Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?
In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
di Enzo Cannizzaro
Sommario: 1. Premesse - 2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein - 3. Effetti diretti in malam partem? - 4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi - 5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa - 6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo.*
1. Premesse
Ben difficilmente il dibattito aperto dalle due pronunce del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021, rese dalla Adunanza plenaria, si sopirà in tempi brevi. Alla discussione accademica, relativa alla linea argomentativa e alle soluzioni adottate dalle due sentenze “gemelle”, si aggiungeranno verosimilmente implicazioni di ampia portata sia sul piano della vicenda amministrativa che su quello concernente i rapporti fra le istituzioni politiche e le istituzioni giudiziarie.
Non tutte queste implicazioni saranno discusse in questo breve scritto, teso prevalentemente a verificare la coerenza fra gli argomenti utilizzati dal Consiglio di Stato e il diritto dell’Unione europea. Proprio il diritto europeo, infatti, ha fornito la base giuridica per molte delle soluzioni riversate nel principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria. E, tuttavia, alla sostanziale correttezza della identificazione e della ricostruzione della normativa sostanziale del diritto europeo operata dalla Adunanza plenaria, taluni dei profili applicativi di essi appaiono controversi.
Come ormai noto, l’Adunanza plenaria ha accertato l’esistenza di un contrasto fra la normativa nazionale, anche di rango primario, la quale ha disposto una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e il diritto europeo.
Tale conflitto è stato riferito sia all’art. 49 TFEU che all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, nota con il nome di direttiva Bolkenstein e, dunque, sia alla normativa di rango primario che a quella di rango secondario. Del tutto correttamente, l’Adunanza plenaria ha ritenuto, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia, e in particolare della sentenza Promoimpresa, che queste disposizioni formulino un divieto agli Stati membri di disporre proroghe automatiche e generalizzate di concessioni su aree demaniali al fine di offrire servizi turistico-ricreativi. Altrettanto correttamente, e sempre sulla base della sentenza Promoimpresa, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter trarre dalle due disposizioni effetti diretti, invocabili, quindi, in un giudizio interno.
Da tali premesse, il Consiglio ha tratto conseguenze radicali. In virtù degli effetti diretti del diritto europeo, tali disposizioni imporrebbero al giudice e alla pubblica amministrazione di disapplicare qualsiasi regola nazionale che abbia disposto una proroga delle concessioni per servizi turistico-balneari, con conseguente decadenza dei diritti creati in capo ai concessionari. L’Adunanza plenaria ha altresì indicato che tali diritti verrebbero meno pur se accertati giudizialmente e pur se, su tale accertamento, si sia formato un giudicato, esistente o anche futuro. Né, su tale fenomeno, prodotto direttamente dalla normativa europea, potrebbe incidere il consolidamento di atti amministrativi.
Peraltro, in considerazione delle conseguenze “socio-economiche” di tale accertamento, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter precisare l’effetto temporale del proprio accertamento, e consentire la produzione di effetti da parte delle norme nazionali di proroga, fino al 31 dicembre 2023.
Valutate nel loro insieme, tali conseguenze sembrano tese a porre rimedio a una situazione di insostenibile divergenza dell’ordinamento nazionale rispetto agli obblighi europei; una situazione creata non già da comportamenti omissivi da parte del legislatore, quanto, piuttosto, da comportamenti attivi, e cioè da leggi e atti amministrativi adottati al fine di impedire la corretta applicazione del diritto europeo da parte delle amministrazioni e dei giudici nazionali.
Da un punto di vista formale, tale divergenza, volutamente creata con il consapevole consenso delle istituzioni politiche nazionali, integra la nozione di conflitto strutturale fra ordinamento strutturale e ordinamento europeo, evocata nell’ultimo paragrafo della sentenza Granital (Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 1984). Sarebbe però improprio utilizzare tale nozione, elaborata verosimilmente per conflitto fra i valori e i principi fondamentali dei due ordinamenti, per una divergenza normativa indotta verosimilmente da esigenze molto meno nobili.
Proprio tale constatazione potrebbe spiegare il carattere radicale dell’argomentazione utilizzata e delle soluzioni adottate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, e l’indiscutibile senso di sollievo che la loro lettura suscita rispetto ad una vicenda che avrebbe dovuta da tempo essere risolta attraverso percorsi politici e istituzionali. E, tuttavia, proprio tale carattere esige altresì una rigorosa indagine giuridica sulla loro coerenza con il sistema del diritto europeo, come sviluppato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. A tale analisi si attenderà, sia pur in maniera sintetica, nei prossimi paragrafi.
