ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Costruire la pace attraverso il diritto. Il ruolo della Corte Penale Internazionale
di Maria Grazia Giammarinaro
Sommario: 1. L’invasione dell’Ucraina e la Corte Penale Internazionale - 2. Il crimine di genocidio - 3. I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra - 4. Un nuovo Tribunale ad hoc per il crimine di aggressione all’Ucraina? - 5. Una riflessione conclusiva da una prospettiva giusfemminista.
1. L’invasione dell’Ucraina e la Corte Penale Internazionale
In questi giorni terribili, in cui la forza delle armi sembra avere del tutto oscurato e sconfitto il principio di legalità, è opportuno chiedersi se la Corte Penale Internazionale possa svolgere un ruolo di riconoscimento delle responsabilità per i crimini commessi nel corso dell’invasione dell’Ucraina e per l‘invasione stessa, un’aggressione illegittima e non provocata, che ha già causato migliaia di morti anche tra la popolazione civile, ivi compresi tanti, troppi bambini e bambine.
La Corte Penale Internazionale (CPI) è stata istituita a seguito dell’approvazione nel 1998 del c.d. Statuto di Roma, che stabilisce l’elenco dei crimini di sua competenza e le sue regole di funzionamento. Si tratta della prima Corte Penale Internazionale con competenza generale, mentre le Corti che hanno giudicato i crimini commessi nella ex-Jugoslavia[1], in Ruanda,[2] a Timor Est[3] e in Sierra Leone[4] erano Tribunali ad hoc, istituiti post-factum.
I crimini che rientrano nella giurisdizione della CPI sono i c.d. core crimes - genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra - ed inoltre il crimine di aggressione. Mentre i core crimes proteggono diritti fondamentali delle persone coinvolte nel conflitto, il crimine di aggressione è per eccellenza il crimine contro la pace, ed insieme ai core crimes costituisce la stessa ragione d’essere della Corte Penale Internazionale. Tuttavia per il crimine di aggressione l’attivazione della giurisdizione della Corte è sottoposta a limiti molto restrittivi, come si dirà meglio più avanti. Si tratta di un grave vulnus alla potenziale efficacia dell’azione e delle decisioni della Corte, che già spinge taluni, tra cui il Presidente Zelenski, a chiedere l’istituzione di una Corte ad hoc competente per l’aggressione all’Ucraina.
Il Procuratore Generale della Corte, il britannico Karim Asad Ahmad Khan, ha aperto un’indagine per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.[5] Anche soltanto in base alle notizie provenienti da open sources, emerge che i bombardamenti russi hanno colpito zone residenziali lontane da obiettivi militari, edifici pubblici e ospedali, tra cui l’ospedale pediatrico di Mariupol, e perfino colonne di cittadini in fuga dopo l’apertura di corridoi umanitari o in fila per il pane. L’enorme quantità di bersagli civili colpiti in queste settimane di guerra è già sufficiente a dimostrare che non si è trattato di errori, ma di una strategia di attacco - peraltro tristemente sperimentata in Siria[6] - che mira a terrorizzare la popolazione e indurla alla resa.
Occorre chiedersi perché, almeno in queste due e in altre guerre recenti o ancora in corso come quella in Yemen, i bombardamenti e gli attacchi armati abbiano sistematicamente colpito, al pari degli obiettivi militari e dei luoghi della produzione di beni materiali, anche i luoghi della riproduzione sociale, cioè le case, le scuole, gli ospedali. Proprio questi luoghi vengono oggi individuati, consapevolmente o inconsapevolmente, come la riserva di energia di una popolazione, ciò che in definitiva la rende più forte e coesa. Quelli della riproduzione sociale sono i luoghi in cui alberga quel senso profondo della vita che costituisce la più irriducibile opposizione alla violenza. Forse per questa ragione proprio quei luoghi diventano i bersagli privilegiati, ciò che è necessario abbattere, sfigurare, sventrare, per affermare il dominio del più forte.
Dunque, vi sono certamente i presupposti indiziari per l’inizio di un’indagine penale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel frattempo si è attivata anche la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), organo dell’ONU,[7] sulle accuse di genocidio ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio.[8] Nella sua richiesta alla CIG di attivare un procedimento contro la Federazione Russa, l’Ucraina ha affermato di essere stata accusata falsamente di avere compiuto atti di genocidio nelle regioni separatiste di Luhansk e Donetsk nel 2014 e successivamente, e ha chiesto misure provvisorie contro la Russia. Nel suo ricorso l’Ucraina ha accusato la Federazione russa di pianificare atti di genocidio in Ucraina, nonché di uccidere intenzionalmente ed infliggere lesioni gravi ai membri della nazionalità Ucraina. Le misure provvisorie sono poi state adottate il 16 marzo scorso, quando la CIG ha ordinato alla Federazione russa di assicurare che qualsiasi unità militare o irregolare da essa diretta o sostenuta, e qualsiasi organizzazione o persona che possa essere soggetta al suo controllo o alla sua direzione, si astenga dal compiere atti di aiuto alle operazioni militari in corso.[9] Il crimine di genocidio è dunque implicato nell’azione sia della CPI sia della CIG.
2. Il crimine di genocidio
Il termine “genocidio” fu coniato per descrivere i crimini commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. La definizione giuridica fu formulata per la prima volta nel 1948, nella Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Il delitto è definito dall’art. 1 della Convenzione come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra. In base all’art. 2 della Convenzione, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”. La definizione di genocidio è stata trasfusa negli Statuti delle Corti ad hoc, e poi nello Statuto della CPI.[10] Oltre all’elemento oggettivo, è necessario che esista “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. L’intento di commettere genocidio può essere dedotto da fatti e circostanze rilevanti, come la commissione di altri atti diretti sistematicamente contro un gruppo, la dimensione delle atrocità commesse, il fatto di prendere di mira sistematicamente certi individui per il fatto di appartenere al gruppo in questione, o la ripetizione di atti distruttivi o discriminatori.[11]
Al fine di valutare l’esistenza del crimine di genocidio o del tentativo di genocidio nelle regioni separatiste del Luhansk e del Donetsk, occorrerebbe provare innanzi tutto che le comunità asseritamente prese di mira costituiscano un gruppo protetto, ovvero che abbiano un’identità distinta da quella dei presunti aggressori dal punto di vista nazionale, etnico, razziale o religioso. Già tale presupposto sembra difficile da rintracciare, poiché è scontato che tra ucraini e separatisti russofoni non vi è una diversa identità etnica né razziale né religiosa. Quanto alla diversa identità nazionale, considerare le comunità separatiste come entità nazionali diverse dall’Ucraina equivarrebbe a considerare legittimo il recente riconoscimento di Mosca delle regioni separatiste come repubbliche autonome, e fare retroagire il presupposto della diversa identità nazionale alla situazione del 2014. Inoltre occorrerebbe provare, oltre ai fatti materiali, anche il dolo specifico consistente nell’intenzione di distruggere in tutto o in parte le comunità russofone. Benché sia probabile che nelle regioni separatiste siano stati commessi atti di violenza da entrambe le parti in conflitto, allo stato delle conoscenze non sembra che le dimensioni e la qualità di tali fatti possano configurare il crimine di genocidio o di tentato genocidio ai danni di popolazioni russofone. In ogni caso nel 2014 era stata aperta un’inchiesta della Procura CPI, i cui risultati verrano ora utilizzati nell’ambito della più vasta indagine ora annunciata dal Procuratore, che dovrà necessariamente estendersi a tutti gli atti diretti contro la popolazione commessi nel territorio dell’Ucraina, e alla loro qualificazione giuridica, ivi compreso il crimine di genocidio.
3. I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra
I crimini contro l’umanità sono elencati e parzialmente definiti dallo Statuto di Roma. La lista comprende l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù anche nel contesto della tratta di esseri umani, la deportazione, l’imprigionamento o altre forme di privazione della libertà, la tortura, lo stupro e altre forme di violenza sessuale, la persecuzione di un gruppo, la sparizione forzata, l’apartheid, e altri atti inumani diretti a provocare intenzionalmente gravi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale. Il presupposto oggettivo dei crimini contro l’umanità è che essi siano commessi come parte di un attacco diffuso o sistematico contro una popolazione civile per ragioni nazionali, politiche, etniche, razziali o religiose, laddove “diffuso” si riferisce alla sua natura su larga scala, e “sistematico” alla natura organizzata degli atti di violenza e alla improbabilità che essi siano accaduti in modo casuale.[12] L’elemento soggettivo è costituito dalla conoscenza da parte dell’imputato del contesto, e del fatto che i propri atti formano parte dell’attacco, senza necessità che il colpevole condivida i propositi o i fini del più ampio attacco.[13] Inoltre l’elemento psicologico non deve necessariamente coprire l’elemento addizionale che il fatto sia commesso per ragioni nazionali, politiche, etniche o razziali o religiose, vale a dire che non deve essere provato uno specifico intento discriminatorio.
Con riferimento all’elemento oggettivo, nel caso dell’invasione dell’Ucraina le informazioni provenienti dalle open sources portano a ritenere - come si è già detto - che gli attacchi alle popolazioni civili, in specie i bombardamenti contro obiettivi non militari quali quartieri residenziali e ospedali, per essere stati compiuti su larga scala e in modo organizzato, non possano essere considerati casuali. In relazione alla punibilità dei colpevoli, di particolare importanza è la prova della responsabilità non solo dell’autore materiale degli atti, ma anche dei superiori gerarchici. In proposito l’art. 28 dello Statuto di Roma prevede due presupposti della punibilità dei capi. Il primo è che l’imputato sia un comandante militare, ovvero che lo stesso abbia agito di fatto come un comandante militare. In secondo luogo, si richiede che le forze armate siano sotto il suo effettivo comando o autorità, e controllo. Il comportamento omissivo rilevante ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale si verifica quando l’imputato non ha esercitato un controllo adeguato sulle forze armate a lui sottoposte, ovvero ha omesso di prendere le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per prevenire la commissione del crimine contro l’umanità, o per reprimerlo, o per presentare la questione alle autorità competenti per le indagini e l’azione penale. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, il dolo consiste nel fatto che l’imputato conosceva, o che avrebbe dovuto avere conoscenza degli atti criminali che le forze a lui sottoposte stavano per commettere. Orbene, nel caso dell’Ucraina la più alta autorità statale della Federazione russa, nella persona del Presidente Putin, ha pubblicamente rivendicato l’invasione - sia pure denominata “operazione speciale” - annunciandone a più riprese la prosecuzione. Per quanto riguarda i singoli crimini, vanno applicati i sopra indicati criteri di attribuzione di responsabilità penale lungo la catena di comando, fino ai più alti livelli della gerarchia militare e statale.[14]
I crimini di guerra sono numerosi e dettagliatamente elencati nello Statuto di Roma. Rispetto ai crimini contro l’umanità, i crimini di guerra presentano il diverso elemento materiale consistente nel nesso tra il presunto crimine e il conflitto armato. Con riferimento all’invasione dell’Ucraina, i crimini che vengono soprattutto in evidenza sono quelli previsti dall’art. 8 lett.(i) “dirigere deliberatamente attacchi contro proprietà civili e cioè proprietà che non siano obiettivi militari e (iv) lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, e lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale (…).
La CPI esercita la sua giurisdizione solo se lo Stato nel cui territorio è stato commesso il crimine è uno Stato parte della Convenzione. Né la Federazione russa né l’Ucraina hanno ratificato lo Statuto della Corte. Tuttavia in questo caso la giurisdizione della Corte si incardina - per i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio - a seguito dell’accettazione della giurisdizione da parte dell’Ucraina per i crimini commessi sul suo territorio, depositata nel 2014 e reiterata senza limite di tempo nel 2015.
4. Un nuovo Tribunale ad hoc per il crimine di aggressione all’Ucraina?
Diversamente, per il crimine di aggressione non sembra esistere alcuno spiraglio per affermare la giurisdizione della CPI. L’aggressione è definita dallo Statuto di Roma come “pianificazione, preparazione, scatenamento o esecuzione, da parte di una persona che sia in grado di esercitare un controllo effettivo o di dirigere l’azione politica e militare dello Stato, di un atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite.” La Risoluzione dell’Assemblea Generale 3314, nel 1974, aveva definito l’atto di aggressione come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato o in ogni altra maniera contraria alla Carta delle Nazioni Unite”. Azioni qualificanti l’aggressione sono l’invasione o l’occupazione militare, il bombardamento, il blocco dei porti e delle coste, l’invio di bande di mercenari. E’ evidente la rilevanza del crimine di aggressione nella situazione attuale della guerra in Ucraina.
Tuttavia il crimine di aggressione fu incluso nello Statuto di Roma in un clima molto conflittuale, giacché alcuni Stati si opponevano alla sua introduzione. D’altra parte occorre ricordare che Stati Uniti, Russia e Cina non hanno ratificato lo Statuto. Il compromesso finale fu che l’attivazione della giurisdizione della Corte per il crimine di aggressione sarebbe stata rinviata a successivi emendamenti allo Statuto. In base ai c.d. emendamenti di Kampala adottati nel 2017, dopo quasi venti anni dall’apertura alla firma dello Statuto, la giurisdizione per il crimine di aggressione è stata attivata con la Risoluzione dell’Assemblea degli Stati parte del 15/12/2017, entrata in vigore il 17/07/2018.
Tuttavia il testo emendato dello Statuto sottopone l’attivazione della giurisdizione a limiti molto ristretti, e sembra pertanto scontato il difetto di giurisdizione della CPI per il crimine di aggressone.[15] L’istituzione di una Corte ad hoc sembra allo stato l’unica opzione praticabile se si vuole sottoporre a giudizio l’aggressione all’Ucraina in quanto tale, al di là dei singoli crimini commessi nel corso dell’invasione. La soluzione avrebbe l’aspetto negativo di delegittimare la CPI, proprio nel momento in cui il Procuratore assume un’iniziativa tempestiva sul conflitto in corso. Inoltre sulle Corti ad hoc ha gravato l’ipoteca di essere istituite post-factum, e dunque di sottrarsi al principio fondamentale di diritto penale nullum crimen sine lege. Per la verità a partire dall’istituzione del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia, è stato verificato che tutte le norme incriminatrici avessero un riscontro in norme precedentemente contenute nel diritto internazionale e nel diritto interno dei principali sistemi legali. Da questo punto di vista, dunque, e date le drastiche restrizioni imposte alla CPI sul crimine di aggressione, l’istituzione di una Corte ad hoc potrebbe essere accettabile. Tuttavia tale soluzione non sembra allo stato indispensabile. Infatti, in base allo Statuto di Roma e alla giurisprudenza delle Corti Internazionali, in particolare della ICTY, la responsabilità di comando per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra può raggiungere - e di fatto ha raggiunto - i più alti livelli della gerarchia militare e dello stesso ordinamento statale.[16]
5. Una riflessione conclusiva, in una prospettiva giusfemminista
Il femminismo si è storicamente impegnato per l’accertamento e la punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi contro le donne durante i conflitti e in tempo di pace. A seguito delle atrocità commesse in Bosnia, nello Statuto di Roma sono stati introdotti i delitti di stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza di gravità comparabile.[17] Il femminismo ha dato un contributo rilevante al riconoscimento di un fatto che è oggi patrimonio della coscienza collettiva, vale a dire che le guerre contemporanee prendono di mira soprattutto i civili, e tra questi le donne, che sono colpite da forme efferate di violenza sessuale, vere e proprie armi di guerra di particolare potenza in quanto volte a distruggere la coesione e dunque a indebolire drammaticamente le comunità avversarie. E’ opportuno in proposito ricordare che gli stupri e i delitti di schiavitù sessuale commessi durante la seconda guerra mondiale sono stati oggetto di una rimozione collettiva per decenni, e che solo recentemente sono stati sottratti all’oblio, grazie anche all’impegno femminista. In questo processo di ricerca della verità, la richiesta di riconoscimento di quanto era accaduto allora, e quanto è accaduto poi nella ex Jugoslavia, in Ruanda, in Congo, in Iraq e in Siria - per citare solo alcune delle guerre recenti - e l’accertamento delle relative responsabilità, sono stati e restano tuttora le rivendicazioni centrali delle vittime e delle associazioni di donne che le hanno sostenute. Solo ristabilendo la verità, infatti, è possibile ricostruire una prospettiva di pace e di convivenza. La straordinaria esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica[18] ne è un esempio storico.
Il pensiero femminista ha da tempo sviluppato una riflessione profonda sulla nozione di vulnerabilità come attributo di tutti gli esseri umani, che per il fatto di avere un corpo sono esposti alla ferita e alla perdita. La vulnerabilità come attributo della vita stessa, fa sì che ciascuna/o di noi sia consegnato all’altra/o, in un rapporto originario di dipendenza reciproca.[19] L’interdipendenza di tutti gli esseri umani, resa evidente dalla globalizzazione - dai suoi grandi meriti come dai suoi grandi disastri - richiede che lo sguardo rimanga puntato sulla convivenza possibile tra persone e popolazioni diverse, ma simili quanto alla comune vulnerabilità.[20] Se la vulnerabilità “situazionale” provocata dalla coercizione, dalla discriminazione e dallo sfruttamento[21] è la conseguenza della violenza e del dominio, la risposta deve essere un’azione fondata sulla comune e inevitabile vulnerabilità umana, e sulla solidarietà che ne è il corollario. Assistiamo in questi giorni ad un’arroganza della forza, che tuttavia si scopre meno efficace di quanto si ritenesse. I bombardamenti sui luoghi della riproduzione sociale come le case e gli ospedali, dicono che si vuole colpire la vita stessa per affermare la propria volontà con la violenza. A questa arroganza, un’ultima manifestazione storica della politica di potenza, si deve opporre una volontà di pace. Secondo il diritto internazionale, qualsiasi popolazione ha il diritto di difendersi da un’aggressione armata. Tuttavia un canale per la risoluzione alternativa e pacifica del conflitto deve sempre essere tenuto aperto.
