ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Attività consiliare e tutela: il delicato equilibrio tra autonomia e controlli * di Sandro Saba
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il tema assegnato concerne il (sofferto) rapporto tra autonomia dell’organo di autogoverno e tutela dei diritti e interessi legittimi del magistrato singolo (valori entrambi costituzionalmente sanciti), ossia il delicato equilibrio tra prerogative del CSM (di cui all’art. 105 Cost.) ed effettività dei principi di buon andamento e imparzialità nonché inviolabilità del diritto di difesa (artt. 24 e 97 Cost.).
È oltremodo ovvio che l’individuazione delle tutele accordate al singolo dipenda dalla preliminare definizione della natura giuridica dell’ente delle cui decisioni si discetta (o, quantomeno, dalla qualificazione della funzione esercitata). Ora, s’è indubbiamente al cospetto di un organo esterno alla pubblica amministrazione (ove intesa in termini classici), circostanza che, in uno alla considerazione costituzionale del CSM, rimette all’interprete il difficile compito di individuare forme di tutele (procedimentali e giurisdizionali) che siano compatibili con le peculiarità dello stesso.
Pare doveroso prendere le mosse (e sarà perdonata la digressione) dai lavori preparatori della l.n. 195/58, in cui, inizialmente, addirittura s’ipotizzò d’attribuire al CSM natura espressamente giudiziaria, con esclusione della sindacabilità (esterna) degli atti adottati, con doppia declinazione della soluzione alternativa: esclusione tout court della sindacabilità degli atti ovvero previsione di forme di autodichia. Agli sgoccioli della seconda legislatura è stata tuttavia adottata la legge n. 195 del 58, nella formulazione che tutti conosciamo: l’art. 17 enuncia – ai commi primo e secondo – due norme, che consegnano all’operoso interprete preziosi elementi per la qualificazione della natura giuridica dell’attività del CSM e, conseguentemente, individuazione delle forme di tutela riconosciute al magistrato.
La prima norma prevede che gli atti del Consiglio siano recepiti con decreto presidenziale, controfirmato dal Ministro ovvero con decreto ministeriale (nei casi previsti dalla legge). La seconda assegnava – e assegna tuttora, con le modifiche intervenute nel tempo (dagli anni ‘90 all’adozione del codice del processo amministrativo) – al giudice amministrativo la cognizione sui predetti.
S’è subito affermato in dottrina che l’illustrata normativa in realtà integrasse mero precipitato di principi generali che concernono l’agire amministrativo. Se il CSM interviene esercitando un potere, nell’interesse pubblico, disciplinando casi concreti e specifici, attraverso un’equa ponderazione degli interessi in gioco, allora esercita un’attività propriamente amministrativa. L’atto è oggettivamente amministrativo e la norma – come affermerà poi la Corte Costituzionale nel ’68 – serve unicamente ad attribuire il corretto involucro (amministrativo) a un atto che tale già doveva considerarsi (quantomeno nella sostanza).
In dottrina sono state formulate diverse tesi: dell’atto composto, ineguale (dove l’ineguaglianza formalmente indica la prevalenza del ministro, ma sostanzialmente esprime la prevalenza del CSM), della proposta vincolante, dell’atto presupposto, della decretazione come forma ad substantiam. Rimane il dato che il giudice amministrativo ha, sin da principio, ritenuto che gli atti in commento fossero amministrativi, come tali sindacabili e correttamente attribuiti alla giurisdizione generale di legittimità. Così le pronunce del ’62 del Consiglio di Stato (nn. 248 del 14 marzo 1962 e 752 del 28 novembre 1962). Fin quando però la questione venne portata all’attenzione della Corte Costituzionale. Con la prima pronuncia – n. 168 del 12 dicembre 1963 – il Giudice delle Leggi riconosce natura sostanzialmente amministrativa all’attività del CSM. È tuttavia la sentenza n. 44 del 30 aprile 1968 il più importante e completo pronunciamento sul punto: nell’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite si paventava il rischio d’indebita ingerenza (nell’autonomia costituzionalmente tutelata) insito nell’assegnazione a diversa giurisdizione del sindacato sugli atti del CSM. L’Avvocatura dello Stato sostenne, addirittura, che la soluzione più corretta fosse quella dell’insindacabilità tout court delle delibere o, in alternativa, della previsione di forme di autodichia (come già da lavori preparatori). La Corte Costituzionale innanzitutto chiarisce quale sia il rapporto tra atto amministrativo e delibera consiliare: l’atto amministrativo (presidenziale o ministeriale) è di mero recepimento. Con l’adozione della delibera nasce un obbligo giuridico a carico dell’esecutivo di recepire l’atto. Atto che diviene efficace nei confronti del magistrato soltanto col recepimento; ma l’adozione in sé attribuisce e genera l’obbligo di recepire con decreto il provvedimento consiliare. Si ribadisce, poi, quanto già affermato con la precedente pronuncia n. 168: si parla, nuovamente, di attività sostanzialmente amministrativa e quindi relativa sindacabilità, che – correttamente – è attribuita al giudice amministrativo, quale autorità giudiziaria chiamata a conoscere della legittimità degli atti amministrativi. La Corte Costituzionale menziona anche un elemento di opportunità (a suffragio della bontà dell’opzione legislativa): la scelta non solo è ragionevole, in quanto rispondente alla storica (e usuale) distribuzione del potere giurisdizionale; è, altresì, opportuna, siccome fuga il rischio (insito nell’alternativa attribuzione al Giudice ordinario) della “confluenza che verrebbe a verificarsi, negli appartenenti allo stesso ordine, di destinatari dei provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura e di giudici della regolarità del medesimi”.
Se il provvedimento – come s’è chiarito con questo breve inciso – ha natura amministrativa, bisogna comprendere quali siano le tutele accordate al destinatario dello stesso (sia giurisdizionali che procedimentali).
Quelle giurisdizionali sono le prime ad aver formato oggetto di studio e approfondimento, simmetricamente a quanto avvenuto sul fronte amministrativo classico, per tarda emersione del tema delle tutele nel procedimento soltanto con l.n. 241/90. Si reputa, tuttavia, preferibile abbandonare il criterio cronologico e aderire a un’impostazione logica e, così, prendere le mosse dall’esame delle seconde (sebbene di più recente elaborazione).
A tale proposito, il CSM si è interrogato sulla possibilità di applicare la normativa sul procedimento amministrativo alla propria attività, opzione non scontata, trattandosi di disciplina formalmente riservata, a mente dell’art. 29, alle sole amministrazioni statali (e, tecnicamente, tale non è il CSM). Già nel ’92, con la risoluzione del 27 maggio (adottata a seguito di animato e dotto dibattito, come emerge dal verbale della seduta), si è ipotizzata un’estensione, in via tendenziale, della disciplina in commento all’attività consiliare, da realizzarsi – si diceva – attraverso il meccanismo dell’adeguamento regolamentare (ai sensi dell’art. 20 n. 7, l.n. 195/58).
Con la successiva risoluzione del 24 marzo 1993 s’è verificata la compatibilità dei singoli articoli della l.n. 241/90 con le peculiarità dell’organo di autogoverno. È parso d’indubbia applicabilità l’art. 1 (sui principi generali dell’attività amministrativa), in quanto precipitato dei canoni di imparzialità e buon andamento, a caratura costituzionale (art. 97 Cost.), sicuramente riferibili anche all’operato del CSM. Del pari gli artt. 2, comma 1, e 3, sull’obbligo di provvedimento espresso, sorretto da congrua motivazione.
Più problematica la traslazione della restante parte dell’art. 2, sui tempi del procedimento. In un primo momento si è ipotizzato un intervento regolamentare d’individuazione dei termini finali dei procedimenti, differenziati in ragione delle diverse competenze delle Commissioni (con previsione di un meccanismo di conclusione immediata del procedimento o della fase, in caso di superamento di detti termini, attraverso l’azione della Presidenza delle Commissioni e del Consiglio, chiamate a individuare in via ultimativa la seduta di definizione della pratica, fatta salva la possibilità di chiedere motivate proroghe). Tuttavia, con successiva delibera del 21 settembre 2005, abbandonata l’idea dell’intervento regolamentare, s’è rimessa alle singole commissioni l’individuazione dei termini dei relativi procedimenti, con espressa statuizione dell’irrilevanza esterna degli stessi. Allo stato, al di là delle tempistiche dettate per il procedimento disciplinare (di cui al d.lgs. n. 109/06), parrebbe che l’unica norma sui termini sia l’art. 42 del nuovo Regolamento interno del 26 settembre 2016, in tema di trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale (attuato con circolare del 28 luglio 2017 – art. 4), probabilmente per affinità (in termini di sostanziale incidenza) dei provvedimenti definitori dei due diversi procedimenti.
Il CSM, con la succitata risoluzione del ’93, ha reputato non estensibili le disposizioni sul responsabile del procedimento (artt. 4 ss., l.n. 241/90), trattandosi di disciplina concepita per il modello tipico dell’organizzazione amministrativa, caratterizzata da rapporti interni di sovraordinazione o di vera e propria gerarchia tra il dirigente dell’unità organizzativa e i dipendenti alla medesima addetti, tutti peraltro legati alla Pubblica Amministrazione da un rapporto d’impiego.
Ben diversi – s’è detto – sono invece il tessuto e l’organizzazione del CSM. I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio in posizione di parità. Il che vale anche per i presidenti delle commissioni, cui competono soltanto poteri di formazione dell’ordine del giorno, di convocazione e di distribuzione del lavoro. L’attività nell’ambito dei lavori consiliari è, inoltre, sempre di tipo collegiale, non avendo il relatore neppure per gli atti istruttori il potere di adottare determinazioni di sorta. Fondate obiezioni, che tuttavia privano il singolo di un ben preciso interlocutore, quale unico referente del Consiglio.
In tema di partecipazione (artt. 7-13, l.n. 241/90), si ritengono pacificamente applicabili gli artt. 7 (sulla comunicazione di avvio del procedimento), 9 (sull’intervento nel procedimento, purché fondato su situazioni differenziate, di diritto soggettivo o interesse legittimo) e 10-bis (sul c.d. preavviso di rigetto, non contemplato dalla delibera, siccome di successivo conio, ma riconosciuto da consolidata giurisprudenza amministrativa: cfr. Tar Lazio – Roma, sez. I, n. 3265/07). Diversamente, è parso (correttamente) incompatibile con le funzioni consiliari, dal contenuto non negoziabile, l’art. 11, in materia di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento. Parimenti non applicabile s’è reputata la disciplina sulla semplificazione amministrativa (artt. 14-21), tra cui il modulo procedimentale della conferenza di servizi, siccome precipuamente destinata alla sola Pubblica amministrazione in senso proprio. In particolare, in tema di silenzio assenso (art. 20), il CSM, con successiva risoluzione del 18 ottobre 2009, ha escluso la generale applicabilità della formula semplificatoria all’attività consiliare (nonostante le modifiche apportate dal Legislatore del 2005, in ragione – nuovamente – dell’estraneità dell’organo di autogoverno alla pubblica amministrazione), salve espresse previsioni (come, ad esempio, in materia d’incarichi extragiudiziari, prevedendo la circolare n. 22581 del 9 dicembre 2015, all’art. 18, l’eventuale definizione mediante silenzio significativo dei relativi procedimenti autorizzatori).
