M. Rubechi, I d.P.C.m della pandemia: considerazioni attorno ad un atto da regolare, federalismi.it, n. 27/2021, p. 183.
[4] Rimandiamo a quanto espresso in A. Arcuri, Cose vecchie e cose nuove sui d.p.c.m. dal fronte (…dell’emergenza coronavirus), federalismi.it, n. 28/2020, p.251 ss.
[5] In questo senso E. C. Raffiotta, I poteri emergenziali del Governo nella pandemia: tra fatto e diritto un moto perpetuo nel sistema delle fonti, in Rivista AIC, n. 2, 2021, p. 64 ss.; e M. Cavino, Comitato per la legislazione e dPCM: il diavolo si cela nei dettagli, in Quaderni Costituzionali., n.2, 2021, p. 401ss.
[6] Lo rileva diffusamente, commentando proprio la sentenza n. 198 del 2021, M. Rubechi, cit., p. 191ss. Più in generale sul punto cfr. V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.
[7] Tra i tanti abbiamo già richiamato F. Sorrentino, Le fonti del diritto Italiano, Cedam, Padova, 2009, pp. 55-57.
[8] Lo rilevava già M. C. Grisolia, Osservazioni in tema di decreti del presidente del Consiglio a contenuto regolamentare, in Il potere regolamentare nell'amministrazione centrale, U. De Siervo (a cura di), Bologna, 1992, 155-184.
[9] Fino all'entrata in vigore della legge n. 400 del 1988, i decreti legislativi erano adottati nella generica forma di d.P.R. Problemi del tutto simili a quelli che oggi si pongono circa l’appartenenza (o meno) al sistema delle fonti di atti che si presentano con il medesimo nome (dm o dpcm), si sono posti fino al 1988 in merito alla riconducibilità ai diversi gradi del sistema delle fonti (primarie o secondarie) degli atti normativi del Governo emanati con la medesima formula di d.P.R. Peraltro l’autoqualificazione è accompagnata da ulteriori prescrizioni: ad esempio, per quanto riguarda i decreti legislativi, l’art. 14 della legge n. 400 del 1988 stabilisce che si debbano indicare, nel preambolo dell’atto, la legge di delegazione, la deliberazione del Consiglio dei Ministri e gli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione. In questo senso, la legge n. 400 del 1988 completa un percorso iniziato con il d.P.R. n. 1092 del 1985, sulla pubblicazione degli atti normativi.
[10] L’apertura più esplicita è quella contenuta nella sentenza n. 116 del 2006, in cui ha denunciato apertamente l’“indefinibile natura giuridica” di un rinvio operato da una fonte primaria ad “un decreto avente natura non regolamentare”, ma ha poi finito comunque per fondare l’illegittimità costituzionale della fonte primaria che vi rinviava sulla base del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.
[11] La decisione più importante sul punto è l’Adunanza Plenaria n. 9 del 2012, su cui si veda N. Lupo, Il Consiglio di Stato individua un criterio per distinguere tra atti normativi e atti non normativi, Giornale di diritto amministrativo, 12/ 2012.
[12] Si veda il commento di G. Guzzetta su Adkronos del 22 ottobre 2021: Covid, Guzzetta: "Motivazioni Consulta eliminano distinzione tra norme e atti amministrativi", consultabile in https://www.adnkronos.com/covid-guzzetta-motivazioni-consulta-eliminano-distinzione-tra-norme-e-atti-amministrativi_6UkuR89pKuGARz1XqxIam8.
[13] Il riferimento è alle categorie dei regolamenti indipendenti e attuativi e integrativi (lettere b e c dell’art. 17 co. 1 della legge n. 400 del 1988).
[14] Tra gli altri si veda M. Ramajoli-B. Tonoletto, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, Dir. Amm. 1-2/2013, pp. 53-62.
[15] Secondo M. Cavino, cit., in federalismi.it, n. 25/2021, p. 82, ad esempio, quest’eccedenza argomentativa sarebbe indice sintomatico del fatto che «parametro del giudizio della Corte sono state in sostanza le norme che assistono i diritti di libertà e non quelle direttamente connesse ai rapporti tra le fonti, posto che la distinzione tra ordinanze e atti necessitati rileva essenzialmente per le materie coperte da riserva assoluta di legge (corsivo nostro)».
[16] A partire dallo scritto del 1948 Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1948.
[17] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.
[18]M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss.
[19] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.
[20] S. Palumbo, Le ordinanze in materia di protezione civile, tra potere di urgenza e urgenza di potere, P.A. Persona e Amministrazione n. 2/2020, p. 375 ss.
[21] F. Migliarese, Ordinanze di necessità, in Enc. Giur. Treccani, XXII, Roma, 1990.
[22] Da M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss..
[23] A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, XV ed., 1989, 74-75.
[24] R. Cavallo Perin, Potere di Ordinanza e Principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e urgenza, Milano, Giuffrè, 1990.
[25] R. Cavallo Perin, cit., Milano, Giuffrè, 1990, p. 4.
[26] E infatti prima della decisione della Corte aveva già svolto questa riconduzione G. Trombetta, L’ordinanza prefettizia ex art. 2 TULPS. Una lettura “realista” dentro i principi costituzionali, federalismi.it n. 22/2021.
[27] Così già F. Sorrentino, Riflessioni minime sull’emergenza Coronavirus, inCostituzionalismo.it, n. 1/2020.
[28] In questo senso già C. Caruso , Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in Rivista del Gruppo di Pisa, n. 1/2021.
[29] Art. 25 co. 2, (…) con le ordinanze di protezione civile si dispone, nel limite delle risorse disponibili, in ordine: a) all'organizzazione ed all'effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall’evento; b) al ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, alle attività di gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi e alle misure volte a garantire la continuità amministrativa nei comuni e territori interessati, anche mediante interventi di natura temporanea; c) all'attivazione di prime misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate dall'evento, per fronteggiare le più urgenti necessità; d) alla realizzazione di interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, strettamente connesso all'evento e finalizzati prioritariamente alla tutela della pubblica e privata incolumità, in coerenza con gli strumenti di programmazione e pianificazione esistenti; e) alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni.
[30] «Appunti del Comitato per la legislazione “La produzione normativa nella XVII Legislatura”. Aggiornamento al 15 giugno 2016 n. 9 – Focus».
[31] V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.
[32] A. Sandulli, Il problema della Presidenza del Consiglio, ora in Scritti giuridici, Vol. I, Diritto costituzionale, Jovene, Editore, Napoli, 1990.
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