2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein
Appare indiscutibile, innanzi tutto, che l’art. 12 della Direttiva Bolkenstein abbia, nel suo contenuto negativo, effetti diretti. Tale disposizione, da un lato, impone agli Stati l’obbligo della selezione del contraente attraverso una procedura competitiva, e, per questo aspetto, assicura agli Stati membri un certo margine di discrezionalità; dall’altro proibisce, invece, proroghe automatiche e generalizzate. In altri termini, per lo meno in relazione all’obbligo negativo che esso impone agli Stati, e cioè quello di non disporre proroghe automatiche e generalizzate, l’art. 12 ha indubbiamente effetti diretti.
Utili elementi in questo senso possono essere tratti altresì dalla sentenza della Corte di giustizia Promoimpresa (14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15). Ancorché la Corte non qualifichi l’art. 12 come disposizione produttiva di effetti diretti, essa può essere ragionevolmente interpretata in questo senso. In particolare, al par. 50, la sentenza indica che “una normativa nazionale … che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123”.
In questo sintetico passaggio, la Corte ha indicato che l’art. 12, par. 2, prevede implicitamente un divieto di rinnovo automatico delle concessioni che rientrino nel suo ambito di applicazione. Or bene, un tale divieto integra un obbligo di non fare il quale, secondo una giurisprudenza risalente addirittura alla celebre sentenza Van Gend en Loos (5 febbraio 1963, causa 26/62), costituisce il paradigma stesso degli effetti diretti.
Ne consegue che il giudice nazionale, anche di ultima istanza, avrebbe potuto autonomamente risolvere la questione interpretativa circa la capacità di produrre effetti diretti da parte dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein senza soggiacere all’obbligo di rinvio pregiudiziale imposto dall’art. 267 TFEU.
3. Effetti diretti in malam partem?
È meno certo, tuttavia, che l’art. 49 TFEU produca a sua volta effetti diretti nella particolare fattispecie presente di fronte al Consiglio di Stato.
Se il divieto di disporre proroghe automatiche e generalizzate trova fondamento nell’art. 12 della Direttiva Bolkenstein, i suoi effetti diretti saranno limitati a quelli che una direttiva può produrre. Come è noto, sulla base di una giurisprudenza consolidata, gli effetti diretti di una direttiva si producono solo nei rapporti verticali, vale a dire nell’ambito di un rapporto giuridico fra individui e Stato. Tale limitazione deriva dall’osservazione che le direttive europee, ai sensi dell’art. 288 TFUE, stabiliscono obblighi di attuazione a carico degli Stati. Di conseguenza, sulla base di un ragionamento logico-formale sviluppato dalla Corte di giustizia per la prima volta nella sentenza Ratti (5 aprile 1979, causa 148/78) uno Stato non potrà opporre il proprio inadempimento ad un individuo che invochi diritti derivanti da una direttiva non attuata.
Sulla base di tale ragionamento, la Corte di giustizia ha non solo escluso gli effetti orizzontali di una direttiva. Essa ha, altresì, limitato l’invocabilità degli effetti diretti di una direttiva nei rapporti giuridici fra Stati e individui. Questi ultimi potranno trarre dalla direttiva posizioni soggettive compiute per opporsi all’applicazione di una legislazione nazionale difforme. Di converso, lo Stato, il quale avrebbe dovuto attuare la direttiva e non lo ha fatto, non potrà invocare la direttiva contro soggetti non tenuti alla sua applicazione.
Ne consegue che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein ben potrebbe essere invocato, sia di fronte alla pubblica amministrazione che di fronte al giudice nazionale, da un operatore economico il quale intendesse imporre l’assegnazione una concessione demaniale di servizi attraverso una procedura di selezione competitiva. In risposta all’invocazione della direttiva il giudice avrebbe avuto il dovere di disapplicare le norme italiane le quali, invece di attuare la direttiva e consentire a tale operatore di concorrere all’assegnazione della concessione, hanno disposto una proroga automatica e generalizzata a favore dei concessionari uscenti. Tale costruzione si fonda sull’argomento, sempre ripetuto nella giurisprudenza della Corte, che lo Stato che venga meno al proprio obbligo di attuare una direttiva, non possa trarne vantaggio (giuridico) dal proprio inadempimento. A più forte ragione, tale argomento dovrebbe valere nei confronti di uno Stato che non solo non adempie, ma, al contrario, adotta una legislazione manifestamente difforme rispetto ai propri obblighi.