Si registra un’aumentata sensibilità nel tempo anche in tema di diritto di accesso ai documenti amministrativi (corrispondenti artt. 22-28, l.n. 241/90). L’art. 18 del Regolamento interno del 6 aprile 1988 (primo intervento normativo sul punto) contemplava unicamente: il rilascio di copia dei verbali delle sedute pubbliche del plenum, a richiesta di chiunque vi avesse un giustificato motivo, su autorizzazione del Comitato di Presidenza; l’ostensione dei verbali delle sedute del Consiglio, ove non pubbliche, e delle Commissioni soltanto ai magistrati che, a giudizio della competente Commissione o del Consiglio (in caso di mancata maggioranza sul punto), vi avessero interesse; il rilascio, da parte del Comitato di Presidenza, di copia degli atti acquisiti o formati nel corso dei procedimenti consiliari, definiti in seduta pubblica, a richiesta di chiunque (nuovamente) vi avesse giustificato motivo. Si trattava, evidentemente, di una tutela assolutamente contenuta del diritto alla trasparenza dell’agire consiliare. Così, preso atto delle sopravvenienze normative nonché d’incalzanti pronunzie giurisprudenziali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2093), si è proceduto a radicale riforma dell’istituto con delibera del 5 dicembre 2012, dal contenuto sostanzialmente trasposto nell’art. 33 del nuovo Regolamento interno del settembre 2016. Come illustrato nella delibera del 2012, la disposizione di nuovo conio disciplina due distinti profili, il diritto alla pubblicità dell’azione del CSM e il diritto di accesso in senso proprio. Al primo si riferisce il comma 1, che sancisce il diritto di tutti di ottenere copia o visione dei verbali delle sedute pubbliche del Consiglio e delle delibere consiliari, anche adottate dalle Commissioni, ove siano assunte in seduta pubblica, che rende conoscibili alla generalità dei consociati il documento, in funzione della assicurazione di un controllo democratico diffuso sulla attività del CSM, previsto e garantito dal legislatore, in modo non dissimile da quanto avviene, ad esempio, per la fase dibattimentale dei procedimenti penali. I restanti commi dell’art. 33 concernono, invece, il diritto di accesso in senso stretto. Al comma 2 sono poste le limitazioni all’ostensione, involgenti documenti coperti da segreto per espressa previsione legislativa; che riguardino sicurezza personale dei magistrati, sfera sanitaria e sfera privata delle persone; documenti attinenti a procedimenti penali, disciplinari o concernenti l’iscrizione di ricorsi amministrativi, fatta eccezione per la fase pubblica dei procedimenti. È comunque garantito ai richiedenti l’accesso e il rilascio di copia dei documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi giuridici. La prevalenza dell’accesso difensivo sul diritto alla riservatezza è verificata caso per caso e in concreto rispetto alle effettive esigenze di difesa prospettate dal richiedente l’accesso (commi 3 e 4). È poi delineata la disciplina relativa all’accesso ai verbali delle Commissioni e agli atti e documenti formati o acquisiti nel corso dei procedimenti consiliari, distinguendosi tra procedure definite o meno. Nel primo caso (comma 5), la visione o il rilascio di copia sono accordati, su autorizzazione del Comitato di Presidenza (previo parere della Commissione), a tutti i soggetti (privati e pubblici), compresi quelli portatori d’interessi diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l’accesso. La visione o il rilascio di copie delle delibere adottate in seduta segreta non sono consentiti nei casi in cui la segretazione sia stata disposta per esigenze di tutela della sicurezza di beni o persone, salvo che la richiesta provenga dal magistrato interessato al procedimento. Contro il diniego di autorizzazione, anche parziale, è ammesso reclamo al Consiglio che delibera entro trenta giorni (comma 5). Per i procedimenti non ancora definiti, la visione o il rilascio di copia dei verbali delle Commissioni nonché degli atti e dei documenti formati o acquisiti nel corso del procedimento sono autorizzati dal Comitato di Presidenza, previo parere della Commissione, esclusivamente nel caso in cui la conoscenza o la copia di tali atti siano strettamente necessari al richiedente per far valere propri diritti o interessi in giudizio. Contro ogni diniego, anche parziale, di autorizzazione è ammesso reclamo al Consiglio, che delibera entro trenta giorni (comma 6). È evidente la compressione del diritto d’accesso (riconosciuto soltanto ove finalizzato alla tutela giurisdizionale) in ipotesi di procedimenti non ancora conclusi.
Esaurito il tema delle facoltà accordate nella fase procedimentale di adozione dell’atto (che s’è detto sostanzialmente amministrativo), residua l’analisi del versante giurisdizionale delle tutele riconosciute avverso la statuizione consiliare. L’impiego del plurale è d’obbligo, essendovene più d’una: amministrativa generale di legittimità (art. 17, comma 2, l.n. 195/58), amministrativa esclusiva sul rapporto d’impiego (art. 133, comma 1, lett. i, codice del processo amministrativo) e ordinaria, rimessa alle sezioni unite della Corte Suprema di Cassazione, sui provvedimenti disciplinari (art. 17, comma 3, l.n. 195/58).
Oggetto del presente approfondimento sarà la prima, ovvero quella prevista a fronte di provvedimenti che si assumano lesivi di interessi legittimi (pretensivi o oppositivi). L’analisi deve necessariamente prendere le mosse dal dettato dell’art. 17, comma 2, l.n. 195/58, come modificato nel tempo (con particolare riferimento all’interpolazione operata con d.lgs. n. 104/10, di approvazione del codice del processo amministrativo).
L’originaria formulazione attribuiva al Consiglio di Stato la competenza a conoscere della legittimità degli atti del CSM, poi assegnata al TAR Lazio con l.n. 74/90. Si tratta, come chiarito con l’art. 135 del codice del processo amministrativo, di competenza funzionale e inderogabile, come già da interpretazione dominante, fatta salva dalla Corte costituzionale (sentenza n. 189 del 22 aprile 1990), che ha reputato non irragionevole la deroga al foro di servizio, in considerazione della particolare natura del CSM (organo di rilievo costituzionale); dello status del magistrato, che lo distinguerebbe da tutti i dipendenti pubblici; infine, dell’esigenza di assicurare uniformità della giurisprudenza fin dalle pronunce di primo grado. In dottrina si sono da subito manifestate perplessità sull’attribuzione della cognizione al Giudice amministrativo, derivanti dalla concentrazione in capo allo stesso della giurisdizione sulle controversie riguardanti gli appartenenti tanto alla magistratura ordinaria quanto a quella amministrativa (come noto, di qualsiasi provvedimento concernente il giudice speciale, anche di contenuto sanzionatorio, s’è sempre affermata la natura squisitamente amministrativa: cfr. Cass. civ., sez. un., 29 settembre 2000, n. 1049; Cass. civ., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5126; Cass. civ., sez. un., 20 aprile 2004, n. 7585).
Vi sarebbe, poi, il rischio di un “intreccio contraddittorio”: il Giudice amministrativo, le cui decisioni sono pur sempre ricorribili in Cassazione, anche se per soli motivi di giurisdizione (art. 111 Cost.), è in condizione – s’è detto – di incidere sull’ordinamento giudiziario, compreso il suo organo di vertice, eventualità tutt’altro che remota, giacché gran parte del contenzioso attiene al conferimento degli uffici direttivi e, già nel 2007, l’intervento del giudice amministrativo (nei due gradi di giudizio) ha riguardato proprio la nomina del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Venendo all’oggetto del giudizio, inizialmente si accordava la facoltà d’impugnazione del solo decreto di recepimento della delibera consiliare, reputandosi quest’ultima meramente preparatoria e, per quanto vincolante per l’Esecutivo, ancora priva di effetti giuridici esterni. S’è, poi, fatta strada la tesi della diretta impugnabilità dell’atto del CSM, nel caso in cui difettasse, per natura dello stesso, una decretazione governativa di recepimento. Ci si riferisce, in particolare, alle statuizioni di verifica dei titoli di ammissione dei componenti togati del Consiglio (art. 20, n. 1, l.n. 195/98), sulle quali il Consiglio di Stato, con pronuncia n. 567 del 18 maggio 1971, ha rivendicato la propria cognizione diretta (onde evitare un vuoto di tutela, incompatibile col dettato dell’art. 24 Cost.), poi assegnata alla giurisdizione del Giudice ordinario, siccome concernente posizioni di diritto soggettivo pieno (cfr. Cass. civ., sez. un., 7 ottobre 1972, n. 2918). S’è, inoltre, affermata la facoltà d’immediata impugnazione della delibera consiliare, pur in mancanza di formale decreto, ove comunque messa in esecuzione (così Tar Lazio, sez. I, 4 febbraio 1976, n. 69). Infine, con la pronuncia Tar Lazio, sez. I, 8 giugno 1983, n. 491, è stata definitivamente sostenuta la diretta impugnabilità di qualsiasi statuizione consiliare, sostenendosi (addirittura) la natura soggettivamente amministrativa del CSM, per quanto non collocato nell’ambito della pubblica amministrazione intesa come insieme delle autorità che fanno capo al Governo e che da questo dipendono (orientamento confermato in Cass. civ., sez. un., 21 febbraio 1997 n. 1617).
Quanto alle parti processuali, la legittimazione attiva è riconosciuta a chi possegga lo status di magistrato ordinario, inclusi i giudici di pace e i giudici onorari (ritenuti comunque appartenenti all’ordine giudiziario) nonché i magistrati in tirocinio, limitatamente gli atti di nomina che attribuiscono lo status di magistrato. La legittimazione passiva era, inizialmente, attribuita al solo Ministero, in aderenza alla ricostruzione teorica che vedeva nel decreto ministeriale l’atto conclusivo del procedimento amministrativo e nella delibera del Consiglio superiore della magistratura un atto meramente endoprocedimentale (sprovvisto di autonomia funzionale amministrativa). Tuttavia, con la citata pronunzia Cass. SSUU n. 1617/97, s’è evidenziato che “nessuna norma espressa attribuisce la legittimazione processuale al solo Ministero di Grazia e Giustizia. In considerazione, anzi, sia della posizione costituzionale del Consiglio suddetto, sia del fatto che al Ministero di Grazia e Giustizia non è consentito di sindacare il contenuto delle delibere consiliari, sia - infine - del fatto che le deliberazioni consiliari sono immediatamente impugnabili, la legittimazione processuale del Consiglio Superiore della Magistratura nei giudizi amministrativi concernenti le sue delibere non può che essere riconosciuta, quanto meno come legittimazione in via sostitutiva. Se così non fosse, dalla conseguente posizione di soggezione al Ministro in ordine alla difesa giudiziale dei propri provvedimenti non potrebbero non derivare, al Consiglio, significative menomazioni alla sua autonomia”. Anche in materia di appello avverso sentenze sfavorevoli si è riconosciuta legittimazione concorrente, peraltro con facoltà di ricorso, per il CSM, ad avvocati del libero Foro (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2006, n. 2227).
In merito alla cognizione, come sancito all’art. 7, comma 4, codice del processo amministrativo, “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”, ossia le due azioni di annullamento (per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere: cfr. art. 21-octies, l.n. 241/90, nonché art. 29 del codice del processo amministrativo) e condanna (art. 30, citato codice).
In ordine al profilo caducatorio, rilevano essenzialmente i vizi di legittimità della violazione di legge e dell’eccesso di potere. Quanto al primo, integrano gli indefettibili parametri di valutazione sia la normativa di rango primario che la produzione paranormativa del CSM, quale autovincolo all’attività dello stesso. È, tuttavia, il positivo riscontro del secondo (ossia dell’eccesso di potere) – quale patologia tipica dell’agire discrezionale – a destare maggiori perplessità e preoccupazioni, per l’insopprimibile esigenza di evitare indebiti travalicamenti dei limiti del sindacato di mera legittimità assegnato al Giudice amministrativo. Invero, come reiteratamente affermato, “il giudice non può sostituire proprie valutazioni a quelle dell’organo di governo della magistratura, sicché una valutazione di questo, se opinabile ma sorretta in punto di fatto da adeguata istruttoria ed esatta rappresentazione della realtà, è perciò stessa sottratta al sindacato di legittimità, perché l’opinabilità delle valutazioni e delle conseguenti scelte costituiscono il proprium dell’esercizio della discrezionalità” (così Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2006, n. 10835). La violazione della regola di riparto, tra azione amministrativa e controllo di legittimità, determina eccesso di potere giurisdizionale (censurabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 91 del codice del processo amministrativo), come lucidamente affermato in Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2015, n. 19787, a mente della quale “l’individuazione dell’eccesso di potere giurisdizionale corre lungo la linea di discrimine tra l’operazione intellettuale consistente nel vagliare l’intrinseca tenuta logica della motivazione dell’atto amministrativo impugnato e quella che si sostanzia invece nello scegliere tra diverse possibili opzioni valutative, più o meno opinabili, inerenti al merito dell’attività amministrativa di cui si discute: altro è l'illogicità di una valutazione, altro è la non condivisione di essa”, sicché “il Consiglio di Stato travalica i limiti esterni della giurisdizione qualora, nel giudizio avente ad oggetto la legittimità della corrispondente delibera del primo, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto del provvedimento e ne apprezzi la ragionevolezza – così sovrapponendosi all’esercizio della discrezionalità del CSM, espressione del potere, garantito dall’art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura – piuttosto che limitarsi a sindacarne la legittimità, anche a mezzo del vizio dell’eccesso di potere”.
V’è, poi, il tema dell’esecuzione (obbligatoria) delle decisioni del Giudice amministrativo. All’art. 17, comma 2, l.n. 195/58, come modificato con d.lgs. n. 104/10, è espressamente contemplato il giudizio d’ottemperanza, destinato a concludersi, in ipotesi di accoglimento del ricorso introduttivo, con l’assegnazione al CSM di un termine per provvedere. Si tratta, tuttavia, di un’ottemperanza mitigata (per inapplicabilità di alcune delle previsioni di cui all’art. 114 del codice del processo amministrativo), non potendosi, infatti, prescrivere le modalità dell’ordinato adempimento (anche mediante determinazione del contenuto del provvedimento o, in alternativa, emanazione dello stesso in luogo dell’autorità consiliare, come ordinariamente consentito). Sulla piena compatibilità della stessa con le garanzie di autonomia del CSM si veda Corte cost. 6 settembre 1995, n. 419, ove s’afferma che “una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta, pur se adottato da un organo avente rilievo costituzionale qual è il CSM. In questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria”, pronuncia con la quale è stata pure riconosciuta la legittimità della designazione di un commissario ad acta (nel caso di specie l’allora Ministro di grazia e giustizia). Orientamento ribadito dalla successiva giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1551).
