ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione - 2. Genesi e ratio del consenso informato - 3. Il consenso informato in ambito scolastico - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Il mondo contemporaneo risente di tensioni e distorsioni culturali che sempre più gravemente influiscono sull’essere umano, specialmente nelle sue fasi di maggiore fragilità e vulnerabilità come il periodo degli anni di istruzione ed educazione che fin dalla più giovane età esigono invece razionalità, responsabilità e autenticità intellettuale, spirituale e umana.
Tutti i tentativi, che sempre più si moltiplicano, volti ad incidere sulla crescita e sullo sviluppo della gioventù non secondo una piena maturazione della consapevolezza integrale dell’umano, ma secondo paradigmi ideologici che tendono a riscrivere, per esempio secondo i canoni del transumano, la normatività naturale e la struttura antropologica fondamentale assurgono a momento critico e problematico di quel delicato comparto della pubblica amministrazione e della vita sociale che è rappresentata dall’esperienza scolastica.
In tal senso occorre prendere atto della distinzione strutturale tra un sistema di istruzione di uno Stato di diritto democratico e quello dei regimi totalitari che in passato hanno caratterizzato la tragica esperienza del XX secolo.
Nei regimi totalitari, proprio perché totalizzanti, cioè in grado di pervadere ogni aspetto della vita umana e di assorbire l’individuo all’interno del meccanismo sociale totalitario, il sistema di istruzione non era destinato a fornire quegli elementi conoscitivi necessari per la crescita integrale dell’essere umano, ma tutte le energie erano destinate a plasmare “l’uomo nuovo” che fosse obbediente e funzionale al regime totalitario medesimo e, dunque, alle sue finalità più o meno recondite e più o meno anti-umane.
Per ottenere questa finalità ogni regime totalitario novecentesco ha dovuto marginalizzare ed escludere il naturale ruolo educativo della famiglia ed avocare su di sé in modo esclusivo il compito di indottrinare le giovani generazioni al precipuo fine di piegarle ai propri stessi dettami ideologici.[1]
In uno Stato di diritto democratico, invece, bisogna tenere sempre ben presente la consapevolezza della distinzione tra cultura e nozionismo, tra istruzione e indottrinamento, tra verità e ideologia, tra ciò che consente un reale sviluppo intellettuale e spirituale del discente e ciò che, invece, ne potrebbe impedire la formazione nel senso più autentico e umano.
2. Genesi e ratio del consenso informato
Il diritto al consenso informato nasce, come risaputo, nell’alveo della medicina, specialmente dopo le tragiche esperienze del XX secolo in cui il regime nazionalsocialista aveva intrapreso un vasto programma di sperimentazione sugli esseri umani senza e perfino contro il loro consenso,[2] ponendo, dunque, le basi per il confezionamento di tutte quelle normative internazionali poste a tutela dell’umano, che sono giustamente fiorite subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, come il Codice di Norimberga, la Convenzione di Oviedo, la Convenzione di Helsinki, le quali tutte hanno sostanzialmente sancito il principio per cui la ricerca bio-medica e la somministrazione farmaceutica devono sempre essere condotte rispettando la dignità umana e il consenso libero e consapevole dei soggetti che vi si sottopongono.
Il problema, tuttavia, non si è certamente esaurito con la fine del totalitarismo nazionalsocialista, essendosi registrati numerosi casi – nel cinquantennio del dopoguerra – in cui il principio del libero e consapevole consenso è stato ampiamente violato anche in contesti democratici,[3] a riprova che i diritti della persona e la sua dignità possono sempre e ovunque essere violati.
Nonostante ciò, non si può fare a meno di osservare come il riconoscimento del consenso informato nell’ambito della ricerca scientifica e delle applicazioni biomediche e farmaceutiche rappresenti un momento fondamentale dell’affermazione del principio personalistico che si propone come criterio etico guida a cavallo tra il mondo della scienza e quello del diritto.
Il consenso informato, del resto, ha segnato il superamento proprio di quelle pervasive tendenze, tipiche del paternalismo medico,[4] per le quali si doveva considerare l’essere umano come oggetto di ricerca, a favore del modello etico relazionale dell’alleanza terapeutica in cui invece sia il medico che il paziente sono pienamente riconosciuti come soggetti liberi e responsabili.
Le stesse modifiche legislative intervenute nel corso del tempo hanno sempre maggiormente rafforzato la centralità etica e giuridica del consenso informato, come testimonia quella parte della legge n. 219/2017 che di ciò si occupa, e che non a caso già da tempo è stato definito dalla Corte Costituzionale come diritto fondamentale costituzionalmente garantito in quanto sintesi di altri due diritti costituzionali quali il diritto alla libertà personale e quello alla salute.[5]
Il consenso informato, in sostanza, è esso stesso un diritto fondamentale inderogabile poiché non soltanto catalizza una migliore attuazione di altri diritti costituzionali, ma poiché la sua ratio iuris più intima consiste nell’impossibilità di reificare l’essere umano in ossequio al principio personalistico che informa non soltanto l’intera architettura costituzionale italiana, come ricordato più volte dalla stessa Consulta,[6] ma anche e soprattutto l’intera esperienza giuridica.
3. Il consenso informato in ambito scolastico
Nell’ambito scolastico il consenso informato è strettamente legato con il superiore tema della libertà di insegnamento e apprendimento che trova nell’articolo 33 della Costituzione il suo specifico fondamento.
In tal senso, infatti, si sono mosse le passate novelle legislative, come l’introduzione della legge n. 153/1969, che ha riconosciuto il diritto dei genitori di scegliere l’educazione dei propri figli con la possibilità di frequentare istituzioni scolastiche non statali, e la legge n. 62/2000 che ha equiparato le scuole non statali a quelle statali rafforzando la libertà di scelta dei genitori.
La norma che, tuttavia, più di altre risulta essere centrale è senza dubbio l’articolo 30 della Costituzione italiana il quale sancisce il dovere e diritto dei genitori di educare e istruire i figli.
Da quest’ultima disposizione costituzionale si evincono almeno tre dati imprescindibili che suggeriscono l’opportunità di disciplinare in modo espresso e sistematico tale materia.
In primo luogo, la stessa Costituzione affida all’educazione statale un ruolo sussidiario rispetto all’educazione famigliare, comportando ciò una incomprimibilità della libertà di scelta educativa che spetta alla famiglia rispetto a tutte le altre valutazioni di ordine pubblico e statale.
In secondo luogo, la stessa Costituzione riconosce una gerarchizzazione implicita tra educazione e istruzione, anteponendo la prima alla seconda, poiché contempla la prima nell’articolo 30 e la seconda nell’articolo 34, riconoscendo così alla prima una priorità e una superiorità non soltanto di ordine quantitativo, cioè inerente alla quantità di conoscenza che i figli possono apprendere, ma anche e soprattutto di ordine qualitativo, poiché l’educazione è ben più dell’istruzione, essendo cioè la crescita morale e umana dell’individuo ben al di là delle mere nozioni specifiche che si possono apprendere nel corso della vita scolastica.
In terzo e ultimo luogo, e questo è probabilmente il punto più delicato e rilevante, l’articolo 30 della Costituzione precisa in modo esplicito che quello ricadente sui genitori in merito all’educazione dei figli è prima un dovere e soltanto dopo un diritto.
La figura del dovere comporta da un lato l’inderogabilità e la creazione di un vincolo che obbliga tutti e da cui nessuno può sollevare o esimere, ma anche e soprattutto, come ha insegnato Immanuel Kant, che si agisce all’interno di un orizzonte di bene morale oggettivo e razionalmente esperibile che si traduce in una volontà buona.[7]
Tutto ciò significa che prima dello Stato sono i genitori a conoscere il vero bene per l’educazione dei figli e che proprio per questo a loro spetta il godimento della massima libertà dei tempi, dei modi e degli strumenti per assicurare che l’educazione dei figli sia corrispondente non tanto e non solo ai propri convincimenti soggettivi, ma al bene oggettivo della prole che deve essere educata e istruita.
L’introduzione di un consenso informato e perfino dell’eventuale esenzione dalla frequenza di corsi o percorsi formativi scolastici su temi attinenti all’ambito della sessualità che dai genitori sono reputati in contrasto con il bene educativo oggettivo dei propri figli, dunque, rappresenterebbe l’attuazione concreta e completa di istanze costituzionali e di principi generali della logica costitutiva dello Stato di diritto democratico.
Con tutta evidenza non ci si ritrova in quella selva di confusione teoretica costituita dalla odierna moda della moltiplicazione dei cosiddetti “nuovi diritti” da cui trova scaturigine l’incresciosa e inarrestabile inflazione del valore del diritto oggi così diffusa,[8] ma si tratta della migliore modulazione della tutela della persona attraverso un rafforzamento delle garanzie poste a salvaguardia del cosiddetto “foro interno” dei genitori e, quindi, anche della loro prole.
L’ampia griglia di carte e convenzioni internazionali che espressamente contemplano l’esigenza di tutelare una tale libertà in capo ai genitori, del resto, offre un ulteriore sostegno sulla legittimità e opportunità di una simile iniziativa legislativa.
Così, per esempio, l’articolo 2 del Protocollo 1 della CEDU e l’articolo 14 della stessa CEDU riconoscono la libertà dei genitori di educare i propri figli in adesione ai propri convincimenti filosofico-religiosi; l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU del 1948 sancisce che i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai propri figli; la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo del 1989, infine, riconosce il diritto dei genitori di guidare l’educazione dei figli.
A tal fine come nell’ambito medico-sanitario il consenso informato – secondo i consolidati indirizzi della giurisprudenza costituzionale più sopra richiamata – è la sintesi dei diritti tutelati dall’articolo 13 in tema di libertà personale e dall’articolo 32 in tema di diritto alla salute, così il consenso informato in ambito scolastico non può che apparire come la sintesi del predetto diritto di libertà ex articolo 13 Cost. e del dovere/diritto sancito dall’articolo 30 della Costituzione medesima.
I genitori, dunque, devono essere informati sui tipi di corsi legati alla sessualità, poiché essa non soltanto rappresenta un tema fondamentale della crescita personale dell’individuo che deve imparare a conoscere la propria dimensione corporea, ma poiché proprio su questo tema oggi si stanno registrando le più drammatiche pagine della profonda lacerazione antropologica occidentale che si traduce, infatti, in una radicale negazione della naturale identità sessuata umana, in favore di una sua presunta molteplice declinazione culturale la quale, tuttavia, è ben poco scientifica e fin troppo ideologica,[9] come comprova – ex plurimis – la recentissima sentenza del caso For Women Scotland Ltd vs The Scottish Ministers dello scorso 16 aprile 2025 con cui si è correttamente sancita la corrispondenza dell’essere uomo o donna con il sesso biologico e non con altre costruzioni del tutto astratte dalla realtà.
Proprio sull’affermazione della libertà educativa, del resto, anche la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel recentissimo caso Mahmoud vs Taylor del 27 giugno 2025 ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale della legge scolastica del Maryland che non consentiva ai genitori di esentare i propri figli dalla frequenza di corsi sulla sessualità in cui venivano utilizzati testi contrari al credo religioso delle famiglie.
Nell’epoca dell’esaltazione dell’autodeterminazione soggettiva, del resto, non si comprende la ragione per cui dopo essere stata riconosciuta l’autodeterminazione procreativa, o ancora quella terapeutica, o quella eutanasica, non possa e non debba altresì essere riconosciuta l’autodeterminazione educativa che peraltro trova ben più ampio fondamento normativo e di principio rispetto alle predette forme di decisioni individuali.
L’idea, peraltro, che i corsi scolastici sulla sessualità consentano di porre le basi per contrastare gli speciosi e sempre più drammaticamente diffusi fenomeni dei femminicidi, della violenza domestica, dei maltrattamenti su minori e di altri tragici analoghi misfatti, non soltanto non è idonea a sopprimere una libertà e un dovere che per Costituzione sono riconosciuti in capo ai genitori, ma peraltro è anch’essa in contrasto con il dato di realtà.
Come ha osservato già da tempo Luca Ricolfi, infatti, occorre prendere atto del cosiddetto “paradosso nordico”, cioè quello per cui proprio nei Paesi del nord Europa come Svezia, Danimarca e Finlandia in cui da decenni si effettuano corsi di sessualità e affettività si registra il maggior incremento della violenza contro le donne.
Il problema, dunque, non è risolvibile con i corsi sulla sessualità o con un espansionismo illimitato della sfera penale, ma si tratta di un problema di ordine culturale e antropologico ben più ampio, poiché all’interno della cultura materialistica ed edonistica odierna, come giustamente evidenziato da Mauro Ronco, «invece di un pacifico benessere materiale e di una serena accondiscendenza alle regole del vivere civile è inaspettatamente comparsa una società violenta in cui la donna, liberata completamente dai vincoli della moralità sessuale tradizionale e della sua vocazione di madre, è diventata la vittima sacrificale della prevaricazione fisica e psicologica di quanti le stanno intorno, non per rispettare la sua libertà, ma per approfittare della sua eventuale fragilità».[10]
Il consenso informato in ambito scolastico, dunque, non può che garantire la tutela del minore da parte di tutti quegli insegnamenti che vengono ritenuti scientifici, ma che invece tali non sono e che si limitano ad essere soltanto un vero e proprio camouflage di istanze ideologiche che mirano al sovvertimento del dato di realtà, poiché come ha chiosato Aleksandr Zinov’ev, il più delle volte, «l’ideologia non brama altro che presentarsi in abiti scientifici».[11]
4. Conclusioni
Nell’epoca in cui si registra un acuirsi della divisione antropologica che oramai da decenni consuma la civiltà occidentale,[12] e nell’epoca in cui la scienza viene piegata alle esigenze politiche,[13] nonché alle istanze ideologico o agli interessi economici,[14] occorre sempre vigilare, specialmente nel campo dell’educazione e dell’istruzione, e quindi proprio a beneficio dei diritti delle nuove generazioni, che non intervengano corsi scolastici i quali non sono gestiti da educatori e formatori come tali interessati al bene reale e integrale dei giovani esseri umani consegnati alle loro cure, ma da veri e propri pericolosi “ingegneri di anime”.[15]
Contro tali rischi, e contro le derive totalitarie degli attuali sistemi liberali,[16] i genitori devono poter esercitare la propria libertà educativa che prende le mosse esattamente dalla consapevolezza circa i corsi proposti ai propri figli durante gli anni della frequenza scolastica.
In quest’ottica i genitori devono poter selezionare l’offerta formativa proposta ai propri figli, decidendo cosa può essere inutile, o peggio, dannoso per la loro crescita intellettuale e morale che li conduca ad essere e realizzare pienamente la propria umanità.
Si può ritenere, dunque, che non si può immaginare una libertà educativa senza una società sostanzialmente umana e democratica, come, soprattutto, non si può teorizzare una società umana e democratica senza una compiuta libertà educativa.
Del resto, in conclusione, il più importante esponente del pensiero umanista come Erasmo da Rotterdam, che larga parte delle proprie fatiche ha speso per ipotizzare sistemi pedagogici realmente rispettosi della dignità umana, oggi tuttavia fin troppo spesso dimenticato, già nel 1530 così ha avuto modo di scrivere: «La maggior parte degli uomini sbagliano qui in tre modi: o trascurano del tutto l’educazione dei figli; o cominciano tardi a modellarne gli animi secondo la norma etica; o li affidano a maestri da cui imparano cose da disimparare[…]. Una volta scelto il maestro, i genitori non saranno nel frattempo meno attenti e solleciti. Sorveglieranno maestro e figlio insieme e non deporranno questa responsabilità».[17]
Il presente testo costituisce la rielaborazione dell’Audizione tenuta dall’autore presso la VII Commissione Cultura Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati in data 1° luglio 2025 sul Disegno di Legge A.C. 2423 recante disposizioni in tema di consenso informato in ambito scolastico.
[1] Cfr. Aldo Rocco Vitale, Introduzione alla bioetica. Temi e problemi attuali, Il Cerchio, Rimini, 2019, pag. 58-59.
[2] Richard Overy, Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Mondadori, Milano, 2002; Luciano Sterpellone, Le cavie dei lager. Gli esperimenti medici delle SS, Mursia, Milano, 1978; Robert Jay Lifton, I medici nazisti, Bur, Milano, 2002.
[3] Andrew Goliszek, In the name of science. A history of secret programs, medical research, and human experimetation, St. Martin’s Press, New York, 2003. Cfr. altresì Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, pag. 233-240.
[4] «Il paternalismo indica la concezione etica che prescrive di agire, o di omettere di agire, per il bene di una persona senza il suo assenso»: Piergiorgio Donatelli, voce “Paternalismo”, in Eugenio Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, Bari, 2007, pag. 212; cfr. inoltre: AA.VV., Respect for autonomy and medical paternalism reconsidered, in Theoretical Medicine, 6/1985; AA.VV., Four models of the physician-patient relationship, in Journal of American Medical Association, 16/1992; Raanan Gillon, Paternalism and medical ethics, in “British Medical Journal”, 29 giugno 1985.
[5] «Funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione»: C. Cost. n. 438/2008.
[6] Ex plurimis cfr: C. Cost. n. 1146/1988; C. Cost. n. 13/1994; C. Cost. n. 223/1996.
[7] «Il concetto del dovere […] contiene quello di una volontà buona»: Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bur, Milano, 1995, pag. 91.
[8] Aldo Rocco Vitale, Dal sorgere dei diritti al tramonto del diritto, in Archivio Giuridico, 2/2024.
[9] Aldo Rocco Vitale, Gender. Questo sconosciuto, Fede&Cultura, Verona, 2016.
[10] Mauro Ronco, L’oscillazione tra l’abolizionismo e l’espansione incongrua del diritto penale, in L’ircocervo, 2/2024, pag. 180.
[11] Aleksandr Zinov’ev, Cime abissali, Adelphi, Milano, 2015, pag. 265.
[12] Aldo Rocco Vitale, L’Occidente diviso e i due modelli antropologici, in Centro Studi Livatino, 6 febbraio 2025.
[13] Roger Pielke Jr., Scienza e politica. La lotta per il consenso, Laterza, Bari, 2005.
[14] «Nell’attuale situazione l’attività scientifica è sempre più spesso subordinata a interessi politici e le conseguenze si vedono: la corruzione dilaga e non c’è abbastanza trasparenza»: Richard Feynman, Il senso delle cose, Adelphi, Milano, 1999, pag. 113
[15] Frank Westerman, Ingegneri di anime, Iperborea, Milano, 2020.
[16] Ryszard Legutko, The demon in democracy. Totalitarian temptations in free societies, Encounter Cooks, New York-London, 2018.
[17] Erasmo da Rotterdam, Per una libera educazione, Bur, Milano, 2004, pag. 24-26.
Immagine: Thomas Brooks, Il nuovo studente, 1854
In un contesto politico altamente polarizzato, segnato da gravi tensioni tra Governo e magistratura, il Governo di Spagna ha intrapreso un ambizioso quanto controverso processo di riforma del sistema giudiziario spagnolo. Questo contributo analizza criticamente tre iniziative legislative che sollevano forti interrogativi sotto il profilo costituzionale: la limitazione dell’azione popolare nei procedimenti penali, la riforma dello Statuto Organico del Pubblico Ministero e la trasformazione del sistema di accesso alla magistratura e alla procura. L’articolo mette in luce come, pur partendo da diagnosi condivisibili – abuso della azione popolare, deficit di indipendenza della Procura, rigidità e diseguaglianze nei concorsi – le soluzioni proposte manchino del necessario consenso politico e tecnico, suscitando una diffusa opposizione nella comunità giuridica. Si sostiene che le riforme rischiano di compromettere i principi di indipendenza, merito e imparzialità che reggono lo Stato di diritto.
Sommario: 1. Introduzione: un contesto turbolento per la riforma della Giustizia – 2. Una revisione critica delle riforme della Giustizia proposte dal Governo spagnolo – 2.1. La snaturazione dell’azione popolare e la Proposta di Legge Organica di garanzia e protezione dei diritti fondamentali contro le molestie derivanti da azioni giudiziarie abusive – 2.2. Lo Statuto Organico del Pubblico Ministero e l’istruzione penale: una “indipendenza” insufficiente della Procura – 2.3. L’accesso alla carriera giudiziaria e alla procura: un problema di merito e una preoccupazione per l’indipendenza giudiziaria – 3. Conclusioni.
1. Introduzione: un contesto turbolento per la riforma della Giustizia
Nel corso dell'attuale legislatura, il Governo spagnolo ha avviato diverse riforme significative nell'ambito della giustizia, in un contesto politico e istituzionale segnato dalla polarizzazione e dalla reciproca sfiducia tra i poteri dello Stato. Va evidenziato che il primo problema irrisolto era il blocco nel rinnovo del Consiglio Generale del Potere Giudiziario (CGPJ), il cui mandato è terminato nel dicembre 2018 e non è stato rinnovato fino a quando PP e PSOE hanno raggiunto un accordo nel giugno 2024[1]. Questa situazione non solo stava minando la fiducia nella giustizia, ma aveva anche portato alcuni tribunali, in particolare il Tribunale Supremo[2], in una condizione di estrema precarietà, dato che, con la riforma introdotta dalla LO 4/2021 del 29 marzo, la cui costituzionalità è stata confermata dalla STC 15/2024 del 30 gennaio, si era limitata la facoltà del Consiglio in regime di prorogatio di effettuare nomine discrezionali per rinnovare i posti vacanti nelle alte corti e nelle cariche governative.
Come conseguenza dell’accordo per il rinnovo del CGPJ, è stata approvata la LO 3/2024 del 2 agosto, che ha introdotto modifiche alla Ley Orgánica del Poder Judicial (LOPJ) e allo Statuto Organico del Ministerio Pubblico (EOMF). L’accordo più rilevante ha previsto che il nuovo CGPJ elabori “una relazione per esaminare i sistemi europei di elezione dei membri dei Consigli della Magistratura analoghi al Consiglio spagnolo e una proposta di riforma del sistema di elezione dei membri designati tra i giudici, approvata con una maggioranza di tre quinti dei suoi componenti, conformemente a quanto disposto all’articolo 122 della Costituzione, che ne garantisca l’indipendenza e che, con la partecipazione diretta dei giudici che si stabilirà, possa essere valutata positivamente nel rapporto sullo Stato di diritto della Commissione Europea”. Il Consiglio ha adempiuto parzialmente a tale mandato, approvando la relazione nei termini previsti, che però contiene due proposte contrapposte: una che mantiene la partecipazione parlamentare nell’elezione dei venti membri (otto laici e dodici togati) e un’altra che affida l’elezione dei membri giudiziari unicamente ai giudici in servizio[3]. La Commissione Europea, nel suo ultimo rapporto sullo Stato di diritto in Spagna, ha ribadito la necessità che i membri giudiziari siano eletti dai propri pari[4].
Inoltre, il Governo ha promosso una riforma rilevante con la LO 1/2025 del 2 gennaio, contenente misure in materia di efficienza del Servizio Pubblico della Giustizia, che introduce cambiamenti significativi nell’organizzazione e funzionamento della giurisdizione spagnola. Resta da vedere se riuscirà ad affrontare il problema dei ritardi nei procedimenti giudiziari, tra le altre questioni.
Per di più, seguendo le raccomandazioni della Commissione Europea, rimangono due aspetti urgenti: rafforzare l’autonomia del Procuratore Generale dello Stato (Fiscal General del Estado), in particolare separando il suo mandato da quello del Governo; e affrontare l’eccessiva durata delle indagini penali, specialmente nei casi di corruzione, riformando a tal fine la Legge di procedura penale[5].
Questo breve scritto si concentra su tre riforme giudiziarie attualmente in fase legislativa o pre-legislativa, che rivestono particolare rilievo costituzionale e hanno suscitato ampie discussioni:
Queste riforme si inseriscono in un contesto di forte tensione politica tra Governo e magistratura e in un clima di bipolarismo polarizzato che rende impossibile il raggiungimento di accordi tra i partiti principali, ostaggio dei partiti più estremisti. L’accordo raggiunto per il rinnovo del CGPJ è stato infatti reso possibile solo sotto la tutela della Commissione Europea. Le tensioni con il Potere Giudiziario sono emerse fin dall’inizio della legislatura, quando il PSOE ha siglato un accordo con Junts, partito indipendentista catalano, il cui leader Puigdemont è latitante dopo aver guidato la ribellione in Catalogna nel 2017. In tale accordo si affermava che in Spagna esiste il fenomeno del lawfare e si proponeva l’istituzione di commissioni parlamentari d’inchiesta sugli eccessi giudiziari. Questa proposta ha provocato forti reazioni contrarie da parte del CGPJ, di tutte le associazioni giudiziarie e di gran parte della comunità giuridica spagnola[6]. Parallelamente, il Governo ha promosso la controversa legge di amnistia per esonerare gli imputati nel procés catalano, che, secondo la Commissione di Venezia, si è rivelata una legge profondamente divisiva[7]. Tale iniziativa ha generato ulteriori tensioni con il Potere Giudiziario, che ha sollevato varie questioni di incostituzionalità[8] e rinvii pregiudiziali.
Sono emerse anche indagini per corruzione che coinvolgono persone vicini al Governo, il quale ha reagito alimentando la narrazione secondo cui esisterebbe una persecuzione giudiziaria promossa da giudici conservatori. Il CGPJ ha dovuto pubblicare comunicati molto severi per esigere il rispetto dell’indipendenza giudiziaria di fronte a dichiarazioni inopportune da parte di esponenti politici. Anche la Commissione Europea ha espresso preoccupazione in merito[9].
Inoltre, le riforme proposte dal Governo sono state aspramente criticate dal CGPJ e dal Consejo Fiscal[10], nonché dalla grande maggioranza delle associazioni giudiziarie e delle associazioni di pubblici ministeri. In alcuni casi, il rigetto è stato unanime. In particolare, ad eccezione dell’Asociación de Juezas y Jueces para la Democracia e dell’Unione Progressista dei Pubblici Ministeri, tutte le altre associazioni hanno convocato mobilitazioni e uno sciopero giudiziario nel giugno 2025. Esse ritengono che le riforme possano compromettere l’indipendenza giudiziaria e i principi di merito e capacità nell’accesso alla carriera.
Passiamo quindi ad analizzare nel dettaglio ciascuna delle tre riforme e i loro punti più critici.
2. Una revisione critica delle riforme della Giustizia proposte dal Governo spagnolo
2.1. La snaturazione dell’azione popolare e la Proposta di Legge Organica di garanzia e protezione dei diritti fondamentali contro le molestie derivanti da azioni giudiziarie abusive
La Proposta di Legge Organica “di garanzia e protezione dei diritti fondamentali contro le molestie derivanti da azioni giudiziarie abusive” è stata presentata dal gruppo socialista il 10 gennaio 2025 e mira a introdurre una profonda restrizione dell’azione popolare prevista all’articolo 125 della Costituzione[11]. Nella sua esposizione dei motivi si afferma che l’obiettivo è “modulare” l’esercizio dell’accusa popolare per evitare abusi, aggiornando una regolazione definita “ottocentesca”. In particolare, si escludono i partiti politici dalla possibilità di esercitare l’azione popolare, si restringe l’ambito dei reati in cui essa è ammissibile, si limita il suo ruolo processuale, la si esclude dalla fase istruttoria e si impone che venga esercitata solo “in virtù di un vincolo concreto, rilevante e sufficiente con l’interesse pubblico tutelato nel procedimento penale”, confondendola così con l’accusa privata.
Inoltre, nella proposta normativa sono incluse altre misure, come l’abrogazione dei reati contro i sentimenti religiosi, la limitazione della possibilità di presentare querele basate su notizie giornalistiche e l’introduzione di una nuova causa di ricusazione o astensione dei giudici qualora abbiano espresso pubblicamente critiche o manifestato accordo o disaccordo con le azioni di istituzioni pubbliche o dei loro rappresentanti, o abbiano contattato privatamente gli stessi con tale finalità.
La prima critica sollevata contro questa iniziativa legislativa riguarda la sua origine, che appare, come già indicato, come una reazione alle indagini avviate in Spagna contro persone vicine al Presidente del Governo, promosse proprio grazie all’esercizio dell’azione popolare. Di fatto, la proposta include una disposizione transitoria volta a rendere inefficaci i “procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore”, il che potrebbe determinare l’arresto di tali indagini se la procura non procedesse autonomamente.
Oltre a ciò, lo stesso titolo dell’iniziativa alimenta la narrativa governativa secondo cui esisterebbero procedimenti abusivi ai quali occorre rispondere. In tal senso, il portavoce socialista Patxi López ha denunciato che organizzazioni “ultrà e fondamentaliste” abusano di questa figura per perseguitare sistematicamente creatori, giornalisti o avversari politici, violando diritti fondamentali. Tuttavia, sebbene sia vero che vi siano stati usi distorti dell’azione popolare, non si può ignorare che molte trame di corruzione in Spagna sono state smascherate proprio grazie a tale strumento – tra gli altri, il caso che ha coinvolto la figlia e il genero del re Juan Carlos – promosse da partiti, sindacati o associazioni che agirono quando il Pubblico Ministero non interveniva con la necessaria fermezza.
Infatti, come ha riconosciuto lo stesso Tribunale Costituzionale, l’azione popolare consacrata all’art. 125 della Costituzione spagnola “ha un profondo radicamento nel nostro ordinamento”, costituendo una “manifestazione della partecipazione cittadina all’amministrazione della Giustizia” (STC 50/1998). Inoltre, essa ha rappresentato anche un meccanismo di controllo sull’operato del Pubblico Ministero, al quale spetta primariamente, ma non esclusivamente, “promuovere l’azione della giustizia a difesa della legalità” (art. 124 CE).
Alla luce di ciò, si può condividere la conclusione formulata da Hay Derecho[12], in linea con alcuni tra i principali studiosi dell’istituto[13], i quali hanno messo in dubbio la legittimità costituzionale di questa riforma, ritenendo che essa implicherebbe una vera e propria snaturazione dell’istituto consacrato dalla nostra Costituzione.
Allo stesso tempo, pur dovendosi esigere un atteggiamento di prudenza da parte dei giudici quando si esprimono pubblicamente su questioni politicamente controverse, non è meno vero che, secondo i principi dell’etica giudiziaria, i giudici godono della libertà di espressione, da esercitare però preservando “la dignità delle funzioni giurisdizionali e l’imparzialità e indipendenza della magistratura” (principio 4.6)[14]; essi hanno altresì il dovere “di sollecitare quei miglioramenti legislativi che rafforzino l’indipendenza giudiziaria come garanzia per i cittadini” (principio 5)[15] e “nei rapporti con i mezzi di comunicazione, il giudice può svolgere un’importante funzione pedagogica di spiegazione della legge” (principio 20)[16]. Anzi, “quando la democrazia, lo Stato di diritto e le libertà fondamentali sono in pericolo, l’obbligo di riservatezza cede il passo al dovere di denuncia” (principio 21)[17]. Pertanto, questa nuova causa di ricusazione/astensione, vista la sua ampiezza, eserciterebbe un effetto dissuasivo contrario al legittimo esercizio delle libertà fondamentali da parte di giudici e dovrebbe essere considerata sproporzionata dal punto di vista costituzionale.
Infine, è sintomatico che la proposta sia stata presentata dal gruppo parlamentare socialista e non come progetto di legge del Governo. Scegliendo la forma della proposizione parlamentare, si è evitato di richiedere i pareri preventivi del CGPJ, del Consiglio di Stato o di altri organi consultivi, così come le consultazioni pubbliche. Una pratica elusiva che, pur non essendo censurata dal Tribunale Costituzionale come vizio di costituzionalità, merita comunque una critica dal punto di vista democratico.
Al momento, questa riforma appare bloccata in Parlamento e non ha progredito nel suo iter legislativo.
2.2. Lo Statuto Organico del Pubblico Ministero e l’istruzione penale: una “indipendenza” insufficiente della Procura
Come complemento al progetto di riforma della Legge di procedura penale attualmente in fase di elaborazione, che mira ad attribuire alla Procura l’istruzione dei procedimenti penali – finora affidata al giudice istruttore –, il Governo ha promosso un progetto preliminare di riforma dello Statuto Organico del Pubblico Ministero (EOMF). Tra i contenuti principali di questa riforma dell’EOMF (Legge 50/1981) si evidenzia un presunto rafforzamento dell’autonomia del Pubblico Ministero, in linea con le raccomandazioni europee, che tra le altre misure prevede l’estensione del mandato del Procuratore Generale dello Stato, nominato dal Governo, a 5 anni, per svincolarlo così dalla legislatura, e stabilisce cause tassative per la sua revoca anticipata; si regolano in modo più trasparente le relazioni tra Governo e Procura; e si introducono anche modifiche, tra le altre cose, nell’organizzazione interna e nei contrappesi della Procura, nonché in materia di autonomia finanziaria.
Ebbene, la parte di questa riforma che tende a rafforzare l’autonomia del Pubblico Ministero contiene alcune proposte che, come detto, vanno nella giusta direzione come richiesto dalla Commissione Europea e dal Gruppo di Stati contro la Corruzione (GRECO)[18]. Tuttavia, risultano del tutto insufficienti in vista del cambiamento di modello che si intende introdurre nell’istruzione penale. Come ha affermato il CGPJ nei suoi pareri sui progetti di riforma della Legge di procedura penale e sull’attuale riforma dell’EOMF, “il nuovo modello di processo penale, nel quale il Pubblico Ministero rappresenta l’elemento chiave della fase istruttoria, può essere attuato solo se, previamente, si procede ad una riforma ambiziosa dello Statuto Organico del Pubblico Ministero che rafforzi la garanzia istituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero”[19].
Attualmente, il Pubblico Ministero è definito come “un organo di rilevanza costituzionale […] integrato con autonomia funzionale nel Potere Giudiziario” (art. 2 EOMF), ma non gode dell’indipendenza riconosciuta a giudici e tribunali spagnoli, la quale è garantita costituzionalmente. Inoltre, il Procuratore Generale dello Stato è nominato dal Governo con ampia discrezionalità, con il solo contrappeso della consultazione non vincolante del CGPJ e della dichiarazione di idoneità da parte del Congresso. Il Procuratore Generale ha a sua volta importantissime competenze per impartire istruzioni e per dirigere l’attività del Pubblico Ministero secondo il principio di gerarchia, nonché ampi poteri discrezionali per nominare i vertici della procura. Inoltre, il Pubblico Ministero non gode di autonomia di bilancio e le sue risorse dipendono dal Ministero della Giustizia.
Pertanto, nonostante i modesti miglioramenti introdotti dalla proposta normativa, vi sono ancora numerose carenze che impediscono di conferire alla Procura un autentico statuto di indipendenza, sia “ad extra” nei confronti degli altri poteri – in particolare del Governo –, sia “ad intra” tra gli stessi procuratori. Ad esempio, la proposta contempla una maggiore trasparenza nelle comunicazioni tra Governo e Procuratore Generale, ma “la riforma non prevede un divieto espresso e tassativo di rivolgere al Procuratore Generale dello Stato ordini, istruzioni o indicazioni di qualsiasi tipo, in linea con quanto previsto per la Procura Europea”[20]. A livello interno, inoltre, non solo non si rafforzano, ma si indeboliscono i contrappesi al potere del Procuratore Generale dello Stato, in particolare riducendo le competenze attuali del Consejo Fiscal[21]. Anche lo stesso Consejo Fiscal ha emesso un parere molto critico su questa riforma[22].
Infine, vi è una questione di fondo che richiederebbe una riforma costituzionale: il sistema di nomina del Procuratore Generale. Per quanto si voglia scollegare il suo mandato da quello del Governo e rafforzarne l’indipendenza una volta nominato, principalmente mediante l’inamovibilità, la larga discrezionalità nella scelta della persona da parte del Governo, come già segnalato, compromette seriamente la posizione istituzionale della Procura. Gli esempi delle ultime persone elette come Procuratori Generali dello Stato non hanno fatto altro che confermare questa preoccupazione. Si ricordi che la sig.ra Dolores Delgado, predecessora dell’attuale Procuratore Generale, è passata senza soluzione di continuità dal ruolo di Ministra della Giustizia a quello di Procuratore Generale, fatto che in seguito è stato proibito mediante la riforma del 2024, la quale ha introdotto un periodo di “raffreddamento” per diventare Procuratore Generale per chi ha ricoperto incarichi politici. Tuttavia, dopo la sig.ra Dolores Delgado, in 2022, è stato nominato come successore il sig. García Ortiz, che aveva occupato incarichi di rilievo per nomina della stessa Delgado. E, quando è caduto il governo in 2023, il sig. García Ortiz è stato nominato per la seconda volta Procuratore Generale nonostante il parere negativo del CGPJ circa la sua idoneità, e ciò dopo che alcune nomine effettuate durante il suo precedente mandato erano state annullate dal Tribunale Supremo, che in un caso ha persino riscontrato una “deviazione di potere”. Attualmente, il sig. García Ortiz è imputato per rivelazione di segreti in una vicenda politicamente delicata e, nonostante ciò, è rimasto in carica ed ha perfino influenzato la nomina dei pubblici ministeri che dirigono l’indagine contro di lui. In questo contesto, è difficilmente sostenibile l’idea che semplici ritocchi al funzionamento del Pubblico Ministero possano garantire l’indipendenza necessaria per assumere la conduzione delle indagini penali.
Per questo, come ha concluso Hay Derecho: “Senza garantire una maggiore indipendenza ai pubblici ministeri, attribuire autonomia finanziaria alla Procura, moltiplicare il numero di procuratori e aumentare esponenzialmente il loro bilancio non sarebbe che una copertura per aprire un canale di influenza politica nelle indagini penali. Nel nostro sistema giudiziario attuale, è il giudice istruttore a condurre l’indagine godendo di uno statuto di totale indipendenza e imparzialità, ma non sarà lui a giudicare; e se eccede nel suo operato, esiste un sistema di impugnazioni pienamente garantista. I pubblici ministeri, invece, sono soggetti ai principi di gerarchia e unità, per cui, sebbene debbano agire nel rispetto del principio di legalità e in modo imparziale, possono ricevere istruzioni dai loro superiori, il che li pone in una posizione più vulnerabile a possibili interferenze, soprattutto quando al vertice non è adeguatamente garantita l’indipendenza dal potere politico”[23].
Pertanto, anche se l’intero iter legislativo deve ancora svolgersi, sembra improbabile che, per quanto perfezionata, la riforma possa risultare soddisfacente, e inoltre è prevedibile che essa non riesca a raccogliere un ampio consenso politico.
2.3. L’accesso alla carriera giudiziaria e alla procura: un problema di merito e una preoccupazione per l’indipendenza giudiziaria
Infine, la riforma che ha suscitato la reazione più forte da parte della grande maggioranza della magistratura e della procura è stata il Progetto di Legge Organica di riforma del sistema di accesso alle carriere giudiziaria e della procura. Questo progetto modifica la Ley Orgánica del Poder Judicial (LOPJ) e l’EOMF per quanto riguarda l’ammissione e la formazione iniziale di giudici e pubblici ministeri.
Questo progetto, come avviene per gli altri, combina misure accolte molto favorevolmente – come un programma di borse di studio e di sostegno economico per candidati privi di risorse – con altre che richiederebbero un ampio dibattito, come la riforma delle prove d’esame, introducendo una nuova prova scritta e sopprimendo una delle due prove orali finora previste.
Inoltre, vi sono alcune proposte considerate potenzialmente pericolose per l’indipendenza giudiziaria. In particolare, la proposta di attribuire al Centro de Estudios Jurídicos, organismo dipendente dal Ministero, nuove competenze nella preparazione dei candidati, in sostituzione dell’attuale sistema in cui sono gli stessi giudici e pubblici ministeri a occuparsi della formazione degli aspiranti. A tal riguardo, il CGPJ ha chiesto di essere coinvolto nella gestione di questo Centro, qualora gli vengano effettivamente attribuite tali competenze, giacché finora la formazione dei giudici dopo il superamento del concorso era gestita dal Consiglio e non dal Governo.
In più, ha suscitato perplessità la riforma della Comisión de Ética Judicial, che verrebbe composta da 5 giudici e 4 giuristi di riconosciuta carriera, questi ultimi nominati dal Parlamento, con il rischio evidente di una politicizzazione dell’organismo[24].
La misura che ha però incontrato la maggiore opposizione è il processo straordinario di stabilizzazione di un migliaio di giudici e pubblici ministeri supplenti. Questi ultimi esercitano le funzioni in modo temporaneo, senza appartenere formalmente alla carriera giudiziaria o della procura, e vi accedono tramite una selezione priva di concorso o esame, molto distante dal rigore e dalla competitività delle vie ordinarie di accesso – che nel caso della magistratura sono il concorso pubblico e il cosiddetto quarto turno, riservato a giuristi di comprovata esperienza.
Con il pretesto che il Tribunale di Lussemburgo ha condannato la Spagna in diverse occasioni per l’abuso di temporalità nel pubblico impiego, si è scelto di non bandire nuovi posti da assegnare attraverso i canali ordinari, ma di predisporre un passaggio straordinario con prove riservate e criteri orientati a stabilizzare questi giudici e procuratori supplenti. Come riconosce la relazione sull’impatto economico che accompagna il progetto, lo scenario più probabile sarà che “tutti i supplenti nominati ottengano la stabilizzazione della loro posizione: in tal caso non ci sarebbero indennizzi e il costo sarebbe pari a zero euro”.
Una proposta che potrebbe compromettere gravemente i principi di merito e capacità e, persino, come ha affermato il CGPJ, il principio di uguaglianza, poiché “può implicare, di fatto, una barriera all’accesso alle prove selettive, privilegiando di fatto, rispetto a qualsiasi altro professionista giuridico, coloro che sono stati giudici supplenti o magistrati supplenti, mediante l’introduzione nella norma di criteri di valutazione dei meriti che privilegiano l’esperienza come giudici supplenti rispetto ad altri meriti professionali rilevanti”[25].
Come se non bastasse, il partito indipendentista Junts ha posto come condizione per appoggiare questa iniziativa legislativa l’approvazione di un emendamento volto a creare un Consiglio della Giustizia della Catalogna, che assumerebbe competenze attualmente attribuite al CGPJ.
Anche in questo caso, si può condividere la conclusione formulata da Hay Derecho: “crediamo nell’importanza di aprire dibattiti che consentano di progredire e dare solidità alle nostre istituzioni (così come abbiamo fatto su questo tema), e che il sistema di selezione dei funzionari pubblici – inclusi i giudici e i pubblici ministeri – possa essere oggetto di miglioramenti. Ma è evidente che la riforma proposta, priva di consenso, con l’opposizione della maggioranza di giudici e procuratori e con modifiche che, come abbiamo visto, possono compromettere gravemente la qualità e l’indipendenza della giustizia, non deve essere portata avanti”[26].
3. Conclusioni
Le riforme giudiziarie analizzate – azione popolare, Statuto del Pubblico Ministero e accesso alla carriera giudiziaria/procura – riflettono la tensione tra una presunta volontà riformista del Governo e i timori di gran parte della comunità giuridica e dell’opposizione in un contesto politico polarizzato. In astratto, ciascuna riforma cerca di rispondere a problemi reali: esistono abusi nell’azione popolare, la Procura spagnola soffre di un deficit riconosciuto di indipendenza e il sistema di selezione dei giudici presenta rigidità e disuguaglianze, mentre va affrontato il fenomeno della giustizia “interinale”. Tuttavia, le soluzioni proposte in ciascun caso sono state oggetto di contestazione a causa dei possibili effetti collaterali e delle motivazioni sottostanti.
Nella riforma dell'azione popolare, il governo invoca la tutela dei diritti fondamentali (evitare il “molestie giudiziarie” da parte degli estremisti), ma la drastica limitazione dell'accusa popolare suscita il timore di indebolire la lotta alla corruzione e di chiudere i canali di partecipazione dei cittadini all'amministrazione della giustizia. L'assenza di consenso e la coincidenza con casi che riguardano il potere politico gettano un'ombra di sospetto sulla riforma, al punto da essere vista come un movimento di autodifesa politica piuttosto che come un miglioramento oggettivo del sistema[27]. È fondamentale trovare un equilibrio: riformare l'azione popolare per prevenire gli abusi, sì, ma senza snaturarla né ridurre il controllo democratico. Un consenso potrebbe includere, ad esempio, l'imposizione di cauzioni e filtri più severi senza vietare agli attori rilevanti di presentarsi quando vi è un interesse pubblico genuino.
Per quanto riguarda la riforma dello Statuto del Ministero Pubblico, l'obiettivo di raggiungere una Procura più indipendente può essere condiviso, ma il progetto preliminare del Governo, come si è potuto osservare, ha ricevuto critiche molto rilevanti per essere insufficiente e persino per aver invertito i contrappesi interni. Il CGPJ, il Consejo Fiscal e alcune associazioni di procuratori hanno chiesto l'introduzione di garanzie più solide: dalla proclamazione esplicita dell'indipendenza e dal divieto di istruzioni politiche, fino alla restituzione di alcune competenze al Consejo Fiscal per evitare un Procuratore generale onnipotente. Senza questi adeguamenti, la riforma rischia di non raggiungere il suo scopo e persino di generare maggiore sfiducia nell'indipendenza del Ministero pubblico. In questo senso, sarebbe indispensabile dare seguito alle raccomandazioni contenute nelle relazioni consultive (CGPJ, Consejo Fiscal) prima dell'approvazione definitiva della legge.
Infine, la riforma dell'accesso alla magistratura e alla procura dimostra che modernizzare il sistema dei concorsi è possibile e auspicabile, ma richiede un delicato consenso per non minare i principi meritocratici e la percezione di indipendenza. Le misure a favore dell'effettiva uguaglianza, come le borse di studio, dell'aggiornamento del sistema selettivo (prove pratiche, più posti) e dello sfruttamento del talento con comprovata esperienza (quarto turno) sono positive in astratto. Tuttavia, il modo brusco con cui sono state introdotte, insieme a disposizioni controverse (regolarizzazione dei supplenti, intervento parlamentare nell'etica giudiziaria), ha provocato uno scontro frontale con la magistratura e la procura. Ciò dimostra che le riforme di fondo nella giustizia richiedono negoziazione e fiducia reciproca: cercare di imporre cambiamenti strutturali senza l'accordo dei giudici e dei pubblici ministeri porta al fallimento o a una contestazione permanente.
In conclusione, queste tre riforme – concepite in un contesto di “tempesta perfetta” tra l'Esecutivo e il Potere Giudiziario – sottolineano la necessità di depoliticizzare le politiche in materia di giustizia. È fondamentale che le modifiche alle regole del gioco giudiziario si basino su diagnosi tecniche condivise e visioni a lungo termine, e non su urgenze partitiche congiunturali. Solo così sarà possibile realizzare riforme legittime, efficaci e stabili. In caso contrario, qualsiasi progresso normativo sarà messo in discussione. La Spagna deve affrontare sfide importanti per rafforzare il suo Stato di diritto: ripristinare la normalità istituzionale nel CGPJ, garantire una giustizia indipendente ed efficiente e rigenerare la fiducia dei cittadini. Tuttavia, le riforme analizzate, così come sono state proposte, anziché contribuire al miglioramento della nostra giustizia, sollevano seri dubbi e possono avere effetti erosivi su pilastri essenziali come l'indipendenza giudiziaria.
[1] In Spagna, il CGPJ è l'organo di governo della magistratura (che comprende giudici, ma non i pubblici ministeri) ed è composto da 20 membri e dal presidente del Tribunale Supremo. Dei 20 membri, 8 sono giuristi di riconosciuto prestigio nominati dal Parlamento a maggioranza qualificata, mentre gli altri 12 devono essere giudici. La Costituzione non ha stabilito chi debba scegliere questi ultimi. Nella prima regolazione, i 12 membri togati erano eletti dagli stessi giudici, ma dalla riforma della Legge organica del potere giudiziario del 1985 sono stati eletti dal Parlamento. Questo sistema, in cui i 20 membri sono eletti dal Parlamento, ha ricevuto molte critiche, come si vedrà, soprattutto da parte della Commissione europea, che ha chiesto alla Spagna di adeguarlo agli standard europei, che prevedono che i membri togati siano eletti da e tra i giudici.
[2] Il Tribunale Supremo spagnolo è equivalente nelle sue funzioni alla Corte di Cassazione italiana.
[3] In Spagna, mentre i giudici assumono l'esercizio esclusivo delle funzioni giurisdizionali e godono di uno status indipendente, soggetto solo alla legge; i pubblici ministeri sono soggetti al principio di gerarchia e unità d'azione, sebbene debbano rispondere anche al principio di legalità e imparzialità. La Procura è un organo costituzionalmente “autonomo”, ma la sua indipendenza non è costituzionalmente prevista.
[4] Commissione Europea: 2024 Rule of Law Report: Country Chapter on Spain, 2025.
[5] Ibidem.
[6]Cfr. Hay Derecho: “Editorial: sobre el acuerdo PSOE-Junts”. Blog. Hay Derecho, 2023: https://www.hayderecho.com/2023/11/10/editorial-de-hay-derecho-sobre-el-acuerdo-psoe-junts/
[7] Commissione di Venezia: Opinion on the rule of law requirements of amnesties, with particular reference to the parliamentary bill of Spain “on the organic law on amnesty for the institutional, political and social normalisation of Catalonia”, Sessione n. 138, 2024. In questo rapporto, la Commissione di Venezia ha rilevato la “vivace controversia” e gli “effetti molto divisivi nella società” che l'amnistia potrebbe avere, e ha quindi raccomandato che sia espressamente disciplinata nella Costituzione e approvata da ampie maggioranze parlamentari. La Commissione europea è andata anche oltre e nelle sue osservazioni in una delle questioni pregiudiziali presentate dai giudici spagnoli contro l'amnistia davanti al Tribunale di Lussemburgo ha concluso che la legge sull'amnistia è contraria al diritto dell'UE perché non risponde a un obiettivo di interesse generale, nella misura in cui "sembra costituire un'auto-amnistia, per due motivi. In primo luogo, perché i voti dei suoi beneficiari sono stati essenziali per la sua approvazione nel Parlamento spagnolo. In secondo luogo, perché il disegno di legge fa parte di un accordo politico per l'investitura del governo spagnolo. Ebbene, se c'è un motivo per ritenere che le autoamnistie in cui chi detiene il potere politico cerca di farsi scudo garantendo la propria immunità legale siano contrarie al principio dello Stato di diritto, sembra che gli stessi criteri debbano essere applicati quando chi è al governo garantisce l'impunità ai propri partner in cambio del sostegno parlamentare".
[8] Il Tribunale Costituzionale ha dichiarato la costituzionalità di gran parte della legge di amnistia con la sentenza 137/2025 del 26 giugno. Il Tribunale si è diviso in due blocchi ideologicamente allineati, 6 a favore (progressisti) e 4 contro (conservatori), anche se ci sono stati due magistrati che non hanno partecipato alla deliberazione, uno progressista - che è stato Ministro della Giustizia nel governo di Pedro Sánchez - e un altro conservatore - che era stato membro del CGPJ - perché avevano precedentemente stabilito che l'amnistia era incostituzionale.
[9] Commissione Europea: 2024 Rule of Law Report: Country Chapter on Spain, 2025.
[10] Il Consejo Fiscal è un organo collegiale che assiste il Procuratore generale dello Stato nelle sue funzioni, svolgendo funzioni consultive e di segnalazione. È presieduto dal Procuratore generale ed è composto dal Procuratore aggiunto della Corte suprema, dal Procuratore capo ispettore e da nove procuratori eletti dai procuratori stessi.
[11] “I cittadini possono esercitare l'azione popolare e partecipare all'amministrazione della giustizia attraverso l'istituzione della giuria, nelle forme e rispetto ai procedimenti penali stabiliti dalla legge, nonché nei tribunali consuetudinari e tradizionali” (art. 125 CE).
[12] Hay Derecho: “Editorial: sobre la propuesta de reforma de la acción popular”, Blog. Hay Derecho, 2025: https://www.hayderecho.com/2025/01/13/editorial-sobre-la-propuesta-de-reforma-de-la-accion-popular/
[13] Ridaura Martínez, J.: “En defensa de la acción popular”, Blog. Hay Derecho, 2025: https://www.hayderecho.com/2025/01/20/en-defensa-de-la-accion-popular/
[14] UNODC: Principi di Bangalore sulla condotta dei giudici, 2002.
[15] CGPJ: Principios de ética judicial, 2016.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] In particolare, si vedano i rapporti di follow-up del IV ciclo del GRECO dedicato alla prevenzione della corruzione di parlamentari, giudici e pubblici ministeri, che hanno raccomandato di rivedere il metodo di elezione e la durata del mandato del Procuratore Generale, nonché di stabilire requisiti e procedure chiare nella legge per aumentare la trasparenza della comunicazione tra il Capo delle Procure e il Governo, e di esplorare nuovi modi per fornire una maggiore autonomia nella gestione dei mezzi delle procure.
[19] CGPJ: Informe sobre el anteproyecto de ley por la que se modifica la Ley 50/1981, de 30 de diciembre, por la que se regula el Estatuto Orgánico del Ministerio Fiscal, 2025.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Cfr. Consejo Fiscal: Informe al anteproyecto de ley por la que se modifica la Ley 50/1981, de 30 de diciembre, por la que se regula el Estatuto Orgánico del Ministerio Fiscal, 2025.
[23] Hay Derecho: “Editorial: Por la "independencia" del Ministerio Fiscal”, Blog Hay Derecho, 2025: https://www.hayderecho.com/2025/05/19/editorial-por-la-independencia-del-ministerio-fiscal/
[24] La Comisión de Ética Judicial è un organo istituito con l'adozione dei principi di etica giudiziaria per fornire indicazioni sull'interpretazione di tali principi attraverso pareri e relazioni sulla base delle consultazioni ricevute. È composta da sei membri della carriera giudiziaria nominati direttamente dall'intero ordine giudiziario, che a loro volta nominano un altro membro non giudiziario, un accademico esperto di etica o filosofia del diritto.
[25] CGPJ: Informe sobre el anteproyecto de Ley orgánica por el que se modifica la Ley orgánica 6/1985, de 1 de julio, del poder judicial, y la 50/1981, de 30 de diciembre, por la que se regula el Estatuto Orgánico del Ministerio Fiscal, para la ampliación y fortalecimiento de las carreras judicial y fiscal, 2025.
[26] Hay Derecho: “Editorial: ¿Reformar el acceso a la Justicia?”, Blog Hay Derecho, 2025: https://www.hayderecho.com/2025/06/11/editorial-reformar-el-acceso-a-la-justicia/
[27] Hay Derecho: “Editorial: sobre la propuesta de reforma de la acción popular”, Blog. Hay Derecho, 2025: https://www.hayderecho.com/2025/01/13/editorial-sobre-la-propuesta-de-reforma-de-la-accion-popular/
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In un momento così difficile per il mondo e per l’Unione Europea l’ultimo libro di Pasquale Gianniti − L’antico sogno degli Stati Uniti d’Europa tra integrazione politica e dialogo delle Corti Supreme − ci porta a riflettere sulla necessità di perseguire con nuove energie l’antico sogno di realizzare gli Stati uniti di Europa (o comunque altro modello di coesione) e lo fa muovendo da una approfondita analisi di carattere storico dalla quale si desume che, fin dai tempi di Carlo Magno, è stata avvertita l’esigenza di unificare l’Europa senza successo per varie ragioni. Finché, dopo alterne vicende, nel corso della Seconda guerra mondiale, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli redassero il Manifesto per un’Europa unita e libera, che fu il punto di partenza per il Congresso europeista dell’Aia del 1948.
Il manifesto di Ventotene è quindi il primo seme dell’europeismo, inteso come volontà di superare le divisioni e i conflitti tra le nazioni europee, in particolare dopo le due guerre mondiali, per creare un’unione di pace e prosperità.
Infatti, poco dopo la Dichiarazione Schuman (1950) ha portato alla nascita di diverse istituzioni e trattati che hanno gettato le basi per l’attuale Unione Europea.
La costruzione è stata favorita e migliorata grazie soprattutto alla Corte di Giustizia e ai rapporti sempre più stretti e frequenti dei giudici europei tra loro e con la Corte di Giustizia.
Parallelamente, grazie all’istituzione del Consiglio d’Europa e al suo interno alla approvazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e quindi all’inizio del funzionamento della Corte di Strasburgo, si è perseguito l’obiettivo della salvaguardia e dello sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti i 46 Stati membri del Consiglio d’Europa.
La giurisprudenza delle suddette due Corti europee centrali è diventata sempre più importante, nel corso del tempo, per i giudici nazionali ed ha, in primo luogo, consentito di ampliare le tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore di soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione e/o di violazione della pari dignità è più alto, secondo le parole dell’allora Presidente della Corte costituzionale Francesco Saja, nella presentazione dalla nota “svolta” giurisprudenziale del 1987, che ha portato la Corte ha ritenere che fosse necessario: (i) riferire l’art. 2 Cost. non soltanto ai diritti fondamentali garantiti da altre disposizioni della stessa Carta fondamentale, per affermare che il suddetto articolo contiene un «elenco aperto», di diritti fondamentali; (ii) per dare “energica attuazione in numerosissime occasioni al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.” considerare l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione di cui al primo comma dell’articolo 3 non di carattere tassativo, ma da riferire soltanto alle situazioni più frequenti.
Il dialogo con le Corti europee centrali ha consentito di potenziare la suddetta indicazione della Corte costituzionale con risultati molto importanti per la tutela della dignità umana e sociale delle persone, che è alla base delle nostre democrazie, con pronunce che non solo hanno riguardato i singoli casi ma tutto il sistema (UE e Consiglio d’Europa) di riferimento.
La tutela della dignità delle persone per entrambe la Corte deve essere effettuata nel rispetto del valore dello Stato di diritto e dei principi della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura perché non rispettare tali principi non può non avere ricadute sul rispetto della dignità umana e sociale delle persone.
Nel libro Pasquale Gianniti si sofferma sulle modalità di funzionamento della Corte di Giustizia e degli altri organi giurisdizionali UE oltre che della Corte di Strasburgo e da questa analisi, svolta con metodo storico, desumiamo molte interessanti informazioni che ci consentono di conoscere più da vicino i due suddetti sistemi giurisdizionali, molto diversi da quelli nazionali.
Viene anche sottolineato che l’azione dell’Unione ha sempre affondato le sue radici nel quadro generale della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei due Patti sui diritti umani del 1966, che costituiscono il paradigma del sistema internazionale di tutela dei diritti umani. Essa, pertanto, riconosce il principio dell’universalità dei diritti umani; il principio della loro indivisibilità (che vieta, almeno in teoria, qualsiasi gerarchizzazione tra diritti civili e politici, da un lato, e diritti economici, sociali e culturali, dall’altro); il principio dell’interdipendenza tra diritti umani, democrazia e sviluppo.
Pertanto, la tutela dei diritti umani si realizza in una pluralità di livelli — tradizioni nazionali, giurisprudenza della Corte di giustizia, vincolatività della Carta dei diritti umani fondamentali e delle altre Carte e Convenzioni — e questo rende lo spazio democratico dell’Unione quello a più sicura garanzia per i loro titolari.
In questo contesto hanno molta rilevanza i principi che trovano espresso riconoscimento nei trattati, tra i quali rientrano:
— il principio di uguaglianza, che, già affermato a livello nazionale e sovranazionale e già riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte, è ora sancito: sia dal tue all’art. 2, sia dal tfue agli artt. 8 e 10, sia soprattutto dalla Carta ue, che dedica un intero titolo, il terzo, alla salvaguardia dell’uguaglianza. Va rilevato che il riconoscimento di tale principio nasce dal dialogo tra la Corte di Giustizia con i giudici nazionali dei Paesi nella cui Costituzione il principio è previsto (l’art. 3 della Cost. italiana, l’art. 1 della Cost. francese, l’art. 7 della Cost. austriaca, l’art. 9 della Cost. spagnola, l’art. 3 della Cost. tedesca, l’art. 11 della Costituzione belga). A livello sopranazionale, il principio è riconosciuto dall’art. 7 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, dall’art. 14 della Convenzione edu, da diverse disposizioni del Patto per i diritti civili e politici, dall’art. 4 della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata dal Consiglio d’Europa;
— il divieto di discriminazione, già riconosciuto dalla Corte di giustizia come un corollario del principio di uguaglianza;
— il principio di sussidiarietà, in base al quale la disciplina generale è devoluta all’attività legislativa ed amministrativa degli organismi che sono più vicini alle collettività destinatarie delle disposizioni comunitarie, che costituisce dagli inizi un presupposto basilare dell’ordinamento europeo e che ora è sancito dall’art. 5 tue (già art. 5 tce);
— il principio di proporzionalità (previsto dall’art. 5 paragrafo 4 tue), secondo il quale la legittimità di un atto comunitario va valutata in base alla sua idoneità o necessità rispetto agli obiettivi dei trattati;
— il principio di leale collaborazione, in base al quale ogni istituzione deve ispirare il proprio comportamento ad atteggiamenti cooperativi, in particolare in quelle ipotesi in cui vi siano sovrapposizioni o interferenze di competenze (affermato dall’art. 4 par. 3 tue e dalla Corte di giustizia);
— i principi in materia ambientale, che sono previsti dall’art. 191 par. 2 tfue), in base al quale la normativa europea è fondata sui principi: della precauzione (per cui, laddove un’azione sia potenzialmente dannosa, chi la pone in essere è tenuto ad adottare delle misure cautelative), dell’azione preventiva (per cui deve essere intrapresa ogni azione utile a prevenire danni all’ambiente), della correzione (per cui devono essere rimossi tutti i danni arrecati all’ambiente da parte dello stesso soggetto che li ha posti in essere), nonché sul principio che chi inquina paga (alla luce del quale coloro che causano danni all’ambiente devono sostenere i costi per ripararli o per rimborsare tale danni);
— il principio della tutela dei diritti fondamentali, che, già affermato dalla Corte di giustizia con sentenza n. 29/60 Stauder c. Città di Ulm– Sozialamt e con sentenza n. 36/75, Rutili c. Ministre de l’Interieur, è ora sancito dalla Carta ue, che costituisce parte integrante dei Trattati;
— il principio di attribuzione (art. 5 e art. 13 par. 2 tue), in base al quale l’Unione (rispetto agli Stati membri) e le sue istituzioni europee (nei loro rapporti) agiscono esclusivamente nei limiti delle competenze.
Si aggiunge che molti sono i principi generali di diritto UE desunti dalla Corte di Giustizia, tra i quali il principio della certezza del diritto (per cui la normativa europea deve essere chiara e la sua applicazione prevedibile per i destinatari) e il connesso principio del legittimo affidamento (per cui vanno tutelate le situazioni soggettive che si sono consolidate in conseguenza ad atti posti in essere dalle amministrazioni pubbliche) o di rispetto dei diritti quesiti, ecc.
Dopo un ampio e interessante approfondimento sul diritto derivato UE e sulla Carta dei diritti fondamentali UE e sulla relativa interpretazione e applicazione, in un confronto tra Carta UE e Convenzione EDU viene, in primo luogo, precisato che l’art. 52 della Carta — nell’indicare i criteri che il giudice nazionale deve tener presente per stabilire il significato del diritto fondamentale garantito dalla Carta che di volta in volta viene in rilievo — apre tre possibili scenari, in quanto:
- può accadere che il diritto fondamentale previsto dalla Carta “ricalchi” una norma del Trattato (cfr. art. 52, par. 2, cdf; questo è il caso di vari diritti contenuti nel titolo V della Carta sulla “Cittadinanza”);
- può accadere infine che il diritto fondamentale previsto dalla Carta corrisponda ad una tradizione costituzionale comune agli Stati membri (art. 52, par. 4, Carta dell’Unione).
- può accadere che il diritto fondamentale previsto dalla Carta corrisponda ad un diritto garantito dalla Convenzione EDU: nel qual caso opera la regola di interpretazione di cui all’art. 52, par. 3, che si occupa per l’appunto dell’interpretazione dei diritti fondamentali della Carta che corrispondono a diritti fondamentali già garantiti dalla Convenzione EDU. In tal caso, «il significato e la portata [del diritto fondamentale in base alla Carta] sono uguali a quelli [del diritto Convenzione edu corrispondente]». Ne deriva che il giudice nazionale che applica una norma della Carta deve in primo luogo chiedersi se essa corrisponda ad un diritto convenzionale edu. Se questo è il caso, allora dovrà ricostruire il significato e la portata del diritto fondamentale previsto dalla Carta tenendo conto della sua formulazione nella Convenzione edu, e soprattutto della pertinente giurisprudenza della Corte edu. Tuttavia, lo stesso art. 52, par. 3, della Carta dell’Unione aggiunge che la regola di interpretazione parallela «non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». Dunque, il giudice nazionale dovrà far riferimento anche alla formulazione del diritto nella Carta e alla pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia, e a questi dovrà dare preferenza ove accordino una tutela più estesa (dal punto di vista della ricostruzione del significato e/o della portata del diritto) di quanto non facciano la Convenzione edu e la Corte edu. Per assistere il giudice nazionale nell’applicazione della regola di cui all’art. 52, par. 3, della Carta, la Spiegazione di questa norma fornisce due elenchi di diritti: il primo, contenente i diritti della Carta con lo stesso significato e la stessa portata dei corrispondenti diritti cedu; e l’altro relativo ai diritti della Carta che hanno lo stesso significato dei corrispondenti diritti cedu, ma portata più ampia.
Quest’ultima evenienza è la più problematica in quanto, sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia, da un lato, è consentita l’immediata efficacia della disposizione della Carta UE (che, se di derivazione cedu, non può assumere un livello di protezione inferiore a quello convenzionale) ma, dall’altro, si esclude l’immediata efficacia della norma convenzionale e la sua prevalenza rispetto al dato normativo interno con essa incompatibile.
Quanto ai rapporti tra il diritto interno e la Convenzione edu, si ricorda la sentenza n. 317 del 4 dicembre 2009, nella quale (punto 7 del Considerato in diritto) la Corte ha espressamente rilevato che: «il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti»; e che: «nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso, come già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il suo riferimento primario, ma spetta anche a questa Corte nella sua attività interpretativa delle norme costituzionali».
Sentenza, peraltro, seguita dalle numerose pronunce nelle quali la Corte costituzionale ha affermato che “a differenza della Corte EDU, questa Corte … opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante”, che, nelle singole fattispecie si traduce nelle soluzioni indicate.
Ampio spazio è dedicato alla mancata adesione della UE alla CEDU e al rapporto tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia, nei mutamenti avutisi nel tempo.
Nella parte finale del libro, di carattere geopolitico, si affronta il tema della necessità di “ripensare all’Europa”, muovendo dalla premessa che per i c.d. Padri fondatori dell’odierna Europa, l’esito del processo di integrazione avrebbe dovuto essere la creazione di istituzioni politiche federali e, quindi, la creazione degli Stati Uniti d’Europa, sicché l’attuale unificazione europea è una opera incompiuta, anche se è stato progressivamente ampliato il numero dei settori coinvolti nel processo di integrazione e delle funzioni attribuite alle istituzioni europee ed è stata creata la moneta unica.
Vi sono però delle controindicazioni; in primo luogo, vi è la questione della scarsa democraticità dell’attuale assetto delle istituzioni europee.
Secondo lo spirito del Trattato sull’Unione, poiché sono democratici sia il circuito sovranazionale che il circuito intergovernativo, dovrebbe essere democratico anche il prodotto dei due circuiti, cioè il funzionamento complessivo dell’Unione.
Tuttavia, osserva l’Autore, questa democraticità, per così dire indiretta, non sembra sufficiente:
- per il Parlamento europeo è sì un organo politico decisionale, che è composto di rappresentanti dei cittadini dell’Unione (art. 14 tue) e, quindi, vanta un collegamento elettorale diretto con quest’ultimi il Trattato non chiarisce se ciascun parlamentare europeo rappresenta tutti i cittadini dell’Unione (come dovrebbe essere in linea con le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, che prevedono quasi tutte il divieto di mandato imperativo) ovvero soltanto quelli dello Stato membro, nel cui collegio è stato eletto (come sembra doversi desumere dal fatto che i seggi vengono assegnati agli Stati membri, secondo il criterio della proporzionalità degressiva rispetto alla popolazione, nonché dal fatto che cittadini di diversi Stati votano necessariamente in diversi collegi elettorali);
- i governi degli Stati membri esercitano collettivamente, nel Consiglio Europeo, la funzione legislativa, approvando così collettivamente regole che sono immediatamente efficaci e prevalenti su quelle deliberate dai parlamenti nazionali. Ma ciascun componente del Consiglio, pur contribuendo all’assunzione di provvedimenti efficaci nei confronti di tutti i cittadini europei, rappresenta soltanto una sola parte di essi — i cittadini di un singolo Stato membro — e solo a quella parte risponde;
- la Commissione UE, che in un certo qual modo è il governo dell’Unione, opera nell’interesse generale dell’Unione, ma è composta da 27 commissari (uno per ciascun Paese dell’Unione) a ciascuno dei quali viene attribuita la competenza per uno specifico settore tematico, insieme all’autorità sui relativi servizi amministrativi. Quindi vi è il pericolo che ciascun Commissario non abbia la visione generale dei problemi da risolvere, ma si occupi solo dello specifico settore tematico di competenza. Inoltre, il Presidente della Commissione rappresenta sì l’Unione, ma trae la propria legittimazione esclusivamente da un organo intergovernativo. E ciò rappresenta un ulteriore profilo del deficit democratico;
- infine, singolare è la posizione della Banca Centrale Europea, che, pur governando la politica monetaria dell’Unione (e, dunque, pur gestendo un forte potere), può rimanere, anche a lungo, irresponsabile del proprio operato dal punto di vista politico. Sotto questo profilo, è necessario non soltanto un governo economico, preludio di un governo politico, al quale la bce possa fare riferimento ma anche che la Banca sia responsabile del suo operato dinanzi ai Parlamenti nazionali ed al Parlamento europeo.
Per evitare derive antieuropeiste che possono manifestarsi in questa situazione di scarsa democraticità interna l’Autore auspica la formazione di organi decisionali che — rappresentando l’Unione nel suo insieme, e, nel contempo, avendo un collegamento elettorale con i cittadini europei — siano autenticamente sovranazionali.
Da anni l’Unione Europea non riesce ad affrontare in modo adeguato alcune questioni di grande rilievo, a partire dalla immigrazione e dalla creazione di una capacità fiscale europea, dotata di indipendenza e rilevanza, espressione di una nuova sovranità europea da affiancare a quella degli Stati nazionali.
Queste sono tra le più rilevanti questioni strategiche, con importanti ricadute economiche, ma da anni non si riesce a risolverle come meriterebbero.
Ma la controindicazione maggiore è rappresentata dal fatto che oggi i governi degli Stati membri hanno una diversa visione del futuro dell’integrazione europea. A fronte di alcuni Paesi favorevoli ad una maggiore integrazione (come Francia, Spagna, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Malta), ve ne sono altri che sostengono il mantenimento dello status quo, pur con qualche aggiustamento (come la Germania, la Finlandia, i Paesi Bassi); e c’è poi il blocco dei Paesi sovranisti (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca); e ve ne sono altri ancora (come l’Italia, che è peraltro un Paese Fondatore) la cui linea politica è decisamente incerta.
Però per fare fronte all’emergenza COVID e per deliberare le sanzioni nei confronti di Putin dopo l’invasione dell’Ucraina la risposta di tutti i Paesi UE è stata unitaria.
Con questo stesso spirito andrebbe affrontata l’attuale congiuntura che richiede coesione perché solo a questa condizione, nello scenario internazionale, l’Unione Europea potrebbe avere un posto di rilievo non solo come mercato ma anche come portatrice di un modello culturale di organizzazione della vita sociale, che è astrattamente suscettibile di estendersi in ogni parte del globo e che si articola in tre fondamentali idee madri: la democrazia rappresentativa, il mercato ed il c.d. rule of law.
In particolare, sul terreno del diritto e dei suoi strumenti l’Unione europea rappresenta un esempio a livello globale. Ne fanno fede la sua Carta dei diritti, i suoi Trattati, l’efficacia immediata nel diritto nazionale delle sue direttive, la presenza di due Corti che emanano decisioni importanti, nuovi strumenti quali la nuova Procura europea, il mandato di arresto e tutti gli altri istituti di cooperazione.
La fissazione di regole condivise e di organi di giustizia comuni hanno consentito il formarsi di una “cultura giuridica europea” sempre più integrata, che pone al centro la persona umana.
Questo modello culturale di riferimento rappresenta la grande, impareggiabile, forza dell’Unione, che tutto il mondo ci invidia.
Ma l’integrazione tra gli Stati membri dell’Unione non può procedere soltanto attraverso la giurisprudenza e le nomofilachie delle corti supreme (nazionali ed europee), perché richiede decisioni politiche da parte delle competenti istituzioni, rappresentative sul piano nazionale di ciascuno Stato membro.
Sotto questo profilo, l’auspicio è che, sulla scena politica europea vi siano statisti, che sappiano integrare i singoli interventi in progetti politici unitari, superando sovranismi nazionali e impostazioni individualistiche (come accadde negli anni Cinquanta del secolo scorso con Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schuman).
Questo è l’auspicio di fondo che l’Autore formula come messaggio di un libro denso di informazioni storiche, geopolitiche, giuridiche condite da acute osservazioni nel quale viene affrontato, con serietà e con uno stile letterario fluido, un argomento di cui si parla da decenni ma che oggi, nell’era Trump, è diventato di stringente attualità perché se l’Unione Europea in ambito internazionale non si pone come un unico soggetto forte rischia l’irrilevanza.
Sommario: 1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele - 2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione - 3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione - 4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso - 5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico - 6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU - 7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti - 8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele.
1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele
La guerra in Ucraina, prima, e l’occupazione armata, incessantemente ingaggiata da Israele a Gaza e non solo, in particolare dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre del 2023, hanno riportato ad attualità un tema, persistentemente in ombra nei dibattiti sull’art. 11 della Costituzione[1]: quello del rapporto fra ripudio della guerra e giustiziabilità del potere, pubblico o privato, di fornitura di materiali d’armamento a Stati aggrediti o aggressori.
La riemersione ha investito una serie di interrogativi, originariamente incentrati sugli accadimenti ucraini[2].
Nello specifico, ci si è chiesti se l’invio di materiale d’armamento allo Stato europeo fosse costituzionalmente legittimo al cospetto degli articoli 10, primo comma, 11, 52, primo comma, e 78 della Costituzione italiana.
La risposta prevalente si è rivelata affermativa per sei ordini di considerazioni[3]:
i. l’invio è stato deliberato con appositi atti normativi, a partire dal d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022 e reiteratamente prorogato, in deroga alla disciplina generale, la l. n. 185/1990, che invece lo vieta in scenari di guerra o di conflitto armato;
ii. tale deroga sarebbe costituzionalmente ammissibile, grazie al combinato disposto fra art. 10, primo comma, Cost. e art. 11 Cost., che colloca il ripudio della guerra nella cornice del diritto internazionale generale e dello Statuto ONU, reso esecutivo in Italia dalla l. n. 848/1957;
iii. l’art. 11 Cost. non contiene un’esplicita dichiarazione di neutralità, a differenza di altri Stati, come Svizzera, Austria, Malta e Repubblica d’Irlanda;
iv. perciò esso non osta a che l’Italia invii propri mezzi in appoggio di uno Stato, vittima di aggressione in violazione del diritto internazionale generale e dell’art. 2, n. 4, dello Statuto ONU;
v. anche perché la fornitura di materiali d’armamento non viola neppure l’art. 52, primo comma, Cost., con costituendo intervento diretto di autodifesa collettiva, ai sensi dell’art. 51 dello Statuto ONU, attraverso l’impiego di forze armate italiane in guerre altrui;
vi. né comporta, per l’Italia, l’assunzione del ruolo di parte nel conflitto, difettando pure la deliberazione parlamentare di stato di guerra, richiesta dall’art. 78 Cost.
Questo itinerario di verifica non risulta mai percorso né proposto in tutta la storia delle forniture di materiali d’armamento a favore di Israele, Stato notoriamente in disaccordo con il diritto internazionale, sia generale che umanitario, neppure dopo che il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024, prima, e la risoluzione dell’Assemblea Generale del 19 settembre 2024, dopo, hanno rubricato le condotte materiali israeliane come illeciti permanenti di aggressione territoriale a Gerusalemme est, Cisgiordania e nella stessa striscia di Gaza, e come violazione dei diritti individuali e collettivi dei palestinesi, invitando gli Stati terzi dell’ONU a interrompere qualsiasi relazione di scambio con lo Stato occupante[4].
Se, in passato, le forniture ci sono sempre state, avallate dal Memorandum d’intesa fra Italia e Israele del 2003, reso esecutivo con la l. n. 94/2005, e dall’Accordo di Sicurezza del 1987, richiamato dall’art. 5 del Memorandum, oggi continuano ad esserci[5] sia perché i due accordi italo-israeliani non sono stati denunciati[6] sia perché i provvedimenti abilitativi dei poteri di fornitura non sono stati mai né sospesi né revocati, nonostante l’apposita previsione degli artt. 10 e 15 della citata l. n. 185/1990[7].
Mantenendo questa continuità, l’Italia ha agito e sta agendo in modalità totalmente contraria al caso ucraino: invece di approvare una normativa in deroga pur di giustificare le forniture di materiali d’armamento, essa mantiene in vigore la legislazione, disapplicandola sul fronte delle sospensioni e revoche in scenari di guerra o di conflitto armato per di più nell’accertato contrasto con il diritto internazionale e lo Statuto dell’ONU; invece di soddisfare le sei condizioni di costituzionalità, elencate come necessarie per supportare uno Stato aggredito, ne prescinde a vantaggio di uno Stato aggressore.
In gioco, ancora una volta, è la conformità con l’art. 11 Cost.
2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione
Il significato della disposizione è stato ampiamente scandagliato dalla dottrina italiana[8]; molto meno dalla giurisprudenza.
L’enfasi è costantemente ricaduta, come conferma la discussione sull’Ucraina, sul “ripudio” della guerra, in quanto imperativo categorico di decisione[9].
Da tale angolo di visuale, come si accennerà, l’imperativo è stato qualificato “sostanziale” rispetto a quello, definito “procedurale”, desumibile dall’art. 78 Cost.: ossia dell’accettazione della guerra quale “stato” di fatto prodotto sempre e solo da altri, mai dall’Italia, e, per l’Italia, riconoscibile esclusivamente da parte del Parlamento con apposita deliberazione[10].
Gli enunciati dell’art. 11 Cost., nondimeno, non si esauriscono a questo. Accanto all’imperativo della decisione di “ripudio”, la disposizione produce anche una norma performativa delle condotte materiali, riguardanti i rapporti con la libertà.
Detto altrimenti, e come osservato da una risalente attenta dottrina[11], mentre è «sacro dovere del cittadino» la “difesa” della propria patria (art. 52, primo comma, Cost.)[12], l’ “offesa” dell’altrui libertà è condotta materiale, inequivocabilmente estromessa dal panorama costituzionale sia nelle relazioni interindividuali interne allo Stato, per contrasto con il principio solidaristico dell’art. 2 Cost., sia in quelle esterne allo Stato e coinvolgenti altri popoli, per divieto dell’art. 11 Cost.
Non a caso, la Corte costituzionale ha erto l’estromissione della condotta offensiva della libertà altrui a valore costitutivo dello Stato di diritto italiano, riassunto dal neminem laedere (Corte cost. sent. n. 16/1992).
Così proiettato, l’art. 11 Cost. si coniuga con l’art. 2 Cost. e con l’art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, in forza del quale «ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati», delineando una situazione soggettiva universale, ossia propria di qualsiasi essere umano, che consiste nell’obbligo di “non offendere” le libertà altrui, sia di individui che di popoli, e nel riflesso diritto a “non essere offeso” come individuo o “altro” popolo[13].
Ora, le situazioni soggettive universali sono pacificamente giustiziabili. Se, per l’Ucraina, esse non emergono compromesse dai materiali d’armamento, visto che il loro invio mira a difenderle contro l’aggressione altrui, lo stesso non può certo dirsi per gli individui e il popolo aggrediti da Israele, Stato destinatario di quegli invii italiani malgrado la violazione del diritto internazionale e dello Statuto ONU.
Di qui, l’insorgenza delle esigenze di giustiziabilità.
Le risposte giurisprudenziali, ad oggi pervenute, appaiono insoddisfacenti e sbrigative. Piuttosto che entrare nella scansione dettagliata dai complessi accadimenti e delle loro ricadute costituzionali sull’art. 11 Cost., esse si sono arroccate nel proclamare l’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento per difetto assoluto di giurisdizione, senza distinzioni di contesto e replicando pedissequamente una costante omissione e due ricorrenti contraddizioni, presenti in precedenti giurisprudenziali totalmente estranei al fenomeno in discussione.
La sintesi di siffatto ordito si rintraccia nella requisitoria della Procura Generale della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, per il Ricorso RG n. 1683/2025[14], dove addirittura Ucraina e Israele, Stato aggredito e Stato aggressore, vengono parificati e, con essi, annacquate l’osservanza o meno del diritto internazionale e dello Statuto dell’ONU, escludendo responsabilità dei poteri e tutela delle situazioni giuridiche tutelabili in nome di una “materia”, le relazioni internazionali, ignota al testo dell’art. 11 Cost., dove, al contrario, l’unica “materia” trattata è quella della «risoluzione delle controversie internazionali», tutt’altro che “libera nei fini” poiché finalizzata esclusivamente alla pace.
Si deve, allora, verificare perché l’omissione e le contraddizioni giurisprudenziali sul difetto assoluto di giurisdizione abbiano potuto portare a questo.
3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione
Partiamo dalla costante omissione.
Essa investe l’assunto, tratto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, secondo cui il difetto assoluto di giurisdizione insorgerebbe ogniqualvolta manchi, nell’ordinamento giuridico italiano, una disposizione normativa anche solo astrattamente idonea a delineare una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela[15]. Siffatto argomentare si riconosce nel postulato della plausibilità, nel sistema costituzionale italiano, di “lacune strutturali” nella difesa della persona umana, che impedirebbero l’accesso al giudice. In tale prospettiva, per esempio, diritti umani su beni universali di sopravvivenza (come la pace o la stabilità del sistema climatico) sarebbero del tutto inconcepibili e non giustiziabili[16].
Si tratta, per l’appunto, di un postulato: come tale, non raccordato alla realtà effettuale[17] e, di riflesso, molto debole in termini di sistema delle fonti, solo a pensare al criterio ermeneutico dell’analogia[18], e debolissimo, poi, dal punto di vista costituzionale, tanto da non trovare appoggio né nella dottrina costituzionalistica maggioritaria né nella giurisprudenza della Corte costituzionale sull’art. 2 Cost. (dopo le aperture inaugurate con la sent. n. 215/1997[19]), e neppure in quella della Corte europea dei diritti umani, favorevole all’elasticità evolutiva degli enunciati CEDU[20].
Il postulato, inoltre, pretermette sempre – e in questo consiste l’omissione costante – il richiamo all’art. 15 CEDU, il quale offre, invece, l’unitaria chiave di lettura della normalità costituzionale, condivisa da tutti gli ordinamenti giuridici afferenti al Consiglio d’Europa, Italia inclusa. Secondo tale disposizione, infatti, si può derogare all’accesso al giudice solo in una situazione di “stato d’urgenza” e alle condizioni poste dalla CEDU stessa. Fuori di questo scenario, la norma astrattamente idonea per l’accesso al giudice esiste sempre, perché rintracciabile comunque nelle elastiche maglie della CEDU stessa (come incidentalmente ammesso, proprio con riguardo alle forniture di armamenti, nel caso “Tugar c. Italia”, di cui si farà cenno a breve), come anche delle Costituzioni e degli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. Tant’è che i tentativi statali di sottrarsi alla suddetta normalità condivisa, persino attraverso disposizioni costituzionali, sono stati dichiarati in contrasto con la CEDU[21].
Per quanto riguarda le due ricorrenti contraddizioni, queste si riferiscono alla dogmatica del c.d. atto politico, categoria, com’è noto, galleggiante nell’ordinamento italiano, malgrado la sua matrice prerepubblicana e pre-costituzionale[22]. L’atto politico sarebbe insindacabile dal giudice, in forza, anche in questo caso, di tre postulati: la deferenza giudiziale verso la separazione dei poteri; la carenza assoluta, in capo al giudice, del potere di creare disposizioni normative, dovendo applicare solo quelle già prodotte; la “libertà dei fini” del potere da sottoporre a sindacato[23]. La prassi applicativa dei tre postulati ha generato contraddizioni su due fronti logici della decisione giudiziale: da un lato, lì dove la decisione, nel sostenere di non detenere poteri creativi di norme, ha creato comunque, con la declaratoria d’insorgenza dell’atto politico, fattispecie normative non esplicitate da disposizioni costituzionali o legislative; dall’altro, allorquando, nel denominare un potere “libero nel fine”, la decisione lo ha abilitato giudizialmente come implicito rispetto ai poteri e fini esplicitati dai testi normativi[24].
Queste singolarità sono diventate ancor più evidenti proprio nella giurisprudenza sul potere di fornitura di materiali d’armamento, generando non poche confusioni semantiche e concettuali.
Ci si riferisce, in particolare, a due decisioni:
- la pronuncia del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 dicembre 2022, n. 17159, con cui si è statuita l’insindacabilità degli atti statali di fornitura di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina, aggredita dalla Russia;
- l’ordinanza cautelare del Tribunale civile di Roma (N.RG. 13556/2024), non sconfessata in sede di reclamo, che lo stesso difetto assoluto di giurisdizione ha dichiarato, con riguardo, però, alla fornitura di materiali d’armamento a Israele, Stato occupante (e aggressore) a Gaza e nei territori palestinesi occupati.
Nella prima, il giudice, in un ricorso per l’annullamento dei decreti interministeriali di attuazione della legislazione di invio di armamenti in Ucraina, sostiene di attenersi alla separazione dei poteri per tre ragioni:
- perché il potere di fornitura di materiali d’armamento apparterebbe alla “materia” delle relazioni internazionali, di cui i giudici nazionali non si occupano,
- perché per tale “materia” non sarebbe configurabile alcuna «situazione di interesse protetto»,
- perché è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», sicché spetta solo alla giurisprudenza il compito di procedere alla loro individuazione «fatto salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali».
Nella seconda, dove un avvocato palestinese ricorreva ex art. 700 Cod. proc. civ. nei confronti dello Stato italiano, per chiedere, tra le altre, l’imposizione del divieto di fornitura di armamenti a Israele, il medesimo principio della separazione dei poteri verrebbe salvaguardato dal fatto che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», sicché la “materia” delle relazioni internazionali non sarebbe giustiziabile persino allorquando uno Stato, occupante e aggressore come Israele a Gaza, offende libertà altrui.
Non è difficile rintracciare gli elementi sintomatici della costante omissione e delle due ricorrenti contraddizioni, poc’anzi osservate.
Davvero l’art. 11 Cost., rivolgendosi allo Stato, esclude, solo per questo, l’accesso alla giustizia? E allora come si concilia, tale postulato, con l’art. 15 CEDU, per il quale, al contrario, l’accesso alla giustizia è sempre ammesso, a meno che non ci si trovi «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» e non certo nella “materia” delle relazioni internazionali e l’Italia non sia coinvolta in alcuna guerra o altro pericolo dichiarato? E con gli artt. 2 Cost e 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo?
Se veramente è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», allora sono i giudici i detentori del potere creativo (rectius, moltiplicativo) di tali atti?
Da dove si deduce che il potere di fornitura di materiali d’armamento appartenga alla “materia” delle relazioni internazionali tra Stati, quando la Costituzione individua una specifica “materia” – quella della «risoluzione delle controversie internazionali» ex art. 11 Cost. – limitata nei fini e nei mezzi, mentre una legge, come si vedrà la già citata n. 185/1990, declina la fornitura di armamenti come autonomia contrattuale[25]? Si tratta, forse, di un ulteriore (l’ennesimo) potere “implicito” d’invenzione giurisprudenziale? Ma come conciliarlo con il limite del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali», che evidentemente lo escluderebbe?
Non poca confusione emerge dagli interrogativi insorti; confusione semiotica, verrebbe da dire nella prospettiva della semiotica giuridica, ossia manifesta sovrapposizione di segni[26] fra quelli dell’esperienza (esistenza di Stati aggrediti e di Stati aggressori; di fatti illeciti subiti da uno Stato e fatti illeciti prodotti da uno Stato; di contratti internazionali di compravendita accanto a trattati e convenzioni internazionali, della “materia” delle controversie internazionali distinta dalla “materia” delle relazioni internazionali ecc…) e quelli degli enunciati performativi riferiti a tali esperienze (regole giuridiche differenti per chi subisce un’aggressione o un fatto illecito da quelle per chi li provoca; regole giuridiche apposite per i contratti internazionali di compravendita non assimilabili a quelle sui trattati e le convenzioni fra Stati; differenza tra fornitura di materiali d’armamento e spedizione di contingenti di militari ecc…).
4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso
La confusione non viene meno neppure se ci si appiglia all’art. 7, comma 1, del Codice del processo amministrativo, lì dove si prevede che siano sottratti alla giurisdizione gli «atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico»[27].
Invero questa disposizione, che è e resta sub-costituzionale (in quanto banalmente legislativa), viene erta, dai giudici promotori dell’ atto politico nella “materia” delle relazioni internazionali, a fonte “super-costituzionale”, in quanto abilitativa di poteri “liberi nei fini” al di là persino degli stessi fini costituzionali della solidarietà verso qualsiasi persona umana (art. 2 Cost.) e del ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 Cost).
Ancorché la stigmatizzazione costituzionale dello «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» impedisca di legittimare condotte di aggressione, la giurisprudenza sul potere “libero nel fine” nella “materia” delle relazioni internazionali, indipendentemente se con Stati aggrediti o aggressori, legittima – giacché insindacabili – condotte di aggressione.
Nonostante il ripudio costituzionale della guerra, «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», impedisca forniture di materiali d’armamento per alimentare soluzioni belliche delle controversie, indipendentemente dal coinvolgimento o meno dell’Italia, la giurisprudenza sull’art. 11 Cost., quale fonte che «si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», le consente.
In definitiva, per la giurisprudenza sull’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento, la “libertà dei fini” consisterebbe in una totale “indifferenza” italiana dei “fini”: tanto di difesa quanto di offesa, tanto di pace quanto di guerra.
Eppure, sono state proprio le Sezioni Unite della Corte di cassazione ad aver avvertito che «non può essere esclusa in casi estremi [come la commissione di gravi crimini] la garanzia della giustiziabilità e dell’intervento del giudice comune [...] per sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza» (ordinanza n. 15601/2023).
Non diversamente si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, tra l’altro nei riguardi dell’Italia, in occasione della decisione sul caso “Nasr e Ghali c. Italia” (Quarta Sez., 23 maggio 2016, ricorso n. 44883/09), anche in tale circostanza per la presenza di fatti illeciti offensivi del comune sentimento di giustizia e della libertà.
In una parola, non c’è atto politico o “libertà nei fini” che possa tradursi in ostacolo all’accesso al giudice nazionale, allorquando si verta in tali situazioni di fatto “offensive” della libertà e della giustizia.
Appare, dunque, singolare che questa conclusione venga negata nell’applicazione giudiziale dell’art. 11 Cost., che proprio sul rifiuto dell’offesa alla libertà degli altri popoli fonda la ratio sull’abilitazione dei poteri di pace e non di guerra.
Su questo fronte, la giurisprudenza legittimante l’insindacabilità della fornitura di materiali d’armamento consuma una manifesta incostituzionalità: apparentemente essa si ritrae dalla giurisdizione; in concreto, con le riscontrate confusioni semiotiche fra aggrediti e aggressori, relazioni internazionali e contratti di compravendita, fornitura di materiali d’armamento e spedizioni militari essa estende gli effetti dei propri pronunciamenti oltre i confini della stessa Costituzione, inventando, per via giudiziale, il potere “libero nel fine” di “offendere” la libertà degli altri popoli anche non direttamente – ossia con i propri armamenti, con buona pace del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali» (come retoricamente evocato dal citata decisione del T.A.R. Lazio).
Nella teoria costituzionale comparata, un esito così assurdo, di creazione giurisprudenziale di un potere espressamente escluso dalla Costituzione, verrebbe rubricato come “mutamento costituzionale tacito”[28]. L’art. 11 Cost., in quanto principio costituzionale, è sottratto al potere politico di revisione costituzionale (come inequivocabilmente noto, dopo le sentenze della Corte costituzionale nn. 1146/1988 e 238/2014). Detto altrimenti, il suo contenuto non può essere modificato da nessuno. Ciononostante, la giurisprudenza sull’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento sentenzia ben altro: ciò che non è ammesso per revisione costituzionale, lo sarebbe per atto politico “inventato” dal giudice.
Gli stessi “poteri necessari” del Governo sullo stato di guerra, che l’art. 78 Cost. subordina alla previa deliberazione parlamentare proprio per derogare all’esclusione delle condotte di offesa, imposta dall’art. 11 Cost.[29], diventerebbero a questo punto “superflui”, grazie alla creazione giurisprudenziale dell’insindacabile atto politico sulla fornitura di materiali d’armamento anche per offendere libertà di altri popoli.
Eppure quell’art. 78 è stato elaborato proprio per scongiurare queste degenerazioni ermeneutiche e di prassi. La disposizione, infatti, espungendo dal lessico costituzionale la formula “pieni poteri” – tipica del regime statutario prerepubblicano degli atti “liberi nei fini”, illimitati e insindacabili da parte non solo del giudice ma addirittura dello stesso Parlamento[30] – ha voluto collegare possibili condotte di offesa alla libertà di altri popoli a espliciti presupposti fattuali e formali di loro limitazione[31]:
- la pre-esistenza della situazione di guerra, dato che la disposizione non contempla la “dichiarazione” di guerra, bensì lo “stato” di guerra ovvero una situazione di fatto da altri prodotta, rispetto all’Italia che la guerra “ripudia”;
- la conseguente funzione accertativa della deliberazione parlamentare;
- l’ulteriore conseguente natura temporanea dei “poteri necessari” del Governo, dipendenti appunto dallo “stato” di fatto accertato ma non voluto dall’Italia.
Nulla a che vedere, in sostanza, con quanto predicato dai giudici sull’atto politico: in base all’art. 78 Cost., l’unico atto politico ammissibile per legittimare condotte di offesa è la deliberazione parlamentare a seguito di uno “stato” di guerra altrui. Nient’altro.
D’altro canto, ulteriore conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, si deduce pure dalla vicenda della l. n. 25/1997, originariamente finalizzata a disciplinare i poteri del Ministero della Difesa, in funzione di qualsiasi deliberazione del Governo previamente approvata dal Parlamento, senza alcuna distinzione fra condotte di difesa od offesa conseguenti a tali atti parlamentari. La legge è stata successivamente abrogata dal d.lgs. n. 66/2010, presupponendo quella distinzione, non solo perché i poteri ministeriali non si raccordano più con l’art. 78 Cost., restando così nella normalità dello “stato di pace” e dei fini non offensivi ammessi in Costituzione, ma soprattutto perché quei poteri vengono separati dalle funzioni riguardanti la fornitura di materiali d’armamento, come si evince dall’art. 11 del nuovo testo normativo, che devono concretizzare solo condotte materiali di pace.
5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico
In ultima analisi, quello che sfugge clamorosamente alle pronunce richiamate è l’inquadramento del sistema delle fonti in tema di fornitura di materiali d’armamento.
Un sistema complesso, nel quale si intrecciano Costituzione e leggi, poteri amministrativi e autonomia contrattuale, diritto internazionale pubblico e privato, diritti umani e libertà dei popoli.
Tutt’altro che una “lacuna strutturale” di interessi e diritti, giustificativa del difetto assoluto di giurisdizione.
Un sistema di fonti unico nel panorama comparato, orientato esclusivamente al perseguimento della pace e al rifiuto dell’aggressione armata e dell’offesa alla libertà dei popoli.
Ben altro, in buona sostanza, rispetto al potere “libero nei fini”, fondativo dell’atto politico.
L’unicità, infatti, si radica nei seguenti pilastri costituzionali, fra loro integrati.
i. La Costituzione italiana è l’unica al mondo a includere, tra i suoi principi fondamentali inemendabili in quanto controlimiti a qualsiasi altra fonte, il ripudio della guerra (art. 11 Cost.), inteso come imperativo assiologico e teleologico, rivolto a tutti i poteri pubblici e privati senza ulteriori riserve di normazione, a differenza, per esempio, dell’art. 26, n. 2, della Legge fondamentale tedesca, dove invece si ammette la possibilità di fornire «armi destinate alla condotta di una guerra»[32].
L’integrazione di questi pilastri, poi, è dettagliata dalla l. n. 185/1990, proprio per la disciplina del potere di fornitura di materiali d’armamento.
Prima di questa legge, non esisteva una normativa di riferimento e di raccordo con l’art. 11 Cost. e la tutela dei diritti, tant’è che, su questa lacuna, si impiantò un giudizio davanti alla Commissione europea dei diritti umani (caso “Tugar c. Italia”, ricorso n. 22896/93), dichiarato inammissibile ma dopo aver precisato che il potere di fornitura di materiali d’armamento (in quel caso, si trattava di mine) deve comunque rispettare i diritti CEDU[33].
Adesso, la nuova fonte regolamenta in modo organico e vincolante le operazioni di esportazione, importazione e transito di qualsiasi componente d’armamento, sottraendole alle relazioni internazionali, per rubricarle invece come contratti soggiacenti, al pari di qualsiasi altro contratto italiano, pubblico o privato, alla Costituzione, ai suoi fini di ripudio della guerra e dell’offesa della libertà altrui: in pratica, l’esatto contrario del costrutto “creato” dalla giurisprudenza sull’atto politico.
Nello specifico, la legge, già a partire dall’art. 1:
Sostanzialmente, il sistema delle fonti italiane orbita in un campo diametralmente opposto alle false rappresentazioni della realtà, offerte dalle citate pronunce giurisprudenziali, arroccate sull’insindacabilità del potere “libero nel fine”.
La fornitura di materiale d’armamento non appartiene alla “materia” delle relazioni internazionali[34]. Costituisce oggetto di relazioni contrattuali dentro fini e mezzi pacifisti nella «risoluzione delle controversie internazionali».
I titolari di queste relazioni non vengono riconosciuti dall’ordinamento come autorità “politiche”, bensì semplicemente come “contraenti” (inclusi gli Stati).
I loro atti non sono mai individuati come “politici”, perché sempre amministrativi (autorizzazione, vigilanza, sospensione, revoca) o privati (trattative, contratti, obbligazioni, adempimenti), tutti costantemente limitati dalla Costituzione.
Uso e destinazione degli armamenti non sono affatto “liberi”, in quanto sottoposti a divieti, vincoli e limiti di fondamento legale, e neppure insindacabili nei loro “fini”, perché comunque proiettati sul fine del “ripudio” della guerra e dell’offesa alla libertà degli altri popoli.
In questa cornice di diritto positivo, la tesi, di “creazione” giurisprudenziale, che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», si palesa totalmente arbitraria. Avrebbe mantenuto qualche margine di plausibilità, ove effettivamente la fornitura di materiali d’armamento fosse stata assegnata, da una qualche fonte del diritto italiano, alla “materia” delle relazioni internazionali.
Però, così non è stato. La l. n. 185/1990 riconduce le operazioni di fornitura alle obbligazioni contrattuali internazionali di attuazione di fini costituzionali. A seguito di questa opzione contrattuale, l’art. 11 Cost., da “oggetto” nella disponibilità della politica “libera nei fini” (come vorrebbero le pronunce citate), assurge a “parametro” dei poteri pubblici e privati di contrattazione, al pari della «norma di applicazione necessaria» sui contratti internazionali comuni, ammessa dal diritto internazionale privato con l’art. 17 della l. n. 218/1995 («È fatta salva la prevalenza … delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera»)[35].
6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU
Del resto, che l’art. 11 Cost. risulti pacificamente giustiziabile, per sindacare i poteri di fornitura di materiale d’armamento affinché non siano di offesa alla libertà di altri popoli, è deducibile anche dal citato art. 15 CEDU, totalmente espunto dalla cognizione giudiziale sull’atto politico.
Come l’art. 78 Cost., per legittimare la deroga all’art. 11 Cost., richiede un’esplicita deliberazione parlamentare di accertamento dello stato di guerra, così l’art. 15 CEDU, per legittimare la deroga ai diritti e alla giustiziabilità, presuppone accertamenti di “stato”.
Detto in altri termini, in base a questa disposizione interposta alle leggi italiane, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., solo la guerra e la minaccia alla vita della nazione possono indurre a derogare al sindacato giudiziale sui poteri, esercitati al suo interno. La “materia” delle relazioni internazionali è totalmente estromessa. Non solo: se c’è un principio affermato con chiarezza dalla giurisprudenza CEDU sull’art. 15, è quello secondo cui la deroga non può estendersi al di fuori del territorio interessato[36]: l’opposto del costrutto dei giudici italiani. Per questi ultimi, la “materia” delle relazioni internazionali consentirebbe qualsiasi condotta materiale di offesa della libertà dei popoli al di fuori dei confini nazionali. Per la Corte di Strasburgo, una siffatta spropositata estensione risulta inconcepibile persino nel previo ricorso all’art. 15 CEDU.
Del resto, la stessa deroga, invece di abilitare atti liberi nel fine e non giustiziabili, impone comunque che le «misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale».
Il che implica che anche i poteri in deroga rimangono pur sempre limitati. Lo stesso atto politico del derogare, lasciato al margine di apprezzamento di ciascuno Stato, soggiace a vincoli procedurali di informazione e al sindacato giurisdizionale di proporzionalità e di “necessarietà”, ossia di valutazione del “fine” perseguito, evidentemente tutt’altro che “libero” ancorché “politico”[37]: fine che resta comunque di “protezione” dei diritti nella convivenza pacifica, non certo, invece, di giustificata “violazione” nell’offesa coperta dalla deroga (cfr. casi “Kavala c. Turchia”, ricorso n. 28749/18, e “Mehmet Hasan Altan c. Turchia”, ricorso n. 13237/17).
7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti
Concludendo, la rappresentazione del potere di fornitura di materiali d’armamento, come derivato delle relazioni internazionali “libere nel fine”, non rintraccia alcun fondamento costituzionale. All’opposto, quel potere proprio in Costituzione individua tre vincoli ineludibili: il primo di tipo assiologico (il ripudio della guerra), il secondo di contenuto materiale (non assumere condotte di offesa della libertà di altri popoli), il terzo di natura procedimentale (soggiacere ai procedimenti amministrativi della l. n. 185/1990 e non debordare nei poteri, se non alle condizioni poste dall’ artt. 78 Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma Cost., dall’art. 15 CEDU).
Il potere pubblico di fornitura di materiali d’armamento consiste nell’autorizzazione, vigilanza, sospensione e revoca sulle condotte materiali conseguenti, mai offensive della libertà altrui. Si tratta, pertanto, di un normalissimo potere amministrativo, definito nei dettagli dalla legge ed espressamente sottratto alla “libertà dei fini” del potere politico e ancor meno devoluto alla “materia” delle relazioni internazionali.
Il potere privato di fornitura di materiali d’armamento si manifesta in un’autonomia contrattuale internazionale condizionata dal potere pubblico, vincolata nel procedimento e limitata nei contenuti di disponibilità negoziale.
Ne deriva che, se l’atto del potere pubblico risulta pacificamente sindacabile dal giudice, in base ai vizi tracciabili secondo la l n. 241/1990, il contratto privato internazionale è denunciabile persino per nullità, ai sensi degli artt. 1418 e 1421 Cod. civ., ove in diretto contrasto con la Costituzione e con l’esclusione di qualsiasi condotta materiale di offesa alla libertà di altri popoli, in quanto «norme di applicazione necessaria» ex art. 17 l. n. 218/1995.
Per l’uno e per l’altro, non si verserebbe mai in una “lacuna strutturale”, priva di interessi o diritti meritevoli di tutela (a partire dal diritto alla pace ovvero a non essere offesi nelle proprie libertà, individuali e di popolo).
In particolare, poi, l’ipotesi di nullità dei contratti di fornitura di materiali d’armamento non si radicherebbe sulla semplice constatazione che qualsiasi espressione dell’autonomia privata soggiace a Costituzione, in particolare in virtù dell’art. 41 Cost. Per quanto pacifica, giacché ampiamente avallata dalla stessa giurisprudenza costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 85/2020, 302/2016, 56/ 2015, 247 e 152/2010, 167/2009), tale premessa non identifica, di per sé, la norma di “applicazione necessaria” ai contratti in questione.
Per questi ultimi, i parametri di “applicazione necessaria” sono richiamati dall’art. 1 della l. n. 185/1990 e coincidono primariamente con l’art. 11 Cost. e contemporaneamente con l’intero testo costituzionale ossia con un’acquisizione di sistema della Costituzione, non soggetta alla disponibilità contrattuale delle parti.
La conclusione è importante in ordine specialmente all’elezione della “lex fori” del contratto, su cui la l. n. 185/1990 tace. Questo significa che, nelle forniture di materiali d’armamento, la scelta della legge applicabile al contratto viene rimessa all’insindacabile libertà dei contraenti?
L’interrogativo è determinante, dato che una “lex fori” non italiana annacquerebbe la forza imperativa degli enunciati dell’art. 11 Cost. ancorché rubricabili tra le norme ad “applicazione necessaria”[38].
Una prima risposta, in senso contrario alla libera scelta, potrebbe arrivare dall’art. 4 della l. n. 218/1995, lì dove, al secondo comma, si ammette la deroga solo allorquando «la causa verte su diritti disponibili», per poi escluderla, al terzo comma, se il giudice non può «conoscere la causa», sicché si potrebbe sostenere che un giudice straniero non può certo conoscere dell’art. 11 Cost. come fonte di validità dei contratti e delle loro condotte, sottratte alla piena disponibilità delle parti ai sensi della l. n. 185/1990.
Un appiglio più consistente, però, è dato dall’art. 25, primo comma, Cost., sul giudice naturale precostituito per legge: qual è il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli?
La disposizione costituzionale, nel prevedere che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, sancisce un principio identificativo dello Stato di diritto italiano che sovrasta qualsiasi autonomia privata.
Il nucleo essenziale della garanzia accordata risiede, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale da sempre (Corte cost., sentt. nn. 29/1958, 1/1965, 274/1974, 508/1989, 42/1996, 272/1998, da ultimo n. 38/2025), in cinque requisiti di “precostituzione generale e astratta” del giudice, ovvero che
In sintesi, con l’art. 25, primo comma, Cost., si è in presenza, da un lato, di una chiara riserva di legge generale e astratta, e, dall’altro, di una norma di carattere organizzativo, non dipendente dalla discrezionalità (né – a maggior ragione – dall’autonomia privata), riflessa sul diritto fondamentale della persona a non essere distolto dal proprio giudice naturale e di poterlo conoscere preventivamente.
Non è detto che, nei contratti di fornitura di materiali d’armamento, i cinque requisiti di generalità e astrattezza risultino sempre pienamente soddisfatti.
Basti pensare, per tutti, alla segretezza che quasi sempre accompagna questi negozi giuridici, ostacolando, prima di tutto, la conoscenza pubblica della “lex fori”.
Ma prioritariamente è da dubitare che la libera scelta della legge straniera sia funzionale ad «assicurare il rispetto di altri principi costituzionali».
Né, a superamento di siffatto ostacolo, varrebbe l’evocazione della natura “internazionale” del contratto, giacché tale natura – anche ad equipararla addirittura a un trattato internazionale (per il fatto di avere come parte contraente o lo Stato straniero o comunque imprese dallo Stato straniero autorizzate) – permarrebbe subordinata alla Costituzione (nello specifico al primato gerarchico dell’art. 25, primo comma, della Cost.), in ragione di quanto previsto dall’art. 117, prima comma, Cost.
Dunque, il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli e, di conseguenza, della validità dei contratti internazionali di fornitura di materiali d’armamento, che quelle condotte concretizzano, è sempre e unicamente quello italiano: clausole private di libera disposizione della “lex fori” si rivelerebbero nulle, per violazione della Costituzione e, nello specifico, degli artt. 25, primo comma, in combinato disposto con gli artt. 11 e 24 Cost.
8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele
Di fronte a questo quadro, le stesse leggi di disciplina di specifiche relazioni internazionali, come quelle tra Italia e Israele, non ostano alla giustiziabilità.
Invero, sia il Memorandum d’intesa che l’Accordo di sicurezza, precedentemente richiamati, sembrano finalizzati a istituire una sorta di stato di sospensione permanente della Costituzione italiana nei riguardi di qualsiasi rapporto giuridico, pubblico o privato, con Israele.
In particolare, l’Accordo di sicurezza presenta una struttura nomologica volta a tradurre in “informazione classificata” qualsivoglia fattispecie giuridica riconducibile ai due Stati. Così recita l’art. 1: «Il termine “Informazioni Classificate” indica qualsiasi tipo di informazione, documento, attrezzatura o materiale di qualsiasi natura che, nell’interesse di una o entrambe le Parti, è soggetto a classificazione di sicurezza, a prescindere dal mezzo di trasmissione (orale, elettronico, scritto o materiale)». L’enunciato imprime una volontà di massima inclusività semantica, rimessa al potere stesso delle parti: una semantica sfacciatamente autoreferenziale.
Come se non bastasse, inoltre, l’art. 4, n.1, provvede a definire la categoria giuridica della “classificazione”, procedendo all’elencazione di suoi contenuti: segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato.
Infine, la “classificazione” è attivabile indipendentemente dalla convergenza di interessi dei due Stati, in modo da poter insorgere a favore di Israele.
In conclusione, nei rapporti pubblici e privati italo-israeliani, tutto – dalle fonti alle situazioni soggettive – diventa “classificabile” ovvero segreto o riservato: anche i contratti di fornitura di materiale d’armamento, come si evince, del resto, dagli artt. 2 e 7 dell’Accordo medesimo.
C’è allora da chiedersi come questo tipo di normazione, esclusiva ed escludente, possa plausibilmente assurgere a “materia” di relazioni internazionali insindacabili e come possa legittimare l’insindacabilità dei poteri di fornitura di materiali d’armamento, nell’effettivo «rispetto delle norme e dei principi costituzionali», come vorrebbe la creativa giurisprudenza sul difetto assoluto di giurisdizione.
In realtà, quei due accordi (il Memorandum e l’Accordo di sicurezza), prima ancora che in conflitto con i principi costituzionali, che i segreti a semantica autoreferenziale non ammettono (come scandito dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 86/1977[39]), contravvengono all’art. 80 Cost.
La disposizione costituzionale, infatti, impone categoricamente la legge di ratifica per qualsiasi accordo che comporti, tra gli altri effetti, modificazioni di leggi[40]. L’onnicomprensiva “classificazione”, abilitata dall’Accordo di sicurezza, di per sé legittima modifiche tacite (rectius, segrete) di applicazioni legislative. Addirittura potrebbe farlo in (apparente) conformità con l’art. 117, primo comma, Cost., trattandosi comunque di accordo internazionale interposto rispetto alla legge ordinaria. Si pensi, per tutte, alla “classificazione” applicabile ai contratti. Essa potrebbe derogare all’art. 4 della l. n. 218/1995 sull’ostensione pubblica della lex fori; potrebbe derogare persino ai metodi e ai contenuti, richiesti dalla l. n. 185/1990.
La “classificazione” si ergerebbe a una sorta di fonte extra Constitutionem, con tutta evidenza pro Israele, non certo pro Italia, grazie a un Accordo non ratificato con legge.
Il tutto, poi, nell’indifferenza giurisprudenziale, ostinatamente ferma all’inquadramento dei poteri di fornitura di materiali d’armamento come “materia” delle relazioni internazionali, sottratta al sindacato giudiziale e alla tutela dei diritti.
Un bel controsenso, che è auspicabile faccia riflettere.
Nella revisione comune del testo, i primi tre paragrafi e l’ultimo sono stati scritti da Michele Carducci, gli altri da Anna Silvia Bruno.
[1] I primi richiami al tema si trovano nella monografia di L. Chieffi, Il valore costituzionale della pace tra decisioni dell’apparato e partecipazione popolare, Napoli, Liguori, 1990, ma non hanno poi costituito oggetto di indagine specifica tra i costituzionalisti.
[2] Gli interrogativi costituzionali sulla fornitura di armamenti all’Ucraina sono stati oggetto di numerosi interventi dottrinali all’interno della testata www.sidiblog.org, nella sezione “Conflitto Russia e Ucraina”. Si v. anche G. Pistorio, La cessione di armamenti alle Forze armate ucraine, tra interpretazioni costituzionalmente e internazionalmente conformi e (ir)regolarità costituzionali, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e A. Morelli, La guerra in Ucraina: le questioni costituzionali in campo, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, 917-929. Altrettanto utili A. Mazzola, Il ripudio alla guerra sospeso tra crisi della democrazia interna e mutamento delle regole internazionali, A. Carminati, M. Frau, L’emersione del principio costituzionale di autorizzazione parlamentare degli interventi armati nei sistemi parlamentari e la sua elusione nel contesto italiano, e A. Latino, L’invio di armi all’Ucraina fra Costituzione e diritto internazionale, tutti e tre in DPCE online, Sp.-1/2024, rispettivamente 197-212, 639-658, e 693-710.
[3] Cfr. G. de Vergottini, Ripudio della guerra e neutralità alla luce dell’articolo. 11 Cost., in www.federalismi.it, 13 marzo 2024, e, più in generale, P. Bonetti, Difesa dello Stato e potere, in Enciclopedia del diritto, I tematici, Potere e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2023, 56.
[4] Per un’analisi del parere, si v. N. Pedrazzi, Il parere della Corte internazionale di giustizia del 19 luglio 2024 sulle conseguenze giuridiche delle politiche e pratiche di Israele nel Territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme est, in NAD. Nuovi Autoritarismi e Democrazie, 1, 2025, 341-353.
[5] I riscontri provengono da diverse fonti: i dati ISTAT sulla categoria merceologica “armi e munizioni”, importate ed esportate, ai sensi della classificazione Ateco 2007; le informazioni del Governo italiano, (cfr. Ministero della Difesa, L’Aeronautica Militare protagonista all’esercitazione multinazionale “Iniochos 25” - Aeronautica Militare, 11 aprile 2025); le informazioni israeliane (Iron Waves: Israel’s Missile Boat Flotilla in Action, in https://www.israeldefense.co.il/; The Israel Defense Forces (IDF) Official Website | IDF); le diverse testate giornalistiche come D. Facchini, Export di armi da guerra italiane a Israele dopo il 7 ottobre. La conferma delle Dogane; E. Brunelli, Armi e munizioni italiane in mano ai coloni nei Territori occupati; E. Brunelli, L’Italia ha inviato a Israele materiali chiave per esplosivi e armi nucleari, in Altreconomia, 22.05.2024, 01.01.2025, 01.07.2025, e Guardian: European missiles sold to Israel linked to Gaza strikes that killed children, in https://www.eunews.it/en/2025/07/17/.
[6] La Camera dei Deputati, com’è noto, ha respinto le mozioni di denuncia dei due accordi, nella seduta n. 513 del 17 luglio 2025.
[7] Come si evince da diversi atti parlamentari, in particolare: la risposta del Viceministro degli Affari esteri, Edmondo Cirielli, all’interrogazione n. 4-02518, presso la Camera dei Deputati, XIX Legislatura, Allegato B ai Resoconti della seduta del 1° luglio 2024, e soprattutto la risposta del Governo a interrogazione parlamentare immediata (5-03933), resa il 7 maggio 2025 alla Camera dei Deputati – Commissione Affari esteri e comunitari (Atto 491, pag. 129), dove testualmente si legge che «dal 7 ottobre 2023, il Governo italiano ha sospeso nuove autorizzazioni all’esportazione» – dunque non quelle esistenti – e ha «bloccato le nuove autorizzazioni di materiale bellico e le vendite di armi», oltre che la Relazione annuale al Parlamento, in tema di fornitura di materiali d’armamento.
[8] Oltre alla già cit. di L. Chieffi, si v. almeno le monografie di G. de Vergottini, Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide della democrazia, Bologna, il Mulino, 2002, C. De Fiores, «L’Italia ripudia la guerra»?, Roma, Ediesse, 2002, A. Vedaschi, À la guerre comme à la guerre? La disciplina della guerra nel diritto costituzionale comparato, Torino, Giappichelli, 2007, M. Fiorilli, Guerra e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2009, M. Benvenuti, Il principio del ripudio della guerra nell’ordinamento costituzionale italiano, Napoli, Jovene, 2010.
[9] Ricorda A. Algostino (Il senso forte della pace e gli effetti collaterali della guerra sulla democrazia, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it) che «il termine “ripudia” fu scelto dai costituenti, rispetto a “condanna” e “rinunzia”, perché più “energico”».
[10] Cfr. D. Girotto, Art. 78, in S. Bartole, R. Bin (dir.), Commentario breve alla Costituzione, seconda ed., Padova, Cedam, 2008, 716-722.
[11] Sul profilo richiamato, si v. G. Ferrari, Guerra (stato di), in Enciclopedia del Diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, spec. 831-832, il quale testualmente così puntualizzava: «mentre negli artt. 78 e 87 si parla esattamente (…) di ‘stato di guerra’, in questo art.11, viceversa, è adoperata, altrettanto esattamente, l’espressione ‘guerra’. Il riferimento alla guerra-fatto, che va ben oltre la guerra-diritto, ci dice che il ripudio, da parte del popolo italiano, della guerra non ha confini, perché è il ripudio, non già di una concezione, di uno schema, di un istituto, di una definizione, ma di una realtà, di un ‘fatto’, in tutte le sue manifestazioni, dirette e indirette, formali e informali, nominate e innominate, scoperte e coperte», con l’effetto di considerare l’art. 11 Cost. rivolto tanto allo Stato-apparato quanto allo Stato-comunità.
[12] Cfr. G. Bascherini, Il dovere di difesa nell’esperienza costituzionale italiana, Napoli, Jovene, 2017.
[13] Quello che Antonio Papisca, con lungimirante acume, denominò “diritto umano alla pace”: cfr. A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, 1, 1987, 37-43.
[14] La requisitoria può essere letta sul sito https://www.procuracassazione.it/ nonché in https://www.dirittointernazionaleagaza.org/.
[15] A partire dalle SS.UU. Corte cass. civ. sent. n. 19700/2010 in poi.
[16] Sul dibattito intorno ai diritti umani coinvolgenti beni universali di sopravvivenza, si v. A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[17] Sulla ricorrenza dei postulati nei ragionamenti giudiziali, cfr. E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[18] Sul tema dell’analogia, si v., come sintesi, le indicazioni di SS.UU. Corte cass. civ. n. 38596/2021.
[19] Cfr. A. Pace, Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell’uomo, in Rivista AIC, 2 luglio 2010.
[20] Sulla categoria della “lacuna strutturale”, si veda, in sintesi, L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti. Un dialogo tra filosofi e giuristi, in Diritto e questioni pubbliche, 14, 2014, spec. 133. Sul tema delle lacune e della tutela dei diritti nella clausola aperta dell’art. 2 Cost., cfr. A. Ruggeri, Lacune costituzionali, in Rivista AIC, 2, 2016, e A. Morelli, I diritti senza legge, in Consulta online, 1, 2015.
[21] Ci si riferisce al caso “Walęsa c. Polonia.”, ricorso n. 50849/21, su cui cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in SIDI Blog, 8 marzo 2024.
[22] Sugli interrogativi costituzionali intorno al dogma dell’atto politico, si v. le tre monografie di A. Lollo, Atto politico e Costituzione, Napoli, Jovene, 2020, V. Giomi, L’atto politico e il suo giudice. Tra qualificazioni sostanziali e prospettive di tutela, Milano, Franco Angeli, 2023, L. Diotallevi, Atto politico e sindacato giurisdizionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024, nonché, in prospettiva comparata, F.E. Grisostolo, L. Restuccia, L’insindacabilità degli atti del potere politico: quando “separazione dei poteri” e “tutela dei diritti” entrano in tensione, in DPCE online, Sp.-1/2025, 853-881.
[23] Sul tema, cfr. M. Nisticò, L'interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2015.
[24] Sul fenomeno dei poteri impliciti rispetto alla Costituzione, si v. Q. Camerlengo, Costituzione e poteri impliciti. Spunti di riflessione, in Rivista AIC, 1, 2025.
[25] Sull’inquadramento del commercio internazionale di armi come campo fenomenico al confine tra diritto pubblico e privato, internazionale e contrattuale, ma nella chiara opzione italiana per la dimensione contrattuale, si v. L. Zuccari, Il commercio di armi convenzionali nel diritto internazionale, Napoli, ESI, 2024, nonché i tre lavori di L. Sammartino, Strategic Litigation on International Arms Transfer: Assessing the Role of Domestic Courts, in DPCE on line, 2, 2025, 483-505 (dove l’art. 11 Cost. è qualificato “norma di riconsocimento”), I contratti di vendita internazionale di armamenti: questioni di diritto applicabile, in Diritto del Commercio Internazionale, 1 2023, 109-148, e La ricerca di regole applicabili al “commercio” internazionale di armi convenzionali, Roma, Aracne, 2021. Cfr. anche R. Palladino, Il controllo sulle esportazioni di armi in zone di conflitto, in Ordine internazionale e diritti umani, 2015, 1170-1187.
[26] Su questa impostazione della semiotica giuridica, cfr. R. Kevelson, Comparative Legal Cultures and Semiotics: An Introduction, in American Journal of Semiotics, 1(4), 1982, 63-84.
[27] Per una ricognizione critica dell’enunciato dell’art. 7, si v. G. De Giorgi Cezzi, Aboliamo l’art. 7 comma 1 del Codice del processo amministrativo?, in www.federalismi.it, 11, 2018.
[28] Su questo fenomeno, si rinvia a M. Carducci (a cura di), I mutamenti costituzionali informali come oggetto di comparazione, in Rivista DPCE, 4, 2009, 1643-1921.
[29] Cfr. A. Patroni Griffi, Art. 78, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1531-1544.
[30] Sull’insindacabilità dei “pieni poteri” nel periodo statutario, si v. M. Carducci, Controllo parlamentare e teorie costituzionali, Padova, Cedam, 1996, spec. 122.
[31] Cfr. P. Pinna, Guerra (stato di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. VIII, Torino, Utet, 1993, spec. 55.
[32] Sulle differenze tra Costituzione italiana e tedesca con riferimento alla pace e alla guerra, cfr. M.G. Losano, Le tre Costituzioni pacifiste, Frankfurt a. M., Max Planck Institute for European Legal History, 2020.
[33] Cfr. E. Corcione, La tutela dei diritti umani nelle catene globali del valore, Torino, Giappichelli, 2024, 130.
[34] Sulle relazioni internazionali come “materia” non estensibile (e non confondibile con i contratti), oltre che separata dall’art. 11 Cost., cfr. il dibattito in V. Lippolis (a cura di), Costituzione e relazioni internazionali, in Quaderno 2022 de Il Filangieri, 2022.
[35] Sull’art. 11 Cost. come norma prescrittiva e imperativa, si v., in particolare, F. Sorrentino, Riflessioni su guerra e pace tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2004, 153-168, e M. Dogliani, M. Sicardi (cur.), Diritti umani e uso della forza. Profili di diritto costituzionale interno e internazionale, Torino, Giappichelli, 1999.
[36] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Guida sull’articolo 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Deroga in caso di stato d’urgenza, trad. it., Strasburgo, 2019.
[37] Cfr. la c.d. “causa greca”, affrontata dalla Commissione europea dei diritti umani con il suo Rapporto del 1969.
[38] Si pensi, tra l’altro, alla pronuncia delle SS.UU. Corte cass. civ. n. 3841/2007, ripresa successivamente (ord. n. 19490/2023), in base alla quale «in tema di diritto internazionale privato, l’eventuale presenza, in una determinata fattispecie, di norme di applicazione necessaria – ossia di norme della “lex fori” operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, giacché la determinazione della giurisdizione precede sul piano logico quella della legge applicabile, non potendosi del resto presumere che la futura pronuncia del giudice straniero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico».
[39] Nella sent. n. 86/1977, la Consulta ebbe modo di chiarire che gli interessi che giustificano il segreto «devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono».
[40] In sintesi, cfr. F. Ghera, Art. 80, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1559-1578.
Immagine: Dietmar Rabich / Wikimedia Commons / “Dülmen, Kirchspiel, ehem. Sondermunitionslager Visbeck, Beobachtungsturm der US Army -- 2022 -- 4452” / CC BY-SA 4.0.
Con l'introduzione nel sistema penale dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta" (nelle carceri e nei centri di trattenimento per gli stranieri). La configurazione di questi reati sollecita una riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e ai particolari contesti di riferimento; una sollecitazione che può ben giungere al Giudice delle Leggi, chiamato a valutare, alla luce dei parametri costituzionali, il diritto penale in "rivolta".
Sommario: 1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta" - 2. Costruire e de-costruire la "rivolta" - 3. Una "rivolta" concretamente offensiva - 4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali. - 5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze - 6. La "rivolta" degli stranieri - 7. Un diritto penale in "rivolta".
1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta"
Con l'introduzione nel sistema penale - per mezzo del decreto c.d. "Sicurezza"[1] - dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta". L'inedita adozione di tale categoria implica un aggiornamento di paradigmi normativi e valoriali consolidati: va quindi in prima battuta registrato un cambio d'approccio del legislatore al cospetto della categoria dell'ordine pubblico e della sua prospettiva di tutela, resa evidente, in particolare, nella formulazione del reato di cui all'art. 415-bis (rubricato "Rivolta all'interno di un istituto penitenziario").
A ben leggere la condotta, essa sembra rifarsi al reato di resistenza a pubblico ufficiale, poiché la "rivolta" - terminologicamente mutuata dalle rappresentazioni mediatiche delle violenze e dei tumulti che possono registrarsi nelle carceri[2] - deve commettersi «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza». Il legislatore intende anzi allargare l'area della punibilità rispetto a questo ipotetico delitto-madre, contemplando espressamente anche ipotesi di resistenza passiva al pubblico ufficiale - che la giurisprudenza, almeno in relazione all'art. 337, tende ad escludere[3] - sulla scorta di un dettato autentico-interpretativo molto chiaro, contenuto sempre nel corpo del primo comma: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza». Al netto di questa sostanziale divergenza casistica, su cui si tornerà, tra l'art. 337 e l'art. 415-bis v'è una identica cornice edittale massima (cinque anni); al punto da non giustificarsi la collocazione della nuova figura nel titolo V, tra i gravi delitti contro l'ordine pubblico.
L'aggancio all'ordine pubblico si svela, piuttosto, nel frammento tipico che impone il concorso necessario di «tre o più persone riunite» nella commissione degli atti di violenza o minaccia o di resistenza. È a questo punto evidente una vicinanza strutturale al finitimo reato associativo, da cui viene mutuata, quasi identicamente, la formula aggravante per coloro che, nella vicenda criminosa, assumono un ruolo di primo piano: al co. 2 è infatti prevista una circostanza aggravante ad effetto speciale per «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta».
Con questi impliciti rimandi ad altre norme, che possono ritenersi (almeno sotto il profilo strutturale) i paradigmi originari della "rivolta", e che nel loro complesso spiegano la collocazione del reato nel titolo V, andrebbe aggiornata la tradizionale definizione di ordine pubblico, da intendersi - secondo questa nuova impostazione adottata dal legislatore - non più solo come corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, che consente alla collettività di esplicare le proprie libertà e l'esercizio dei propri diritti[4], ma anche come ferrea disciplina dentro spazi per loro stessa natura "chiusi"[5]; spazi, anzi, istituzionalmente destinati proprio al contenimento di condotte antisociali, che con un inedito ribaltamento di prospettiva possono diventare luogo di turbamento dell'ordine pubblico ("esterno"); potendosi immaginare - ma non è facile, di questi tempi, entrare nella testa del legislatore - che siano piuttosto le "notizie" che provengono dai penitenziari in cui scoppiano le "rivolte" - e quindi, più che il fatto in sé, la sua narrazione[6] - a turbare l'ordinato andamento democratico del Paese.
In definitiva, la minaccia all'ordine pubblico sarebbe da considerarsi, tra le righe di questo nuovo tipo delittuoso, in una duplice prospettiva: guardandosi ai riflessi "esterni" della "rivolta", senza però dimenticare i riflessi "interni". In una prospettiva di sistema infatti non può tacersi che il decreto "Sicurezza" abbia tra i suoi principali target l'incolumità di agenti e operatori di polizia nell'esercizio delle loro funzioni[7]: un bene giuridico sovraindividuale e trasversale a mezza via tra regolare andamento della macchina pubblica e dell'amministrazione della giustizia, e appunto l'ordine pubblico.
Questa considerazione, ove ritenuta valida, avrebbe un preciso risvolto interpretativo, dacché la "rivolta", per essere considerata ai sensi della norma penale, dovrebbe importare anche il concreto rischio per l'incolumità fisica di agenti e operatori della struttura penitenziaria. È un elemento del fatto non esplicitato nella norma[8]; nondimeno, può essere questo, a ben vedere, uno dei possibili correttivi di una fattispecie che presenta, come si dirà meglio innanzi, molteplici profili di incongruenza con i principi di garanzia.
2. Costruire e de-costruire la "rivolta"
Il concetto di "rivolta" è, dal punto di vista penalistico, del tutto inedito, sebbene venga costruito sulla scorta di categorie normative ampiamente consolidate: violenza, minaccia, resistenza, poste in essere simultaneamente da almeno tre persone riunite. La prima difficoltà interpretativa potrebbe celarsi proprio in quest'ultimo lemma, utilizzato per arricchire il fatto tipico di molte fattispecie (es. art. 609-octies) ovvero per aggravarle (es. art. 339), che indubitabilmente evoca il concorso di persone, perdipiù "rafforzato"[9]. La norma dunque richiama l'integrazione di un tipo plurisoggettivo: una fattispecie da inquadrare come reato proprio poiché le condotte sono realizzate da chi si trova all'interno di un istituto penitenziario.
Le difficoltà interpretative potrebbero sorgere proprio in relazione al particolarissimo contesto in cui la norma deve trasfondersi. Dal punto di vista empirico può dirsi che le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione, né una premeditazione: è, come noto, attraverso il "passaparola" (anche da un braccio all'altro, da un piano all'altro dell'istituto) che i detenuti arrivano ad inscenare le più varie forme di protesta: che possono essere inscenate (quasi) simultaneamente, ma in punti distinti dell'area penitenziaria (quel che di solito accade). A dispetto infatti del nome che è stato attribuito dal legislatore, esse hanno lo scopo di segnalare un disagio collettivo, una criticità della struttura o dell'organizzazione penitenziaria, una violazione di diritti (tra i tanti che, ripetutamente, se ne registrano tra la platea dei detenuti).
Non si tratta di veri e propri "ammutinamenti", realizzati con lo scopo di evadere: non a caso, il tentativo di evasione, che era stato inizialmente inserito dal legislatore nel novero delle condotte che possono dare vita alla "rivolta"[10], è stato accortamente espunto nella versione finale del decreto "Sicurezza", forse anche tenendo conto che lo scopo della fuga fonda una oggettiva diversità nel contegno e nel proposito criminoso, rispetto a condotte finalisticamente orientate ai disordini di una "rivolta"[11]. Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
Sicché, anche al netto del problema - tutto probatorio - dell'accertamento di un coordinamento tra i vari detenuti, di una consapevole sincronicità delle loro azioni, ci si chiede, sotto il profilo sostanziale: quei "rivoltosi" - da distinti punti, o anche in diversi momenti - possono dirsi riuniti? È chiaro che in questo caso l'istituto concorsuale dovrà essere via via raffrontato ad una realtà empirica estremamente variegata e poco conosciuta.
Tale raffronto vede alla base la distinzione tra l'evento del reato e la condotta partecipativa che, allo stesso, accede[12]: la "rivolta" necessita la simultanea convergenza delle summenzionate condotte, mentre la partecipazione ad essa, da parte del singolo, può anche essere successiva.
Il legislatore sembra quindi da un lato avere costruito la "rivolta", e dall'altro de-costruito la partecipazione ad essa, frammentandola. A considerare il modello tipico, infatti, in cui il requisito delle tre o più persone riunite si riferisce all'evento e non alla partecipazione in quanto tale, il legislatore avrebbe preso in considerazione l'ipotesi che taluno possa "partecipare" ad una rivolta già in atto (recte: accedere all'evento del reato, concorrendovi), e quindi iniziata prima, innescata evidentemente da altri: le condotte dei rivoltosi potrebbero dunque non essere sincroniche, dovendosi - o potendosi, almeno empiricamente - distinguere tra quelle che, convergendo, innescano l'evento e quelle che vi accedono, sebbene - ben lo si comprende - tale distinzione può risultare di non agevole verifica, nel disordine che fa da sfondo fattuale alla norma. Questa distinzione è tuttavia cruciale per una corretta esegesi della norma, come si dirà a breve.
In definitiva, è cruciale che l'evento "rivolta" non sia stato in alcun modo tipizzato: il suo contenuto lo si deduce, a contrario, dalla condotta di chi vi partecipa «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza», e dal fatto che tali violenze, minacce, resistenze debbano essere commesse da tre o più persone riunite. Il legislatore sembra quindi avere scelto di configurare l'evento de-costruendolo: a partire da chi vi partecipa.
3. Una "rivolta" concretamente offensiva
Come si è detto, l'elemento esegetico da privilegiarsi deve essere quello della proiezione concretamente offensiva delle condotte, supportate da un'adeguata volontà del soggetto attivo. E a questo riguardo, e per tale ragione, non sembra configurabile il tentativo del reato di "rivolta".
È d'altronde la peculiare struttura del reato a suggerire l'inammissibilità della rilevanza per gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare una "rivolta" che, in quanto tale, non è tipizzata; il tentativo non potrebbe che attestarsi sugli atti di violenza, minaccia e resistenza (gli unici elementi definiti nel tipo), ma arretrare in tal modo la punibilità vorrebbe dire soffermarsi su condotte prive di qualsivoglia offensività; e lo stesso può dirsi per chi tenta di accedere ad una rivolta mediante atti di resistenza (tramite quindi violenza o minaccia), anche passiva. L'unico spiraglio applicativo per la configurazione del tentativo potrebbe, a ben vedere, essere dato dal numero dei rivoltosi: se è vero infatti che una volta perpetrati gli atti tipizzati (violenza, minaccia e resistenza) da tre o più persone riunite la "rivolta" si presume già in essere, potrebbe immaginarsi che il concorso di due sole persone nel compimento di questi atti dentro l'istituto penitenziario, idonei e finalizzati all'evento indicato, possa dare vita ad una ipotesi di tentativo. Anche in questo caso, però, occorre traguardare le condotte al criterio-guida dell'offensività[13]: e già in base ad una valutazione astratta potrebbe dirsi che se è fissato in tre il numero minimo di persone che, riunite nel proposito delittuoso de quo, può offendere incisivamente il bene giuridico tutelato, ogni ulteriore soluzione al ribasso - rispetto a quella predefinita dal legislatore - dovrebbe essere considerata irrilevante sul piano penale.
È ancora, come ben si vede, il bene giuridico a costituire imprescindibile parametro di valutazione: se è l'ordine pubblico il principale[14] valore tutelato, se è alla concezione più rigorosa di tale concetto che si deve aderire - per cui vanno selezionate come penalmente rilevanti solo quelle condotte che si risolvano in una concreta minaccia per la vita collettiva, dentro e fuori il carcere - è allora evidente che l'evento del reato può essere il risultato di condotte convergenti concretamente offensive, tali da determinare un turbamento della vita carceraria che non abbia solo valenza "interna" ma che, ridondando all'esterno, percepito all'esterno come vera e propria minaccia al regolare andamento della vita pubblica, vada ad intaccare l'immagine di uno Stato che ha, quali propri compiti istituzionali, quello di gestire - in un quadro dignitoso e attento ai diritti - la popolazione detenuta.
Anche al di fuori dei confini testuali, milita a favore di una esegesi restrittiva e rigorosa, che consideri soltanto le condotte concretamente offensive, il fatto che il legislatore abbia voluto specificare quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul «numero delle persone coinvolte e al contesto»: ciò evidenzia lo sforzo - in quanto tale apprezzabile - di tenere fuori dal recinto della punibilità condotte asfittiche e scarsamente pregnanti - tra le quali però permane il dubbio che il legislatore non abbia voluto trattenere quelle di mera resistenza passiva; infuse invece nella tipicità.
4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali
Invero, solo escludendo dall'area della punibilità condotte di mera disobbedienza, solo considerando comportamenti attivi, violenti e coercitivi, la cui sommatoria vada ad incidere sul sotteso valore pubblico tutelato, come sopra specificato, potrebbero superarsi i profili di illegittimità costituzionale; che sono diversi.
Una più evidente questione di incompatibilità con l'assetto dei valori costituzionali in materia penale si pone, come si è detto, con il principio di offensività. Una volta ricostruito nei termini indicati - e aggiornata la relativa categoria - il bene giuridico dell'ordine pubblico tutelato dalla norma non può arrecarne una significativa lesione la condotta della mera disobbedienza ad un ordine impartito: non raggiungendosi, per tale via, quel minimo di offensività richiesto per l'incriminazione penale.
Un problema di ragionevolezza e proporzione della norma penale, in relazione all'art. 3 Cost., si pone poi rispetto alla differenza di cornice edittale, nella misura minima, che si registra tra la resistenza "passiva" ex art. 415-bis (1 anno) e la resistenza "attiva" ex art. 337 (6 mesi)[15]: la prima, pur potendo risultare una ipotesi astrattamente meno grave (la resistenza "passiva" è indubbiamente meno carica di disvalore della resistenza "attiva"), è punita più severamente con una pena edittale minima (che è quella presa in maggiore considerazione in sede di "calcolo" della pena) più alta. Per una interpretazione costituzionalmente orientata si dovrebbe postulare che tale surplus sanzionatorio è dettato dalla specificità del luogo, dalla convergenza delle azioni e sopratutto dalla pericolosità di chi realizza le condotte, compensandosi così un tale evidente squilibrio; quindi, per essere più chiari, dalla "specialità" della norma rispetto all'art. 337.
Eppure, percorrendo la via della specialità si avvalorerebbe ancor di più l'assunto che il legislatore abbia voluto individuare un nuovo, temibile, tipo d'autore, cui dedicare una norma ad hoc: con evidente violazione del principio di uguaglianza[16].
E ancora, fuoriuscendo dal perimetro dei principi di rilevanza strettamente penalistica, vanno segnalati anche profili di criticità rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero in quanto, come detto, alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza passiva costituiscono l'unico strumento per i detenuti di esercitare la propria, seppur limitata, libertà di espressione[17], o comunque il proprio disagio rispetto a problematiche organizzative e di disciplina interna.
Ma la Costituzione viene toccata sopratutto in uno dei suoi punti più nevralgici, in uno dei principi più sensibili: quello della funzione rieducativa della pena, ai sensi dell'art. 27 co. 3, poiché associare la condizione di detenuto a specifiche condotte di reato, da perpetrarsi esclusivamente nelle carceri, vuol dire infrangere quel tabù sociale che - nonostante tutto - le considera luogo di espiazione: in cui si realizza il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.
Oggi è quindi sdoganata per tabulas - e con previsioni di reato di particolare gravità - l'idea che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni: e per converso ogni accenno di "rivolta" deve essere non solo sanzionato come già accadeva fino a ieri, e cioè attraverso le "ordinarie" ipotesi di reato e la privazione dei benefici penitenziari (d'altronde, la legge "Gozzini" del 1986, ancora oggi perno dell'ordinamento penitenziario, mira a disincentivare le condotte antisociali in carcere attraverso il meccanismo della "buona condotta", che si traduce in una riduzione del periodo detentivo), ma represso con la minaccia di (ulteriori) sanzioni detentive, da aggiungersi a quelle che il detenuto già sta scontando.
5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze
Oltre ad una pena base che va da uno a cinque anni, su cui già ci si è soffermati in relazione al delitto-madre ex art. 337, si prevede da un lato un aumento - da due a otto anni - per chi promuove, organizza e dirige la "rivolta", dall'altro aggravamenti per i fatti di lesione personale grave o gravissima, ovvero di morte, quali conseguenze non volute: aumenti particolarmente elevati che stridono con il principio di colpevolezza. E non solo perché il fatto criminoso aggravato[18] da un evento non voluto risulta, da sempre, poco compatibile con i principi di garanzia[19].
La dinamica del reato de quo è, come detto, peculiare: le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione; tanto che si è potuto distinguere tra le condotte convergenti che generano la rivolta da quella, successiva, che può accedervi.
C'è poi da aggiungere che, sempre nel peculiare contesto empirico che si sta approfondendo, l'ipotesi che sia cagionata una lesione grave, nel caos generato dalla "rivolta", quale conseguenza non voluta, non è peregrina[20]. E questo, va detto, ha un risvolto rispetto alla (astratta) prevedibilità del fatto non voluto: sulla distinzione tra profilo astratto e concreto della prevedibilità[21].
Si tratta di una conseguenza non voluta dai detenuti rivoltosi (da tutti i detenuti rivoltosi, ovunque si trovino nella struttura penitenziaria), posto che risulti chiaro il coordinamento tra di loro; una conseguenza accidentale, che tuttavia determina un notevole aggravio di pena (da due a sei anni, da quattro a dodici per i "capi" della rivolta, sempre che risulti chiaro il ruolo apicale di costoro). Laddove la "rivolta" sia fatalmente condotta alle estreme conseguenze, se a valle si registra un problema di prova (il concorso tra i detenuti, il ruolo svolto da ciascuno: proprio come se fosse un'associazione a delinquere, più o meno improvvisata[22]), a monte pesa la questione assiologica della colpevolezza del reo.
L'art. 415-bis definisce, come detto, un reato a concorso necessario, che per questo guarda alla disciplina di cui all'art. 110 ss.; eppure, quanto previsto al co. 4 è svicolato dal dettato di cui all'art. 116, che pure presenta qualche (forse blanda) garanzia di penale responsabilità per i concorrenti: il nesso di causa e il coefficiente minimo di rimproverabilità.
Perché il reato di "rivolta" è lo stesso voluto da tutti i concorrenti rivoltosi (in tal senso, come si è detto, dovrebbe leggersi il coefficiente psichico della norma), mentre il fatto non voluto - lo afferma a chiare lettere l'art. 116, che è norma di disciplina posta a completamento di tutte le ipotesi tipizzate di concorso[23] - deve comunque essere «conseguenza della sua azione od omissione»[24].
In altri termini, con la previsione del reato "diverso" e non voluto, imputato a tutti i concorrenti dentro un contesto concorsuale così ampio (l'evento "rivolta" può risultare in concreto talmente diffuso da impedire qualsivoglia convergenza di contributi causali o agevolatori), si corre il rischio di congedarsi (persino) dal rapporto di causalità; vorrebbe dire configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva pura, da mera condotta, a prescindere dal luogo e tempo in cui è stata perpetrata, e in alcun modo temperata (come sono state temperate, nel tempo, siffatte ipotesi presenti nel codice), se è vero che la clausola di salvaguardia contemplata all'art. 116 - «ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione» - non è stata replicata nel corpo del co. 4 dell'art. 415-bis.
Un evento (una pena) senza colpa, né causa diretta. Si stinge così anche l'ultimo elemento che garantisce il legame - pur in termini meramente obiettivi - tra la condotta e l'evento di secondo grado: non quello che integra la norma, ma quello che la aggrava, conseguenza di condotte che possono essere d'altri, e inconoscibili.
Anche su questo punto, sopratutto su questo punto, l'unica possibile interpretazione (costituzionalmente orientata) è quella che va nel senso del recupero dell'elemento eziologico in uno con quello psichico, secondo l'impostazione fornita dalla Consulta già sessant'anni fa, allorquando veniva chiamata a "leggere" l'art. 116, richiedendovi «la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica»[25]: ovverosia che l'evento-conseguenza non voluta (il reato "diverso") si rappresenti nell'agente - tenendo conto delle concrete circostanze di fatto in cui egli versa - come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto[26].
6. La "rivolta" degli stranieri
Le argomentazioni spese a sostegno dell'irragionevolezza dell'ipotesi incriminatrice di "rivolta" di cui all'art. 415-bis trovano nuova consistenza laddove l'analisi si sposti sul nuovo co. 7.1. di cui all'art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico dell'Immigrazione): si tratta dello speculare reato di "rivolta", che si rivolge agli stranieri "trattenuti" «in uno dei centri di cui al presente articolo o in una delle strutture di cui all'art. 10-ter».
Con l'introduzione di questo nuovo reato il legislatore ha inequivocabilmente mostrato di considerare i centri di trattenimento come vere e proprie carceri[27]. Difatti, anche qui è repressa con pene altissime ogni forma di dissenso: e considerata l'esatta specularità strutturale tra l'art. 415-bis e il co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, può dirsi che anche nei centri di trattenimento alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza "passiva" (si pensi allo sciopero della fame, o ad altre forme di protesta non violente) costituiscono l'unico strumento per i migranti di esprimere il disagio rispetto alla propria condizione - una condizione, di fatto, detentiva, definita con l'incongrua formula della "detenzione amministrativa".
È vero: un centro di trattenimento non presenta, come ovvio, delle celle o dei bracci chiusi (ovvero dei compartimenti stagni che impediscano la piena libertà di movimento all'interno della struttura stessa): ma considerata l'ampia capienza di questi centri, anche qui è ipotizzabile la stessa dinamica empirica già descritta in ambito carcerario. È possibile, anche qui, ipotizzare che si inneschi la rivolta (per mezzo della convergenza di condotte di tre o più persone riunite, rivolte a pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio - agenti di polizia, si immagina) e che, in altri punti del centro, qualcuno vi partecipi: accedendo all'evento del reato attraverso proprie condotte.
Devono essere ripresi, dunque, tutti i ragionamenti svolti sulla (problematica) imputazione dell'evento, e degli eventi-conseguenze non volute: anche qui si può registrare una "diffusività" nella rivolta tale da non consentire una chiara affermazione della responsabilità personale del reo. Anche questo reato rischia di mettere in ombra il principio di responsabilità per fatto proprio: una responsabilità personale e non d'autore.
Molto dipenderà dall'interpretazione che andrà affermandosi - nel reato di cui all'art. 415-bis, e sopratutto in questo reato, nel cui ambito spaziale (il centro di trattenimento per migranti) si ravvisa una libertà "interna" ben più ampia di quella dell'istituto penitenziario - dell'inciso per cui «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni», e dall'elaborazione di quali indici probatori, in un tale peculiare contesto, potranno essere utilizzati in funzione di imputazione; dipenderà anche da quanto il criterio della promozione, organizzazione e direzione riuscirà ad incidere sulle contestazioni: perché il rischio è, anche qui, che nel momento in cui si accerti un collegamento tra le proteste questo possa essere inteso come una organizzazione delle stesse: con "automatica" aggravante estesa a tutti i "rivoltosi", in questo caso stranieri.
7. Un diritto penale in "rivolta"
Le condotte trasferite nel nucleo del reato di cui all'art. 415-bis sono state mutuate dal campo disciplinare dell'ordinamento penitenziario, sulla scorta di una pericolosa eterogenesi dei fini.
Invero, alquanto singolare l'impostazione adottata dal legislatore, per cui, come si afferma nei lavori preparatori del decreto, «la descrizione delle modalità della condotta tipizza azioni già previste dall'art. 41 dell'ordinamento penitenziario»[28]: si fa riferimento a quelle condotte costituenti in «atti di violenza», «tentativi di evasione», «resistenza, anche passiva, agli ordini impartiti» (così l'art. 41 ord. pen.), rispetto ai quali è giustificabile l'impiego della forza fisica e l'uso dei mezzi di coercizione da parte del personale degli istituti penitenziari. Le - generiche - condotte di cui all'art. 41 (non riferite, si badi, a persone riunite) sono volte ad assumere una mera rilevanza interna, e regolamentare, per gli operatori di polizia penitenziaria, ed un profilo disciplinare per i detenuti; mentre oggi le si valorizza (e le si amplia con l'ulteriore elemento della minaccia, che ai sensi dell'art. 41 non giustifica l'utilizzo della forza da parte degli operatori) al fine di allargare lo spettro della penalità. La norma settoriale, regolamentare e disciplinare se si confronta con una condotta concorsuale (di più persone riunite) viene quindi elevata a nucleo di un reato di evento, a dispetto dell'ampio scarto di disvalore tra l'uno e l'altro ambito e della scarsa precisione (nell'uno e l'altro ambito) delle condotte descritte[29].
Al lume di queste considerazioni, la scelta del legislatore di introdurre una identica fattispecie di "rivolta" nei centri di trattenimento, con il minimale accorgimento di tenere più bassa la soglia massima di pena (il reato è punito con la reclusione da uno a quattro anni) risulta ancora più incomprensibile, sotto il profilo strettamente penalistico.
Sembra di poter dire che qui il legislatore abbia supplito all'assenza di un parametro disciplinare direttamente attraverso la sanzione penale. Si pensi al ruolo che, in caso di disordini scoppiati in questi centri, possono svolgere le misure cautelari. Non a caso, forse, coloro che dirigono o organizzano la "rivolta" - e già si è detto quanto potrebbe estendersi questa clausola aggravante - sono puniti con la reclusione fino a cinque anni: termine minimo che rende applicabile la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 380 c.p.p. D'altronde, un migrante trattenuto che, organizzatore di una "rivolta", venga arrestato (anche in differita e in base all'accertamento "agevolato" di cui al co. 7-bis), sembra avere un destino, dal punto di vista procedurale, "segnato": considerando le esigenze cautelari (ed in particolare il pericolo di fuga e la reiterazione del reato), l'unica misura che potrà essere comminata è quella della custodia cautelare in carcere. Si fuoriesce così dal circuito del trattenimento amministrativo per entrare in quello propriamente carcerario.
Saltata dunque la norma "intermedia", quella cioè disciplinare attenta all'aspetto correzionale, si è approdati alla norma che reca con sé le massime conseguenze sanzionatorie, una volta ancora in tema di libertà personale. In virtù di una presunta azione deterrente, si sventola la minaccia del circuito carcerario in funzione disciplinare; e davvero può dirsi, al termine della rapida - e parimenti allarmante - ricostruzione anatomica di un nuovo tipo delittuoso, che questo diritto penale "in rivolta" si rivolge contro i suoi stessi principi fondamentali.
D'altronde, vedersi imputata la morte di qualcuno, quale conseguenza non voluta dell'azione di un altro soggetto, a fronte di una condotta anche solo di minaccia, o di resistenza passiva, realizzata altrove e in un diverso frangente temporale - con tutti i problemi di cognizione che il rapporto tra le condotte dei diversi soggetti può generare - esula abbondantemente dai confini segnati dalle garanzie legate alla materia penale, e pone al giudice un problema di sproporzione della pena, reimmettendo proprio nel circuito penitenziario il virus dell'impossibile finalità rieducativa della pena[30]; ovvero spianando la strada del carcere agli stranieri trattenuti.
Rimane quindi l'argine della riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e al contesto di riferimento, che dovrà essere svolta dalla magistratura chiamata ad applicare questa norma, sulla scorta del parametro costituzionale dell'offensività. Fino a quando non intervenga il Giudice delle Leggi a sanare un vulnus di costituzionalità che, nei suoi vari aspetti e profili, pare affliggere il diritto penale in "rivolta".
[1] Si tratta del d.l. 11 aprile 2025, n. 58, convertito in l. 9 giugno 2025, n. 80.
[2] Ad una ricerca speditiva, anche su web, l'uso del termine "rivolta" è sui media alquanto frequente, sempre associato ai tumulti in carcere: che pure, in molti altri paesi, viene definito "ammutinamento" - così nel Prison Security Act 1992, chapter 25, section 1 (Offence of prison mutiny) del Regno Unito. Al contrario, nella fattispecie domestica la "rivolta" potrebbe consistere nel semplice fatto di non obbedire agli ordini impartiti: «non c'è nulla di più distante tra l'etimologia del termine rivolta e la tipizzazione di cui sono stati capaci i redattori del disegno di legge» (M. Pelissero, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell'emergenza carceraria, in Sistema penale, 18 luglio 2024).
[3] Si guardi, da ultimo, Cass., 31 marzo 2022, n. 29614: «Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale lo strattonare o il divincolarsi posti in essere da un soggetto onde impedire il proprio arresto, ogni qualvolta quest'ultimo non si limiti a una mera opposizione passiva al compimento dell'atto del pubblico ufficiale, ma impieghi la forza per neutralizzarne l'azione e sottrarsi alla presa, nel tentativo di guadagnare la fuga».
[4] In questi termini, A. Sessa, Tutela penale dell’ordine pubblico e teleologismo dei valori costituzionali: ambito e prospettive di un riformismo razionale, in Reati contro l’ordine pubblico, a cura di Moccia, Napoli, 2007, 7 ss.; da ultimo F. Curi, Delitti contro l’ordine pubblico, in Diritto penale. Percorsi di parte speciale, a cura di Canestrari, Torino, 2023, 263 ss.; sulle diverse sfumature che il concetto può assumere, vd. anche M. Pelissero, Le nozioni di ordine pubblico, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Pelissero-Riverditi, Torino, 2010, vol. IV, 225 ss.
[5] Lo si afferma senza mezzi termini nei lavori preparatori del provvedimento legislativo: «viene prevista la punibilità di specifiche condotte che minano il mantenimento dell'ordine pubblico all'interno delle strutture detentive» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, pubblicata in Sistema penale, 16, aprile 2025).
[6] «I media sono autentici fabbricatori di realtà, o meglio produttori di una realtà parallela elaborata attraverso un second code» (V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, 20).
[7] Ne è riprova il fatto che il capo III, sotto cui è riportato l'articolo 26 del d.l. "Sicurezza" relativo al reato de quo, è rubricato significativamente "Misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124".
[8] Nella norma, però, si indicano quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul contesto e quindi sul «numero delle persone coinvolte»; come infatti insegna la dottrina, la struttura del pericolo concreto passa per la descrizione della dinamica del fatto (F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, 1994, 88): dinamica che poi diviene un "problema" probatorio, avendo - anche qui - la dottrina messo in guardia da «inammissibili semplificazioni probatorie» (A. Gargani, Delitti di pericolo personale e individuale. Osservazioni in prospettiva di riforma, in Legislazione penale, 9 settembre 2020, 2).
[9] Secondo il concorde avviso di dottrina e giurisprudenza, e prendendo spunto dalle altre norme che la contengono, tale locuzione evoca situazioni e concetti parzialmente differenti da quelli propri del mero concorso eventuale ed individua un reato necessariamente plurisoggettivo proprio il cui quid pluris rispetto alla mera compartecipazione criminosa ex art. 110 c.p. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della sua commissione i partecipanti siano "riuniti" (Cfr. G. Amarelli, Le sezioni unite si pronunciano sulla aggravante delle "più persone riunite" prevista per il delitto di estorsione, in Dir. pen. cont., 7 giugno 2012); quanto alla peculiare dinamica concorsuale, si richiede la simultanea e consapevole presenza di tutte le persone sul luogo del reato anche se non è necessario il previo concerto, bastando un accordo subitaneo o un'implicita intesa.
[10] Ne fa cenno, ripercorrendo l'iter parlamentare, C. Pasini, Il disegno di legge sicurezza e il nuovo reato di rivolta in carcere e in strutture di accoglienza e trattenimento per i migranti, in Sistema penale, 29 maggio 2024.
[11] Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
[12] Ci si riferisce alla teoria della accessorietà, che, come noto, riesce a spiegare dal punto di vista dogmatico i casi in cui una condotta ab origine priva di tipicità si leghi indissolubilmente a quella dell’esecutore principale, mutuandone necessariamente la qualificazione giuridica; per un approfondimento di tale teoria, v., per tutti, C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1957, passim (ora anche in Id., Diritto penale. Scritti di parte generale, vol. I, Milano, 2003, 28 ss.).
[13] Su cui, diffusamente, V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim; più di recente, D. Pulitanò, (voce), Offensività del reato (principio di), in Enc. dir., Annali VIII, 2015, 665 ss.; M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2013, 4 ss.
[14] Indubbiamente "affiancato" da altri beni giuridici, quali ad esempio il buon andamento della Pubblica Amministrazione, che necessariamente dipende dall'incolumità fisica dei suoi pubblici ufficiali: come si è detto, l'accento su questo profilo lo si ricava in via sistematica, ma anche testualmente, come dimostrano le ipotesi aggravanti che fanno riferimento a lesioni o morte quali conseguenze non volute dai rivoltosi; ed è un profilo che preserva la necessaria rilevanza costituzionale del bene giuridico (ulteriormente) protetto, sulla scorta della nota definizione dell'illecito penale come fatto lesivo di un bene avente rango costituzionale (ci si riferisce, ovviamente, a F. Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. dig. it., XIX, Torino, 1973, ora in Id. Scritti di diritto penale (a cura di A. Canestrari e A. Melchionda), I, Milano, 1997, 590 ss.).
[15] Va tuttavia specificato che il decreto "Sicurezza" aggiunge all'art. 337 il seguente comma: «Se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio, la pena è aumentata fino alla metà».
[16] È vero: il sistema riguadagnerebbe coerenza interna ove l'art. 415-bis fosse costruito in termini di specialità rispetto all'art. 337: l'approfondimento dell'offesa in luoghi "sensibili" potrebbe financo giustificare l'aumento delle pene ed una struttura sanzionatoria complessiva particolarmente rigoristica. Così, però, non è. Anzitutto, il reato di "rivolta", almeno sul piano formale, non ha quali soggetti passivi pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio: in linea teorica, la violenza o la minaccia possono essere rivolti a chiunque, mentre solo la resistenza è esercitata contro un pubblico agente che esegue «degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza»; a riprova di ciò, la norma, mentre spiega il significato di resistenza "passiva", parla di «contesto in cui operano i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio». Il locus penitenziario, poi, non può valere quale elemento specializzante, perché pone dei limiti di carattere empirico-criminologico ma non restringe l'ambito di applicazione delle condotte incidendo sulla struttura del reato: mentre il principio di specialità, come insegnato dalla Cassazione, si fonda sul confronto tra i tipi in astratto (Cfr. Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 567 ss.; Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1963, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 848 ss.; orientamento da ultimo ribadito in Sez. un., 29 febbraio 2024, n. 19357).
[17] Trova a questo punto ulteriore avallo la ricognizione effettuata sul bene giuridico, dal momento che l’ordine pubblico è stato storicamente ricostruito come limite implicito alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata (P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975, 16 ss.; S. Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, 167 ss.; G. Zuccalà, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 1154 ss.).
[18] Sul piano specifico della qualificazione dogmatica degli istituti, si deve ricordare che v'è una tendenza giurisprudenziale che qualifica, in alcuni casi, come titoli circostanziati i reati aggravati all'evento, anche laddove l’evento non deve essere voluto (sebbene, nel caso di specie, considerando le diverse cornici edittali tale operazione ermeneutica appare poco praticabile); questo assetto esegetico, secondo la dottrina più attenta, avrebbe il pregio di poter emendare la sproporzione sanzionatoria attraverso il meccanismo del "bilanciamento": in questi termini F. Basile, Colpa in attività illecita, in Enc. Dir. - I tematici: Reato colposo (diretto da M. Donini), II, 2021, 142; per la qualificazione dei reati aggravati dall’evento come titolo autonomo v. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – Parte generale, Milano, 2021, 638.
[19] Perché variamente intriso di responsabilità oggettiva - rischiando di risultare molto intriso nel fatto come tipizzato nel reato de quo, posto al cospetto della realtà concreta: va ricordato che M. Gallo, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, 132 ss., giungeva financo ad escludere che la norma possa funzionare come imperativo, sia pure impersonale, nei casi di responsabilità oggettiva, mancando qui ogni riferimento essenziale della norma alla volontà dell'agente, anche solo potenziale, ai fini dell'imputazione del fatto.
[20] Si pensi al caso che potrebbe apparire più frequente: ad una "rivolta" che si realizza mediante "barricate" in prossimità delle celle, in punti diversi dell'istituto penitenziario, situazione che pertanto necessita delle risposta degli agenti penitenziari per il ripristino dell'ordine; si ipotizzi che nel rimuovere questi ostacoli l'agente, contrastato in questa operazione di rimozione dagli stessi detenuti, si produca una lesione personale grave (una lesione che determina una prognosi oltre i 40 giorni, ai sensi dell'art. 583).
[21] Cfr., per tutti, G. Forti, La descrizione dell'"evento prevedibile" nei delitti colposi: un problema insolubile?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 1559 ss.
[22] Non a caso L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria, cit., 947, si chiede - prospettando un assetto certamente più attento al criterio della imputazione personale del fatto - se le aggravanti previste - l'avere commesso il fatto con uso di armi e avere cagionato una lesione personale o la morte - siano applicabili ai soggetti di cui al secondo comma (promotori, organizzatori o direttori) o a tutti coloro che abbiano partecipato alla rivolta.
[23] P. Pagliaro, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 126; D. Pulitanò, Diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 439; F. Palazzo, Corso di diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 510.
[24] Prendendo l'esempio classico: il soggetto che fa da palo per una rapina, con la sua condotta, ha - comunque - causalmente determinato, o perlomeno agevolato, il fatto da cui scaturisce (e poteva prevedibilmente scaturire) l'altro, più grave (es., la morte del soggetto rapinato). Il primo frammento del fatto tipico è soggettivamente imputato all’agente per dolo, mentre il secondo frammento è imputato in base ad un criterio necessariamente diverso dal dolo (così l'art. 586: morte o lesione come conseguenza di altro delitto), ma che non può che essere la colpa: segnala ancora F. Basile, Colpa in attività illecita, cit., 135, che la giurisprudenza in questi ultimi anni ha abbandonato in questo ambito il criterio, ammorbato dalla logica del versari in re illicita, della prevedibilità in astratto e ha decisamente virato verso un’indagine della prevedibilità in concreto del reato diverso non voluto.
[25] Corte Cost., 31 maggio 1965, n. 42, in Giur. Cost., 1965, 639 ss.
[26] È stato sottolineato che la descrizione dell’evento prevedibile dovrebbe includere tutte le peculiari modalità di sviluppo del nesso causale (come tali rappresentabili dal soggetto agente): la risposta positiva a tale problema appare tutt’altro che scontata, anche in una prospettiva di valorizzazione del principio di colpevolezza: così G. Piffer, Preterintenzione e reati aggravati dall'evento. Proposta di riforma dei reati dolosi e preterintenzionali contro la vita e l'integrità fisica, in Sistema penale, 18 luglio 2022, 12.
[27] Lo afferma a chiare lettere la relazione illustrativa: «l’applicazione della nuova fattispecie di reato ai soli casi di trattenimento previsti dagli articoli 10-ter e 14 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con esclusione, pertanto, in caso di permanenza dello straniero in strutture di accoglienza, la cui natura è, peraltro, del tutto incompatibile con l’assetto ordinamentale proprio non solo degli istituti penitenziari ma altresì dei centri di trattenimento» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.).
[28] Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.
[29] «Un conto è prevedere la rilevanza della resistenza passiva in sede disciplinare, come fa appunto l'art. 41 ord. pen., un altro è stabilire in sede penale la punibilità di condotte di generica disobbedienza agli ordini impartiti: un'operazione di dubbia compatibilità con il principio di sufficiente determinatezza»: L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria e nei centri di trattenimento per migranti - speciale Il carcere oggi: tra emergenza sistemica e prospettive necessarie, a cura di L. Risicato e F. Palazzo, in Giur. it., 2025, 950; di «pericoloso messaggio disciplinare» parla M. Pelissero, La pervicace volontà, cit.
[30] La stessa Corte Costituzionale (sent. n. 68/2012) ha affermato che «una pena palesemente sproporzionata - e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato - vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa»; questione ben illustrata in V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Torino, 2023, 206.
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