Di converso, la disapplicazione delle leggi italiane in un giudizio nel quale un operatore invochi la legge interna per opporsi alla pretesa dell’amministrazione statale di mettere a bando una concessione soggetta a proroga farebbe ricadere sui concessionari le conseguenze pregiudizievoli della mancata attuazione della direttiva da parte dello Stato italiano.
Né tale situazione può essere rovesciata alla luce della qualificazione dei concessionari come gestori di poteri pubblici ai sensi della dottrina Foster (sentenza 12 luglio 1990, causa C-188/89). Tale dottrina, precisata recentemente (sentenza Farrell, 10 ottobre 2017, causa C-413/15), è tesa ad evitare che gli Stati, attraverso il trasferimento di funzioni latamente pubbliche a favore di organismi privati, possano sottrarsi all’invocazione degli effetti diretti di una direttiva da parte di individui. Essa, di conseguenza, opera solo allorché un individuo invochi gli effetti diretti di una direttiva nei confronti di un organismo gestore di pubblici poteri e non consente a uno Stato, unico abilitato all’attuazione della direttiva, di invocare una direttiva inattuata nei confronti di tali organismi.
Conviene ora chiedersi se questa conclusione possa mutare se, invece di riferire gli effetti diretti del divieto di proroga alla direttiva Bolkenstein, essi venissero riferiti all’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. In effetti, si potrebbe pensare che la direttiva, la quale ha proprio lo scopo di attuare la norma primaria del trattato, ne possa mutuare gli effetti. Come è noto le norme dei trattati, qualora dotati di chiarezza e precisione, non incontrano il limite della verticalità e unidirezionalità proprio degli effetti diretti delle direttive.
Tale effetto di mutuazione non appare però del tutto certo. Anzi, proprio nella sentenza Promoimpresa la Corte ha indicato, richiamando consolidati principi giurisprudenziali, come la conformità di una normativa nazionale al diritto europeo in un settore completamente armonizzato debba essere valutata unicamente alla luce della normativa di armonizzazione e non può essere riferita direttamente alla normativa primaria. Dato che, come indicato dalla Corte nei paragrafi 61 e 62, gli articoli da 9 a 13 della direttiva Bolkenstein dispongono una armonizzazione completa, l’invocazione dell’art. 49 TFEU sarebbe consentita solo in riferimento a concessioni che non rientrano nell’ambito dell’art. 12. Né appare incongruo che l’adozione di una direttiva di armonizzazione attragga in via esclusiva il giudizio di conformità rispetto al diritto europeo. Il riferimento esclusivo alla normativa secondaria è fondato sulla constatazione che l’armonizzazione costituisce, grazie al grado di dettaglio delle sue disposizioni, la migliore tecnica normativa per la regolamentazione del mercato interno e, quindi, risulti preferibile per l’attuazione degli obiettivi dei Trattati rispetto al principio del mutuo riconoscimento, il quale riserva un ampio margine di discrezionalità alle autorità amministrative e giudiziarie degli Stati membri. Difatti, la sentenza Promoimpresa conclude che l’art. 49 TFUE può essere utilizzato dal giudice nazionale solo al di fuori dell’ambito di applicazione della Direttiva Bolkenstein.
In una linea argomentativa non considerata dalla Corte, si potrebbe bensì ritenere che l’effetto attrattivo della normativa di armonizzazione si produca solo rispetto agli obblighi più specifici formulati dalla direttiva di armonizzazione rispetto a quelli scaturenti dai trattati e non già rispetto ad obblighi negativi già formulati dai Trattati e semplicemente riaffermati dalla direttiva di armonizzazione. In tale prospettiva, l’art. 49 potrebbe essere invocato al fine di valutare la conformità di una legislazione nazionale la quale non solo non si adegui agli obblighi ulteriori della direttiva Bolkenstein, ma violi l’obbligo di non fare, il quale è fondato direttamente su tale disposizione. Nella giurisprudenza recente, tali obblighi sono stati qualificati come obblighi “di risultato precisi e incondizionati”, un ossimoro difficilmente accettabile a meno che non sia limitato, appunto, agli obblighi di non fare. Peraltro, se questa fosse stata la strada prescelta dal Consiglio di Stato, tale organo avrebbe avuto l’onere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia, la quale non si è mai espressa su tale punto con la chiarezza necessaria per sollevare i giudici nazionali di ultima istanza dall’obbligo di rinvio formulato dall’art. 267 TFUE.