Sempre in tema d’ottemperanza s’è, da ultimo, affermato che “non è affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale la decisone adottata dal Consiglio di Stato, all’esito di giudizio di ottemperanza, con lo quale lo stesso si pronunci su rinnovate valutazioni della P.A. prospettate, al contempo, come elusive del giudicato ed innovative – giacché fondate su circostanze sopravvenute – rispetto a quelle già ritenute illegittime dal giudice amministrativo” (Cass. civ., sez. un., 20 giugno 2017, n. 15275), per l’esigenza di concentrazione nonché di celere e definitiva composizione della controversia amministrativa. D’altronde, come sostenuto in Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3259, dopo un giudicato di annullamento, dal quale derivi per l’amministrazione il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo, “sussiste l'obbligo per la stessa di esaminare l’affare nella sua interezza sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati, essendo fondamentale impedire che l’amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli al ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato”, onde garantire adeguata effettività alle sentenze del Giudice amministrativo, contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale nonché evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale stessa (così già Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2). Nel solco tracciato dalle menzionate pronunzie, s’è da ultimo affermato che “tenore letterale delle norme in materia d’ottemperanza e ratio dell’istituto inducono a concludere nel senso dell’ammissibilità e, in ogni caso, della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 codice del processo amministrativo, pur se non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato, non potendosi ravvisare qualsivoglia preclusione o decadenza processuali in conseguenza della mancata impugnazione” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 giugno 2016, n. 2769).
Intimamente connesso risulta, infine, il tema degli effetti dell’annullamento delle decisioni consiliari (in materia di dirigenza) sulla persistente legittimazione del dirigente nonché della validità degli atti da questi adottati (dalla nomina e successivamente alla pronuncia demolitoria).
Secondo il Giudice amministrativo (così TAR Lazio – Roma, sez. I, 26 maggio 2014, n. 5571), dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (quand’anche solo provvisoriamente esecutiva) il destinatario del provvedimento di nomina cessa dalle funzioni e dall’ufficio (con applicazione della disciplina sulla supplenza), senza necessità di ulteriori provvedimenti esecutivi. La validità degli atti medio tempore emanati è fatta salva, nonostante l’efficacia ex tunc dell’annullamento, mediante ricorso alla teoria del funzionario di fatto: “allorché venga annullata in sede giurisdizionale la nomina del titolare di un organo, l’accertata invalidità dell’atto di investitura non ha di per sé alcuna conseguenza sugli atti emessi in precedenza, tenendo conto che quando l’organo è investito di funzioni di carattere generale, il relativo procedimento di nomina ha una sua piena autonomia, sicché i vizi della nomina non si riverberano sugli atti rimessi alla sua competenza generale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2008, n. 2407).
Diversamente opina il CSM, come da risposta a quesito del 16 ottobre 2013: il titolare dell’incarico direttivo non è tenuto a dare esecuzione spontanea e autonoma alla sentenza del giudice amministrativo, in quanto egli non dispone del rapporto di servizio in cui è incardinato; occorre sempre un provvedimento amministrativo che, se del caso, rimuova il titolare dall’incarico e lo assegni ad altro; il titolare di un ufficio è comunque tenuto ad assicurare la continuità dello stesso, di cui è stato investito, sino a quando l’amministrazione, che ad esso l’ha assegnato, non provveda diversamente, rimuovendolo ed attribuendogli altro incarico; nelle more in cui il CSM provveda a riesercitare il potere, detto magistrato, nella costanza del rapporto di impiego pubblico e in ottemperanza ai doveri ad esso connessi, è tenuto a continuare ad esercitare le funzioni conferite con la delibera annullata, sicché gli atti successivamente emessi non possono considerarsi inesistenti ovvero radicalmente nulli (venendo al più in rilievo la figura del funzionario privo di investitura) né sono ravvisabili ipotesi di usurpazione di pubbliche funzioni.
È evidente la frizione tra le opposte letture offerte, come d’altronde già in tema d’ottemperanza, trattandosi della difficile composizione delle contrapposte esigenze, a matrice costituzionale, della salvaguardia della piena autonomia dell’organo di autogoverno e dell’effettività delle tutele giurisdizionali riconosciute al singolo, quale tema di assoluta attualità e (temo) di non prossima soluzione.
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme, in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM; I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio; I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura; Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici.
Tutela effettiva contrattuale “individuale”: le c.d. nullità di protezione[1]
di Enzo Vincenti*
Sommario: 1. Premessa e inquadramento del problema - 2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea - 3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede) - 4. Conclusioni.
1. Premessa e inquadramento del problema
Nell’ambito di una più ampia riflessione che investe i profili “collettivo” e “individuale” del principio di effettività della tutela in ambito contrattuale e dei correlati poteri del giudice, le considerazioni che seguono atterranno soltanto al secondo degli anzidetti profili.
Il settore in cui detto principio (o anche meta-principio di orientamento) è potuto maturare e consolidarsi, secondo un’evoluzione costante, sebbene non sempre lineare, è certamente quello consumeristico, che, nella sua configurazione di tutela individuale, ha rinvenuto il proprio referente privilegiato e ormai tradizionale anzitutto nella materia, di matrice europea, delle clausole abusive (note nel nostro ordinamento come clausole vessatorie), di cui alla datata direttiva 93/13 (ma di recente modificata dalla direttiva 2161/2019/UE, in un’ottica di pubblic enforcement); ambito nel quale, poi, ha trovato alimento e definizione l’apparato rimediale di tutela e, dunque, la perimetrazione dei poteri esercitabili dal giudice.
È, in particolare, il territorio – forse non ancora del tutto sminato – delle nullità di protezione (di cui, anzitutto, all’art. 36 del codice del consumo, sulla base legale dell’art. 6 della citata dir. 93/13), la cui declinazione al plurale non deve, però, ingannare sull’aspirazione di quella frammentazione casistica di fattispecie disseminate in più settori, secondo le peculiari esigenze dello specifico mercato di riferimento, a strutturarsi in categoria di sistema – quella della nullità di protezione al singolare -, così da entrare anch’essa a far parte della dogmatica tradizionale delle invalidità negoziali, e ciò in base a taluni caratteri unificanti.
Caratteri che la dottrina (o meglio parte di essa, perché altra parte contrasta decisamente questa aspirazione unitaria) ha individuato essenzialmente nei tratti della “necessaria parzialità”, nella “legittimazione relativa”, nella “rilevabilità d’ufficio” e, rispetto a quest’ultimo carattere, nei corollari della “inefficacia relativa ab origine” del contratto e della sua “sanabilità” ad opera del solo consumatore o, meglio, del contraente debole.
E questo perché, come accennato, la vocazione della nullità di protezione è di farsi categoria che va oltre il perimetro della tutela propriamente legata all’abusività della clausole contrattuali imposte dal professionista a danno del consumatore, per farsi paladina di una situazione oggettivabile, ossia della debolezza contrattuale, al fine di ristabilire a valle l’equilibrio sostanziale dell’accordo che difetta in origine proprio per l’asimmetria di posizioni (dovuta, per lo più, a gap informativi, ma non solo) e che ritroviamo anche – in via solo esemplificativa - nella disciplina sull’abuso di dipendenza economica (art. 9, comma 1, l. 192/1998) o in quella sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 7, comma 1, d.lgs. n. 231/2002).
Di quell’opera sistematrice può, dunque, dirsi in qualche modo concorrente la giurisprudenza della Cassazione, che, con le note sentenze gemelle del 2014 delle Sezioni Unite (n. 26242 e n. 26243), prendendo in considerazione precipuamente il carattere della rilevabilità officiosa, ha inteso ravvisare anche nelle nullità di protezione il carattere della virtualità, proprio perché “species” del più ampio “genus” delle nullità tradizionali, accomunate tutte da obiettivi di tutela trascendenti gli interessi meramente privati, per guardare le prime, quelle di protezione, a valori fondamentali come il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), riconoscendo che lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese.
Un percorso che trova ulteriore maturazione con la più recente sentenza delle Sezioni Unite in tema di “nullità selettive”, la n. 28314 del 2019, nella quale – in quella stessa prospettiva di tutela valoriale - si ribadisce l’esistenza di uno statuto proprio della nullità di protezione, un regime giuridico unitario, a partire dalla legittimazione riservata al consumatore (o, meglio, al cliente in ambito finanziario e bancario) e dalla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, ma a precipuo vantaggio della parte debole del negozio, così da evidenziare una “vocazione funzionale” dell’istituto alla correzione parziale del contratto, ossia limitatamente alle parti che pregiudicano il contraente che in via esclusiva può far valere il vizio.
Una “vocazione funzionale” che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 898 del 2018, avevano già ravvisato, del resto, nella forma del contratto quadro di investimento, ritenuto quindi valido anche se “monofirma”.
E’ un profilo, quello dello statuto unitario prefigurato dalle Sezioni Unite del 2014 e predicato esplicitamente dalle Sezioni Unite del 2019 (e ribadito poi anche dalla successiva ordinanza della Sesta-I n. 13217 del 17 maggio 2021), di particolare problematicità, oggetto di un serrato dibattito e di critica da una parte della dottrina. Ed è un profilo su cui non mancherà qualche breve riflessione più avanti.
2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
È certo, però, che il percorso così intrapreso si è avvalso dell’apporto, decisivo, del materiale giuridico sovranazionale e, specialmente, dei principi enucleati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, di cui, pertanto, è necessario dare conto, seppure in estrema sintesi, al fine di saggiare di come il dialogo con la Corte di cassazione si sia tradotto, in ambito nazionale, nella materia contrattuale.
Principi, quelli della Corte di Lussemburgo, che si sono evoluti diacronicamente secondo una direttrice guidata dal consueto pragmatismo che connota gli interventi di quel giudice, spesso a geometria variabile, anche perché l’azione comunitaria nella materia contrattuale si sviluppa eminentemente in base ad esigenze, concrete, di politica economica piuttosto che farsi tentare da una compiuta e ineccepibile architettura di sistema.
È, come noto, una politica orientata anche da dettami ordoliberisti, che mirano all’efficienza del mercato pure attraverso l’eliminazione di quelle situazioni di debolezza che ne minano il corretto funzionamento.
Sicché, la Corte di giustizia è giunta solo in un secondo momento a tradurre in potere-dovere (a partire dalla sentenza Mostaza Claro dell’ottobre 2006) la mera facoltà del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di protezione (come enunciato con la sentenza Oceano del giugno 2000), affermando poi a chiare lettere (con la sentenza Asturcom dell’ottobre 2009 e più di recente con la sentenza OPR Finance del marzo 2020) che l’art. 6 della direttive 93/13 declina “un canone di ordine pubblico di protezione”, per l’appunto, fondativo, attraverso lo strumento negoziale, di “una politica dirigistica di ricerca dell’equilibrio giuridico nei rapporti negoziali non conclusi fra imprenditori”.
Di qui, poi (con la sentenza Pannon del giugno 2009) la correlazione del principio di obbligatorietà del rilievo giudiziale officioso della clausola abusiva con il dovere, del medesimo giudice, di interpellare il consumatore sugli esiti di quel rilievo, ossia se costui intenda opporsi alla declaratoria di nullità della clausola vessatoria.
Sebbene, poi, il Giudice europeo (con la sentenza Banif Plus del febbraio 2013) abbia precisato che, una volta che il consumatore sia stato informato dei propri diritti (il c.d. diritto all’interpello), il giudice nazionale non è tenuto ad attendere che lo stesso esprima in modo esplicito la propria di volontà di ottenere la caducazione della clausola abusiva, ma può comunque procedere a trarre le conseguenze derivanti da tale accertamento.
E, in tema di conseguenze dell’accertamento della vessatorietà, appare particolarmente significativo l’arresto della sentenza Gutiérrez Naranjo (del dicembre 2016) che – nell’ottica di effettività piena della protezione del consumatore, la quale postula che il rimedio invalidante della clausola abusiva presenti un carattere di deterrenza seria e, quindi, assegni particolare forza al profilo di “non vincolatività” della clausola stessa - ha ritenuto che soltanto il giudicato pregresso, e non altre ragioni giustificative, avrebbe potuto inibire la ripetibilità delle somme indebitamente versate in base alla clausola di cd. tasso minimo degli interessi su mutuo ipotecario e così intaccare l’altro valore preminente, ossia quello dell’effettività della tutela.
Trova, quindi, specifico rilievo il principio della intangibilità della decisione di un giudice a presidio del valore preminente della certezza del diritto; principio ribadito con la sentenza Banco Primus del gennaio 2017 nella sua declinazione di intangibilità del giudicato esplicito sulla validità delle clausole contrattuali.
In quest’ambito sono maturate, altresì, le conclusioni dell’Avvocato Generale Tanchev (in data 15 luglio 2021) sulle questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di giustizia dal Tribunale di Milano circa il divieto per il giudice dell’esecuzione di rimettere in discussione il giudicato implicito sulla vessatorietà di clausole contrattuali formatosi per la mancata opposizione di un decreto ingiuntivo.
L’Avvocato Generale ha ritenuto che un siffatto divieto contrasti con l’art. 6 della direttiva 93/13, assumendo, dunque, che soltanto una valutazione esplicita e sufficientemente motivata della vessatorietà di una clausola contrattuale possa fondare il principio di intangibilità del giudicato nell’ambito della tutela consumeristica.
Se la decisione della Corte fosse nel senso auspicato dalle anzidette conclusioni, lo statuto della nullità protettiva potrebbe arricchirsi di un’ulteriore colorazione.
E ancora, rivestono indubbia importanza, soprattutto per la perimetrazione dei poteri officiosi del giudice, gli interventi della Corte di giustizia in materia di abusività delle clausole che definiscono il meccanismo di fissazione del tasso d’interesse variabile in un contratto di prestito concluso da un consumatore.
Con la sentenza Banco di Santader dell’agosto 2018, il Giudice di Lussemburgo ha ritenuto conforme alla direttiva 93/13 sia la qualificazione, ad opera del giudice nazionale, della natura abusiva di una clausola che impone al consumatore in mora il pagamento di interessi al tasso superiore di oltre due punti percentuali rispetto a quello degli interessi corrispettivi previsto dal contratto di mutuo, da ritenersi come tale “indennizzo di importo sproporzionatamente elevato”; sia l’intervento soppressivo, sempre da parte di quel giudice, di una siffatta clausola abusiva, pur mantenendo in vita la maturazione degli interessi corrispettivi previsti dal medesimo contratto.
E questa sentenza ha trovato particolare enfasi nella decisione assunta dalle Sezioni Unite in tema di interessi usurari nel contratto di mutuo (sentenza n. 19597 del 18 settembre 2020), che ha ritenuto applicabile anche agli interessi moratori la disciplina antiusura, con possibilità di trarre il tasso soglia anche dai decreti ministeriali di cui alla legge n. 108 del 1996.
La sentenza n. 19597 del 2020 ha, quindi, affermato che, accertata l’usura, troverà applicazione il comma secondo dell’art. 1815 c.c., con la conseguenza che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell'art. 1224, comma primo, c.c.: e in ciò, per l’appunto, è dato riconoscere l’adesione al secondo corno della anzidetta decisione di Lussemburgo.
La decisione delle Sezioni Unite ha, poi, precisato che nei contratti conclusi con i consumatori l’interessato può scegliere tra questo rimedio e la nullità, e quindi l’eliminazione, della clausola abusiva in base agli artt. 33 e 36 del codice del consumo: e a tal fine è richiamato l’insegnamento che si desume, in particolare, dalla sentenza Unicaja Banco del gennaio 2015.
Il tema dei poteri del giudice ritorna in modo significativo in due orientamenti che sembrano assumere posizioni non certo collimanti sulla portata dei poteri di integrazione contrattuale ad opera del giudice, alimentando un dibattito – che è attuale anche nel nostro ambito nazionale – sulla discrezionalità giudiziale interferente con l’autonomia privata.
Con la sentenza Dziubak dell’ottobre 2019, la Corte di giustizia, per un verso, ha ritenuto che la modifica dell’oggetto principale del contratto non consenta un’operazione di eliminazione della sola clausola illecita, ma comporti l’invalidazione dell’intero contratto, sempre tenuto conto dell’interesse del contraente debole, come dal medesimo rappresentato.
Per altro verso, la stessa decisione (ma in ciò ribadendo un indirizzo già maturato) ha delimitato il potere del giudice reputando attingibile il contenuto integrativo del contratto – in luogo della clausola abusiva - dalle sole disposizioni di diritto interno di natura suppletiva o applicabile in caso di accordo tra le parti, ossia da quelle regole standard poste dal legislatore nazionale in forza delle quali si presume che venga ristabilito l’equilibrio tra l’insieme dei diritti e degli obblighi delle parti contrattuali. Operazione che, invece, si è ritenuta non ammissibile in presenza di disposizioni nazionali di carattere generale di cui non è dato predicare quella presunzione di non abusività, come può accadere con l’integrazione che sia effettuata in applicazione del principio di equità o in base agli usi.
L’orientamento espresso dalla sentenza Dziubak suggerisce una fulminea digressione ancora sulla sentenza n. 19597 del 2020 in tema di interessi usurari: l’aver assunto le Sezioni Unite a paradigma del calcolo del tasso soglia i decreti ministeriali – integrativi della disposizione di legge – è soluzione che si mostra coerente proprio con il principio della sostituzione della clausola vessatoria con norma suppletiva, ossia con un parametro che dia contezza di una ponderazione di non abusività e non che rimetta al giudice una conformazione secondo equità del contratto.
Un diverso approccio, invece, sembra delinearsi nella sentenza Banca B. SA. del 25 novembre 2020, nella quale il Giudice di Lussemburgo, in controtendenza con i propri precedenti, giunge a dilatare sensibilmente la discrezionalità del giudice quanto ai poteri di intervento sul contenuto contrattuale. Questo perché, in quel caso, la Corte di giustizia ha affermato che, ove il contratto non possa sussistere dopo la soppressione della clausola abusiva gravemente lesiva per il consumatore, in quanto non emendabile mediante norme suppletive, il giudice nazionale deve adottare, tenendo conto del complesso del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore, incluso l’invito alle parti a rinegoziare il metodo di calcolo del tasso d’interesse.
Più di una voce, in dottrina, ha avanzato dubbi sulla coerenza di tale approdo con il consolidato orientamento pregresso della stessa Corte di giustizia, esibendo una certa preoccupazione per una operazione di ortopedia giudiziale in contrasto con l’autonomia privata e ritenuta eccedente la stessa policy giurisprudenziale di interventi a geometria variabile, che abbiamo visto essere un topos del giudice sovranazionale.
3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede)
Al di là degli esiti di un tale dibattito, questi ultimi rilievi consentono di affrontare in medias res l’indagine sul più recente posizionamento della giurisprudenza di legittimità, di come essa abbia dato concretezza al precipitato cardine del principio di effettività della tutela in ambito negoziale, ossia all’equilibrio sostanziale tra i contraenti, e quali istituti siano stati messi in campo nel modulare un tale equilibrio, che investe il contratto nel suo complesso, sia come atto, che come rapporto.
In questo contesto, un luogo tematico privilegiato è certamente quello delle nullità selettive, che ha impegnato le Sezioni Unite con la sentenza n. 28314 del 2019, innanzi menzionata.
L’approdo cui giungono le Sezioni Unite esibisce un armamentario rimediale che mira ad un equilibrio contrattuale reale e, soprattutto, complessivo, tale da saggiare sino in fondo la consistenza della posizione del contraente debole per antonomasia (il consumatore/cliente), sino a disvelarne possibili abusi, anch’essi ritenuti suscettibili, dunque, di attivare interventi di riequilibrio tra i contraenti.
I tratti fisiologici della vicenda, che, come detto, si lega ad una nullità per difetto di forma scritta del contratto-quadro di investimento, sanzionata dall'art. 23 del TUF, portano anzitutto ad affermare – in coerenza con la giurisprudenza sovranazionale – la legittimazione riservata dell'investitore, per cui gli effetti non solo processuali, ma anche sostanziali dell'accertamento della nullità opereranno soltanto a suo vantaggio.
Il che sta a significare anche che non varranno le regole sulle reciproche restituzioni, né quelle sull’indebito oggettivo in favore dell’intermediario.
Si è fatto cenno in precedenza alle critiche dottrinali che investono, in definitiva, la stessa predicabilità del regime giuridico unitario delle nullità di protezione, che la decisione delle Sezioni Unite in esame ha inteso dedurre segnatamente dal paradigma dell’art. 36 del codice del consumo.
L’estensione della legittimazione riservata dell’investitore anche agli effetti sostanziali dell’accertamento della nullità chiama in causa la categoria, innanzi evocata, della inefficacia ab origine relativa, che, come detto, è per una parte della dottrina corollario della rilevabilità officiosa, ma il cui legame con la previsione di “non vincolatività” della clausola abusiva – come si esprime l’art. 6 della direttiva 93/13 e che serve ai fautori proprio per accreditare l’istituto - non è reputato sufficiente da chi ritiene, invece, che gli effetti sostanziali dell’invalidità non siano una componente indefettibile di uno statuto generale della nullità protettiva e, a tal fine, debba, invece, aversi riguardo a quanto, di volta in volta, statuisce il diritto positivo.
A tal fine, si richiamano sostegno le previsioni testuali dell’art. 127 del TUB e dell’art. 167 del codice delle assicurazioni, là dove quest’ultima norma (che consente all'assicurato di trattenere gli indennizzi e le somme eventualmente corrisposte o dovute dall'impresa non autorizzata) è stata letta come una nullità “a vantaggio” però eccedente, ossia che va oltre la mera tutela della parte debole, per innescare un meccanismo sanzionatorio dell’impresa che non avrebbe dovuto operare sul mercato.
È evidente che un tale dibattito disvela ancora una volta quella tensione che si genera nel voler istituire – in settori (o meglio, mercati) differenti e, dunque, con discipline proprie, il cui tratto comune è l’esigenza, certamente valoriale, di tutelare la parte debole del rapporto contrattuale – una sorta di cinghia di trasmissione tra regola generale e regola speciale, là dove poi la regola di sintesi – in questo caso sulla riscrittura degli effetti dell’azione di nullità -, è confezionata proprio dalla giurisprudenza, secondo un ruolo nomopoietico che la stessa dottrina fa fatica ad assegnargli.
Il tema, lo sappiamo, è complesso e meriterebbe un diverso approfondimento e molti distinguo; ciò che, per ovvie ragioni, non è consentito in questa sede.
Tuttavia, una sintetica e non certo esauriente considerazione sembra possibile proprio alla luce degli orientamenti sopra sintetizzati della Corte di giustizia in materia e cioè che la “vocazione funzionale” delle nullità protettive, valorizzata dalle Sezioni Unite, possa operare in coerente rispondenza con il meta-principio dell’effettività della tutela se davvero, in applicazione del principio di settore – quello somministrato dall’art. 6 della direttive 93/13 –, l’equilibrio reale del contratto contenente le clausole abusive, che rifugge, in linea di principio, da un suo annullamento integrale, viene a realizzarsi secondo una prospettiva “a vantaggio” del consumatore, in ciò soltanto ristabilendosi la effettiva uguaglianza tra le parti ab origine insussistente.
Se è proprio questa la prospettiva che ha condotto le Sezioni Unite a prefigurare uno statuto delle nullità protettive giungendo – in sintonia con l’atteggiarsi del principio di effettività della tutela - ad una correlazione forte tra posizioni sostanziali e posizioni processuali delle parti contraenti, accreditando per l’una (l’investitore) e, al contempo, negando per l’altra (l’intermediario) determinati poteri all’interno del processo, su un diverso piano, sebbene interferente con quello appena richiamato, sembrano collocarsi le conseguenze del modus operandi processuale dell’investitore, là dove quest’ultimo, in ragione di quella legittimazione riservata e “a vantaggio”, abbia richiesto l’invalidazione soltanto di alcuni ordini di acquisto.
È questo il caso, dunque, che consente alla Cassazione di saggiare l’equilibrio sostanziale delle posizioni negoziali andando oltre la disciplina speciale, perché in campo entrano anche i referenti più generali che governano lo svolgimento dell’autonomia negoziale.
Infatti, malgrado il diritto positivo di settore abbia già individuato il soggetto tutelabile (ossia l’investitore, perché essenzialmente in una posizione di deficit informativo) e il rimedio tipico (e cioè la nullità di protezione), realizzando uno statuto non derogabile dall’autonomia privata, è il principio di buona fede e correttezza contrattuale, alimentato dai principi solidaristici di matrice costituzionale, che si ritiene possa operare trasversalmente e in modo tale da poter essere utilizzato per rimuovere un pregiudizio ingiustificato arrecato all’altra parte.
Trova, quindi, configurazione, nella costruzione delle Sezioni Unite, anche un obbligo di lealtà dell'investitore in funzione di garanzia per l'intermediario che abbia assolto i propri obblighi informativi, sicché quest’ultimo può opporre l'eccezione di buona fede se (e soltanto se) la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini conseguiti alla conclusione del contratto quadro.
In questo caso, il parametro della buona fede va oltre la caratterizzazione soggettiva dell’exceptio doli e necessita di modularsi sulla complessiva vicenda negoziale, venendo altrimenti a contrastare con il regime giuridico delle nullità di protezione la mera equivalenza tra la violazione di detto canone e l’uso selettivo delle nullità.
La valorizzazione di una siffatta prospettiva la si rinviene pure in ambiti diversi da quelli tradizionali della disciplina consumeristica, come ad esempio nella tutela del promissario acquirente di immobile da costruire assicurata dalla garanzia accessoria di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 1995 imposta al costruttore promittente venditore.
La nullità del contratto preliminare di vendita dell’immobile da costruire in assenza della prestazione da parte del costruttore di una fideiussione all’atto della stipula opera, secondo la sentenza n. 30555 del 22 novembre 2019, in base allo statuto proprio della nullità di protezione a vantaggio del solo promissario acquirente (principio più generale ribadito con la sentenza n. 19510 del 18 settembre 2020). Ma anche in questo caso si ritiene trattarsi di nullità a “vocazione funzionale”, volta a preservare – in una situazione di asimmetria economica - l’interesse della parte debole del rapporto (oltre all’interesse più generale della certezza dello scambio e della circolazione della ricchezza), il cui pieno soddisfacimento (ossia venuto a compimento il trasferimento del bene costruito) comporta, però, che non possa più utilmente azionarsi la nullità del contratto, perché ciò determinerebbe un palese sviamento delle finalità della legge e, dunque, un abuso del diritto.
Figura che viene letta, alla luce dei valori costituzionali, come in stretta correlazione con l’obbligo di buona fede e correttezza, reputandosi i due principi in vicendevole integrazione.
4. Conclusioni
L’impostazione adottata dalla giurisprudenza di legittimità innanzi richiamata ha innescato, come detto, un vivo dibattito che non è possibile ripercorrere per intero, né risolvere in poche battute.
Nell’essenza, ciò che viene messo criticamente in rilievo – nell’ottica di un ormai risalente addebito che viene fatto all’esercizio dei poteri rimediali da parte del giudice nel campo riservato all’autonomia privata – è il c.d. spostamento dei criteri della decisione giudiziaria dalla fattispecie legale ai principi generali, suscettibili, questi ultimi, di essere governati con tasso di discrezionalità che si reputa sovente esercitato oltre l’ambito dell’enunciato posto dal legislatore.
In particolare, la struttura della nullità di protezione, anche (e forse soprattutto) nel suo predicato statuto unitario, non tollererebbe incursioni ab externo, in base ad un paradigma assiologico – come la buona fede – che viene fatto operare a contenimento di facoltà processuali legate proprio al contenuto sostanziale del diritto.
Invero, altra parte della dottrina, ci ricorda come il contratto non sia solo fattispecie, ma anche regolamento o, meglio, regola tra le parti negoziali, per cui è ben possibile che la regola subisca l’incidenza delle clausole generali, orientata dai principi costituzionali, in primis quello di solidarietà sociale.
Il che trova, però, altra obiezione nel rilievo che le vicende oggetto delle pronunce sopra richiamate muovono proprio da una patologia della fattispecie, ossia da una nullità di forma, seppure a vocazione funzionale.
Il dibattito in sede dottrinale non sembra sopirsi, ma – allo stato – il “diritto vivente”, come evidenziato dalle sopra richiamate pronunce, anche successive alle Sezioni Unite del 2019, appare sostanzialmente coeso nel mantenere fermo il principio di diritto enunciato dal massimo organo di nomofilachia della Cassazione.
Il che – senza strozzature della discussione in corso o velleitarie aspirazioni di autoreferenzialità giurisprudenziale - costituisce comunque un punto di vista che occorre ben tenere presente.
*Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione
[1] Testo della relazione tenuta al Convegno di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura – Struttura della formazione decentrata della Corte di cassazione il 17-18 novembre 2021 su “Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Bibliografia essenziale di riferimento: M. Girolami, Nullità di protezione, in Enc. Dir., I tematici, I-Contratto a cura di G. D’Amico, 2021; R. Rordorf, Buona fede e nullità selettiva nei contratti d’investimento finanziario, in Questione Giustizia, 2020; Claudio Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, in Corriere Giur., 2020; G. D’Amico, Sul carattere c.d. “selettivo” della nullità di protezione, Nuovo diritto civile, 2020; G. Guizzi, Le Sezioni Unite e “le nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica, in www.dirittobancario.it, 4 dicembre 2019; I. Pagni, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. Dir., Annali, X, 2017.
Legislazione regionale e disciplina della pianificazione urbanistica. Riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale (nota a Corte cost., 28 ottobre 2021, n. 202) di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Inquadramento. - 2. La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005. - 3. Intangibilità della funzione comunale di pianificazione urbanistica?
1. Inquadramento
La Corte costituzionale è di recente tornata a occuparsi del rapporto tra legislazione regionale e disciplina della pianificazione urbanistica con la sentenza n. 202 del 28 ottobre 2021. Il sindacato verte sulla normativa lombarda relativa al recupero edilizio degli immobili degradati e abbandonati di cui all’art. 40-bis della l. reg. 11 marzo 2005, n. 12, introdotto dalla l. reg. 26 novembre 2019, n. 18, recante misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale[i], nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente, nel testo previgente alle modifiche apportate dalla l. reg. 24 giugno 2021, n. 11[ii].
Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis citato sono state sollevate con tre analoghe ordinanze (nn. 371, 372 e 373 del 10 febbraio 2021) pronunciate della sezione II del Tar Lombardia nell’ambito di un giudizio promosso da due società, proprietarie di beni immobili situati nel Comune di Milano, concernente la delibera consiliare del 14 ottobre 2019 di approvazione definitiva del nuovo documento di piano e delle varianti del piano dei servizi e del piano delle regole costituenti il piano di governo del territorio. Gli edifici di cui trattasi sono stati inseriti nell’elenco di quelli “abbandonati o degradati” e, come tali, sottoposti alla disciplina dell’art. 11 delle norme di attuazione del piano delle regole. Da ciò discende una grave limitazione del diritto di proprietà in ragione della previsione di termini stringenti per l’avvio dei lavori di recupero dei fabbricati e delle conseguenze in caso di inadempimento.
Le società ricorrenti contestano la portata applicativa della predetta disciplina asseritamente idonea a introdurre una fattispecie nella sostanza sanzionatoria ed espropriativa e, inoltre, la lesione dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 che pone differenti regole cui risultano subordinate le previsioni urbanistiche locali. A divergere sono sia i termini entro cui i proprietari devono attivarsi, sia il regime delle premialità edilizie e del reperimento di aree per servizi ed attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale. In tale scenario, occorre osservare che l’art. 40-bis non opera solo pro futuro, ma riguarda anche gli immobili già qualificati come abbandonati o degradati[iii].
Circa gli effetti dello ius superveniens rappresentato dalla l. reg. Lombardia n. 11/2021, poi, le modifiche sostanziali della normativa censurata innanzi alla Corte comunque non giustificano la rimessione degli atti al Giudice a quo, posto che le novazioni, da un lato, sono subordinate a una successiva delibera dell’ente locale, ossia una condizione non ancora realizzata, dall’altro lato è prevista, a norma dell’art. 40-bis, comma 11-quinquies, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), della l. reg. Lombardia n. 11/2021, la persistente applicazione dell’originario art. 40-bis in relazione alle richieste di titolo abilitativo per il recupero degli immobili presentate prima dell’entrata in vigore della l. reg. n. 11/2021[iv]. Resta, pertanto, valido il filtro di rilevanza e non manifesta infondatezza svolto dal Tar Lombardia.
Prima di affrontare le censure nel merito, la Corte costituzionale ha dovuto valutare ulteriori eccezioni di inammissibilità sintetizzabili nei seguenti termini.
In primo luogo, il Giudice a quo avrebbe omesso di esaminare prioritariamente il vizio di incompetenza del Comune di Milano ad adottare la disciplina di cui all’art. 11 delle suddette norme di attuazione, sì da eludere un principio di diritto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con riferimento ai poteri amministrativi non ancora esercitati[v]. Ad avviso della Corte, la censura in questione va, in realtà, declinata come violazione di legge e, precisamente, riguarda l’esercizio di un potere sanzionatorio in ambito urbanistico-edilizio non previsto dalla legge, in violazione dell’art. 23 Cost.[vi].
In secondo luogo, la circostanza per cui l’atto impugnato potrebbe essere annullato per motivi diversi dalla violazione dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 15/2005 non vale di per sé a inficiare il giudizio di rilevanza delle questioni di costituzionalità. L’ammissibilità dello scrutinio, infatti, dipende unicamente dal fatto che la norma censurata appaia necessaria per la definizione del giudizio, dovendosi prescindere dal “senso” degli ipotetici effetti derivanti da una pronuncia sulla costituzionalità della legge[vii].
In terzo luogo, la Corte respinge l’eccezione sull’omesso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione da parte del Giudice a quo, richiamando un consolidato indirizzo in base al quale la valutazione sulla condivisibilità dell’esito interpretativo raggiunto dall’autorità rimettente attiene al merito, ossia alla successiva verifica di fondatezza della stessa questione[viii].
2. La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005
Nel merito, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 introdotto ex art. 4, comma 1, lett. a), della l. reg. n. 18/2019 nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della l. reg. n. 11/2021 – e in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 introdotto ex art. 1, comma 1, lett. m), della l. reg. n. 11/2021 – nella parte in cui compromette la pianificazione urbanistica comunale concepibile quale funzione amministrativa fondamentale ai sensi dell’art. 14, comma 27, lett. d), del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, che il legislatore statale ha emanato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost.
Tale funzione è stata riservata ai comuni in quanto enti di prossimità fin dalla l. 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, che agli artt. 86 ss. aveva tipizzato il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento: il primo riguardante i centri abitati e il secondo le zone inedificate[ix]. Il sostanziale fallimento del sistema di pianificazione a cascata delineato dalla l. 17 agosto 1942, n. 1150, l’incapacità di riuscire ad approvare una riforma urbanistica in grado di incidere effettivamente sul regime dei suoli[x], la fuga in avanti della legge Bucalossi prontamente arginata dalla Consulta[xi], lo spill over delle tutele di settore e l’avvertita esigenza di innalzare l’asticella della sussidiarietà, ossia di riallocare a livello statale la protezione di taluni interessi indotto da lacune derivanti dall’esperienza regionalista[xii], rappresentano dati che non hanno travolto il suddetto presupposto di fondo, il quale non è stato neppure intaccato dalla più ampia concezione dell’urbanistica accolta dalla giurisprudenza amministrativa[xiii]. In virtù dei principi di sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza, d’altronde, è gioco-forza ammettere che l’autodeterminazione comunale sull’assetto e l’utilizzazione degli ambiti urbani non può mai essere vanificata dalla potestà legislativa regionale[xiv].
Simili argomenti non risultano, invero, sconfessati dalla sentenza in nota, la quale afferma l’incostituzionalità del citato art. 40-bis per violazione degli artt. 5, 117, comma 2, lett. p), e 118, commi 1 e 2, Cost. L’alterazione dell’equilibrio che deve sussistere tra esercizio delle competenze regionali e salvaguardia dell’autonomia comunale, ad avviso della Corte, nella fattispecie emerge sotto più angolazioni.
Il riconoscimento di una consistente quota di diritti edificatori – in misura oscillante tra il 20 e il 25 per cento rispetto al manufatto insediato – a chi intraprende interventi di recupero degli immobili dismessi, cui si accompagna l’esenzione generalizzata del reperimento degli standard, nonché l’indiscriminata previsione di deroghe alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici costituiscono indici rivelatori dell’illegittimità della norma censurata, idonea a provocare un significativo aumento del carico urbanistico e della pressione insediativa «che per certi aspetti potrebbe risultare poco coerente con le finalità perseguite dalla stessa legge regionale»[xv]. La Consulta sembra quasi constatare una dissociazione tra obiettivi enunciati in linea di principio, quale il contenimento del consumo di suolo attraverso la rigenerazione urbana[xvi], e misure preordinate al loro raggiungimento.
La lesione del potere di pianificazione urbanistica, peraltro, discende dall’impossibilità per i comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti[xvii] di influire sull’applicazione delle misure incentivanti e delle deroghe introdotte in via legislativa, le quali non risultano assoggettate a termini di efficacia e, quindi, si prestano a «comprimere in modo stabile il potere pianificatorio comunale»[xviii]. Anche per questa via, osserva conclusivamente la Corte, è possibile ricavare come l’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 faccia scadere i comuni a meri esecutori di scelte pianificatorie assunte a livello regionale, in violazione della loro autonomia presidiata dagli artt. 117, comma 1, lett. p), 5 e 118, commi 1 e 2, Cost.
3. Intangibilità della funzione comunale di pianificazione urbanistica?
Si può pertanto attestare l’intangibilità della funzione comunale di pianificazione urbanistica? Laddove ci si limitasse a una lettura superficiale della sentenza n. 202/2021 si potrebbe rispondere in senso affermativo. In realtà, il quesito presuppone un approfondimento della giurisprudenza costituzionale incaricata, nell’incerto scenario risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione, di trovare un punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo in materia urbanistica.
In tale prospettiva, in nome della tutela di interessi correlati a una più ampia valutazione di bisogni diffusi sul territorio[xix], la Corte ha affermato che l’autonomia comunale «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale»[xx]. In sostanza, non si può ritenere che «il sistema di pianificazione assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti»[xxi].
La vera questione, come si intuisce, concerne la verifica dei parametri da assumere come coordinate per far coesistere ambiti di autonomia regionale e municipale nella materia de qua. È possibile individuarne almeno due.
Il primo parametro attiene al “test di proporzionalità” il quale non deve tanto considerarsi come giudizio astratto in ordine alla legittimità dell’intervento regionale, quanto invece come concreta valutazione della «esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»[xxii]. Per tornare al caso sottoposto alla Corte, il tema non è tanto appurare se il legislatore regionale possa dettare norme sulla rigenerazione urbana – riconducibile alla competenza concorrente in materia di governo del territorio – ma, piuttosto, valutare se l’esercizio di una simile potestà garantita dall’art. 117, comma 3, Cost. incida in misura ragionevole, ossia rispettando la soglia dell’adeguatezza e della necessità[xxiii], sul potere di pianificazione urbanistica.
Ciò nella fattispecie viene escluso, in senso analogo a quanto accaduto nella precedente occasione che ha condotto alla declaratoria di incostituzionalità[xxiv] dell’art. 5, comma 4, della l. reg. Lombardia n. 31/2014 che impediva ai comuni di apportare varianti per ridurre le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano nel periodo necessario all’integrazione dei contenuti del piano territoriale regionale e al successivo adeguamento dei piani territoriali di coordinamento provinciale e di governo del territorio. Anche in quell’occasione il giudizio della Corte si è posto al crocevia tra regionalismo e municipalismo nel rinnovato sistema costituzionale non riguardando, di per sé, l’allocazione della funzione legislativa regionale, ma il relativo esercizio inidoneo a superare il test di proporzionalità rispetto alla tipologia degli interessi coinvolti[xxv].
Il secondo parametro è quello del “raccordo collaborativo”. In ossequio al principio di leale cooperazione istituzionale, ai comuni deve essere garantita la possibilità di interloquire con il livello di governo superiore ove una scelta di quest’ultimo sia idonea a interferire con una funzione come quella di pianificazione urbanistica.
È emblematico, in tal senso, il seguente passo della pronuncia in nota: «ai Comuni [lombardi] non è attribuita alcuna possibilità di influire sull’applicazione delle misure incentivanti, sia perché ad essi (ove abbiano una popolazione superiore a 20.000 abitanti) non è attribuita alcuna “riserva di tutela” rispetto ad ambiti del proprio territorio ritenuti meritevoli di una difesa rafforzata del paesaggio, sia perché, ancora prima, la scelta di intervenire con legge regionale li ha ulteriormente privati di qualsiasi compensazione procedurale (quale, in ipotesi, si sarebbe potuta avere in sede di interlocuzione nel corso della procedura di adozione del piano di governo del territorio, ovvero all’atto della pianificazione regionale), con l’effetto di estromettere tali Enti dalle decisioni riguardanti il proprio territorio»[xxvi].
Come si è condivisibilmente osservato, l’operatività dei principi di adeguatezza e differenziazione, che si affiancano a quello di sussidiarietà verticale, il quale non vale di per sé a privilegiare i livelli di governo locale[xxvii], rappresentano momenti di concretizzazione del principio di pianificazione[xxviii]. Il rispetto di tali principi e la previsione, complementare, di moduli di raccordo intersoggettivo in grado di prevenire situazioni di conflitto o, comunque, di scarsa conoscibilità delle scelte pianificatorie da parte di enti diversi dall’amministrazione di riferimento[xxix], contribuiscono a delineare le regole volte all’individuazione del punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo in materia urbanistica.
Le disposizioni legislative regionali censurabili sono quelle che prefigurano un assetto idoneo a inficiare oltre quanto necessario la funzione pianificatoria dei comuni, di fatto, privandoli del potere di pervenire a scelte razionali rispetto al programma di sviluppo ideato con i propri strumenti urbanistici[xxx]. La giurisprudenza costituzionale non esclude limitazioni ragionevoli di funzioni, sia pure fondamentali, assegnate agli enti locali e il principio di pianificazione, in un contesto di leale cooperazione istituzionale, va sempre calibrato ai risultati che la pubblica amministrazione è chiamata a perseguire anche in ambito urbanistico[xxxi].
[i] Cfr. P. Lombardi, Il governo del territorio in Lombardia dopo la l.r. n. 18/2019: tra rigenerazione urbana e territoriale e consumo del suolo, in Scritti per Franco Gaetano Scoca, vol. III, Napoli, 2020, 3079 ss., sulle nozioni di “rigenerazione urbana” – da intendersi come «insieme coordinato di interventi urbanistico-edilizi e di iniziative sociali (…) in un’ottica di sostenibilità e di resilienza ambientale e sociale, di innovazione tecnologica e di incremento della biodiversità dell’ambiente urbano» (lett. e) – e “rigenerazione territoriale” – consistente in un «insieme coordinato di azioni, generalmente con ricadute sovralocali, finalizzate alla risoluzione di situazioni di degrado urbanistico, infrastrutturale, ambientale, paesaggistico o sociale» volte a «prevenire conseguenze negative per la salute umana, gli ecosistemi e le risorse naturali» (lett. e-bis) – ai sensi dell’art. 2 della l. reg. Lombardia n. 31/2014, s.m.i. L’A. si sofferma sui concetti di “sostenibilità”, “resilienza” e, più in generale, sulla dimensione sociale nei processi di rigenerazione, in relazione ai quali, a livello monografico, si veda A. Giusti, La rigenerazione urbana, Napoli, 2018.
[ii] L’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 recante «disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità», come modificato dalla l. reg. n. 11/2021, presenta sicuro interesse nell’ambito della normativa lombarda sulla rigenerazione urbana. Spetta ai comuni, con delibera consiliare da adottare entro la data del 31 dicembre 2021 suscettibile di aggiornamento, individuare gli immobili dismessi da almeno un anno dall’entrata in vigore della l. reg. n. 11/2021 (nella delibera si possono includere gli immobili già individuati come abbandonati e degradati negli strumenti urbanistici) che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale, urbanistico-edilizio e sociale. Nei successivi tre anni, i proprietari di tali immobili sono tenuti ad attivarsi ai fini del recupero. Le ragioni della predetta individuazione vanno notificate ai proprietari prima della delibera, affinché questi ultimi, entro trenta giorni, possano dimostrare la carenza dei presupposti richiesti dalla norma. Tramite perizia asseverata giurata, inoltre, i privati possono indicare elementi utili ai fini dell’applicazione dell’art. 40-bis: decorso il termine di sessanta giorni, la loro istanza si intende approvata. I consigli comunali, entro la medesima data sopra menzionata, possono individuare – a prescindere dal numero degli abitanti (v. infra) – gli ambiti del proprio territorio «ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica, comunque ulteriori rispetto a eventuali regole morfologiche previste negli strumenti urbanistici, che nel concreto dimostrino l’insostenibilità degli impatti generati da tali disposizioni rispetto al contesto urbanistico ed edilizio in cui si collocano gli interventi», fermo restando che «non è comunque consentita l’esclusione generalizzata delle parti di territorio ricadenti nel tessuto urbano consolidato o comunque urbanizzato». I commi dell’art. 40-bis poc’anzi citati prevedono incentivi agli interventi di recupero che vanno dal riconoscimento di diritti edificatori (commi 5 e 6) a deroghe alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati ed ai regolamenti edilizi (comma 10).
[iii] Vedi il punto 4.1 del Considerato in diritto della sentenza in nota.
[iv] Vedi il punto 8.2 del Considerato in diritto della sentenza in nota.
[v] Cons. Stato, ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5, con nota di L.R. Perfetti - G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame e assorbimento dei motivi, in Dir. proc. amm., 2016, 205 ss., e di A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel giudizio amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286 ss.
[vi] «Non può quindi ritenersi manifestamente implausibile o incongrua la scelta del rimettente di modificare l’ordine di trattazione dei motivi di ricorso (sentenze n. 120 del 2019 e n. 188 del 2018), dando rilievo assorbente al contrasto con la disciplina legislativa, in quanto idoneo a determinare l’annullamento in toto delle norme regolamentari di piano e quindi “la più radicale illegittimità dedotta”» (Corte cost. n. 202/2021).
[vii] Cfr. Corte cost., 9 febbraio 2021, n. 15.
[viii] Cfr., ex multis, Corte cost., 12 luglio 2021, n. 150; Id., 5 maggio 2021, n. 89; Id., 9 marzo 2021, n. 32.
[ix] Per l’esattezza già la l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, aveva riservato ai consigli comunali il potere di adottare «regolamenti di igiene, edilità e polizia locale» (art. 87). Dei regolamenti edilizi, ai sensi dell’art. 70, n. 3, del r.d. 8 giugno 1865, n. 2321, potevano essere oggetto «i piani regolatori dell’ingrandimento e di livellazione, o di nuovi allineamenti delle vie, piazze o passeggi pubblici».
[x] Naufragata la proposta (1962) di Fiorentino Sullo di “parificare” le posizioni proprietarie attraverso una riserva al Comune di tutte le aree di espansione, da concedere ai privati solo in diritto di superficie, l’ultimo tentativo di riforma organica del sistema di pianificazione urbanistica è rappresentato dalla l. 6 agosto 1967, n. 765 (legge ponte), sulla cui base sono stati adottati gli standard disciplinati con d.m. 2 aprile 1968, n. 1444.
[xi] Il riferimento si intende effettuato alla concessione edilizia disciplinata dalla l. 28 gennaio 1977, n. 10, e alla sentenza della Consulta n. 5 del 30 gennaio 1980, in base alla quale «il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire».
[xii] A partire dalla l. 8 agosto 1985, n. 431, di conversione del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, meglio nota come legge Galasso, la tutela degli interessi c.d. sensibili si è espansa in modo direttamente proporzionale alla crisi dell’urbanistica (di “supplenza” delle tutele di settore parla P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione urbana”, in www.federalismi.it, n. 1/2020, 11). Per quanto, in particolare, concerne la tutela paesaggistica, la sua impronta unitaria è stata anche di recente valorizzata dalla sentenza della Corte costituzionale che ha annullato il piano paesistico della Regione Lazio approvato con del. 2 agosto 2019, n. 5, del consiglio regionale senza il previo coinvolgimento del Mibact, donde la lesione del principio di leale collaborazione (Corte cost., 17 novembre 2020, n. 240).
[xiii] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2780; Id., 18 agosto 2017, n. 4037; Id., 10 maggio 2012, n. 2710.
[xiv] Cfr. Corte cost., 8 aprile 1997, n. 83.
[xv] Corte cost. n. 202/2021.
[xvi] Alla l. reg. Lombardia n. 18/2019 si devono pure alcune modifiche e integrazioni alla l. reg. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, recante «disposizione per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato», i cui contenuti, sotto il profilo del contrasto all’impermeabilizzazione di tale risorsa naturale produttiva di servizi ecosistemici, sono stati valorizzati da A. Calegari, Le leggi regionali sul consumo di suolo, in P. Stella Richter (a cura di), Verso le leggi regionali di quarta generazione, Milano, 2019, 191 ss. Cfr., inoltre, P. Chirulli, La pianificazione urbanistica tra esigenze di sviluppo e riduzione del consumo di suolo: la riqualificazione dell’esistente, in Riv. giur. urb., 2015, 606 ss.
[xvii] Merita al riguardo ricordare che il disposto dell’art. 40-bis della l. reg. Lombardia n. 12/2005 è stato oggetto di modifiche ad opera dell’art. 1 della l. reg. n. 11/2021, in base al quale ha assunto rilievo l’attribuzione a tutti i comuni – non più soltanto a quelli con popolazione inferiore a 20.000 abitanti – della facoltà di individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 10 dell’art. 40-bis.
[xviii] Così sempre Corte cost. n. 202/2021, la quale rileva l’unica e circoscritta eccezione dell’incremento dei diritti edificatori riconosciuto dall’art. 40-bis, comma 5, ult. per., della l. reg. Lombardia n. 12/2005 ai proprietari degli immobili in caso di demolizione applicabile per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione del bene come dismesso.
[xix] Si veda già Corte cost., 27 luglio 2000, n. 378.
[xx] Corte cost., 7 luglio 2016, n. 160.
[xxi] Corte cost., 27 dicembre 2018, n. 245, in linea a Corte cost., 13 marzo 2014, n. 46.
[xxii] Corte cost., 30 luglio 1997, n. 286.
[xxiii] Si veda Corte cost., 23 giugno 2020, n. 119: «nelle delicate verifiche di funzionamento del principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio». Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64 della l. reg. Veneto 30 dicembre 2016, n. 30, in quanto «gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale, dall’altro (…) non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità».
[xxiv] Corte cost., 31 luglio 2019, n. 179.
[xxv] La sottrazione, sia pure temporanea, ai comuni della potestà pianificatoria, anziché apparire il “minimo mezzo” per raggiungere gli obiettivi delineati a livello regionale, innanzitutto quello di riduzione del consumo di suolo, appare contraddittoria agli stessi: la rigidità della norma censurata, secondo la Corte, si dimostra «tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità della legge regionale e quindi coerenti con queste» (Corte cost. n. 179/2019).
[xxvi] Corte cost. n. 202/2021, che sul punto richiama Corte cost., 26 novembre 2002, n. 478.
[xxvii] Si veda M. Renna, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. Rossi (a cura di), Dirittodell’ambiente, Torino, 2021, 151, il quale osserva che «applicare il principio di sussidiarietà, invero, non significa affatto privilegiare incondizionatamente i livelli di governo locali nella distribuzione delle competenze (…). Il principio di sussidiarietà verticale ha in realtà una valenza intrinsecamente e fisiologicamente ambivalente, poiché, a seconda dell’ampiezza e della consistenza delle funzioni che devono essere conferite, la sua applicazione può sospingere dette funzioni sia “verso il basso” che “verso l’alto”».
[xxviii] P.L. Portaluri, Il principio di pianificazione, in M. Renna - F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 468.
[xxix] In tal senso v. ancora P.L. Portaluri, Il principio di pianificazione, cit., 469.
[xxx] Sulla portata del principio di pianificazione urbanistica, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 13 aprile 2021, n. 2999, secondo cui compete ai comuni non solo l’individuazione delle potenzialità edificatorie delle aree, ma in termini più generali «la possibilità di realizzare anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato) nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati».
[xxxi] Cfr. M. Immordino - A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati (Atti del Convegno, Palermo, 27-28 febbraio 2003), Torino, 2004.
Senza politica (europea) saremo oggetto di progetti altrui. Risposta a Lucio Caracciolo sulla missione europea del “Capo dello Stato che verrà”
di Pier virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo
L’Espresso del 2 gennaio 2022 ha dedicato il suo servizio di apertura a dieci lettere al “Capo dello Stato che verrà” con una introduzione di Marco Damilano allo scopo di definire “cosa sia l’interesse nazionale, l’interesse generale e il bene comune”. Fra queste scelte si colloca certamente il ruolo dell’Italia nell’Unione europea, che è stato autorevolmente rappresentato negli ultimi ventidue anni da Carlo Azeglio Ciampi, da Giorgio Napolitano e infine da Sergio Mattarella, tutti e tre convinti – pur provenendo da culture politiche diverse ispirate dal cosmopolitismo liberale, dall’internazionalismo socialista e dall’universalismo popolare – della necessità per l’Italia di realizzare il “sogno europeista”. Le sfide di questi ventidue anni per l’Italia e per l’Europa hanno rafforzato e reso più urgente la realizzazione di questo sogno. Considerando la centralità della dimensione europea e condividendo l’opinione di Marco Damilano sulla necessità della costruzione di un “nuovo ruolo dell’Europa” ci saremmo aspettati che fra le lettere ce ne fosse una dedicata solo all’Europa e alla missione che il “Capo dello Stato che verrà” dovrà svolgere – nel rispetto della costituzione repubblicana – per contribuire alla costruzione di un sistema europeo che ancora non c’è o meglio non c’è ancora adeguatamente. Se leggiamo attentamente le dieci lettere che pure hanno un legame con i temi europei come quella di Diarah Kan “perché per essere cittadini non basta essere italiani” o quella di Donatella Di Cesare “una nazione aperta senza muri e barriere” in cui si chiede “un’Italia europea”, sembra che la dimensione europea sia stata affidata a Lucio Caracciolo, autorevole esperto di questione internazionali e fondatore della rivista Limes. Lucio Caracciolo è convinto da tempo del fatto che il “sogno europeista” non solo sia irrealizzabile ma che esso si sia definitivamente disintegrato rendendo dunque per lui necessaria una politica (nazionale o nazionalista) per evitare di essere “oggetto di progetti altrui”. Lucio Caracciolo enumera le tre sfide geopolitiche per l’Italia a cui egli sa bene che solo in parte potrà rispondere il capo dello Stato come garante dell’unità nazionale e del rispetto della costituzione repubblicana a cui appartiene anche l’articolo 11. Le tre sfide riguardano la necessità di una politica fiscale e monetaria espansiva, le divisioni nell’Europa e le frontiere marittime con il Nordafrica. Secondo Lucio Caracciolo la risposta a queste tre sfide potrà venire solo da “una iniziativa di governo per dotarci di uno Stato vero”. Lucio Caracciolo finge di ignorare che la principale - anche se non unica - risposta a queste tre sfide e ad altre sfide europee e internazionali potrà venire da una sovranità europea condivisa e non dalla somma di apparenti sovranità nazionali e da uno stato federale (e cioè da un costituzionalismo multilivello). Questa organizzazione statuale sui generis dovrebbe essere dotata di una capacità fiscale autonoma dagli Stati membri per garantire investimenti strutturali europei, di un insieme di principi e valori rispettati nell’Europa occidentale e nell’Europa centrale in modo tale da rendere cittadine e cittadini europei eguali davanti a comuni leggi europee, di una politica estera e di sicurezza comune (a partire dal Mediterraneo) per dare a tutta l’Unione europea la necessaria e urgente autonomia strategica nel contesto della competizione fra Usa, Cina e Russia. Lucio Caracciolo avrebbe dovuto concludere la sua lettera affermando che la disintegrazione che appaga la sua visione di un mondo abitato solo da Stati-nazione riguarda l’illusione - apparentemente europeista - di chi ha ritenuto e ritiene ancora che sia possibile rispondere alle crescenti sfide geopolitiche con il metodo del gradualismo funzionalista o peggio con il metodo confederale. L’europeismo è diventato poi negli ultimi mesi una Armata Brancaleone a cui aderiscono non solo coloro che in buona fede hanno creduto all’automatismo dell’ingranaggio comunitario inventato dai “padri fondatori” ma anche i sovranisti rappresentati in Italia da Giorgia Meloni e Matteo Salvini – separati in casa ma sdoganati in Europa da chi cerca il loro voto per il “Capo dello Stato che verrà” – che vorrebbero far regredire la Comunità verso un sistema confederale non osando più fare il tifo pubblicamente per l’uscita dall’euro o dall’Unione europea. A ottanta anni dal Manifesto di Ventotene la realtà delle sfide del ventunesimo secolo non ha invece disintegrato l’idea di una sovranità condivisa all’interno di un sistema federale ma anzi l’ha consolidata e resa più urgente. “Il/la presidente che vorremmo” – come è stato scritto in un appello elaborato da sedici centri che si ispirano alle culture politiche dei padri costituenti [1] - dovrebbe garantire con un approccio evolutivo l’impegno dell’Italia europea in una Unione sempre più stretta perché solo con politiche, regole, principi, strumenti e istituzioni sovranazionali non saremo “oggetto di progetti altrui”.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i "seguiti" a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 -causa C-497/20, Randstad Italia?
Editoriale
Interviste di R. Conti a Fabio Francario, Giancarlo Montedoro, Paolo Biavati, Renato Rordorf ed Enzo Cannizzaro.
Eccoci alla tanto attesa Corte Giust., Grande Sezione, 21 dicembre 2021,C-497/20, Randstad Italia, pubblicata il 21 dicembre 2021, che ha esaminato il rinvio pregiudiziale proposto dalle Sezioni Unite della Cassazione civile con l’ormai nota ordinanza n.19598/2020, con la quale si chiedeva, tra l’altro, di valutare la compatibilità con il principio di effettività di matrice UE del sistema giurisdizionale interno che si era andato assestando sul principi resi dalla sentenza n.6/2018 della Corte costituzionale, escludendo il riesame da parte delle Sezioni Unite della cassazione, sotto il paradigma dell’art.111 c.8, Cost., delle sentenze del giudice speciale che avessero dato luogo ad una violazione del diritto UE capace di vulnerare l’uniforme applicazione del diritto eurounitario e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza. Nella stessa occasione il giudice remittente aveva parimenti domandando alla Corte UE “Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, TUE e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della [Carta], ostino alla interpretazione e applicazione degli articoli 111, ottavo comma, della Costituzione, 360, primo comma (...), e 362, primo comma, del codice di procedura civile e 110 del codice [del] processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale, secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per “motivi inerenti alla giurisdizione”, sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla [Corte], in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate [a partire dalla sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., C-238/81], che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della [Corte] nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del)l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione.”
Preceduta dalle conclusioni rese dall’Avvocato generale G. Hogan il 9 settembre 2021, dalle quale si intravedeva, in controluce, il possibile esito della vicenda approdata a Lussemburgo, la Grande Sezione della Corte di giustizia, decidendo in via prioritaria il ricorso (art.53, par.3 reg. proc. Corte UE) ma senza attivare la richiesta procedura accelerata sollecitata dalle Sezioni Unite, ha affermato che L’articolo 4, paragrafo 3, e l’articolo 19, paragrafo 1, TUE, nonché l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione del diritto interno di uno Stato membro che, secondo la giurisprudenza nazionale, produce l’effetto che i singoli, quali gli offerenti che hanno partecipato a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, non possono contestare la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato membro nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro.
Quanto al secondo quesito sopra riportato la Corte di giustizia lo ha ritenuto irrilevante, considerando che la società ricorrente innanzi alle Sezioni Unite non aveva dedotto motivi vertenti sul fatto che il Consiglio di Stato, in violazione dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, avesse omesso di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale, per modo che il giudice del rinvio non era stato investito della questione se, alla luce degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, gli Stati membri siano tenuti a prevedere, nei loro ordinamenti giuridici, la possibilità di presentare ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo qualora il supremo organo della giustizia amministrativa si sia astenuto dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte.
Fatta questa premessa, per consentire al lettore qualche elemento di contesto nel quale collocare la decisione della Grande Sezione della Corte UE, è sufficiente rammentare che negli ultimi tre lustri la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione è andata delineando un concetto ampio di giurisdizione ai fini del sindacato ad essa riservato sulle decisioni dei giudici speciali di ultima istanza dall’art.111, c.8, Cost., al cui interno sistemare non solo le norme sulla giurisdizione che individuano "i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale", ma anche quelle che stabiliscono "le forme di tutela" attraverso cui la giurisdizione si estrinseca, nei casi nei quali la violazione delle stesse comporti un diniego di giustizia. A tanto sono giunte le Sezioni Unite ricorrendo ad una nozione di giurisdizione definiti "dinamica" (o "funzionale" o "evolutiva"), secondo cui risulterebbe sindacabile anche la violazione di legge (sostanziale e/o processuale) in relazione alla giurisdizione, qualora sia conseguenza di un'interpretazione "abnorme o anomala" – Cass., S.U. 20/05/2016, n. 10501 – tale da ingenerare un vero e proprio diniego di giustizia, ovvero uno "stravolgimento" – Cass., S.U., 17 gennaio 2017, n. 956 – delle "norme di riferimento" –di rito o di merito, Cass. S.U., 17 gennaio 2017, n. 964; Cass., S.U., 11 maggio 2017, n. 11520 –, in particolare nel caso di violazione di norme sovranazionali – Cass., S.U., 17 gennaio 2017, nn. 956 e 953–.
A giustificazione di tale indirizzo sulla portata di senso del concetto di giurisdizione sono stati via via evocati la primazia del diritto comunitario, il giusto processo, il principio di effettività della tutela, il principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina, tenuto conto dell'ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva –Cass., S.U., 23 dicembre 2008, n. 30254, Cass., S.U., 6 febbraio 2015, n. 2242; Cass., S.U., 13 maggio 2013, n. 11345; Cass. S.U., 29 dicembre 2017, n. 31226, tutte ricordate da Cass., S.U., 11 novembre 2019 n.29082 –. A tali conclusioni avevano dato un decisivo impulso alcune pronunzie delle stesse Sezioni Unite – Cass.S.U. 23 dicembre 2008, n. 30254 in tema di pregiudizialità amministrativa; Cass., S.U. sentt. nn. 13559 e 13660/2006;Cass., S.U.n.30254/2008– alle quale si collegava, senza soluzione di continuità, Cass., S.U. n.2242/2015, giungendo a riconoscere il proprio sindacato in punto di giurisdizione nei confronti di una pronunzia del Consiglio di Stato distonica rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di aggiudicazione di appalti resa però in epoca successiva alla decisione del G.A. L’ampliamento del controllo sull’operato del g.a. era stato in tale ultima occasione ritenuto doveroso, in relazione alla peculiarità del caso concreto, nel quale l’intervento interpretativo della Corte di giustizia era giunto in epoca successiva alla decisione del Consiglio di Stato ad esso non conforme, “...oltre che al fine di delineare gli ambiti giurisdizionali del GA nel senso voluto dalla normativa europea (come, in questo caso, interpretata dalla Corte di giustizia), anche al fine di sottrarre lo Stato dalla responsabilità risarcitoria per i danni cagionati dagli organi giurisdizionali di ultima istanza.” Da qui la posizione espressa da Cass. (ord.) S.U. n.6891/2016 che, prendendo le mosse dai principi espressi da Cass., S.U. n.2242/2015, non ritenendo di potere ‘disapplicare’ il giudicato interno in ragione della diversità di approccio al diritto di matrice convenzionale, si rivolse alla Corte costituzionale, ipotizzando un contrasto fra la norma interna – art.69, c.7, d. lgs. n.165/2001– sulla quale si era fondato il giudicato amministrativo nazionale e i parametri convenzionali che la Corte edu aveva riconosciuto violati con le sentenze rese nei casi Stabbiano c. Italia e Mottola c. Italia del 4.2.2014. E fu proprio nel “rispondere” a tale questione di costituzionalità che la Corte costituzionale, con la sentenza n.6/2018 si è detto avere pronunziato una forte battuta di arresto all’idea di giurisdizione dinamica, di fatto comprimendo in modo significativo la portata del sindacato previsto dall’art.117 c.8 Cost.
Cass.S.U. n.19283/2018, nel decidere il procedimento che aveva originato la decisione della Corte costituzionale n.6/2018, ritenne dunque l’inammissibilità del ricorso proposto avverso la decisione del Consiglio di Stato inammissibile “…alla stregua delle considerazioni svolte dalla citata sentenza n. 6/2018 della Corte cost., che nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 7, d.lgs. 30.03.01 n. 165 del 2001 sollevata in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., ha negato in radice che con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall'art. 111, comma 8, Cost. contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, possano censurarsi anche errores in procedendo o in iudicando”, inoltre aggiungendo che “…Nel presente giudizio la citata sentenza n. 6/2018 ha efficacia vincolante perché basata sull'asserito difetto di rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, in ragione della mancanza di legittimazione del giudice a quo (espressamente in questi termini si è, conclusivamente, pronunciata la Corte cost.).”
In epoca successiva, Cass.S.U.9 novembre 2018 n.28652 ha ritenuto che “il sindacato che queste Sezioni Unite hanno ricondotto sotto il cono d'ombra dell'art.111, c.8, Cost. riguarda, per l'appunto, esclusivamente i casi di vero e proprio rifiuto dell'esercizio della giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo rispetto ad una questione concernente materia riservata alla cognizione di altri organi costituzionali – cfr.Cass., S.U. 15 febbraio 2013 n.3731, Cass., S.U.,1 febbraio 2008 n.2439, Cass.S.U., 1 dicembre 2016, n.24624– o di difetto assoluto di giurisdizione, ipotizzabile soltanto ove il Consiglio di Stato o la Corte dei conti abbia affermato la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione (c.d. invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, l'abbia negata sull'erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (c.d. arretramento) – cfr. Cass., S.U., 19 luglio 2018 n.19283 –.”
Altre volte si è dato esplicito rilievo al carattere vincolate della sentenza n.6/2018 – Cass.S.U. n. 7926/2019 – in relazione al fatto che il giudice costituzionale aveva premesso che la questione allo stesso demandata "rientra...nella competenza naturale di questa Corte, quale interprete ultimo delle norme costituzionali e – nella specie – di quelle che regolano i confini e l'assetto complessivo dei plessi giurisdizionali". Cass.S.U.n.29082/2019 non mancava ulteriormente di chiarire che la soluzione espressa dalla sentenza n.6/2018 non vulnera il canone del giusto processo, né quello dell’effettività della tutela giurisdizionale come protetta a livello UE.
Su tale ultimo punto, Cass.S.U.17 dicembre 2018 n.32622 affermava che la non sindacabilità da parte della Corte di cassazione, ex art. 111 Cost., comma 8, delle violazioni del diritto dell'Unione Europea ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali, è compatibile con il diritto dell'Unione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, essendo il sistema correttamente ispirato ad esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l'individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall'Unione – conf. Cass.S.U., 1^ aprile 2019 n.9042 –.
Questo era dunque, sia pur per sommi capi, prima dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale delle Sezioni Unite n.19598/2020, il quadro dei principi espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione in tema di eccesso di potere giurisdizionale, con particolare riferimento alle violazioni di diritto UE a carico del giudice speciale si è arricchito di alcune pronunzie che senza entrare nel merito del rinvio pregiudiziale appena ricordato, hanno tuttavia espresso alcuni principi che occorre brevemente ricordare.
Per un verso, si è ritenuto che costituisce motivo di ricorso attinente alla giurisdizione quello con il quale si denunzia che il Consiglio di Stato abbia esercitato i poteri inerenti alla giurisdizione esclusiva al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, per avere esso invaso la sfera dei poteri riservati alla esclusiva competenza della Commissione Europea in materia di aiuti di stato dove non sono attribuiti poteri al giudice nazionale – Cass., S.U., 11 marzo 2020, n. 7012-.
Per altro verso, si è affermato che non è affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale, ed è pertanto insindacabile sotto il profilo della violazione del limite esterno della giurisdizione, in relazione al diritto eurounitario la decisione, adottata dal Consiglio di Stato, di non disporre, motivatamente, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, giacché il controllo che l'art. 111, comma 8, Cost., affida alla S.C. non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori "in iudicando" o "in procedendo" per contrasto con il diritto dell'Unione europea- Cass.S.U. n.24107/2020-.
In tale ultima occasione le S.U. hanno ritenuto che “…la questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia costituisce elemento processuale interno al processo, senza che essa risulti suscettibile di divenire oggetto di autonoma valutazione nell’ambito del sindacato di cui all’art. 111 Cost., comma 8”, aggiungendo che quando il giudice amministrativo abbia espressamente deciso di non attivare il rinvio pregiudiziale motivando la sua decisione e dunque esaminando le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale sollecitata da una delle parti – ovvero escludendo direttamente di operare il rinvio pregiudiziale sulla base di una valutazione sganciata dall’iniziativa di una parte processuale, a tanto potendo comunque procedere proprio in relazione alla finalità dell’istituto normato dall’art. 267 TUEF – il diniego di rinvio pregiudiziale ha “ quale suo presupposto la giurisdizione del giudice interno che l’ha appunto pienamente esercitata, proprio escludendo la ricorrenza dei presupposti per l’attivazione del meccanismo di cui all’art. 267 TUFE…” Sicchè deve escludersi che la decisione della questione controversa da parte del giudice nazionale, nell’ipotesi in cui la stessa imponeva il rinvio pregiudiziale alla Corte UE – invece motivatamente negato – determini un travalicamento dei limiti della giurisdizione amministrativa in danno della Corte di Giustizia. Ciò perché il rapporto che corre fra il giudice nazionale e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea non è di alternatività ma di complementarietà, nel senso che il giudice nazionale è egli stesso interprete del diritto dell’Unione Europea, indicandosi tale ruolo spesso con la dizione di giudice comunitario di diritto comune. Per modo che “spetta unicamente al giudice nazionale il compito di valutare se la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con un’evidenza tale da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio e, di conseguenza, di decidere se astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell’Unione che è stata sollevata dinanzi ad esso”… In defintiva, secondo questa prospettiva “La decisione se attivare o meno il rinvio pregiudiziale va dunque risolta dal giudice nazionale sotto la propria responsabilità”- Cass.S.U. n.24107/2020, cit.-
Per altro verso, Cass.S.U. 28 luglio 2021 n.21641, nel confermare i principi espressi a proposito del mancato rinvio pregiudiziale "di interpretazione" da parte del giudice speciale, ha poi escluso che il giudice speciale abbia invaso la competenza della Corte di Giustizia nel motivatamente escludere la necessità di disporre il rinvio pregiudiziale "di validità" alla Corte di Giustizia UE e nel ritenere la piena validità dell'atto impugnato sotto il profilo della violazione di diritti garantiti dall'UE, atteso che tale decisione non incide sulla competenza esclusiva della medesima Corte di Giustizia in tema di accertamento della validità degli atti dell'UE che, per converso, lascia libero il giudice nazionale di respingere i motivi di invalidità dedotti dinanzi ad essi contro un atto di un’istituzione, di un organo o di un organismo dell’Unione.
Occorre infine rammentare che Cass. S.U. 3 novembre 2021 n.31311, nel confermare i principi espressi da Cass.S.U. n.24107/2020 in tema di mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale, ha ritenuto inammissibile la richiesta di rinvio pregiudiziale su questione di interpretazione del diritto UE che implichi in realtà la devoluzione al giudice dell'Unione europea del compito di decidere la controversia oggetto di lite, in quanto il giudice nazionale con il rinvio non si spoglia in alcun modo del proprio potere giurisdizionale, ma lo esercita "pleno iure", formulando, ove ritenuto necessario ai fini della decisione, la richiesta incidentale alla Corte UE, in esito alla quale avrà il compito di applicare l'interpretazione del diritto fornita appunto da quel giudice.
Senza peraltro dimenticare l’apporto non meno rilevante fornito medio tempore dal Consiglio di Stato nella delimitazione della sua giurisdizione e nel rapporto fra la tutela dal medesimo offerta, la giurisprudenza della Corte di Giustizia e, da ultimo, il ruolo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nelle ipotesi di prospettata violazione del diritto UE ascrivibile al supremo giudice amministrativo, per usare un’espressione che si riscontra proprio nella sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia, Randstad Italia - per cui v. Cons. St., 18 marzo 2021, n. 2327-.
In questo scenario composito e complesso la decisione della grande Sezione della Corte di giustizia anche per il lasso di tempo trascorso dalla sentenza n.6/2018, rende indilazionabile un’analisi della questione che dovrebbe allontanarsi dall’idea di creare o favorire una contrapposizione muscolare fra “plessi giurisdizionali” per lasciare invece il passo ad approfondimenti capaci di analizzare gli aspetti tuttora controversi e, fra questi, quello che riguarda, sul versante interno, la verifica in termini di effettività delle tutele approntata in sede giudiziaria e di vincolatività della sentenza n.6/2018 che dichiarò inammissibile la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni Unite, fornendo un apparato motivazionale destinato dichiaratamente ad operare, almeno nelle intenzioni della Corte costituzionale, in funzione nomofilattica, proprio in ragione dell’interpretazione secundum Constitutionem fornita dal “giudice della Costituzione”.
Nel solco di queste riflessioni Giustizia insieme intende aprire il dibattito con autorevoli esponenti del mondo accademico, della giurisdizione e dell’Avvocatura.
Numerosi fin qui i contributi apparsi sulla Rivista in tema prima della decisione della Corte di Lussemburgo: F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione europea: la parola alla Corte di Giustizia, in questa Rivista, 11 dicembre 2020; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte dicassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 29 novembre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021; R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327), in questa Rivista, 6 aprile 2021.
La parola passa ora a Fabio Francario, ordinario di diritto amministrativo e avvocato, Giancarlo Montedoro, Presidente di sezione del Consiglio di Stato, Paolo Biavati, ordinario di procedura civile e avvocato, Renato Rordorf, già Primo presidente aggiunto della Cassazione ed Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale, i quali hanno accettato di rispondere a qualche domanda suscitata dalla lettura a caldo della sentenza della Corte di Giustizia nelle cinque interviste che saranno pubblicate nei prossimi giorni ed alle quali, per una precisa scelta di campo, non seguiranno le consuete conclusioni che sarà il diritto vivente, attingendo alla dottrina ed alle voci del giuristi pratici, ancora una volta a decodificare e forgiare, in ciò sicuramente avvantaggiato dalle riflessioni plurali degli ospiti che hanno animato, da par loro, questo primo dibattito a distanza.
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