Nel corso dei negoziati, che si spera portino a una soluzione diplomatica in tempi non troppo lunghi - poiché ogni giorno di guerra è un giorno di sofferenza e di perdite inaccettabili - è utile che venga attivata la giurisdizione internazionale inclusa quella penale? La costruzione di una prospettiva di pace è affidata innanzi tutto ai negoziati internazionali in corso; una soluzione possibile non deve necessariamente basarsi sullo status quo ante - del resto il Presidente Zelensky ha mostrato di essere aperto a discutere sullo statuto di neutralità del Paese - ma certamente deve basarsi sul ripristino della legalità internazionale e sulla piena sovranità dell’Ucraina. In questo percorso, quale può essere il ruolo del diritto?
Il diritto è sempre lo strumento del più debole, che una persona vulnerabile, vittima di sofferenze e perdite irreparabili, deve poter sempre invocare. Impotente dinanzi all’uso della forza su larga scala e costretto a recedere, il diritto ha tuttavia una missione da compiere: riconoscere che gli atti commessi ai danni delle popolazioni civili sono crimini, che hanno dei responsabili, mostrarli al mondo e chiamarli con il loro nome. Solo il riconoscimento può fare sì che l’auspicata soluzione diplomatica non sia un “appeasement”, una pura e semplice ratifica del fatto compiuto attraverso l’uso della forza, foriero di ulteriori atti di aggressione, ma un accordo giusto e duraturo. Dunque, sì, la Corte Penale Internazionale ha un ruolo da svolgere anche per garantire un futuro di pace, e deve svolgerlo con il sostegno di tutti gli Stati c.d. like-minded, tra cui i Paesi europei e tra questi l’Italia, che alla fine degli anni ’90 si impegnarono per la sua istituzione.
*Magistrata in pensione, già United Nations Special Rapporteur on trafficking in persons especially women and children.
[1] Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, istituito il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza dell'ONU. E’ stata la prima Corte penale internazionale istituita dopo la Corte Penale che celebrò il processo di Norimberga, creata con l’accordo di Londra del 1945.
[2] Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR) istituito nel 1994.
[3] Special Panels della Corte del distretto di Dili, noti come Tribunale speciale per Timor Est, istituito nel 2000.
[4] Corte Speciale per la Sierra Leone, istituita nel 2002.
[5]https://www.rainews.it/articoli/2022/02/la-corte-penale-internazionale-indagher-la-russia-per-crimini-di-guerra-264111d5-7a84-4c0a-ab13-c12d3b8f3fb7.html
[6] Tra le numerose fonti, cfr. C. Del Ponte, Gli Impuniti.I crimini in Siria e la mia lotta per la verità, Milano, Sperling & Kupfer, 2018.
[7] La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) fu fondata nel 1945. A differenza della Corte Penale Internazionale (CPI), che giudica sulla responsabilità penale degli individui, la principale funzione della CIG è dirimere le controversie internazionali tra Stati membri delle Nazioni Unite che abbiano accettato la sua giurisdizione, oltre che di fornire l’interpretazione del diritto internazionale e fornire pareri all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
[8] https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/crimini-di-guerra-il-procuratore-della-corte-penale-internazionale-apre-un-indagine-contro-la-russia_46780134-202202k.shtml
[9] https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220316-PRE-01-00-EN.pdf
[10] Tuttavia nello Statuto di Roma non è stata riprodotta la punibilità della cospirazione per commettere genocidio.
[11] Cfr. fra le altre, ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement, para 2073, che richiama ICTR, Bagosora et al. Trial Judgement, para 2116; ICTR, Sereomba Appeal Judgement, para 176.
[12] ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement, para 2087, che richiama fra gli altri ICTY, Kunarac et al. Trial Judgement paras 428-429; ICTY, Kunarac Appeal Judgement, para. 94.
[13] ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement para 2088, che richiama ICTR, Setako Trial Judgement para 476; ICTR Bagosora et al. Trial Judgement, para 2165; ICTR, Media Appeal Judgement, para 920.
[14] Il 24 marzo 2016, la III Camera della ICTY ha condannato Radovan Karadžić per genocidio nell’area di Srebrenica nel 1995 e per persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, atti disumani (trasferimento forzato) terrore, attacchi illegali sui civili e presa di ostaggi. E’ stato assolto per l’imputazione di genocidio in altre municipalità della Bosnia and Herzegovina (BiH) nel 1992. La Corte ha ritenuto che Karadzic abbia commesso questi crimini attraverso la sua partecipazione in quattro JCEs (Imprese criminali collettive): la prima comprendeva un piano comune per rimuovere i Bosniaci Musulmani e I Bosniaci Croati dai territori che i Serbo-bosniaci reclamavano per sé, attraverso la commissione di delitti in varie municipalità del territorio della BiH; la seconda aveva lo scopo di sviluppare una campagna di tiri mirati e e bombardamenti contro la popolazione civile di Sarajevo, volta a seminare terrore tra i cittadini; la terza impresa criminale aveva lo scopo di prendere in ostaggio personale dell’ONU allo scopo di costringere la NATO a cessare i bombardamenti aerei contro bersagli serbo-bosniaci; la quarta aveva lo scopo di eliminare i Bosniaci Musulmani di Srebrenica nel luglio 1995. La sentenza ha ritenuto la responsabilità di Milosevic anche come capo militare e superiore gerarchico, e dunque ha attinto la più alta autorità statale della Republika Serpska, di cui dal dicembre 1992 Karadzic era stato Presidente e Comandante delle Forze armate. https://www.irmct.org/en/cases/mict-13-55#:~:text=On%2024%20March%202016%2C%20Trial,on%20civilians%20and%20hostage%2Dtaking.
[15] C. Pividori, Crimine di aggressione, Dossier del Centro Diritti Umani “Antonio Papisca”, Università degli Studi di Padova.
[16] Cfr. n particolare, le imputazioni elevate contro Slobodan Milosevic (IT-02-54), Presidente della Repubblica Federale di Yugoslavia dal 1997 al 2000 e deceduto nel 2006 prima della sentenza. https://www.icty.org/en/case/slobodan_milosevic#ind Cfr. anche la decisione di primo grado e di appello contro Radovan Karadzic, cit..
[17] I crimini di violenza sessuale perpetrati durante la guerra nella ex Jugoslavia sono stati giudicati dal Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia (ICTY). In un documento preparato da quella Corte nel 2010, si afferma che la metà dei capi d’accusa del Tribunale riguardava atti di violenza sessuale, e la maggioranza di tali accuse aveva portato a condanne non soltanto degli esecutori materiali, ma anche, per complicità o responsabilità di comando, di comandanti di centri di detenzione, di comandanti militari intermedi, come di quelli posti ai vertici della catena gerarchica di un esercito o di autorità civili locali e centrali, e perfino dei quelle poste al vertice dell’organizzazione statale. Risultati analoghi si sono registrati dal Tribunale per il Ruanda e dalla Corte Speciale per la Sierra Leone. https://www.icty.org/x/file/Outreach/sv_files/DPKO_report_sexual_violence.pdf
[18] La Truth and Reconciliation Commission fu fondata nel 1995, ed ebbe la propria sede a Città del Capo. Il mandato era di raccogliere e registrare le testimonianze di coloro che si erano resi colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell'apartheid, o di coloro che erano stati le vittime di tali violazioni, con la possibilità di concedere l'amnistia a chi avesse confessato i suoi crimini.
[19] J. Butler, Precarious life. The powers of mourning and violence, Trad. it. Vite Precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Roma, Meltemi.
[20] Il pensiero femminista recente ha molto lavorato sulla nozione di vulnerabilità, facendone la base di una critica al soggetto di diritto neutro, astratto e indipendente Cfr. in particolare M. Fineman, The Vulnerable Subject and the Responsive State, in Yale Journal of Law and Feminism, 20/2008, 1; Pariotti, Vulnerabilità e qualificazione del soggetto: implicazioni per il paradigma dei diritti umani, in O. Giolo, B. Pastore, Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Roma, 2018. B. Pastore, Viola, Zaccaria, Le ragioni del diritto, Bologna, 2017; M.G. Bernardini, Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari tra filosofia del diritto e Disability Studies, Torino, 2016.
[21] M.G. Giammarinaro, L. Palumbo, Vulnerabilità situazionale, genere e diritti umani, in G. Gioffredi, V. Lorubbio, A. Pisanò (a cura di), Diritti umani in crisi? Emergenze, disuguaglianze, esclusioni, Pacini Giuridica.
Osservazioni sulle sanzioni amministrative (a proposito della confisca “urbanistica”)
di Franco Gaetano Scoca
Sommario: 1. Sulla nozione di sanzione amministrativa. – 2. La confisca come sanzione amministrativa. – 3. Applicabilità della confisca in caso di mancata condanna penale. – 4. Il dibattito tra Corti interne e Corte EDU. – 5. I terzi acquirenti degli immobili. – 6. Sulla proporzionalità della sanzione. – 7. Sulla unicità e automaticità della sanzione. – 8. Sulla idoneità della confisca a soddisfare gli interessi urbanistici. – 9. Confisca e provvedimento di acquisizione al patrimonio del Comune. – 10. Inconvenienti derivanti dalla attribuzione al giudice penale dell’applicazione di sanzioni amministrative.
1. Sulla nozione di sanzione amministrativa
Il dibattito a più voci che si è intrecciato tra Corti nazionali e Corte EDU sulla natura e sulle caratteristiche della c.d. confisca urbanistica, prevista come sanzione per la lottizzazione abusiva, costituisce un proficuo materiale di riflessione per approfondire la nozione di sanzione amministrativa.
Il primo quesito che si pone riguarda la natura della sanzione: quand’è, in base a quale elemento caratteristico, una sanzione può considerarsi amministrativa? Una sanzione, proprio perché tale, è un atto punitivo, una “pena” secondo il linguaggio della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Si potrebbe risolvere il problema in modo semplicissimo: sanzione amministrativa è quella che viene comminata da autorità amministrative. Ma questa è, a mio avviso, una soluzione inappagante, perché collega la natura amministrativa della sanzione ad un elemento ad essa estrinseco, la natura del soggetto che la applica.
A me sembra che la funzione meramente punitiva non sia, di per sé, identificabile con la (sia pure multiforme) funzione amministrativa. Di certo possono esserci sanzioni attribuite alla competenza di autorità amministrative che hanno soltanto scopi punitivi; ma esse restano soltanto “pene”, non possono considerarsi a pieno titolo sanzioni amministrative. La mia convinzione è che, per poterla qualificare in senso proprio amministrativa, una sanzione, pur non perdendo il suo carattere punitivo, deve rispondere ad un interesse pubblico diverso da quello della mera reazione ad un illecito, un interesse che sia in cura all’amministrazione che la irroga.
La confisca urbanistica[1] si presta assai bene alla illustrazione di questa tesi, sia perché la sua natura è controversa, ritenendo le Corti interne prevalentemente che abbia natura amministrativa e ritenendo la Corte convenzionale che abbia natura penale; sia perché di essa sono stati messi in dubbio, e sono poi stati approfonditi, i requisiti che la caratterizzano come pena e i requisiti che la caratterizzano come sanzione amministrativa, meglio come atto amministrativo; sia infine perché essa ha i medesimi effetti (o il medesimo risultato) dell’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune[2], ma non ne ha, secondo il diritto vivente, la medesima disciplina.
2. La confisca come sanzione amministrativa
Conviene, dunque, ripercorrere il corposo, articolato ed interessante dibattito giurisprudenziale svoltosi in ordine alla confisca urbanistica[3].
Unanime è il riconoscimento che la confisca risponde ad un interesse pubblico ulteriore rispetto alla punizione dell’illecito: tale interesse ulteriore è visto, volta a volta, come interesse alla trasformazione controllata del territorio, ossia secondo le previsioni degli strumenti urbanistici e paesaggistici o, ancora, come interesse alla salvaguardia della stessa funzione pianificatoria e della sua riserva all’autorità comunale[4].
In ordine alla natura della sanzione, nel diritto interno si è consolidata, nella giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, almeno dagli anni novanta del secolo scorso[5], la tesi che si tratti di sanzione amministrativa; e tale tesi è stata mantenuta ferma anche dopo che la Corte di Strasburgo ha prima affermato e poi ribadito che trattasi di sanzione penale[6]. Sembra – occorre aggiungere – che la giurisprudenza del Consiglio di Stato propenda ancora oggi per la natura penale della confisca e la tenga decisamente distinta, per questa sua natura, dalla acquisizione coattiva dei beni lottizzati, a cui riconosce natura amministrativa[7].
A ben vedere la questione della natura della sanzione (amministrativa o penale) ha perso di importanza, una volta acclarato il carattere punitivo della stessa e la sua inclusione, come “pena”, nella sfera di applicazione dell’art. 7 della Convenzione[8].
Dalla lunga e corale elaborazione giurisprudenziale risulta un quadro disciplinare solo apparentemente coerente: la confisca si presenta nel diritto interno come una sanzione amministrativa erogata dal giudice penale[9]; ma, come si vedrà, il quadro disciplinare di tale sanzione è cosparso di incertezze, forse anche di contraddizioni e provoca tuttora orientamenti giurisprudenziali incoerenti. L’impressione è che la giurisprudenza interna non abbia ancora del tutto “digerito” gli stimoli provenienti da Strasburgo e alterni tentativi di minimizzarne la portata a posizioni di pieno accoglimento.
Già la circostanza che una sanzione (riconosciuta come) amministrativa sia inflitta dal giudice penale comporta perplessità e problemi: sia che si ritenga che il giudice penale agisca in luogo dell’amministrazione, ossia esercitando in via sostitutiva un potere amministrativo[10], sia che si accolga l’opinione della Grande Camera che il giudice penale agisca con potere proprio, non è dubbio, secondo la giurisprudenza, che “una volta che la condanna penale sia divenuta definitiva, la confisca non può essere revocata, nemmeno in caso di successiva sanatoria della lottizzazione da parte dell’autorità amministrativa”[11]. Il che contrasta con la disciplina tipica dei provvedimenti amministrativi.
Inoltre, come è ovvio, la confisca, pur avendo natura amministrativa, non può essere impugnata dinanzi al giudice amministrativo: sulla sostanza amministrativa prevale il dato formale dell’essere adottata con sentenza (dal giudice penale)[12].
3. Applicabilità della confisca in caso di mancata condanna penale
Mano a mano che il dibattito tra le Corti si faceva più serrato e prendeva in esame i diversi aspetti dubbi della laconica disposizione sulla confisca urbanistica, il contenuto obiettivo di quest’ultima, se da un lato veniva chiarito, dall’altro veniva profondamente modificato; fino al punto che, allo stato attuale, il diritto vivente è assolutamente diverso dal diritto scritto.
Il primo aspetto controverso ha riguardato la possibilità che la confisca fosse pronunciata anche in caso di mancata condanna, in caso di prescrizione del reato di lottizzazione abusiva. Anzi, a ben riflettere, l’obiettivo di confiscare i terreni lottizzati e i fabbricati eventualmente costruiti, anche in caso di sentenza di non luogo a procedere[13] o di proscioglimento, dev’essere stata la ragione effettiva che ha convinto la Corte di cassazione, negli anni novanta, ad abbandonare la tesi della natura penale per abbracciare quella della natura amministrativa: come pena accessoria, ovviamente, la confisca non poteva essere pronunciata nei confronti dell’imputato uscito indenne dal processo penale, né poteva essere inflitta a soggetti estranei al giudizio penale.
Intesa come sanzione amministrativa, invece, in caso di accertamento di fatto dell’avvenuta lottizzazione abusiva, ossia dell’elemento oggettivo dell’illecito, non ci sarebbero ostacoli per infliggerla, anche in difetto di condanna penale, e perfino in caso di proscioglimento per difetto dell’elemento soggettivo del reato, a tutti coloro che in un modo o nell’altro se ne sono resi oggettivamente responsabili.
La questione ha comunque dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza tra Corti nazionali e Corte convenzionale, che si è concluso con un compromesso di dubbia razionalità: la confisca può essere pronunciata ove il giudice penale abbia accertato, con un processo in cui sia stato rispettato il contraddittorio, sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva. Sì che la confisca ha assunto un carattere ambiguo: è sanzione amministrativa, perché non presuppone la condanna penale, ma si comporta come se fosse una sanzione penale, per la cui comminazione è necessario l’accertamento (anche) di “un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti”[14]. Accertato dal giudice penale che la lottizzazione abusiva è stata effettivamente realizzata, con compromissione degli interessi pubblici ai quali si è già fatto riferimento, la confisca può essere pronunciata soltanto se i lottizzanti hanno agito almeno colposamente. Se, viceversa, hanno agito senza colpa, diligentemente, anche se illegittimamente, i terreni lottizzati abusivamente restano di loro proprietà e i fabbricati eventualmente realizzati non possono essere demoliti.
È più che evidente che l’accertamento dell’elemento soggettivo è necessario per le sanzioni penali, ma è distonico rispetto alle sanzioni amministrative, perché impedisce che esse raggiungano il loro scopo, ossia la cura dell’interesse per il quale sono previste dal legislatore; nel caso della confisca urbanistica, l’interesse alla trasformazione ordinata e controllata del territorio e al rispetto della funzione pianificatrice del Comune.
4. Il dibattito tra Corti interne e Corte EDU
A questo risultato si è arrivati gradualmente, su spinta della Corte di Strasburgo. La quale, con le varie sentenze Sud Fondi, e poi con la sentenza Varvara, aveva preso una posizione di chiusura nei confronti della possibilità di pronunciare la confisca in difetto di condanna penale[15]. Fin dalle sentenze Sud Fondi, affermando il carattere penale della confisca, richiedeva l’accertamento (anche) dell’elemento psicologico.
La giurisprudenza penale si uniformò con immediatezza a questa seconda indicazione[16], e da allora il giudice indaga sul profilo soggettivo del reato; ma non si uniformò alla prima indicazione. Conseguentemente, la Corte di cassazione, sempre convinta che si potesse infliggere la confisca anche in assenza di condanna dei responsabili, in caso di prescrizione del reato prima della sentenza definitiva[17], ritenne necessario rivolgersi alla Corte costituzionale, sostenendo che l’orientamento della Corte di Strasburgo, impedendo la confisca in caso di non luogo a procedere, determinava una forma di iperprotezione del diritto di proprietà, in violazione di una serie di articoli della Costituzione[18].
La Consulta, da un lato, prese posizione nei confronti della Corte convenzionale, affermando “il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU” e rivendicando “l’autonomia dei criteri di valutazione della natura penale di una sanzione, ai fini dell’estensione delle garanzie offerte dall’art. 7 della CEDU, rispetto alla qualificazione che l’ordinamento nazionale offre della medesima sanzione” [19], ossia sostenendo l’autonomia delle qualificazioni giuridiche nell’ordinamento nazionale e in quello convenzionale.. Dall’altro risolse brillantemente il problema, suggerendo una interpretazione sostanzialistica della sentenza Varvara. Sostenne, cioè, che il giudice convenzionale, ragionando in termini di “condanna”, non intendeva riferirsi alla forma della pronuncia del giudice, ma alla sua sostanza, ossia all’accertamento della responsabilità per il reato di lottizzazione abusiva[20].
La Grande Camera, a sua volta, pur non rinunciando ad una precisazione polemica riguardante una osservazione della Consulta[21], si è adeguata alla interpretazione della sentenza Varvara proposta da quest’ultima, e ha infine stabilito che l’art. 7 “osta a che una sanzione penale sia inflitta su base individuale senza che sia stata accertata e dichiarata preventivamente la sua responsabilità penale personale”[22], anche a prescindere da una condanna formale.
L’orientamento successivo del giudice penale si è uniformato a questo risultato, condiviso dalle Corti costituzionale e convenzionale[23].
In definitiva, la confisca è una sanzione penale secondo il diritto convenzionale, ma resta una sanzione amministrativa secondo il diritto nazionale: per infliggerla è necessario accertare, oltre l’elemento oggettivo del reato di lottizzazione abusiva, anche l’elemento soggettivo o “intellettuale” (il dolo o la colpa).
5. I terzi acquirenti degli immobili
Questo è il risultato (di compromesso) che ha messo d’accordo le Corti nazionali con la Corte di Strasburgo[24]. Esso comporta che la confisca possa essere inflitta solo a coloro per i quali il giudice penale abbia accertato la responsabilità; il che significa che occorre che ciascuno di essi debba essere stato convenuto in giudizio e dichiarato responsabile.
Si pone così il problema dei terzi acquirenti di appartamenti siti in fabbricati realizzati a seguito della lottizzazione abusiva. I terzi, secondo la giurisprudenza penale, pur non avendo partecipato alle condotte lottizzatrici, sono considerati concorrenti nel reato, in quanto inseriscono “un determinante contributo causale alla concreta attuazione del disegno criminoso” dei lottizzanti[25]: non sono, quindi, considerati estranei al reato. Il nesso di causalità si interrompe soltanto se gli acquirenti sono in buona fede: soltanto in tal caso e per le sole opere di loro proprietà la confisca non può essere inflitta[26].
La giurisprudenza penale risulta essere molto severa nella valutazione della buona fede dei terzi acquirenti: ritiene che essi debbano acclarare non solo se gli immobili che intendono acquistare, siano dotati di permesso di costruire, se la lottizzazione nella quale si collocano sia stata debitamente autorizzata, ma debbano altresì acclarare se gli immobili siano conformi agli strumenti urbanistici in vigore[27].
Si potrebbe pensare che soprattutto quest’ultimo oggetto di indagine sia fuori della normale diligenza. Si pensi alla lottizzazione c.d. sostanziale[28], quando cioè l’attività di divisione in lotti e di costruzione e vendita dei fabbricati risulta debitamente autorizzata dal Comune, ma con provvedimenti (che il giudice penale possa poi ritenere) illegittimi per contrasto con le norme e gli strumenti urbanistici superiori: può ritenersi normale diligenza valutare la legittimità di provvedimenti emessi dal Comune e non impugnati?[29].
La particolare severità nell’accertamento della buona fede può spiegarsi con la preoccupazione che, lasciando indenni da confisca i beni acquistati da terzi, l’oggetto della confisca è destinato a ridursi notevolmente e, in più, si potrebbe avere una confisca a macchia di leopardo, tale da rendere impossibile, da parte del Comune, l’eventuale demolizione dei fabbricati abusivi e il ripristino della situazione precedente alla lottizzazione abusiva.
Data la necessità di accertare in giudizio la responsabilità penale dei lottizzanti, la confisca non dovrebbe comprendere beni di persone che sono rimaste estranee al giudizio. Viceversa la prassi è che, accertati gli elementi oggettivo e soggettivo (dei convenuti in giudizio), la confisca viene pronunciata con riferimento all’intero comprensorio di lottizzazione, senza escludere i beni di coloro per i quali, non essendo stati parte nel giudizio, non è stata accertata la responsabilità.
Tanto questo è vero che, in generale, i terzi acquirenti devono far valere i loro diritti in sede di giudizio di esecuzione[30], o in sede civile.
6. Sulla proporzionalità della sanzione
Un altro delicatissimo argomento di “dialogo” tra le Corti ha avuto ad oggetto la proporzionalità della sanzione della confisca rispetto al reato di lottizzazione abusiva; sotto due profili: la consistenza dei beni confiscati (estensione dei terreni; numero dei fabbricati) e la possibilità di infliggere sanzioni meno onerose della perdita della proprietà.
Su entrambi i profili la Corte di Strasburgo è stata esemplarmente chiara. In ordine al primo aspetto la Corte, esaminando la dedotta violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1[31], ha affermato la necessità che vi sia “un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (…). Questo punto di equilibrio è rotto se la persona interessata deve sostenere un onere eccessivo ed esagerato”[32].
Nell’esame delle questioni sottoposte al suo giudizio ha distinto i “terreni direttamente interessati dalle trasformazioni urbanistiche abusive” dal resto dei beni appartenenti ai lottizzanti, ed ha fortemente stigmatizzato che i beni confiscati, in tutte le tre fattispecie esaminate, fossero stati di ampiezza di gran lunga superiore alle superfici effettivamente trasformate[33]. Per cui la Corte dei diritti dell’uomo ha statuito che “vi sia stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 nei confronti di tutti i ricorrenti in ragione del carattere sproporzionato della misura di confisca”[34].
Mentre la Corte costituzionale ha subito condiviso, sia pure a proposito di altra sanzione amministrativa, il principio della proporzionalità[35], la Cassazione penale ha proposto una “lettura” minimalista di tale principio, sostenendo che deve “ritenersi conforme ai principi convenzionali la confisca di tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di volumi, mentre tale misura ablativa non potrebbe mai riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva nel senso dianzi delineato, ponendosi una simile evenienza platealmente in contrasto con i richiamati principi”. Oggetto di confisca proporzionata sarebbero, pertanto, sempre tutti i terreni rientranti nel progetto di lottizzazione, anche se non trasformati, e perfino se soltanto oggetto di un’operazione di mero frazionamento: in definitiva anche i terreni che non siano stati affatto trasformati[36].
La Cassazione giunge a questo risultato riduttivo e, a mio parere, frontalmente contrario all’orientamento della Corte di Strasburgo, e comunque ingiustificato[37] formulando una nozione ampia di lottizzazione abusiva[38] e richiamando la lettera dell’art. 44[39].
Infatti, secondo la giurisprudenza della Cassazione penale, dato che “la lottizzazione abusiva riguarda (…) quei beni immobili (terreni e manufatti) direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali”, si deve ritenere di conseguenza “conforme ai principi convenzionali la confisca di tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di volumi”.
Questa posizione, in effetti, esclude del tutto il criterio della proporzionalità della sanzione: in tutti i casi l’oggetto della confisca deve comprendere l’intera area lottizzata, senza attribuire alcun rilievo agli elementi indicati dalla Corte di Strasburgo per rendere proporzionata la sanzione, evitando cioè che essa possa essere “illimitata”, in quanto “può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi”[40]. La sanzione resta uniforme e, per così dire, grezza.
Mi sembra di poter aggiungere che la giurisprudenza successiva della Cassazione penale, pur richiamando letteralmente le affermazioni sopra riportate, si va orientando in termini meno drastici e più aderenti al principio di proporzionalità, come inteso dalla Corte di Strasburgo[41].
Francamente non mi sembra contestabile che la confisca debba avere ad oggetto solo i terreni effettivamente trasformati (mediante realizzazione di edifici, movimenti di terra, opere di urbanizzazione) e non l’intera superficie della lottizzazione, che può essere (e in genere è) molto più ampia, come disegnata nel progetto di lottizzazione o, in mancanza di questo, come desumibile, ad esempio, dal solo frazionamento, magari predisposto sul terreno con semplici picchetti. Sono, infatti, solo i terreni effettivamente trasformati quelli che contrastano con gli strumenti urbanistici di pianificazione. Confiscare terreni che possono essere tranquillamente utilizzati secondo tali strumenti costituisce palese e ingiustificata violazione del principio di proporzionalità.
7. Sulla unicità e automaticità della sanzione
Quanto al secondo aspetto, la Corte di Strasburgo ha ritenuto contrastante con l’art. 1 del Protocollo addizionale che sia prevista dall’art. 44 solo la sanzione della confisca e che la sua comminazione sia disciplinata come conseguenza automatica del reato: la legge italiana – sottolinea la Corte – “non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche dei casi di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione”[42].
Il principio di proporzionalità, ma aggiungerei anche il principio di adeguatezza, comporta, secondo la Corte di Strasburgo, che la legge consenta al giudice di “adottare misure meno restrittive” e meno onerose della confisca[43].
Se ne deve dedurre che, secondo la Corte di Strasburgo, è proprio la disposizione contenuta nell’art. 44, per come è formulata, ad essere in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale, sia in quanto prescrive una sola sanzione, la confisca, sia in quanto la disciplina come conseguenza automatica, e quindi inevitabile, dell’accertamento del reato di lottizzazione abusiva. Per cui l’adeguamento all’orientamento appena illustrato comporterebbe che il legislatore, o chi per lui (la Corte costituzionale, la giurisprudenza creativa), superasse la suddetta disposizione, sostituendola con una diversa e più articolata (e più aderente agli interessi da tutelare), che consenta al giudice di applicare le sanzioni che, soddisfacendo gli interessi pubblici coinvolti, siano proporzionate ai reati, tenendo conto delle loro diversità sia oggettive sia soggettive, della vasta gamma di comportamenti riconducibili al reato.
Anche in ordine a questo diverso aspetto della proporzionalità (o adeguatezza) la Cassazione penale ha reagito cercando di minimizzarne la portata. Ha sostenuto che la confisca non sarebbe affatto un evento “scontato, automatico ed inevitabile”, perché è applicata “previa verifica di un collegamento oggettivo e soggettivo con il reato della persona che la subisce”[44].
L’argomento è tuttavia inconsistente, perché la sanzione presuppone necessariamente il previo accertamento della responsabilità penale, e quindi degli elementi oggettivo e soggettivo. L’automatismo comporta che, una volta accertata la responsabilità, l’applicazione della confisca (e solo di tale sanzione) è scontata, automatica ed inevitabile, secondo la lettera dell’art. 44. Ed è proprio questa automaticità che, secondo la Corte di Strasburgo, contrasta con la disciplina convenzionale. La Corte ha perfino indicato alcune delle sanzioni che potrebbero essere considerate alternative alla confisca, la demolizione delle opere di trasformazione e l’annullamento del progetto di lottizzazione[45].
È tuttavia da sottolineare che va maturando anche un diverso indirizzo della giurisprudenza penale, che non intende interpretare riduttivamente le indicazioni della Corte di Strasburgo, e si rende perfettamente conto che essa “attribuisce particolare rilevanza alla possibilità di perseguire il medesimo fine attraverso l’adozione di misure alternative alla confisca, in modo tale da incidere meno pesantemente sul diritto di proprietà, rispettando, anche attraverso il ricorso agli altri parametri indicati, il rapporto di proporzionalità”[46]. Questo diverso atteggiamento del giudice penale è certamente da preferire se si concorda, come a me sembra che debba concordarsi, con il pensiero della Corte di Strasburgo.
In ogni caso non può essere dubbio che la disposizione contenuta nell’art. 44 risulti del tutto rivoluzionata dalle sentenze della suddetta Corte: a mio avviso non se ne salva nessuna parte.
8. Sulla idoneità della confisca a soddisfare gli interessi urbanistici
Le osservazioni appena fatte portano a considerare un problema assai più basilare e coinvolgente: la confisca dei beni lottizzati e la loro acquisizione di diritto al patrimonio del Comune è tale da soddisfare gli interessi pubblici ai quali è strumentale? Ossia, la tutela della competenza pianificatoria del Comune[47], la trasformazione ordinata e controllata del territorio e la protezione dell’ambiente e del paesaggio sono garantite con la confisca?
Per prendere le mosse è utile partire da casi concreti; e, al fine di verificare l’adeguatezza della confisca rispetto al suo scopo, sono decisamente indicativi i casi esaminati dalla Corte di Strasburgo con la sentenza G.I.E.M.: la Corte si è infatti fatta carico di conoscere la sorte che hanno fatto i beni confiscati.
È risultato che i terreni della G.I.E.M. erano stati restituiti alla società, in forza evidentemente del fatto che tale società era del tutto estranea al reato di lottizzazione abusiva e al relativo processo[48]. La confisca non avrebbe dovuto comprendere i suoi terreni.
Significativi sono gli esiti delle altre due sanzioni: per il complesso immobiliare confiscato alle società Hotel Promotion e R.I.T.A, il Comune di Golfo Aranci ha deliberato di conservarlo così come abusivamente realizzato[49]; il complesso sequestrato alla società Falgest e al sign. Gironda si trovava in stato di totale abbandono[50]. In entrambi i casi le opere realizzate abusivamente non sono state demolite, per cui gli interessi sopra ricordati, cui dovrebbe far fronte la confisca, non sono affatto stati soddisfatti. La trasformazione abusiva dei terreni è rimasta inalterata, anzi, nel caso Falgest, l’ambiente risulta deteriorato.
D’altronde ove si ponga mente che la confisca determina soltanto l’estinzione della proprietà in capo ai (ad alcuni dei) responsabili della lottizzazione abusiva e il suo acquisto al patrimonio del Comune, a parte l’effetto paradossale che si ha quando la lottizzazione sia stata autorizzata dal Comune medesimo, non è ontologicamente idonea a soddisfare i suddetti interessi.
La sola sanzione che può soddisfarli è la rimessa in pristino dei terreni lottizzati[51]; ma, trasferendo le opere realizzate abusivamente al patrimonio del Comune, ne risulta che la demolizione non può che spettare al Comune; il quale dovrebbe farvi fronte con le sue risorse economiche. Sotto questo profilo la confisca è addirittura controproducente, perché impedisce che la demolizione avvenga a carico dei lottizzanti abusivi.
Ove si facesse una indagine sugli esiti delle confische urbanistiche, credo che il ripristino della situazione precedente alla lottizzazione abusiva, mediante eliminazione dei lavori abusivamente effettuati, risulterebbe evenienza rarissima. Gli esiti normali sarebbero esattamente quelli dei casi esaminati dalla Corte di Strasburgo, ossia la conservazione da parte del Comune, nuovo proprietario, delle opere realizzate da altri abusivamente, magari dando loro una (vera o apparente) diversa destinazione; ovvero il loro abbandono, con lesione – e non soddisfazione – dei più volte ricordati interessi pubblici[52].
In ogni caso, quale che sia la sorte dei beni confiscati, la confisca, di per sé, non consente la tutela del territorio e dell’ambiente, talvolta contribuisce a deteriorarlo. Il Comune, nuovo proprietario, spesso non può, per ragioni finanziarie (talvolta anche politiche), o non vuole, se non altro per non distruggere ricchezza, demolire le opere abusive; né è incondizionatamente obbligato a demolirle[53].
V’è una ulteriore osservazione da fare: la giurisprudenza penale è giustamente salda nel ritenere che il Comune conservi, sia prima del processo, sia durante, sia ancora dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ordina la confisca, tutti i suoi poteri di intervento[54]. Ha modo, pertanto, di eliminare il contrasto tra la lottizzazione realizzata e la disciplina urbanistica, soprattutto quando l’abuso consiste nella difformità di quanto realizzato a quanto autorizzato. Gli è consentito perfino, ove riconosca ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, la facoltà di “lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune”[55]. Il che, a mio avviso, è un altro sintomo della inadeguatezza della confisca a far fronte alle conseguenze della lottizzazione abusiva.
9. Confisca e provvedimento di acquisizione al patrimonio del Comune
La rimescolazione della disciplina della confisca urbanistica, frutto del “dibattito” tra le varie Corti, non può non incidere sulla parallela disciplina dell’acquisizione di diritto al patrimonio del Comune, disposta direttamente con provvedimento comunale[56].
La giurisprudenza amministrativa (almeno fino a tempi recentissimi) assolutamente salda esclude che le innovazioni giurisprudenziali introdotte nella disciplina della confisca possano estendersi al provvedimento di acquisizione. Fino a tempi recentissimi, anche dopo la pubblicazione della sentenza G.I.E.M., il Consiglio di Stato ha costantemente sostenuto l’irrilevanza dell’elemento soggettivo dell’illecito sulla legittimità del provvedimento di acquisizione[57] ed ha escluso che ciò che la Grande Camera ha stabilito a proposito della confisca possa essere esteso al provvedimento di acquisizione[58].
Tale posizione si basa (anzi si basava) su due argomenti: la natura vincolata del provvedimento di acquisizione e il rilievo soltanto oggettivo dell’illecito di lottizzazione abusiva. Il primo argomento è insignificante, perché la rilevanza dell’elemento soggettivo attiene ai presupposti per l’adozione del provvedimento e non alla sua natura (vincolata o discrezionale). Il secondo argomento, in sé valido in relazione alle finalità del provvedimento, viene tuttavia a collidere con l’orientamento della giurisprudenza di Strasburgo e ormai anche di quella della Corte costituzionale[59] e della Cassazione penale.
Più recentemente, tuttavia, sembra che il Consiglio di Stato intenda cambiare il suo atteggiamento di chiusura, assumendo che per l’applicazione delle sanzioni ammnistrative, che siano privative della proprietà del bene, è necessario l’accertamento di “un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione”[60].
Si inizia a tener conto anche del principio di proporzionalità, ossia della necessità di mantenere “il giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo”[61].
Sembra pertanto che, sia pure con qualche ritardo, il giudice amministrativo vada uniformando il suo indirizzo ai principi stabiliti dalla Corte di Strasburgo. Il rischio è che possa trattarsi di un adeguamento soltanto apparente[62].
10. Inconvenienti derivanti dalla attribuzione al giudice penale dell’applicazione di sanzioni amministrative
Che la confisca, sanzione amministrativa, venga inflitta dal giudice penale dà luogo a complicazioni, a lacune, perfino a disarmonie sul piano dei concetti di fondo del diritto amministrativo.
Bisogna, infatti, in primo luogo fare i conti con la disciplina del processo penale, e in particolare con i rapporti cronologici tra maturarsi della prescrizione e accertamento della responsabilità ai fini della confisca. Mentre sembra pacifico che, ove la prescrizione si compia prima dell’esercizio dell’azione penale, al giudice non è consentito iniziare un’azione di accertamento finalizzata alla sola decisione sulla confisca[63], è dubbio se, qualora la prescrizione maturi nel corso del giudizio di primo grado, ma prima che l’accertamento del fatto (e della responsabilità) sia compiuto[64], il giudice possa proseguire il giudizio allo scopo di decidere sulla confisca[65]. Le Sezioni Unite della Cassazione penale propendono per la soluzione negativa, in forza del principio dell’immediata operatività della causa estintiva[66].
Ove la confisca sia stata comminata (in primo o secondo grado), i giudici dei gradi superiori (rispettivamente, la Corte di appello e la Corte di cassazione) possono (devono) pronunciarsi su di essa, nonostante l’intervenuta prescrizione, sulla base di una specifica norma processuale introdotta ad hoc nel codice di procedura penale[67].
Ciò che si vuol mettere in evidenza è che talvolta il giudice penale non ha il potere, per motivi processuali, di pronunciarsi sulla confisca[68].
Occorre tuttavia considerare che l’amministrazione conserva i suoi poteri di deliberare l’acquisizione coattiva dei beni abusivamente lottizzati[69] o anche di provvedere alla sanatoria, almeno nel caso in cui l’abuso consista nella trasformazione del territorio in mancanza o in violazione dell’autorizzazione alla lottizzazione o del permesso di costruire[70]. Se l’abuso consiste nella violazione di norme di rango superiore, la sanatoria è più difficile, ma non impossibile[71].
Si deve aggiungere che, nel caso di concorrenza del processo penale e del processo amministrativo in ordine alla medesima situazione di fatto, la confisca non può essere inflitta soltanto se il processo amministrativo si conclude con l’accertamento definitivo (ossia con sentenza passata in giudicato) della legittimità dei provvedimenti relativi alla lottizzazione.
Da ultimo si accenna ad una circostanza che fa riflettere: nella lottizzazione c.d. sostanziale[72], i lavori di trasformazione del territorio risultano essere stati previamente autorizzati con provvedimenti amministrativi efficaci, ed efficaci, secondo la regola generale, fino al loro annullamento.
Il giudice penale, che non ha il potere di annullarli, li ignora completamente, e valuta il carattere abusivo della lottizzazione sulla base delle norme di legge e degli strumenti urbanistici. Cosicché, nel caso in cui accerta che la lottizzazione è per tale ragione abusiva, i provvedimenti comunali che la hanno autorizzata ed hanno consentito la trasformazione del territorio rimangono, ciò nonostante, in vita, non vengono dichiarati invalidi, e si deve ritenere che restino perfino efficaci, ma non escludono il reato.
Il problema sorge (non in ordine – si badi – all’accertamento del reato, ma) a proposito dell’inflizione della confisca. Si determina una stranezza, a mio avviso una vera anomalia: la sanzione viene comminata nonostante che la trasformazione del territorio sia “coperta” da provvedimenti amministrativi (ancora) validi ed efficaci; anomalia che deriva dall’avere attribuito al giudice penale la competenza ad infliggere la sanzione amministrativa.
La costruzione degli abusi edilizi, quali che essi siano, come reati, anziché come illeciti amministrativi, viene giustificata per la loro gravità e per le caratteristiche del processo penale (iniziativa officiosa; superamento dell’eventuale inerzia dell’amministrazione; maggiori poteri istruttori rispetto al processo amministrativo). Nessun grave problema si verifica fino a quando il giudice penale procede all’accertamento del reato e all’applicazione delle previste sanzioni prettamente penali (l’arresto o l’ammenda). Al più si potrà verificare un contrasto teorico di giudicati se il processo penale e quello amministrativo dovessero concludersi in modo opposto (sulla legittimità o sulla non contrarietà agli strumenti urbanistici, dei provvedimenti comunali).
I problemi più complessi, a cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sorgono quando al giudice penale viene attribuito il potere di infliggere sanzioni amministrative, sanzioni che incidono sul territorio e sui rapporti tra amministrazione e cittadini[73].
Questa è una considerazione che ha carattere generale, può cioè estendersi a tutte le sanzioni in senso proprio amministrative che possono essere erogate dal giudice penale. Ed è una considerazione che dovrebbe consigliare di evitare di coinvolgere il giudice penale nella irrogazione di sanzioni amministrative.
Il rilievo di maggior peso, riguardante la confisca urbanistica, non attiene, tuttavia, a chi ha il potere di infliggerla, amministrazione o giudice penale; ma attiene alla sua inidoneità a garantire gli interessi che, attraverso di essa, si intendono tutelare, dato che essa incide solo sulla proprietà delle opere abusive senza tuttavia eliminarle, anzi rendendo di fatto impossibile, o almeno molto difficile, eliminarle.
[1] Prevista dall’art. 44, co. 2, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che recita: “la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione. La sentenza definitiva è titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari”.
[2] Ai sensi dell’art. 30, co. 8, D.P.R. 6 giugno 2002, n. 380.
[3] L’intento di questo breve lavoro è di “dialogare” con la giurisprudenza interna e convenzionale. Non è necessario, né utile, richiamare, pertanto, il ricco e approfondito dibattito dottrinale, che è d’altronde adeguatamente esposto nell’opera recentissima e ben documentata e ragionata di Simone Lucattini, Le sanzioni amministrative a tutela del territorio, Torino, 2022.
[4] Sugli interessi connessi alla confisca v., oltre la giurisprudenza penale e amministrativa, Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018 – G.I.E.M. s.r.l. e altri c/ Italia, § 116; Corte cost., 8 luglio 2021, n. 146, n. 3.1 della motivazione in diritto. Si tratta di interessi distinti, che comportano valutazioni (e conseguenze) diverse.
[5] Cass. Pen., Sez. III, 12 novembre 1990 (dep. 18 dicembre 1990), Licastro. Corte cost, ord. 26 maggio 1998, n. 187.
[6] Fin dalle sentenze Sud Fondi s.r.l. (Sez. II, 30 agosto 2007; 20 gennaio 2009; 10 maggio 2012) la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la confisca sia una “pena” e che si renda, quindi, applicabile l’art. 7 della Convenzione. La Corte costituzionale, con sent. 2009, n. 239, pur non pronunciandosi esplicitamente sulla natura della confisca (e rimettendosi alla giurisprudenza della Cassazione, che aveva confermato la natura amministrativa: Sez. III, 13 luglio 2009, n. 39078) si richiama al “carattere autonomo dei criteri utilizzati dalla Corte di Strasburgo rispetto a quelli degli ordinamenti giuridici nazionali”. La Corte convenzionale, con la sent. Varvara (Sez. II, 24 marzo 2014) ribadisce, anzi dà per scontato che la confisca sia una pena, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione. La Corte costituzionale, ritornando sul tema, sostiene che la “discrezionalità del legislatore [nazionale] di configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri»”; discrezionalità che la sentenza Varvara non pone in discussione. Infine la Corte di Strasburgo ha ulteriormente ribadito il suo orientamento con la sentenza G.I.E.M., cit., §§ 222 ss., in particolare § 233). La Corte costituzionale (sent. 8 luglio 2021, n. 146) replica richiamandosi di nuovo alla giurisprudenza di legittimità, ferma nel ritenere la natura amministrativa della confisca.
[7] Cons. Stato, Sez. VI, !9 luglio 2021, n. 5439; Id, Sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380, che la definisce “sanzione penale accessoria”. Si veda anche quanto esposto al successivo n. 9.
[8] Il primo comma dell’art. 7 recita: “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”.
[9] Non solleva dubbi la situazione inversa: sanzioni penali possono essere comminate da organi amministrativi: Corte EDU 4 marzo 2014 – Grande Stevens; Corte cost. 26 marzo 2015, n. 49, n. 6.1 della motivazione in diritto
[10] Tesi sponsorizzata dalla Cassazione.
[11] CEDU, Grande Camera, sent. G.I.E.M. cit., § 230 in relazione ai §§ 128-129, nei quali viene riferito l’orientamento della Cassazione.
[12] Così come per le leggi-provvedimento prevale la forma legislativa sulla sostanza amministrativa; e per i regolamenti prevale la forma amministrativa sulla sostanza normativa. La prevalenza della forma sulla sostanza costituisce una regola generale nel nostro ordinamento.
[13] Per intervenuta prescrizione, per decesso dell’imputato, per amnistia.
[14] L’espressione è tolta dalla motivazione della sent. Corte cost. n. 49 del 2015, cit., n. 5 della motivazione in diritto. Sulla necessità dell’elemento soggettivo insiste la Grande Camera (sent. G.I.E.M., cit., § 235 ss.).
[15] Limito i riferimenti alla sentenza più recente tra quelle ricordate nel testo: “la logique de la «peine» et de la «punition», et la notion de «guilty» (dans la version anglaise) et la correspondante notion de «personne coupable» (dans la version française), militent pour une interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir, une déclkaration de responsabilité par les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer l’infraction et d’infliger la peine à son auteur. A défaut de quoi, la punition n’aurait pas de sens (Sud Fondi et autres, § 116). Il serait en effet incohérent d’exiger, d’une part, une base legale accessible et prévisible et de permettre, d’autre part, une punition quand, comme en l’espèce, la personne concernée n’a pas été condamnée” (sent. Varvara, cit., § 71).
[16] Cfr. Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2009, n. 21188; Id., Id., 19 maggio 2009, n. 30933.
[17] Cfr. Cass. pen., Sez. III, 8 febbraio 1994, n. 4954. La giurisprudenza penale continuava nello stesso indirizzo anche dopo la sentenza Varvara: v., ad esempio, Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 16803.
[18] Cass. pen., Sez. III, ord. n. 20243 del 2014. Anche il Tribunale di Teramo sollevò la medesima questione di legittimità costituzionale.
[19] La Corte costituzionale tenne a porre in rilievo che non fosse stata posta in discussione da parte della Corte di Strasburgo “la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più adeguati” (sent. n. 49 del 2015, cit., n. 6.1 della motivazione in diritto). Sull’autonomia del concetto di pena di cui all’art. 7 CEDU la Grande Camera si mostra perfettamente d’accordo, ed argomenta che “senza un’interpretazione autonoma [da parte del giudice convenzionale] del concetto di «pena», gli Stati sarebbero liberi di infliggere pene senza definirle tali, togliendo in tal modo alle persone le tutele dell’art. 7 § 1, norma che si vedrebbe così privata di efficacia” (sent. G.I.E.M., cit., § 216).
[20] “Che sia proprio l’accertamento di responsabilità a premere al giudice europeo è ben argomentabile sulla base sia del testo, sia del tenore logico della motivazione svolta con la pronuncia Varvara. Qui si sottolinea, infatti, che l’art. 7 della CEDU esige una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato (§ 71), poiché non si può avere una pena senza l’accertamento di una responsabilità personale (§ 69). Non è in definitiva concepibile un sistema che punisca coloro che non sono responsabili (§ 66), in quanto non dichiarati tali con una sentenza di colpevolezza” (Corte cost, sent. n. 49 del 2015, cit., n. 6.2. della motivazione in diritto).
[21] Nella sent. n. 49 del 2015, cit., la Consulta aveva rilevato, per mortificarne la rilevanza, che la sentenza Varvara promanava da una Sezione semplice, senza l’avallo della Grande Camera (n. 7 della motivazione in diritto). La Grande Camera ha ritenuto di dover sottolineare che le sentenze della Corte “hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate” (sent. G.I.E.M, cit., § 252).
[22] Sent. G.I.E.M., cit., § 251. Pur escludendo la necessità di una condanna formale, ritiene indispensabile “una dichiarazione formale di responsabilità penale a carico” di coloro che subiscono la confisca (§ 255). “Qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato” (§ 261).
[23] Cass. pen., S.U., 30 aprile 2020, n. 13539 osserva: “se infatti la pronuncia della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia, aveva affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza, potesse subire una “pena” (tale dovendo secondo la Corte essere considerata la confisca lottizzatoria), in contrasto con la previsione dell’art. 7 CEDU, successivamente, sia l’elaborazione della Corte costituzionale che la “rilettura” operata, in tempi più recenti, dalla Corte EDU, hanno offerto ulteriore fondamento all’indirizzo esegetico ricordato.” Sicché, prosegue la sentenza, “nella “lettura” data da questa Corte, l’art. 44 cit., là dove ricollega la confisca lottizzatoria all’accertamento del reato, consente di prescindere dalla necessità di una sentenza di condanna “formale” permettendo di fondare la “legittimità” del provvedimento ablatorio su un accertamento del fatto che, pur assumendo le forme esteriori di una pronuncia di proscioglimento, equivale, in forza della sua necessaria latitudine (estesa alla verifica, oltre ce dell’elemento oggettivo, anche dell’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza) e delle sue modalità di formazione (caratterizzate da un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati), ad una pronuncia di condanna come tale rispettosa ad un tempo dei principi del giusto processo e dei principi convenzionali, proprio come riconosciuto, da ultimo, anche dalla Corte EDU”.
[24] V., ad esempio, Cass. pen., S.U., n. 13539 del 2020, citata; Id., Sez. IV, 3 dicembre 2020, n. 34365: “presupposto essenziale e indefettibile per l’applicazione della confisca in oggetto è (secondo l’interpretazione giurisprudenziale costante)che sia stata accertata l’effettiva esistenza di una lottizzazione abusiva; ulteriore condizione, però, che si riconnette alle recenti decisioni della Corte di Strasburgo, investe l’elemento soggettivo del reato ed è quella del necessario riscontro quanto meno di profili di colpa (anche sotto gli aspetti dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza) nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la misura viene ad incidere” (n. 5 della motivazione in diritto).
[25] Cass. pen., Sez. IV, n. 34365 del 2020, citata: “per la cooperazione dell’acquirente nel reato, non sono necessari un previo concerto o un’azione concordata con il venditore, essendo sufficiente, al contrario, una semplice adesione al disegno criminoso da quegli concepito, posta in essere anche attraverso la violazione (deliberatamente o per trascuratezza) di specifici doveri di informazione e conoscenza che costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione” (n. 7 della motivazione in diritto). L’orientamento è risalente: “il compratore che omette di acquisire ogni prudente informazione circa la legittimità dell’acquisto si pone colposamente in una situazione di inconsapevolezza che fornisce, comunque, un determinante contributo causale all’attività illecita del venditore Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2008, n. 37472, Belloi ed altri).
[26] In verità non è chiaro se gli acquirenti siano estranei al reato o vi concorrano. La Corte costituzionale li considera estranei al reato anche se in mala fede (sent n. 49 del 2015, citata, n- 5 della motivazione in diritto). La Cassazione penale, a sua volta, afferma che “non è necessario che l’acquirente del terreno confiscato concorra nel reato di lottizzazione abusiva, essendo sufficiente la mancanza di buona fede al momento dell’acquisto stesso” (Sez. III, 23 febbraio 2019, n.8350). Secondo Cass. pen., S.U., 25 settembre 2014, n.11170, “terzo è la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità (Sez. II, n. 11173 del 14/10/1992, Tassinari; Sez. III, n. 3390 del 19/01/1979, Ravazzani, secondo le quali non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi e utilità); soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l'insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca” (n. 8 della motivazione in diritto).
Il problema, di stretto diritto penale, è tuttavia estraneo al presente studio.
[27] Cass. pen., Sez, III, 5 luglio 2019, n. 36310; Id., Id., 15 settembre 2016, n. 51429; Id., Id., 24 ottobre 2013, n. 51387; Id., Id., 6 marzo 2013, n. 15987; Id., Id., 23 dicembre 2013, n. 51710: non è sufficiente che l’atto di acquisto sia rogato da un notaio, che ha il dovere di accertarsi della liceità dell’oggetto del contratto.
[28] Prendo in prestito la terminologia utilizzata dalla Corte di Strasburgo (sent. G.I.E.M., cit., § 127). Mentre la giurisprudenza interna è ferma nel ritenere che la lottizzazione abusiva possa realizzarsi in tre forme (materiale, giuridica o negoziale, e mista), la sent. G.I.E.M., cit., § 109, ne individua quattro forme: aggiunge la lottizzazione mediante mutamento della destinazione d’uso di edifici. Ciò che maggiormente rileva è che la Corte EDU distingue, nell’ambito della lottizzazione “materiale”, un tipo “formale”, che si ha “quando la trasformazione urbanistica è sprovvista di autorizzazione o in contrasto con l’autorizzazione accordata”, e un tipo “sostanziale”, che si ha “quando la trasformazione urbanistica è stata autorizzata dall’amministrazione (…), ma questa autorizzazione non è legittima in quanto non conforme ai documenti urbanistici, alla legislazione regionale o alle leggi nazionali”.
La distinzione tra “formale” e “sostanziale” è, a mio avviso, fondamentale.
[29] Si badi che valutare la conformità di autorizzazioni di lottizzazione e di permessi di costruire agli strumenti di pianificazione urbanistica (leggi nazionali e regionali, P.R.G., regolamenti edilizi) è cosa da esperti. Non infrequentemente capita che le valutazioni del giudice penali con corrispondano, nell’esame della stessa fattispecie, alle valutazioni del giudice amministrativo.
[30] È giurisprudenza costante che rientri “nella sfera di cognizione del giudice dell’esecuzione l’accertamento della sussistenza di profili di colpa a carico del terzo acquirente, nei confronti del quale può essere disposta la confisca del bene qualora abbia omesso di assumere le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento edilizio con gli strumenti urbanistici” (Cass. pen., Sez. III, n. 8350 del 2019, citata; Id, Id, 14 marzo 2013, n. 25883).
[31] Firmato a Parigi il 20 marzo 1952. L’art. 1 recita: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
[32] Sent. G.I.E.M., cit, § 300.
[33] Nel caso della G.I.E.M. s.r.l. la superficie confiscata era tre volte superiore a quella interessata dai permessi edilizi rilasciati dal Comune di Bari. Nel caso delle società Hotel Promotion Bureau s.r.l. e R.I.T.A. s.r.l. era 14,5 volte superiore a quella effettivamente trasformata. Nel caso della Falgest s.r.l. la superficie trasformata era meno dell’11% di quella confiscata (per il Governo era meno del 50%).
[34] Sent. G.I.E.M., cit., § 304.
[35] Cfr. sent. 17 aprile 2019, n. 88, a proposito della revoca della patente di guida (art. 222, co. 2, del codice della strada).
[36] Cass. pen., Sez. III., n. 8350 del 2019, cit,, n. 8, in particolare n. 8.4, della motivazione in diritto. La Cassazione ha in tal modo meramente confermato l’orientamento precedente alla sentenza della Corte di Strasburgo (cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. III, 9 maggio 2005, n. 17424).
[37] Ci mancherebbe altro che vengano confiscati anche “aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva”!
[38] “L’attività lottizzatoría si configura, dunque, mediante qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente dalla entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione, contemporanea o successiva, di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell’insediamento; attraverso ogni intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione, ovvero allorquando detto intervento non potrebbe essere in nessun caso realizzato, poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, che non possono esser modificati da piani urbanistici attuativi; quando venga posta in essere qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata; in presenza di condotta che tenda a consolidare le trasformazioni già attuate mediante modifiche, migliorie o integrazioni del preesistente, posto che l’aggressione alla sistemazione del suolo si protrae finché perdurano comportamenti che compromettono la scelta di destinazione e di uso riservata alla competenza pubblica” (Cass. pen., Sez. III, n. 8350 del 2019, cit., n. 8.2).
[39] “Al fine di offrire una interpretazione convenzionalmente orientata delle norme applicate, deve in primo luogo osservarsi che l’art. 44, al comma 2, prevede la confisca tanto "dei terreni, abusivamente lottizzati" quanto "delle opere abusivamente costruite". Avuto riguardo al concetto di lottizzazione abusiva in precedenza ricordato, appare evidente che la legge, come si è detto, prevede la confisca indipendentemente dalla edificazione intesa nel senso di intervento edilizio comportante la realizzazione di volumi o superfici, essendo terreni lottizzati anche quelli ove non insistono opere consistenti” (8.4).
[40] Sent. G.I.E.M., cit., § 301. Tra gli elementi da tener presenti per commisurare la confisca la Corte indica anche “il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione”.
[41] Cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. III, 27 marzo 2019, n. 31282, che ha ritenuto proporzionata la confisca dei soli terreni interessati da lavori di sbancamento, ritenendo illegittima la confisca dei restanti terreni non ancora modificati. Secondo Cass. pen., Sez. III, 12 settembre 2019, n. 47280, che pur richiama la sent. n. 8350 del 2019, “la confisca va limitata a quella porzione territoriale effettivamente interessata dalla vendita di lotti separati, dalla edificazione e dalla realizzazione di infrastrutture”.
[42] Sent. G.I.E.M., cit., § 303.
[43] Sent. G.I.E.M., cit., § 301.
[44] Cass. pen., Sez. III, n. 8350 del 2019, cit., § 8.5. Nello stesso senso Id, Id, n. 47280 del 2019, cit., n. 38 della motivazione; Id, Id, 17 luglio 2019, n. 43119.
[45] Sent. G.I.E.M., cit., § 301.
[46] Cass. pen., Sez. III, 22 aprile 2020, n. 12640, n. 6 della motivazione in diritto. Invece della confisca, in quel caso, la Cassazione, adeguandosi ad una “lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disciplina vigente”, ha ordinato la demolizione delle opere abusive. Ha enunciato il principio secondo cui “in tema di lottizzazione abusiva, la effettiva ed integrale eliminazione di tutte le opere eseguite in attuazione dell’intento lottizzatorio, nonché dei pregressi frazionamenti, con conseguente ricomposizione fondiaria e catastale nello stato preesistente ed in assenza di definitive trasformazioni, se dimostrata in giudizio ed accertata in fatto dal giudice del merito con congrua motivazione, rende superflua la confisca perché misura sproporzionata secondo i parametri di valutazione indicati dalla giurisprudenza della Corte EDU” (n. 8 della motivazione in diritto). Nello stesso senso Cass. pen., Sez. III, 20 novembre 2020, n. 3727.
[47] Il “monopolio comunale sulle scelte di programmazione urbanistica del territorio”, per utilizzare una formula usata dal giudice penale (Cass. pen., Sez. III, n. 47280 del 2019, citata).
[48] Sent. G.I.E.M., cit., § 296. Si rammenti che i terreni di sua proprietà erano stati inclusi d’ufficio dal Comune nel piano di lottizzazione, che la società non aveva svolto alcuna opera di trasformazione e che le opere effettuate non riguardavano i suoi terreni.
[49] Per eventualmente destinarlo a far fronte a situazioni di emergenza (§ 297).
[50] Sent. G.I.E.M., cit., § 298.
[51] Ritengo che sia significativo che la Cassazione, con una “lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della vigente disciplina”abbia riconosciuto che “la integrale demolizione di tutte le opere eseguite in attuazione di un’attività di illecita lottizzazione, unitamente alla eliminazione dei pregressi frazionamenti e delle loro conseguenze, rispondano ai criteri di proporzionalità indicati dalla Corte EDU e rappresentino una valida alternativa alla confisca” Cass. pen., Sez. III, 22 aprile 2020, n. 12640.
[52] La penisola è piena di ecomostri non abbattuti o di aree di sedime di ecomostri abbattuti lasciate in condizioni incivili.
[53] Si rammenti che il secondo comma dell’art. 44 non dispone l’obbligo di demolizione delle opere confiscate a differenza di quanto previsto nel precedente art. 30.
[54] La giurisprudenza ha più volte sottolineato “la rilevanza, rispetto al provvedimento di confisca, di provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa prima o dopo il passaggio in giudicato della sentenza, affermandosi che tali provvedimenti, pur non producendo effetti estintivi del reato di lottizzazione abusiva, che la legge non prevede espressamente, comportano, quale conseguenza, se legittimamente emanati prima del passaggio in giudicato della sentenza, l’impossibilità per il giudice di disporre la confisca” (Cass. pen., Sez. III, n. 8350 del 2019, cit., n. 8.5 della motivazione in diritto ed ivi ulteriori indicazioni).
[55] Cass. pen., Sez. III. n. 8350 del 2019, cit., n. 8.5. “Dopo il passaggio in giudicato – prosegue la sentenza – si è ritenuto che l’amministrazione comunale conservi, ovviamente, la piena ed incondizionata potestà di programmazione e di gestione del territorio, dovendosi però escludere che il successivo adeguamento degli immobili acquisiti agli standard urbanistici già vigenti ovvero l’adozione di nuovi strumenti urbanistici integri una fonte di retro-trasferimento della proprietà in favore dei privati già destinatari dell’ordine di confisca. Resta tuttavia la possibilità, qualora ragioni di opportunità e di convenienza consiglino di destinare l’area lottizzata alla edificazione, che l’amministrazione decida di non esercitare in proprio le iniziative edificatorie e di non conservare la proprietà sui terreni e sui manufatti che eventualmente vi insistono, facendo ricorso ad atti contrattuali volontari ed a titolo oneroso che trasferiscano la proprietà a tutti o parte dei precedenti proprietari”.
[56] Ai sensi dell’art. 30, co. 8, D.P.R. n. 380 del 2001.
[57] Cons. Stato, Sez. II, 27 agosto 2021, n. 6060: nella lottizzazione abusiva “si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio”. Id., Sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5803: “la giurisprudenza ha chiarito che i principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato possono al più essere spesi al fine dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828), nel mentre l’argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878; Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n. 4320, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021)”.
[58] Secondo la sentenza citata alla nota precedente, “i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato possono al più utilizzare l’argomento al mero fine dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828), nel mentre l’argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato”.
Nello stesso senso Sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5403; Id., Id., 19 luglio 2021, n. 5384; Id., Sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; CGARS, Sez. giur., 8 febbraio 2021, n. 93.
[59] Significativa è la recente sent. 30 luglio 2021, n. 182, che ha enunciato il principio per cui “non si può irrogare una pena senza il giudizio sulla sussistenza di una responsabilità personale”. E che l’acquisizione coattiva al patrimonio comunale di beni di proprietà altrui sia una “pena” secondo il diritto convenzionale non è da mettere in dubbio.
[60] Cons. Stato, Sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380, n. 6.2 della motivazione in diritto. Prima di affermare questo nuovo indirizzo, la sentenza, chissà perché, ha ritenuto di richiamare, dando mostra di condividerlo, l’indirizzo che intendeva superare (n. 6.1). V. anche Id., Id., 19 ottobre 2021, n. 7005.
[61] Sent. ult. cit., n. 6.3 della motivazione in diritto. Viene precisato che “il principio di proporzionalità viene inteso come impedimento dell’Amministrazione di comprimere la sfera giuridica dei destinatari delle sua azione in misura maggiore rispetto a quanto sarebbe necessario al raggiungimento dello scopo cui l’azione è preordinata”.
[62] Un indizio si ricava dalla stessa sentenza: da un lato essa stabilisce un criterio che sembra escludere ogni apprezzamento di proporzionalità, affermando che “il ripristino della situazione urbanistica ex ante non pare realizzabile se non ripristinando l’unitarietà della situazione proprietaria”; il che comporta che l’acquisizione deve essere in ogni caso totale; dall’altro lato non si pone nemmeno il problema di verificare se, al posto dell’acquisizione coattiva della proprietà, poteva essere comminata una sanzione meno afflittiva, ad esempio, l’ordine di demolizione delle opere realizzate abusivamente.
[63] Cass. pen., Sez. III, 19 maggio 2016, n.35313; Id., S.U., 30 aprile 2020, n. 13539.
[64] Se la prescrizione matura dopo l’accertamento del fatto, la confisca può essere tranquillamente decisa.
[65] Per la soluzione positiva v. Cass. pen, Sez. III, 27 marzo 2019, n. 31282.
[66] In forza dell’art. 129, co 1, c.p.p. (Cass. pen., S.U., 30 gennaio 2020, n. 13539, n.7 della motivazione in diritto.
[67] Art. 578-bis. c.p.p. (Cass. pen., S.U., n. 13539 del 2020, cit., n. 5 della motivazione in diritto; Cass., Sez. III, n. 8350 del 2019, cit., n. 9 della motivazione in diritto). La Cassazione, non potendo conoscere del fatto, pronuncia l’annullamento con rinvio.
[68] I risultati cui sono pervenute le Sezioni Unite della Cassazione penale sono i seguenti: “la confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento. In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui all’art. 44 del d.PR. n. 380 del 2001” (Cass. pen., S.U., n. 13539 del 2020, cit., n. 8 della motivazione in diritto).
[69] Cass., S.U., n. 13539 del 2020, cit., n. 7.5 della motivazione in diritto: “l’intervento sanzionatorio del giudice penale attuato tramite la confisca è di natura meramente residuale (…) e non interferisce, quindi, né si sovrappone all’autonomo potere principalmente attribuito all’autorità amministrativa dall’art. 30 D.P.R. n. 380 del 2001”. Non esiste “una sorta di pregiudiziale penale”, sicché, “ai fini del provvedimento di acquisizione in via amministrativa in via amministrativa del terreno al patrimonio disponibile del Comune è irrilevante che possa venire a mancare una pronuncia di confisca in sede penale”.
[70] Sent. G.I.E.M., cit., §128.
[71] Ad esempio con i piani di recupero di cui all’art. 27, l. 5 agosto 1978, n. 457.
[72] Fino all’inizio di questo secolo la lottizzazione abusiva si realizzava, secondo la giurisprudenza della Cassazione penale soltanto se la trasformazione del territorio avveniva senza l’autorizzazione comunale o in violazione di essa. A seguito di qualche precedente di segno contrario, con la sentenza delle Sezioni Unite 8 febbraio 2002, n. 5115, l’orientamento è definitivamente cambiato è stato fissato il principio secondo cui “il reato di lottizzazione abusiva è a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia per il difetto di autorizzazione sia per il contrasto con le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici”.
[73] Rinvio ancora a Simone Lucattini, Le sanzioni, cit., passim, spec. 230 ss. Osservazioni condivisibili si devono anche a Sergio Perongini, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme a Costituzione, Torino, 2020.
Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?
di Marco Mazzamuto
1. La Corte di giustizia UE (21 dicembre 2021, C-497/20) non ha lasciato alcuno spazio al tentativo della Cassazione di aggirare l’orientamento del giudice delle leggi (sentenza n. 6/2018) a proposito dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111 cost.), facendo leva su una presunta contrarietà di tale orientamento al diritto UE.
Si trattava di una particolare sensibilità della Cassazione per l’effettività del diritto UE? Niente affatto. Del resto non è difficile trovare casi nei quali la situazione si presenta capovolta. Si prenda ad es. la questione della doppia qualità di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, ove la Cassazione ha ritenuto di far comunque prevalere il sottosistema dei settori speciali (Cass. s.u. n. 4899/2018), di contro a quanto poteva facilmente ricavarsi dalla giurisprudenza UE (Corte giust. ue 10/4/2008, C-393/06). Invero, i principi UE hanno, per diversi aspetti, una potenzialità di scardinamento di assetti consolidati, sicché non vi è nulla di nuovo nei tentativi della giurisprudenza nazionale di recepire a volte tali vincoli con gradualità o con una qualche resistenza: si tratta cioè di un processo complesso di progressiva interazione tra ordinamenti e bilanciamento di interessi. Si pensi da ultimo alla spinosa faccenda delle concessioni balneari: l’indicazione temporeggiatrice del Consiglio di Stato -che erroneamente viene criticata come una sostituzione del legislatore, trattandosi piuttosto di una modulazione del potere di disapplicazione (similarmente alla modulazione dell’annullamento), dunque di un potere giurisdizionale- è chiaro esempio di un percorso di ragionevole compromesso.
Ma la miglior riprova del fatto che il rinvio al giudice UE nel caso Randstad sia stato strumentalizzato, nel quadro di un più ampio disegno di affermare la supremazia della Cassazione sui giudici speciali, si ha con una immediata riapertura del fronte “interno”, come traspare da un recentissimo convegno (Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?, 11 febbraio 2022, vedi Giustizia insieme), specialmente con riguardo alle relazioni del Presidente Raffaele Frasca, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, ma parlante a titolo personale, e del Prof. Romano Vaccarella, ordinario di diritto processuale civile, già giudice costituzionale ed estensore della famosa sentenza n. 204/2004.
La relazione del Presidente Frasca si è mossa su tre punti: 1) il ridimensionamento del valore della pronuncia n. 6/2018 del giudice delle leggi; 2) l’inconfigurabilità di un conflitto di attribuzioni da parte del Consiglio di Stato; 3) una reinterpretazione del dettato costituzionale.
La premessa maggiore, subito esplicitata, è che sui motivi inerenti alla giurisdizione “l’ultima parola” spetti alla Cassazione e non al giudice costituzionale.
Da qui si ricava la presunta erroneità della pronuncia del 2018 in quanto con il giudizio di irrilevanza per difetto di potestas iudicandi il giudice delle leggi si sarebbe sostituito alle Sezioni unite, mentre, semmai, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della questione rinviandola all’organo competente, cioè alle stesse Sezioni Unite. Si tratta di per sé di pure conseguenze deduttive della premessa maggiore e che stanno o cadono insieme a quest’ultima.
Sin qui il discorso rimane invero assai debole. La limitazione del ricorso alle Sezioni unite per “soli motivi inerenti alla giurisdizione” non è più soltanto una semplice previsione di un codice processuale, sino indietro a risalire all’art. 3 della legge 31 marzo 1877, n. 3761, ma è divenuta anche una previsione costituzionale, come tale rimessa all’interpretazione del giudice delle leggi: è dunque del tutto mal posta l’affermazione che in materia “l’ultima parola” spetti alla Cassazione.
Forse nella consapevolezza di una fragile prospettazione, ecco che allora il discorso si arma anche di una, per così dire, astuzia processuale, indagando se vi sia un altro modo per neutralizzare in concreto il ruolo della Corte costituzionale.
Anzitutto, si afferma che la pronuncia n. 6/2018, trattandosi di una sentenza di inammissibilità, a fortiori, non potrà avere l’effetto vincolante di cui sono già prive le sentenze di rigetto. Ma soprattutto si afferma che, qualora le Sezioni unite dovessero tornare sul proprio orientamento, non vi sarebbe modo per far pervenire la questione di fronte al giudice delle leggi.
Si confessa invero che, subito dopo la pronuncia del 2018, nell’ambiente della Cassazione prevalse la cautela. Si temeva infatti che, con un’impugnazione da parte del Consiglio di Stato, la Corte costituzionale avesse potuto confermare il proprio orientamento, questa volta con effetti vincolanti.
Ma, melius re perpensa, il Presidente Frasca ritiene oggi che tale conflitto non sarebbe ammissibile, poiché riguarderebbe organi appartenenti al medesimo potere, citando altresì una, ritenuta significativa, pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, della Corte Costituzionale: dunque, liberi tutti!
Tale assunto, oltre che esprimere per implicito una scarsa considerazione delle prerogative del giudice delle leggi, che si vorrebbero così aggirare, appare comunque privo di fondamento.
Si insiste sul carattere unico del potere giurisdizionale e, sempre con una qualche consequenziale autoreferenzialità, se ne trova la prova più significativa nel fatto che al “vertice” vi sarebbero le Sezioni unite, dimenticando che i giudici speciali sono giurisdizioni “superiori”, come letteralmente, al di fuori dello stesso art. 111, ci indica il dettato costituzionale: “I giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative” (art. 135 c. 2 cost.).
Ma ciò di cui non ci si avvede è che anche a presupporre una siffatta stringente unità non per questo ne deriverebbe quanto desiderato sul versante dell’inammissibilità del rimedio.
Nella tradizione giuspubblicistica l’impermeabilità di soggetti o poteri ha sempre avuto, ai fini nell’esperibilità dei rimedi, un valore tendenziale, ma non assoluto. Basti ricordare le sofisticate riflessioni di Santi Romano sulla “suità” degli organi costituzionali e amministrativi e sui rapporti giuridici “riflessivi”, tanto che Vittorio Emanuele Orlando non aveva tema di osservare, riguardo in particolare al diritto amministrativo, che “le moderne istituzioni amministrative possono offrire il caso che una determinata norma assicuri e garentisca una certa sfera di libere facoltà ad enti, senza che perciò si possa dire che essi siano subbietti di quel determinato diritto”, il che “stando al rigore dei principii” non sembrerebbe ammissibile, poiché l’organo “non ha una personalità giuridica distinta da quella dello Stato cui serve”. Si tratterebbe quindi di una “particolarità specialissima del diritto amministrativo”, la quale “suppone il caso in cui si concede facoltà ad un organo amministrativo di impugnare in via contenziosa l’atto di un altro organo amministrativo” (si rimanda per tali riferimenti a M. Mazzamuto, Liti tra pubbliche amministrazioni e vicende della giustizia amministrativa nel secolo decimonono, in Dir. proc. amm., 2019, 405 ss.).
Ebbene, discorso non diverso vale per la giurisprudenza costituzionale, che, del resto, nei percorsi continentali, è essenzialmente figlia della giustizia amministrativa, riguardando mutatis mutandis il sindacato su un atto legislativo piuttosto che su un atto amministrativo.
L’assunta unità di un potere, ammesso e non concesso che sia predicabile nei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, non è infatti decisiva. Il vero punto scriminante consiste invece nel fatto che vi sia o meno una prerogativa costituzionale che si riferisca, in ipotesi, anche ad un anfratto interno a questo potere. Se questa condizione ricorre il conflitto è ammissibile anche tra organi di uno stesso potere, e di ciò si ha chiara contezza nella giurisprudenza costituzionale.
Così, nel famoso caso Mancuso, ove si intendeva difendere le prerogative costituzionali del Ministro della Giustizia, la Corte ha ritenuto ammissibile il conflitto, tra gli altri, anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, con riguardo alla proposta dello stesso Presidente del Consiglio di conferimento, a sé medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim (C. cost. ord. 470/1995).
Di particolare significato sono poi le affermazioni di principio sulla tutela delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari rispetto allo stesso organo di appartenenza: “Nell’ambito di istituzioni complesse, articolate e polifunzionali, qual è il Parlamento e quali sono le singole Camere, molteplici sono gli organi che possono configurarsi come poteri a sé stanti, idonei a essere parti nei conflitti di attribuzione. I parlamentari che, come si è detto, sono organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite debbono potersi rivolgere al giudice costituzionale qualora patiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari” (C. cost. ord. N. 17/2019 e i precedenti ivi citati).
Ebbene, mutatis mutandis, non vi è alcun dubbio che il giudice speciale, come giurisdizione superiore, goda di una prerogativa costituzionale, espressamente prevista nell’art. 111 cost., nel senso di non potere essere sottoposto ad un giudizio delle Sezioni unite della Cassazione che vada al di là dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Si tratta già di riferimenti di inequivocabile rilievo sistematico. Resta da prendere in considerazione la pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, che, a ben vedere, non sembra affatto condurre alle conseguenze che ne vorrebbe ricavare chi ne ha fatto evocazione. Nel caso di specie un giudice sollevava un conflitto riguardo ad un’azione di responsabilità erariale di fronte al giudice contabile per i provvedimenti di liquidazione dei compensi dei periti dal primo adottati nell’ambito di un procedimento penale. Il giudice costituzionale dichiarava l’inammissibilità del conflitto, ma con una motivazione significativa (corsivi ns.):
-"la concreta attribuzione della giurisdizione, in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario e non opera automaticamente in base all'art. 103 Cost., richiedendo l'interpositio legislatoris, " (sentenza n. 24 del 1993); così come più in generale “appartiene al legislatore, nel rispetto delle norme costituzionali, la determinazione dell'ampiezza di ciascuna giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile, militare, ecc.) (sentenza n. 641 del 1987)”;
“Il che spiega perché, quando sono in discussione, nei reciproci rapporti fra giurisdizioni, i rispettivi ambiti di competenza, se e in quanto determinati dal legislatore ordinario, il contrasto non assume, di norma, il carattere di conflitto di attribuzione, come confermano gli articoli 111, terzo comma, della Costituzione e 37, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87”
-“la contestata giurisdizione non potrebbe dirsi né attribuita né sottratta alla Corte dei conti da norme costituzionali, dipendendo essa invece dalle determinazioni che la legge abbia fatto in proposito per tener conto di tali esigenze. E questo basta perché si riconosca che l'attuale controversia non presenta le caratteristiche che l'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 richiede, affinché possa instaurarsi un conflitto costituzionale di attribuzioni, rientrante nella competenza di questa Corte”.
E un discorso analogo la Corte sviluppa rispetto alla pretesa lesione dell’indipendenza del giudice:
-“ anche sotto il profilo della previsione dei diversi tipi di responsabilità in cui possono incorrere i giudici, la Costituzione lascia aperto un campo all'esplicazione della discrezionalità del legislatore. Esso porta a riconoscere che, anche sotto questo aspetto, il presente conflitto non attiene alla "delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali".”;
-“le richiamate disposizioni dettate dalla Costituzione a garanzia dell'indipendenza e dell'insindacabilità della funzione giurisdizionale non si oppongono di per sé alla possibilità che la legge preveda casi e forme di responsabilità per atti giudiziari del tipo qui in questione. Ond'è che nemmeno per questa via è possibile ricavare un confine definito dalla Costituzione, che giustifichi la drastica affermazione che alla Corte dei conti è sempre preclusa - si ribadisce: preclusa per ragioni di costituzionalità - la giurisdizione sulla responsabilità dei magistrati per danno erariale”.
In sostanza, gli ambiti delle giurisdizioni usualmente non hanno dei puntuali vincoli costituzionali, ma esigono una interpositio legislatoris, sicché di regola non si può configurare un conflitto di attribuzioni non venendo in gioco la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali. In tali casi, potranno essere attivati i rimedi esistenti sulle questioni di giurisdizione, sino al giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione (cioè l’evocato art. 111 c. 3, ora c. 8, Cost.), nel contesto dei quali potrà semmai porsi in via incidentale un dubbio di costituzionalità sulle previsioni legislative attinenti alla giurisdizione. In questo senso, l’evocato art. 37, c. 2, L. n. 87/53: “Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”.
Ma ciò non può certo valere per il nostro caso: dirimente è che nell’art. 111 c. 8 viene invece in gioco, per usare sempre l’espressione dell’art. 37 cit. c. 1, la “delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”; a ciò può anche aggiungersi che non vi è un rimedio sub-costituzionale avverso le pronunce delle Sezioni Unite.
Questo trova del resto inequivocabile conferma nei precedenti giurisprudenziali, anche del giudice delle leggi. Non da ora si è affermato che la funzione della Cassazione di cui all’art. 111 va considerata “come rimedio costituzionalmente imposto” (così ad es. C. cost. n. 395/2000) ed immediatamente precettivo (ad es., ex multis, Cass. s.u. n. 2077/1994). E ciò vale sia riguardo al ricorso in Cassazione “per violazione di legge” (c. 2, ora c. 7), sia riguardo al ricorso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” (c. 3, ora c. 8): “le leggi ordinarie non possono disporre delle funzioni costituzionalmente riservate alla Corte di cassazione (in base al secondo e terzo comma dell'art. 111)” (già C. cost., n. 86/1982). E se dunque il ricorso alle Sezioni Unite “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione è una funzione “costituzionalmente” fissata, va da sé, trattandosi del rispecchiamento della medesima disposizione, che il Consiglio di Stato o la Conti dei conti godano della medesima prerogativa “costituzionale” nell’essere sottratti ad un ricorso in Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione. Per usare le parole proprio dell’evocata pronuncia n. 385/1996 vi è qui “un confine definito dalla Costituzione”.
In definitiva, sussistono, a nostro avviso, tutti i presupposti perché il Consiglio di Stato (o la Corte dei Conti), più esattamente il suo Presidente (c. cost. n. 302/1995), sollevi un conflitto di fronte al giudice costituzionale avverso una pronuncia della Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione.
Anzi, se il giudice della giurisdizione vorrà insistere, è auspicabile che tale conflitto si sollevi quanto prima, poiché non è certo tollerabile che si continui a rimanere sine die esposti all’incertezza di questa pervicace volontà espansionistica della Cassazione (o, si spera, solo di una parte di essa). E senza dimenticare che il passato ci offre un rimedio ancor più radicale, quando, nel 1965, la Corte dei conti arrivò ad affermare che “non può riconoscersi effetto” alla pronuncia delle Sezioni unite su un regolamento preventivo di giurisdizione, sin lì non ammesso nei confronti dei giudici speciali, come se tale pronuncia fosse emessa in carenza di potere, dunque nulla o inesistente (si rimanda a M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677).
Va inoltre menzionato, ma solo per completezza, l’implicito tentativo di delegittimazione soggettiva della pronuncia del 2018 messa in campo, e non solo in questa occasione, dal Prof. Vaccarella, e ciò perché il collegio era in composizione ridotta (12) e soprattutto perché le funzioni di redattore vennero attribuite ad un componente che proveniva dalla giurisdizione amministrativa. Potrebbe dirsi, specularmente, lo stesso per il redattore, questa volta proveniente dalla giurisdizione ordinaria, della pronuncia che ha condotto alla dichiarazione di incostituzionalità del d.lgs.vo n. 80/98 con riguardo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma evidentemente si usano due pesi e due misure. Comunque non intendiamo aggiungere altro, poiché siamo su un terreno di pure suggestioni.
Se poi vogliono mettersi in gioco dei conflitti d’interesse nell’assetto istituzionale dell’ordinamento, ebbene il primo conflitto di interessi, come già evidenziava, Ludovico Mortara, sta proprio nelle Sezioni unite della Cassazione, cioè di un giudice della giurisdizione che è parte in causa. Ben altro, sarebbe il discorso se tale organo avesse una composizione mista del tipo francese, soluzione questa più naturale, come ancora auspicava lo stesso Ludovico Mortara, in un ordinamento informato al pluralismo giurisdizionale (per questi riferimenti, M. Mazzamuto, Il tramonto dottrinario del mito della giurisdizione unica alla luce dell’esperienza tra Orlando e Mortara, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019).
Se per suscitare la sensibilità del Prof. Vaccarella, in un collegio, quello costituzionale, a composizione mista, è sufficiente che vi sia un redattore proveniente dalla giurisprudenza amministrativa per una questione di giurisdizione, figuriamoci allora, da parte nostra, se non vi sarebbe ben a fortiori ragione di lagnarsi del dover continuare ad assistere, da quasi un secolo e mezzo, a decisioni di un giudice della giurisdizione interamente composto da giudici ordinari.
2. Non da ora, anche da una parte della dottrina, si prospetta una reinterpretazione della costituzione nel segno di una visione unitaria della giurisdizione, finendo con ciò inevitabilmente per investire il crocevia sistematico delle funzioni delle Sezioni Unite: l’obiettivo è evidente, fare delle Sezioni unite, in qualche misura, un giudice di legittimità di terzo grado nei confronti dei giudici speciali, promuovendo la Cassazione ad “unica” Corte Suprema.
Il Presidente Frasca si produce in un’esegesi dell’art. 111 nel confronto con codici processuali, invece che con una tradizionale ordinamentale che risale alla legge 31 marzo 1877, n. 3761, per concludere che per motivi di giurisdizione debba intendersi violazioni di legge, sebbene in un ambito più ristretto, quello della violazione delle sole leggi sostanziali e non di quelle processuali. Rievoca il noto argomento della presunta grave incongruenza di un ricorso per violazione di legge sempre possibile per un diritto soggettivo, ma non per un diritto soggettivo rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nonché la preoccupazione espressa da Franco Bile nel 1998 della formazione di una doppia nomofilachia negli istituti di diritto comune. Infine il Prof. Vaccarella ripropone una versione ancor più larga, sicché nei motivi di giurisdizione rientrerebbero anche i vizi processuali.
Non è possibile affrontare qui funditus l’argomento. Ci limitiamo ad osservare che questi orientamenti ci sembrano affetti da un semplificante spirito geometrico non sostenuto da un’adeguata consapevolezza della complessità storica e sistematica della materia, indugiando soltanto su una premessa maggiore apodittica, e cioè che esista un solo modello di giurisdizione, quello loro, della giurisdizione ordinaria, che si pretende di assumere anche a modello costituzionale, e su cavillosi tentativi di interpretazioni esegetiche.
Sembra anzitutto che si ignori l’esistenza del diritto pubblico e del suo giudice. Il giudice amministrativo ha la sua ragione d’essere nel diritto pubblico e dunque poco si comprenderebbe perché mai un giudice che si occupa di tutt’altro, che è ambientato in un altro sistema, quello privatistico, dovrebbe operare in un terreno a lui estraneo. E’ questo il senso principale della scelta costituzionale: il mantenimento del diritto amministrativo e del suo giudice, nella consapevolezza che solo quest’ultimo è in grado di applicare i principi del primo, non certo un giudice informato a tutti altri principi. Si comprende così perfettamente, sul piano sistematico, perché le Sezioni unite possano al più atteggiarsi a giudici della giurisdizione, ma non certo a giudici di terzo grado delle giurisdizioni, appunto “superiori”, speciali.
Senza contare della vera ragione di fondo del dualismo: cioè il maggior garantismo del diritto pubblico per il cittadino. Un inquinamento privatistico del diritto e della giustizia amministrativi porterebbe infatti ad una verticale caduta della tutela, come è avvenuto nel pubblico impiego, essendo il vincolo della legalità privatistica, proprio perché rispettosa dell’autonomia privata, ben più flebile del vincolo del regime pubblicistico.
Quando dunque si parla delle posizioni soggettive, magari per evocare un principio di eguaglianza nella nomofilachia, non lo si può fare con una trasversale indifferenza rispetto al sistema nel quale una posizione soggettiva va a collocarsi, cioè in un rapporto di diritto pubblico o in un rapporto di diritto privato. Si prenda ad es. un diritto di proprietà, lo si chiami come si preferisce (diritto soggettivo o altro), ciò che veramente dovrebbe contare ai fini del riparto (e della nomofilachia) è se tale diritto si confronta con altre posizioni giuridiche nell’ambito di rapporti privatistici o nell’ambito di rapporti pubblicistici.
Vero è piuttosto che l’enfatizzazione delle posizioni soggettive ai fini del riparto è stato e continua ad essere fonte di grandi confusioni. Quando si parla di diritti soggettivi in opposizione agli interessi legittimi a cosa ci si riferisce, a diritti soggettivi di diritto privato o a diritti soggettivi di diritto pubblico? Se si guarda a come si è inizialmente formato il sistema non certo ai primi, essendo scontata la giurisdizione del giudice ordinario nei rapporti iure privatorum, bensì ai secondi poiché il problema era quello di dividere le controversie di diritto pubblico tra giudice ordinario e IV Sezione per evitare il conflitto tra giudicati. Ma sappiamo altresì che i diritti soggettivi di diritto pubblico rimasero più che altro sulla carta, grazie alla teoria della degradazione, che finì, sotto altra veste, per perpetuare la tradizionale distinzione tra di atti d’impero (latamente intesi) e atti di gestione, che, a sua volta, aveva assunto il significato di riprodurre la distinzione tra atti di diritto pubblico e atti di diritto privato.
Ed è proprio quest’ultimo, così come in tutti i sistemi dualistici, il vero punto meritevole di attenzione, unitamente alle dinamiche che possono determinarsi nei mutamenti di qualificazione. Significativo è l’esempio della giurisdizione esclusiva, tutta carica delle ambiguità dell’enfatizzazione delle posizioni soggettive. Se già, nel riparto ordinario, i diritti soggettivi di diritto pubblico erano assorbiti negli interessi legittimi con la teoria della degradazione, cosa mai si sarebbe dovuto guadagnare in più con la giurisdizione esclusiva, come giurisdizione anche sui diritti soggettivi (di diritto pubblico)? L’utilità pratica si poté in realtà apprezzare perché la norma processuale sul riparto divenne occasione per una riqualificazione pubblicistica, sul piano sostanziale, di parti dei rapporti che sin lì erano di qualificazione privatistica o di incerta qualificazione. E’ proprio per questo che si inventarono gli atti “amministrativi” paritetici, dove l’aspetto più importante stava nel qualificarli come “amministrativi”, mentre il carattere paritetico rispondeva soltanto all’esigenza di evitare che nel passaggio di regime vi fosse un peggioramento nella sottoposizione ai termini decadenziali. La verità è che le materie di giurisdizione esclusiva non erano tanto segnate dall’incertezza tra diritti soggettivi di diritto pubblico e interessi legittimi, bensì da zone grigie tra diritto pubblico e diritto privato.
Si sarebbe il giudice amministrativo così appropriato di istituti di diritto comune? Certamente sì. Ma, così come aveva già ben chiaro Vittorio Emanuele Orlando, gli istituti di diritto comune sono imputabili al sistema privatistico soltanto in senso storico, poiché è lì che avrebbero avuto la loro prima formazione, non invece che essi siano ontologicamente privatistici, bensì appunto comuni senza ulteriori aggettivazioni. E ciò significa altresì che ogni istituto di diritto comune vive e si caratterizza, modulandosi, in relazione al sistema nel quale si inserisce: anche qui non è praticabile una trasversalità indifferente dell’istituto nel passaggio da un sistema all’altro ed è così del tutto naturale che per i cd. istituti di diritto comune si formino delle nomofilachie autonome, secondo ciascun sistema.
Ciò tuttavia presuppone che l’assetto delle qualificazioni, affinché una fattispecie o un istituto si ambienti in questo o in altro sistema, sia sempre messo o rimesso in ordine, poiché è attraverso questa passaggio che si separano pianamente le sorti delle diverse nomofilachie. Ed è proprio quello che è tradizionalmente avvenuto nella giurisdizione esclusiva con un’espansione delle qualificazioni pubblicistiche.
Quando invece non si procede ad un siffatto riassetto il problema del concorso nella nomofiliachia riemerge inevitabilmente. È quello che sta avvenendo in questi anni con la responsabilità per i danni derivanti da rapporti di diritto pubblico. Vi è un’ontologia privatistica dell’istituto? Niente affatto, come dimostra il caso francese. Se dunque l’ordinamento ha assegnato tale rimedio al giudice amministrativo occorre, come si è più volte suggerito, che, in parte qua, l’istituto comune della responsabilità si ambienti pienamente nel sistema giuspubblicistico e assuma le vesti di una responsabilità di diritto pubblico. Incomprensibilmente invece la giurisprudenza amministrativa, in luogo di separare i forni, continua a configurare il rimedio risarcitorio, rimesso alle sue cure, in termini privatistici, lasciando in campo un disallineamento sistematico ed una inevitabile concorrenza nomofilattica con la Cassazione.
3. Un’ultima questione riguarda la possibilità per le Sezioni unite di sindacare la qualificazione, come interesse di fatto o come interesse giuridicamente rilevante, effettuata dal Consiglio di Stato.
Due cari Colleghi amministrativisti, la Prof. ssa Maria Alessandra Sandulli e il Prof. Fabio Francario, sempre nel contesto del citato convegno, insistono sull’idea che ciò sia possibile, osservando, rispetto al caso Randstad, che il Consiglio di Stato si sarebbe sostituito al legislatore (qui quello UE) e la relativa pronuncia si sarebbe sostanziata in un diniego di giurisdizione. Se ne trae così la conclusione che male avrebbe fatto la Cassazione ad effettuare il rinvio al giudice UE, avendo potuto invece pacificamente decidere da sé la questione, perché appunto traducentesi in un diniego di giurisdizione.
Il Presidente Frasca invece parla al riguardo di error in iudicando, dunque non sindacabile dalle Sezioni unite, se non appunto accedendo alla (da Egli) auspicata dilatazione del significato dei motivi inerenti alla giurisdizione, intesi come anche comprensivi della violazione di leggi sostanziali.
Da parte nostra si condivide pienamente l’idea che si tratti di error in iudicando, poiché attinente al merito, così come del resto già sostenuto dall’antica dottrina (così ad es, Federico Cammeo: v. M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.) e così come del resto si ricava da ciò che fa normalmente la giurisprudenza civile quando, anche nel caso che ricorra invero un interesse di fatto, rigetta un’azione perché il diritto vantato non sussiste, pronunciandosi cioè sul merito e non dichiarando il difetto di giurisdizione. Ovviamente noi ne facciamo derivare una conseguenza opposta, rispetto a quella desiderata dal Presidente Frasca, e cioè che siffatte questioni dovrebbero considerarsi estranee alle questioni di giurisdizione.
Vero è tuttavia che una qualche tendenza a valutare la questione dell’interesse come questione di giurisdizione era già emersa negli anni settanta del secolo scorso nella giurisprudenza delle Sezioni unite, sino a culminare nel famoso caso di Italia nostra, nel quale, per la prima volta, il Consiglio di Stato riconobbe il locus standi ad un titolare di interessi diffusi, salvo poi dover subire la censura della Cassazione che annullò la pronuncia per “difetto assoluto di giurisdizione” (Cass. S.U., 8.5.1978, n. 2207). Veemente, contro siffatto orientamento, fu in quegli anni la reazione di Vincenzo Caianiello di cui si caldeggia la lettura (Id., Il cosiddetto limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Giur. it., 1977, IV, 23; v. anche M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.).
Non si può al riguardo che confermare anche la nostra piena contrarietà. Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica: basti ricordare che Laferrière nel suo famoso trattato di giustizia amministrativa riteneva sufficiente anche un semplice interesse morale. Si sono già costruiti nel XIX sec., quando la giustizia graziosa assunse la formale veste giurisdizionale, tanti artifizi, come ad es. gli interessi occasionalmente protetti, per giustificare il perpetrarsi di questa tradizione. Ma si tratta appunto di artifizi: invero non vi è mai stata in ciò alcuna base normativa, bensì si trattava e continua a trattarsi, senza mai addivenire ad un’azione popolare, di una largheggiante selezione equitativa degli interessi da parte del giudice pretore.
Non bisogna lasciarsi traviare dal fatto che nel caso Randstad sia accaduto il contrario di quanto era avvenuto nel caso Italia nostra. Ciò è dovuto soltanto al fatto che in questi anni il giudice amministrativo è stato violentemente additato, specie nel settore degli appalti pubblici, come un impaccio all’azione pubblica e allo sviluppo economico, ed è stato costretto, tradendo in parte (e si spera temporaneamente) la sua tradizione, ad usare la leva della legittimazione per ridurre il contenzioso.
Se sul piano sistematico si volesse legare il giudice pretore ad espresse qualificazioni normative degli interessi giuridicamente rilevanti o lo si volesse al riguardo sottoporre ad uno stringente controllo della Cassazione, più legata ad un giuspositivismo legislativo e ad una tradizione, quella privatistica, caratterizzata da un catalogo più ristretto degli interessi giuridicamente rilevanti, si porrebbero le condizioni per una caduta verticale della tutela.
E la nostra Costituzione ha certo confermato il giudice amministrativo, volendo consapevolmente salvare, anche per tale aspetto, una gloriosa tradizione di protezione dei cittadini di fronte ai pubblici poteri.
L’Italia, l’art. 11 e la guerra
di Alfonso Celotto
Sommario: 1. “L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa …” - 2. L’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
1. “L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa…”
Così esordiva l’art. 4 del progetto di Costituzione presentato alla Assemblea costituente il 31 gennaio 1947.
Era nitida la volontà di rottura e di contrapposizione con la allora recente guerra, ma si voleva anche porre una visione più ampia, mondiale: lo disse chiaramente Togliatti «per chiarire la posizione della Repubblica italiana di fronte a quel grande movimento del mondo intiero che cerca di mettere la guerra fuori legge», aggiungendo poi che «in particolare, deve essere sancito nella Costituzione italiana per un motivo speciale interno, quale opposizione cioè alla guerra che ha rovinato la Nazione» (3 dicembre 1946, I Sottocommissione).
Quando il testo arrivò in Assemblea, si discusse animatamente sul verbo che era opportuno utilizzare.
Meuccio Ruini chiarì il punto: «Si tratta anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione, ha ritenuto che, mentre «condanna» ha un valore etico più che politico-giuridico, e «rinunzia» presuppone, in certo modo, la rinunzia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola «ripudia» … ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra» (seduta pom. del 24 marzo 1947).
Poi si scelse di non parlare di guerra “di conquista”. Come osservò ancora Ruini “Risuonava qui come un grido di rivolta e di condanna del modo in cui si era intesa la guerra nel fosco periodo dal quale siamo usciti: come guerra sciagurata di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Ecco il sentimento che ci ha animati. Ma è giusta l'osservazione fatta anche dall'onorevole Nitti che però sembra esagerato e grottesco parlare, nelle nostre condizioni, di guerra di conquista. È meglio trovare un'altra espressione”.
Ecco come è nato: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ma allora l’Italia rinuncia a ogni tipo di guerra?
Non è proprio così perché occorre una lettura sistematica della costituzione.
L’art. 11 va letto tuttavia assieme all’art. 52 che pone la difesa della patria quale “sacro dovere” e con l’art. 78 che affida al Parlamento la competenza a dichiarare lo Stato di guerra.
Quindi, se da un lato viene dunque energicamente ripudiata la forza bellica come strumento di offesa alla libertà d’altri popoli o come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, dall’altro, permane la facoltà di ricorrere all’uso delle armi per contrastare un altrui ingiustificato attacco all’indipendenza o all’integrità territoriale, coerentemente con il principio di autodifesa sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945.
Del resto, quando fu discusso l’art. 52 venne presentato un emendamento di radicale pacifismo con la prima firma dell’on. Cairo, per sancire che “Il servizio militare non è obbligatorio” e che “La Repubblica, nell'ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua”.
Questo emendamento venne discusso con passione ma fu bocciato ampiamente con 332 voti contrari e soltanto 33 favorevoli.
Insomma, l’Italia non rinuncia ad una guerra difensiva ma condanna per principio la guerra come strumento di offesa e promuove le organizzazioni tese ad “assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni”, come precisa la parte finale dello stesso art. 11 Cost.
2. L’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite
Sulla stesura della seconda parte dell’art. 11, profonda influenza ha avuto l’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La diffusa idea di base era che soltanto l’istituzione di una federazione di Stati e la conseguente attenuazione dei pericolosi nazionalismi – con l’abbandono del «dogma della sovranità perfetta», giudicato da Einaudi come il «nemico primo e massimo dell’umanità e della pace» – avrebbe consentito di trasformare i rapporti tra gli Stati, tradizionalmente fondati sulla forza, in rapporti di «collaborazione […] per il bene comune» (Dossetti, seduta del 3 dicembre 1946, I Sottocommissione).
Ben presente nella mente dei Padri costituenti, benché non espressamente menzionata nel testo costituzionale, era anche la prospettiva verso l’integrazione europea. Proprio l’opportunità o meno di inserire un riferimento esplicito all’Europa fu oggetto di ampi dibattiti.
Una prima discussione emerse in seno alla Commissione per la Costituzione tra Lussu e Moro. Il primo aveva presentato un emendamento volto ad inserire, nella seconda parte dell’allora art. 4 del progetto di Costituzione, un riferimento esplicito alle organizzazioni europee, oltre che a quelle internazionali, dando in tal modo risalto al desiderio da più parti manifestato di «dare un’organizzazione federalistica all’Europa». D’altra parte, l’on. Moro, pur dimostrandosi d’accordo con la sostanza della proposta Lussu, aveva sconsigliato il riferimento espresso, ritenendo da un lato che un richiamo testuale all’Europa non fosse conveniente, dall’altro che il riferimento generale ad organizzazioni internazionali non meglio specificate valesse a comprendere anche le istituzioni europee.
Così, al plenum dell’Assemblea, il progetto dell’art. 4 venne presentato senza alcun riferimento esplicito all’Europa.
Il dibattito, tuttavia, si riaccese a seguito dell’emendamento proposto dall’on. Bastianetto, volto ad introdurre, dopo le parole «limitazioni di sovranità necessarie» il riferimento «all’Unità dell’Europa», così motivandolo: «se in questa Carta costituzionale potremo inserire la parola “Europa”, noi incastoneremo in essa un gioiello, perché inseriremo quanto vi è di più bello per la civiltà e per la pace dell’Europa. Perché, badate, onorevoli colleghi, dal punto di vista economico questa Europa non si scinde più; dal punto di vista politico-militare nemmeno si scinde più; dal punto di vista ideologico noi vediamo già che i partiti politici hanno un grande funzione in questa unità europea».
Ancora una volta, tuttavia, la proposta di emendamento non venne accolta, ma non in conseguenza di un’ipotetica ostilità nei confronti dell’integrazione europea, ma perché, come affermato dal Presidente Ruini: «in questo momento storico un ordinamento internazionale può e deve andare anche oltre i confini d’Europa. Limitarci a tali confini non è opportuno di fronte ad altri continenti, come l’America, che desiderano partecipare all’organizzazione internazionale» (seduta pom. del 24 marzo 1947).
Un riferimento all’Europa o all’integrazione europea poteva suonare come un confine esterno, ad esclusione di altri Paesi – primo fra tutti gli Stati Uniti – nei cui confronti l’Italia era legata da un debito storico di grande rilievo.
Si trattò dunque di una prudenza nella forma, per non pregiudicare i delicati equilibri internazionali dell’epoca, che non ebbe mai tuttavia il sapore di una chiusura verso progetti di integrazione di matrice europea che nel frattempo andavano maturando.
Ancora una volta, il tutto viene racchiuso nelle parole del Pres. Ruini di presentazione del testo del futuro art. 11 approvato all’Assemblea: «possiamo fermarci al testo proposto dalla commissione, che, mentre non esclude la formazione di più stretti rapporti nell’ambito europeo, non ne fa un limite ed apre tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli» (Assemblea costituente, seduta pom. del 24 marzo 1947).
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Alessandro Morelli
1. Prof. Morelli, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
A partire soprattutto dai primi decenni del nuovo millennio si è iniziato a ripetere da più parti che, a fronte di un’ormai vastissima letteratura sui diritti, mancava un’elaborazione teorica altrettanto estesa e approfondita riguardo ai doveri. Limitando l’attenzione agli studi costituzionalistici, nei decenni precedenti, per la verità, erano state prodotte importanti opere scientifiche sulla categoria dogmatica dei doveri costituzionali o su specifiche situazioni giuridiche passive previste dalla Costituzione: si pensi soltanto al Contributo allo studio dei doveri costituzionali di Giorgio Lombardi, pubblicato nel 1967; al libro, uscito l’anno successivo, di Carmelo Carbone dal titolo I doveri pubblici individuali nella Costituzione; alla monografia di Luigi Ventura su La fedeltà alla Repubblica del 1984, o ancora a quella di Salvatore Prisco, dal titolo Fedeltà alla Repubblica e obiezione di coscienza. Una riflessione sullo Stato “laico”, del 1986. La quantità di studi dedicati alla tematica dei doveri e l’attenzione riservata a quest’ultima da parte della dottrina non erano però minimamente paragonabili a quelle relative ai diritti. Gli anni in cui si esprimeva tale istanza di maggiore attenzione per i doveri (e per il connesso principio di solidarietà) erano probabilmente gli ultimi scorci di quell’“età dei diritti”, parlando della quale Norberto Bobbio, nel 1990, aveva ammonito sulla necessità di non fermarsi alla mera proclamazione, in trattati e carte, dei diritti stessi ma di agire convintamente per la loro concreta attuazione.
L’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e la stagione del terrorismo di matrice islamista dallo stesso inaugurato, prima, e la crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008, poi, avevano già dimostrato la necessità di riscoprire il ruolo fondamentale dei doveri inderogabili di solidarietà come elementi strutturanti la dimensione istituzionale della democrazia pluralista. Successivamente, la pandemia da Covid-19 ha finito con il ribaltare, nella vita sociale, il rapporto tra diritti e doveri, i primi risultando sempre più direttamente condizionati dall’adempimento dei secondi (e, soprattutto, dagli obblighi imposti dalla necessità di salvaguardare la salute collettiva in un contesto emergenziale). Il conflitto in Ucraina e i rischi di un’escalation bellica che potrebbe coinvolgere direttamente anche i Paesi europei riportano in primo piano doveri come quello di difesa della Patria (“sacro” per l’art. 52 della nostra Costituzione) e quello di fedeltà alla Repubblica.
Stiamo, dunque, entrando nell’“età dei doveri”? Direi che ci siamo già da un po’. La categoria dei doveri dell’uomo, alla quale faceva riferimento Mazzini, evoca oggi, per la sua connotazione universalista, la prospettiva della responsabilità intergenerazionale e gli interessi delle generazioni future, che dopo l’introduzione in Costituzione, nel 2012, dei principi dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito pubblico, hanno trovato di recente un ulteriore, importante riconoscimento con la revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione: nel primo dei due, in particolare, si è introdotta la previsione secondo cui la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
La riflessione mazziniana sul rapporto tra diritti e doveri si inquadra in una visione fortemente spirituale, orientata dall’idealismo romantico e connotata da una potente istanza etica. Nei Doveri dell’uomo Mazzini si chiede: “Certo, esistono diritti; ma dove i diritti d’un individuo vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?”. L’equilibrio può essere assicurato “in nome della Patria, della Società, della moltitudine dei vostri fratelli!”. Si postula, pertanto, una superiorità morale dei doveri (verso l’umanità, la patria, la famiglia) sui diritti, che invero appare estranea all’odierna dottrina del bilanciamento, la quale, sullo sfondo di una concezione pluralistica della società e della politica, presuppone, innanzitutto, l’eguale dignità costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, prevedendo che la risoluzione delle collisioni tra diritti avvenga nei casi concreti e non in astratto, salvaguardando pur sempre il “contenuto essenziale” di ciascun diritto. Come ha detto la Corte costituzionale, “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre ‘sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro’ (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza n. 85 del 2013). Nessun diritto fondamentale, pertanto, è superiore agli altri, così come nessun dovere si erge a criterio ultimo di risoluzione delle collisioni tra i diritti (il che ne farebbe un principio “tirannico”, secondo la nota espressione schmittiana, ripresa dalla Corte costituzionale). Diversa è, come ho detto, la visione di Mazzini, animata da una forte tensione spirituale verso l’unità nazionale.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Mazzini risponde alla domanda subito dopo, nel passo richiamato, evocando appunto i doveri verso la patria, la società e la moltitudine dei fratelli. Egli aggiunge: “Cos’è la Patria, per l’opinione della quale io parlo, se non quel luogo in cui i nostri diritti individuali sono più sicuri? Cos’è la Società, se non un convegno d’uomini, i quali hanno pattuito di mettere la forza di molti in appoggio dei diritti di ciascuno?”. Forse anche per la vena polemica del pamphlet mazziniano, dedicato agli operai italiani e scritto contro le opinioni di quelle “scuole rivoluzionarie” che, fino a quel momento, avevano esaltato i diritti, predicando la ricerca della felicità con tutti i mezzi senza però migliorare concretamente la condizione del popolo, Mazzini colloca decisamente in una posizione di superiorità gerarchica i doveri rispetto ai diritti. Come ho ricordato, non esiste, invece, alcuna gerarchia del genere nella dimensione dell’attuale Stato costituzionale, dove, peraltro, non è dato riscontrare nemmeno un rapporto di corrispondenza biunivoca tra diritti e doveri.
Una differenza importante, però, può cogliersi nella diversa struttura delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive e nella maggiore facilità delle prime di trovare protezione attraverso gli strumenti giurisdizionali. L’adempimento dei doveri, soprattutto di quelli inderogabili di solidarietà, non sempre è sanzionabile e giustiziabile: si pensi soltanto ai doveri di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione, quest’ultimo soprattutto quando si tratti di previsioni normative rivolte ad attori istituzionali, per la cui violazione non risulta agevole il ricorso alla Corte costituzionale.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art. 2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Per quanto riguarda l’ispirazione mazziniana dell’art. 2 Cost., basti ricordare che nella sua Relazione al progetto di Costituzione, presentata alla Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio 1947, il presidente della Commissione dei settantacinque Meuccio Ruini, commentando il contenuto dell’art. 6 (poi trasfuso, con modifiche, nell’art. 2 del testo definitivo), rilevò come le enunciazioni sui doveri si accompagnassero “mazzinianamente a quelle dei diritti”: “contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, – sottolineò ancora Ruini – diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del ‘tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato’, rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune”. E ancora, citando Mazzini, secondo cui “lo Stato non è arbitro di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità”, il Presidente puntualizzava che “spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso”.
Il legame, complesso ma indissolubile, tra diritti inviolabili e doveri inderogabili, mediato dal principio di solidarietà, deve molto, pertanto, al monito mazziniano, pur colorandosi di una connotazione originale, conferitale dall’ispirazione pluralistica della Carta repubblicana. Nell’attuale stagione il rischio maggiore che corriamo è quello di definire in una prospettiva riduzionistica tale rapporto, intendendo i diritti soltanto come situazioni giuridiche subordinate o riflesse rispetto ai doveri. L’individuazione, da parte del prof. Ruggeri, di una “componente deontica” anche nei diritti fondamentali coglie efficacemente l’esigenza di tenere ben presente la complessità della trama ordinamentale, che nel rapporto tra diritti e doveri trova un suo snodo centrale. Specularmente, tuttavia, si potrebbe individuare anche una componente di volontarietà nello stesso adempimento dei doveri, non già nel senso che il rispetto di questi ultimi sia giuridicamente facoltativo (sarebbe un’evidente contraddizione) ma in quello per cui soltanto un’effettiva e intima adesione ai valori di cui quei doveri sono espressione può assicurare un pieno ed efficace adempimento degli stessi. In tal senso la lezione mazziniana mostra, a mio avviso, i suoi tratti di maggiore attualità laddove sottolinea l’importanza dell’educazione ai fini della sopravvivenza dei valori alla base della convivenza civile.
Esemplari sono le pagine dei Doveri dedicate alla distinzione e al rapporto tra istruzione ed educazione: la prima, che si traduce nell’insegnamento di nozioni, scrive Mazzini, “differisce dall’educazione quanto i nostri organi differiscono dalla nostra vita”. Gli organi non sono la vita, ma ne costituiscono gli strumenti e i mezzi di manifestazione: essi “non la signoreggiano, non la dirigono: possono tradurre in fatti la vita la più santa o la più corrotta. Così l’istruzione somministra mezzi per praticare ciò che l’educazione insegna: ma non può tener luogo dell’educazione”. Quest’ultima, invece, si rivolge alle facoltà morali e sviluppa nell’uomo la conoscenza dei suoi doveri, mentre l’istruzione si indirizza alle facoltà intellettuali e rende l’uomo capace di praticare i doveri medesimi.
L’istruzione slegata da un corrispondente grado di educazione è, per Mazzini, una gravissima piaga che conserva le diseguaglianze tra le classi sociali del popolo e “inchina gli animi al calcolo, all’egoismo, alle transazioni fra il giusto e l’ingiusto, alle false dottrine”.
In una prospettiva prossima, da questo punto di vista, al pensiero mazziniano, ho argomentato, in altre sedi (e, in particolare, nel mio I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Milano, 2013), che esiste una stretta correlazione tra il dovere di fedeltà alla Repubblica, riconosciuto dall’art. 54 Cost., e il dovere di istruzione previsto dall’art. 34 della Carta, che, dopo avere riconosciuto, al primo comma, il principio per cui la scuola è “aperta a tutti”, stabilisce, al secondo comma, che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Se, infatti, si intende il dovere di fedeltà come il vincolo gravante su ogni cittadino a concorrere solidalmente ad assicurare la continuità dell’ordinamento repubblicano nell’identità dei suoi principi ispiratori e se si riconosce che questi ultimi costituiscono un portato culturale che deve essere conosciuto per poter essere apprezzato e promosso, appare evidente come l’istruzione e, ancor più l’educazione, rappresentino condizioni necessarie, anche se non sufficienti, alla sopravvivenza della democrazia pluralista. L’educazione (civica), d’altro canto, non può e non deve tradursi in un indottrinamento; se lo facesse, finirebbe con il tradire gli stessi principi posti a base dell’ordinamento repubblicano: la libertà di coscienza e la capacità di autodeterminazione della persona. L’educazione, piuttosto, deve tendere a sensibilizzare sul valore della diversità e della pluralità, mostrando come i processi di costruzione dell’identità individuale e di quella collettiva non possano mai prescindere dagli altri.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Non c’è separazione tra politica e religione nel pensiero mazziniano, al tempo stesso così accentuatamente intriso di spiritualismo e anticlericalismo. Da questo punto di vista, la distanza rispetto all’etica repubblicana dell’ordinamento costituzionale vigente sembrerebbe notevole.
E, tuttavia, la dimensione ideale entro cui si colloca la Costituzione – anche per la pluralità delle sue matrici culturali, le principali delle quali furono quelle cattolica, marxista e liberale – non è certo d’ispirazione materialista: si pensi soltanto alla vocazione universalistica del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, contenuto nell’art. 2, o al riferimento al “progresso spirituale della società”, accanto a quello “materiale”, verso cui possono tendere le attività e le funzioni che ogni cittadino ha il dovere di svolgere (art. 4). Ma si guardino anche le norme che riconoscono l’eguale libertà di tutte le confessioni (art. 8), il regime concordatario (art. 7) e la libertà di religione.
Non sorprende, pertanto, che la Corte costituzionale abbia da tempo riconosciuto, nonostante la carenza di una previsione espressa, la vigenza della libertà di coscienza, come diritto inviolabile, anche nel nostro ordinamento, sulla base del combinato disposto degli artt. 2, 19 e 21 Cost. (sent. n. 467 del 1991). La connotazione pluralistica e laica della nostra legge fondamentale si coniuga, pertanto, con una tensione spirituale insita nello stesso portato del principio personalista, che ispira l’intera trama normativa della Costituzione: il soddisfacimento delle istanze spirituali è, infatti, una declinazione essenziale di quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui parla il secondo comma dell’art. 3.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
Il passo mazziniano suscita una riflessione sul dominio che fino all’inizio del nuovo millennio, non soltanto nell’ambito dell’elaborazione dottrinale ma anche in quello del dibattito pubblico, hanno avuto i diritti rispetto ai doveri. Si è assistito, per tutta la seconda metà del Novecento, a una proliferazione di “nuovi diritti”, sovente inventati o scoperti da giudici e corti nazionali e sovranazionali. Anna Pintore ha parlato, in tal senso, di “diritti insaziabili”, per indicare proprio questa tendenza alla moltiplicazione potenzialmente illimitata di situazioni giuridiche attive, tutte (o quasi) considerate meritevoli di protezione di rango costituzionale. Un fenomeno che è andato di pari passo con l’affermazione sempre più decisa della giurisdizione nelle dinamiche istituzionali degli Stati democratici.
Negli ultimi decenni, come si è detto, la situazione sembrerebbe essere cambiata e il rapporto tra diritti e doveri parrebbe oggi invertito. Tale mutamento di paradigma, tuttavia, non sembra costituire il portato di un’evoluzione culturale e di una maggiore presa di coscienza della complessità della democrazia pluralista. Al contrario, populismi e sovranismi spingono verso torsioni in senso autoritario delle stesse democrazie contemporanee, sicché l’insistenza sui doveri, in un siffatto clima, più che risultare espressione di una rinnovata istanza solidarista, si colora di inquietanti accenti neo-nazionalisti e illiberali.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
Per molti italiani il termine “patria” presenta oggi una connotazione negativa, in quanto esprimente un concetto acquisito al patrimonio culturale di una determinata parte politica, così come, di contro, altri concetti, simboli e riti repubblicani sono normalmente ascritti alla tradizione e alla mitologia politica dell’opposto schieramento (si pensi, per esempio, alla Festa della Liberazione), risultando parimenti sgraditi agli avversari. Scontiamo i danni di una sistematica, reciproca delegittimazione degli attori politici, perpetrata per troppi anni, che ha finito con il logorare lo stesso linguaggio costituzionale, non soltanto impedendo l’affermazione di una religione civile ma minando perfino la coesione sociale e l’unità nazionale. Non soltanto per tale ragione ma anche per una serie di ulteriori fattori sociali, economici e culturali, che non mi è possibile indagare in questa sede, scontiamo una crisi di effettività del principio solidarista, che purtroppo trova riflesso in un analogo deficit a livello sovranazionale (basti pensare al modo ben poco solidale in cui l’Europa continua a gestire il fenomeno migratorio). Da tale punto di vista, i moniti e l’accorato invito all’unità di Mazzini appaiono più attuali che mai.
8. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 della Costituzione, appena approvata, ha notevoli potenzialità, delle quali ho l’impressione che non si sia avuta e non si abbia piena consapevolezza, nemmeno da parte delle stesse forze politiche che l’hanno promossa. Non nascondo di nutrire qualche perplessità su tale riforma, che, per la prima volta, seppure per motivi condivisibili, ha modificato un articolo rientrante tra i principi fondamentali della Carta. Un precedente pericoloso, che potrebbe essere richiamato un giorno per giustificare modifiche solo apparentemente espansive delle tutele costituzionali o addirittura volte a ridurre o a limitare queste ultime; riforme che, dopo la revisione in esame, sarebbero più difficilmente contestabili benché, secondo un’autorevole dottrina, dovrebbero potersi ammettere soltanto revisioni in melius dei principi fondamentali, risultando vietate quelle regressive, dirette a recuperare principi o istituti che i Costituenti intesero negare o vietare (G. Silvestri).
Il riferimento all’“interesse delle generazioni future”, introdotto adesso nell’art. 9, sembrerebbe voler proiettare in una prospettiva diacronica il principio di solidarietà, conferendo alla responsabilità intergenerazionale la dignità di un principio fondamentale. Appare ovvio che l’impatto di una simile innovazione dipenderà dal seguito che le si vorrà dare, dall’attuazione normativa, amministrativa e giurisprudenziale che la riforma avrà.
In un paese nel quale le riforme hanno sempre più una valenza simbolica e un seguito scarso o inesistente, c’è forse ben poco da sperare. E il quadro non appare certo più roseo se si guarda alla prospettiva internazionale, segnata da tragici eventi bellici che rischiano di farci ripiombare nei più cupi incubi novecenteschi. Il pessimismo dell’intelletto, tuttavia, come ammoniva Antonio Gramsci, non preclude l’ottimismo della volontà, anche perché i momenti peggiori della storia sono quelli che consentono di riscoprire nella dignità umana la ragion d’essere e la finalità ultima della stessa solidarietà.
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