4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, un giudice nazionale che accerti l’esistenza di un irrimediabile conflitto fra una legge italiana e una direttiva non avente effetti diretti non potrà procedere alla disapplicazione della direttiva ma dovrà deferire la questione incidentale di costituzionalità alla stessa Corte. Tale principio è stato affermato nella storica sentenza Granital (n. 170 del 1984) e più volte ribadito dalla Corte costituzionale. È verosimile ritenere che tale soluzione sia stata adottata dalla Corte costituzionale sulla base del paradigma classico di una direttiva non avente effetti diretti; vale a dire una direttiva le cui disposizione non abbiano chiarezza o precisione, ma lascino un certo margine di discrezionalità agli Stati membri. In questo caso, l’ordinamento italiano sembra predisporre uno strumento di garanzia del diritto europeo che va oltre le esigenze da questo formulato.
È difficile sostenere che tale meccanismo, se pure non imposto dal diritto europeo, sia ad esso contrario. Nella situazione paradigmatica di un individuo che invochi una direttiva per opporsi a una legge nazionale confliggente, esso realizza in maniera anche più forte il principio ispiratore della intera giurisprudenza della Corte di giustizia sugli effetti diretti di una direttiva; vale a dire la piena efficacia del diritto europeo.
Questo meccanismo, tuttavia, potrebbe risultare contrario al diritto europeo in una situazione diversa, nella quale gli individui fondino le proprie posizioni soggettive in una legge nazionale contraria al diritto europeo. In tal caso, esso altererebbe il principio che consente solo agli individui, e non agli organi statali, di invocare gli effetti diretti della direttiva al fine di far valere le posizioni giuridiche di vantaggio da essa prevista. Come indica la sentenza Popławski (24 giugno 2019, Causa C-573/17) “se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un singolo”. Un eguale principio dovrebbe valere anche qualora il giudice, invece di disapplicare la direttiva, promuova la dichiarazione di incostituzionalità della legge ad essa contraria.
5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa
Come spiegare, allora, alla luce di tali considerazioni, le conclusioni della sentenza Promoimpresa, la quale ha chiaramente indicato che l’art. 12 della direttiva 2006/123 “osta” a un regime di proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniale per fini turistico-ricreative?
La spiegazione più ovvia è quella che fa leva sulla osservazione che la Corte di giustizia ha semplicemente accertato l’esistenza di un conflitto normativo fra i due regimi, senza però indicarne le conseguenze giuridiche, non richieste dal giudice a quo. Al di là di tale risposta, formale ma corretta, conviene aggiungere che la disapplicazione di leggi confliggenti con norme europee aventi effetti diretti costituisce solo una delle possibili conseguenze, ancorché quella forse più vistosa, del conflitto fra leggi e direttive europee. La conseguenza maggiormente rilevante nei rapporti istituzionali è, infatti, l’obbligo dello Stato di abrogare la normativa nazionale contraria ad una direttiva, e produrre certezza giuridica per i cittadini. La Corte di giustizia ha chiarito che tale obbligo permane indipendentemente dagli eventuali effetti diretti di una direttiva. Esso permane, e anzi si rafforza, pur qualora la normativa nazionale sia disapplicata dai giudici nazionali ovvero dalla pubblica amministrazione. Ciò in quanto la presenza di una legge contraria alla direttiva costituisce un ostacolo alla uniforme applicazione della direttiva nell’ordinamento nazionale interessato. A più forte ragione, tale obbligo permane qualora la direttiva non possa produrre effetti diretti.
Di conseguenza, appare ragionevole interpretare la sentenza Promoimpresa alla luce della pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia nel senso, cioè, che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein osti, evidentemente, a una legislazione nazionale che disponga una proroga automatica e generalizzata di concessioni di servizi, ma che il compito di attuare la direttiva, eliminando la legislazione ad essa contraria, spetti agli organi centrali dello Stato, i soli sui quali incombe tale obbligo. L’inadempimento di tale obbligo potrà, di conseguenza, essere sanzionato attraverso una procedura di carattere sistemico, quale la procedura di infrazione, la quale correttamente farà ricadere sullo Stato le conseguenze della propria azione e non già sugli individui non tenuti ad attuare la direttiva.
6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo
Nella seconda parte delle due sentenze, nonché nel principio di diritto, l’Adunanza plenaria indica che la disapplicazione della legge nazionale confliggente con l’art. 12 della direttiva Bolkenstein non possa trovare ostacoli nell’esistenza di un giudicato che abbia, in ipotesi, consolidato la situazione giuridica dei concessionari.
Tali conclusioni sono enunciate con molta rapidità, per modo che non è agevole identificare con esattezza il fondamento. Le due sentenze sembrano indicare che il carattere relativo dei giudicati che abbiano accertato il diritto dei concessionari si fondi su una sopravvenienza normativa data dalla sentenza Promoimpresa. Tale pronuncia avrebbe chiarito il contenuto e gli effetti del diritto europeo e, per tanto, essa costituirebbe un fatto idoneo a relativizzare l’effetto di un giudicato pronunciato in un rapporto di durata e fondato sull’equilibrio normativo preesistente.
Se tale ricostruzione fosse esatta, occorrerebbe interrogarsi sulla sua compatibilità con i principi e le regole dell’ordinamento europeo. Vengono in rilievo, in particolare, due ordini di obiezioni.
Il primo è dato dalla qualificazione di una sentenza interpretativa della Corte di giustizia come una sopravvenienza normativa. In una giurisprudenza meno recente, la Corte di giustizia ha, invero, accolto l’idea che talune conseguenze giuridiche possano essere prodotte nell’ordinamento europeo ad opera di una propria sentenza interpretativa. Ad esempio, nella sentenza Roquette frères (28 settembre 2000, causa C-88/99), la Corte ha indicato, precisando la giurisprudenza Emmott (21 luglio 1991, causa C-208/90), che il legislatore nazionale non può far decorrere il termine per la decadenza per l’invocazione di diritti previsti da una direttiva prima della data in cui la Corte ha accertato con sentenza interpretativa la natura di effetti diretti di tale direttiva. Tale precisazione è stata operata, tuttavia, alla luce della premessa che solo gli individui potessero invocare la direttiva a proprio vantaggio. La produzione di conseguenze giuridiche da parte di una sentenza interpretativa è, quindi, limitata all’ambito applicativo della dottrina degli effetti diretti delle direttive. È difficile ritenere che una sentenza interpretativa possa fuoriuscire da tale ambito e produrre effetti pregiudizievoli verso gli individui che le direttive non possono produrre.
Un secondo ordine di considerazioni si pone su un piano più generale e concerne l’esistenza stessa di una dottrina della sopravvenienza normativa come limite al giudicato nazionale. Le celebri dottrine Lucchini (18 luglio 2007, causa C-119/05) e Kühne (13 gennaio 2004, causa C-453/00), menzionate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, sono imperniate sull’idea che le norme nazionali che stabiliscono la definitività delle decisioni giudiziarie e amministrative possano venir meno solo in circostanze eccezionali, legate alla violazione dell’obbligo dei giudici nazionali di promuovere un rinvio pregiudiziale di validità (Lucchini) ovvero di interpretazione (Kühne) alla Corte di giustizia (sia consentito rinviare, in proposito, al mio libro Il diritto dell’integrazione europea, IV ed., Torino, 2020, p. 351). Nella vicenda Lucchini, una sentenza definitiva che aveva accertato il diritto di un individuo a ricevere un aiuto di Stato contrario alla normativa europea sarebbe dovuto venir meno in quanto il giudice aveva definito il giudizio senza l’applicazione di una decisione dell’Unione sulla compatibilità dell’aiuto con il mercato comune e senza promuovere un rinvio pregiudiziale di validità obbligatorio ai sensi della dottrina Foto Frost. In Kühne il carattere definitivo di una decisione della pubblica amministrazione sarebbe dovuto venir meno sol perché confermato dal giudice di ultima istanza, il quale avrebbe dovuto sollevare un rinvio pregiudiziale di interpretazione, ai sensi della dottrina CILFIT, al fine di consentire la revisione di un orientamento interpretativo della Corte di giustizia.
In ambedue le ipotesi, il venir meno di un giudicato formatosi in difformità dal diritto europeo non solo non era legato ad una sopravvenienza normativa. Al contrario, esso è dipeso dalla circostanza che i giudici non avessero promosso tale “sopravvenienza”, vale a dire una sentenza della Corte di giustizia che avrebbe ben potuto impedire la formazione di tale giudicato a causa del suo contrasto con il diritto europeo.
Analogamente, nella vicenda in esame, la circostanza che l’Adunanza plenaria abbia adottato soluzioni innovative alla luce del diritto europeo senza promuovere un rinvio pregiudiziale potrebbe indebolire l’autorità formale e l’autorevolezza sostanziale del suo principio di diritto.
* Vedi su questa Rivista, i precedenti interventi di F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità e di R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative.