ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’estate del 1982, gli anni ’80 ed emozioni non da poco
di Andrea Venegoni
Già poco meno di due anni fa, la scomparsa di Maradona mi aveva suscitato una serie di riflessioni – che peraltro avevo tenuto per me senza rendere pubbliche – seppure partendo dal presupposto (che oggi posso confessare sperando davvero di non compromettere i rapporti con i tanti collegi e amici napoletani) che io appartenevo a quel partito, forse visto con gli occhi di oggi un po' troppo perbenista e moralista, secondo il quale sarà stato pure il miglior calciatore di tutti i tempi, però aveva quel modo di fare, anche nelle interviste a bordo campo o in quello che si sapeva sulla sua vita fuori dal campo, che me lo rendeva certamente poco simpatico.
Giudicando da quanto vedevo in tv, preferivo di gran lunga lo stile e la classe di Platini, la sua eleganza, la sua “r” francese simil-aristocratica, su una faccia che sembrava non gliene importasse nulla di nulla e guardasse tutti dall'alto, il suo (per me) secondo gol più bello della storia del calcio, Juventus - Argentinos Juniors, finale di coppa Intercontinentale dell'8 dicembre 1985, che però, piccolo particolare, fu annullato e non entrò mai negli annali, e ho ancora impressa negli occhi la sua reazione ironica, sdraiato sul prato su un fianco, con il braccio destro piegato a sorreggere la testa, con un sorrisetto verso l'arbitro che diceva tutto, con un distacco come se il gol fosse stato annullato a qualcun altro e lui fosse stato uno spettatore che passava di lì per caso.
Però, quando Maradona se ne andò, sentii di avere perso un altro di quei pezzi, chiamateli simboli, miti o come volete, che avevano accompagnato la mia vita da giovane. E mi sono sentito un po' più solo.
Per noi, nati intorno alla metà degli anni '60, e che quindi non abbiamo vissuto consapevolmente quel decennio, gli anni '80 sono stati i nostri anni '60.
Sarà che eravamo giovani, ma li ricordo come anni di spensieratezza, forse perché si usciva dal periodo del terrorismo, delle tensioni sociali degli anni '70, e, per chi aveva 14-15 anni, il decennio che iniziava rappresentava davvero l'apertura alla vita.
È vero, i primissimi anni del decennio erano stati ancora turbolenti, in Italia e nel mondo: il terrorismo imperversava ancora in Italia, la mafia stava diventando stragista e nel 1980 c'era stata la morte violenta di John Lennon, ma noi i Beatles non li avevamo vissuti in prima persona; per i ragazzi di allora, invece, si apriva comunque una stagione di leggerezza che ha segnato la nostra adolescenza.
Adesso, bisognava vivere, e tra l'ennesima festa in casa, sperando di poter trovare la mia Vic del “Tempo delle mele” alla quale posare sulle orecchie la cuffietta con una melodia a cui non si poteva dire di no, le sciate sulle piste di Courmayeur e Cervinia e l'eterna competizione tra Pirmin Zurbriggen e Marc Girardelli (oggi qualcuno se li ricorda?), lo sprint di Mennea a Mosca ‘80, il calcio inglese alle primissime apparizioni sulle tv locali, lo sconosciuto Aston Villa che vince la Coppa dei Campioni, avevamo una carica ed un entusiasmo che ancora oggi, quarant’anni dopo, riesce a farci sentire sempre vivi.
In questo, si inserì nel 1982, ultima estate prima della maturità al liceo “Vittorino da Feltre” dei Padri Barnabiti, la vittoria al Mondiale di Spagna. La serata dell’11 luglio la ricordo come fosse ieri. Il rigore sbagliato di Cabrini, sul quale, secondo me, in quel momento si abbattè una sorta di benefico processo di rimozione collettiva, tra gli azzurri ma anche nei milioni di italiani allo stadio e davanti alla tv, che voleva spingere la squadra comunque verso la vittoria; il guizzo di Paolo Rossi, l’urlo epico di Tardelli e l’ultimo gol di Spillo che, come suo stile, esultò come se avesse segnato in una partita di scapoli-ammogliati su un campetto di periferia.
Gli anni ‘80, gli anni della nostra giovinezza, si aprivano, quindi, con una grandissima emozione per tutta l’Italia, e di questo bisogna essere grati per sempre ai giocatori ed ai tecnici di quella squadra.
Quello è stato davvero il decennio nel quale ci siamo formati, in cui abbiamo gettato le basi per diventare quello che siamo oggi; per questo, il Mundial dell’82, ma anche – allargando l’orizzonte - Michael Jackson, il Live Aid da Wembley, il coro di We are the World, Boris Becker che vince Wimbledon partendo dalle qualificazioni, le prime gare di Ayrton Senna e i duelli con Prost, sono stati come dei compagni di viaggio con i quali siamo cresciuti, ci hanno dato delle emozioni sul cui ricordo - parlo per me -, ancora oggi si può fare leva per superare i momenti di tristezza o difficoltà.
Ingenuità da ragazzi, si dirà. Forse è vero.
Peraltro, devo riconoscere che anche Maradona, e non solo la vittoria del 1982, è stato parte di questo processo collettivo. Tra i tanti ricordi del decennio, infatti, non riesco a dimenticare la diretta di Argentina – Inghilterra del 22 giugno 1986. Il primo gol, la “mano de Dios”, ed il secondo, il “gol del secolo”, li ho ancora vivi nella mia mente nel momento in cui si verificavano, inconsapevole, in quell'attimo, che stavo assistendo a qualcosa che sarebbe entrato nel mito del piccolo/grande mondo del pallone e oltre.
Certo, quel giorno non avevo più 14-15 anni, ne avevo quasi ventuno e, ormai all'Università, ero nel periodo della preparazione dell'esame di procedura penale, ovviamente “vecchio rito” sul mitico Cordero, che avrei dato da lì a pochi giorni, ai primi di luglio.
La partita la vidi nel salottino della casa dove – dopo mille giri per l'Europa ed il mondo - vivo ancora oggi e dove ho lo stesso studio di trentasei anni fa. Nella poltrona accanto, mia mamma, che sapeva appassionarsi al calcio come a tutte le cose belle della vita, e che, a partire dallo stesso anno in cui se ne andò Maradona, non la avrebbe occupata più, lasciandomela, vuota, tra i pensieri che riaffiorano e le dolci malinconie del tempo andato.
Davanti alla tv, quella sera, si viveva un momento che sarebbe entrato nella memoria di molti, condito dalla rivalità per la guerra delle Falkland/Malvinas, la tradizione di due nazioni insegnanti di football, lo scenario maestoso dello stadio Azteca di Città del Messico.
Ci gustammo la partita in una calda sera di estate da tenere già le finestre aperte di notte, un'estate a metà degli anni '80, mentre le note di “True Blue”, il nuovo album di Madonna, iniziavano a conquistare le radio italiane e risuonavano dalle autoradio delle macchine che si fermavano al rosso sotto le finestre della casa.
La palla roteava veloce su quel prato verde, liscio, che dalla tv sembrava tosato alla perfezione.
La partita era tesa, io non mi staccavo dal televisore, pensando che ogni passaggio, ogni tiro, ogni errore, potesse essere quello decisivo, mentre i giocatori, per il gran caldo (a Città del Messico era mezzogiorno o giù di là), dovevano rinfrescarsi spesso a bordo campo.
Poi, nell'equilibrio generale, i due lampi.
Ripensando oggi a quelle serate del 1982 e del 1986 davvero magiche, sentimenti contrastanti mi assalgono. Un po' di malinconia, per tante ragioni: perchè ero più giovane e la vita era ancora tutta da scrivere, per il tempo passato e chi si è portato via. Ma, non distinta, dolcezza; dolcezza perchè, forse, quel tempo non è passato invano, anche grazie a chi non c'è più, e un dolce languore per emozioni individuali di tanti anni fa, che erano anche componenti di emozioni collettive.
Oggi penso che chi regala belle emozioni, in fondo, regala amore, che poi, molto probabilmente, sarà l'unica cosa che avrà contato il giorno in cui lasceremo questa terra.
Se è così, anche se all'epoca non mi piaceva come persona, in realtà il nostro Diego si sarà conquistato un'ampia salvezza, perchè ha regalato un'infinità di emozioni a milioni di persone, e lo stesso gli azzurri dell’82 che se ne sono già andati, grazie a quella grandissima impresa coronatasi l’11 luglio di quaranta anni fa.
Quanto a me, finita la serata di Argentina-Inghilterra, il giorno dopo ripresi il mio studio sul Cordero; passai l'esame, e, sempre sullo scorrere degli anni '80, mi laureai ed affrontai il concorso di magistratura.
Superai l'orale, con la certezza di essere nei 300 del bando, il 28 novembre 1990.
Gli anni '80 erano, così, al tramonto: nel 1991 Maradona avrebbe smesso di giocare in Italia; Platini si era già ritirato da tempo; era finita l'Unione Sovietica, nel 1992 iniziava Mani Pulite e venivano uccisi Falcone e Borsellino. Una nuova pagina si apriva per l'Italia, per il mondo e, nel mio piccolo, per me.
Ma questa, è un'altra storia.
Giovanni Salvi
di Andrea Apollonio
Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, lascia la magistratura per raggiunti limiti d'età. Nei suoi 42 anni di servizio, sempre nei ruoli inquirenti (ad eccezione di una prima parentesi come pretore di Monza), ha visto l'Italia, e con essa la magistratura, cambiare volto. E, in un certo senso, proprio dei radicali cambiamenti dell'Italia repubblicana, Giovanni Salvi è stato testimone, occupandosene da una posizione investigativa privilegiata: la Procura di Roma (in cui ha prestato servizio dalla metà degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta), teatro delle inchieste giudiziarie sui grandi misteri italiani: dalla strage di Ustica all'omicidio Pecorelli, passando per la morte del banchiere Roberto Calvi.
Si è anche occupato del primo radicamento di Cosa Nostra a Roma per mano di Pippo Calò con i soldi dei corleonesi, e di uno degli ultimi - e più tragici - colpi di coda delle Brigate Rosse (l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona), prima di essere eletto, nel 2002, al CSM, punto d'arrivo del suo intenso impegno tra le file della magistratura progressista ed in quella associata.
Ed è ancora uno snodo della recente storia d'Italia che lo vede protagonista, questa volta da procuratore di Catania: l'immane strage dei migranti nel canale di Sicilia del 18 aprile 2005, in cui perse la vita un numero elevatissimo e imprecisato di migranti (oltre 700, forse 1000). A partire da quella strage l'Europa si avvede del problema migratorio ed avvia una sistematica politica di accoglienza, e contrasto dell'immigrazione clandestina; ma è intanto l'ufficio all'epoca guidato da Giovanni Salvi ad assicurare alla giustizia gli scafisti.
Immagini in Super 8 e in digitale che raccontano il suo lungo percorso. Eppure, di tutto ciò di cui si è occupato, raramente parla con chi ha il privilegio di frequentarlo, e mai in termini autoreferenziali: può succedere, questo sì, che ai colleghi più giovani mostri, delle sue indagini più importanti, qualche atto giudiziario da lui redatto, magari dattiloscritto e ammantato da un fascino d'archivio (una richiesta, una memoria), e solo per dare l'idea più tangibile e concreta di qualche suo discorso. Egli, per esempio, riflette spesso coi suoi interlocutori sul concetto di prova nel processo penale, riflessioni che ha puntualmente trasfuso, via via, nell'esercizio della giurisdizione. E, da Procuratore Generale della Cassazione, poteva capitare che si presentasse in udienza, magari davanti le Sezioni Unite, accompagnando i suoi interventi con fitte memorie: e anche qui, ne emergeva l'importanza della prova, e soprattutto di saperla riconoscere e valorizzare nel processo.
Ma va detto, soprattutto, che i tre anni di Giovanni Salvi alla Procura Generale sono stati gli anni di un rapporto (mai così) costante e proficuo con le Procure generali, impostato sul confronto e, all'esito, sull'emanazione di linee guida non vincolanti, ma utili per meglio orientare gli uffici di merito.
Anni, per inciso, segnati dalla pandemia: quella legata all'emergenza sanitaria da Covid-19, che ha avuto effetti devastanti sul funzionamento della giustizia; quella legata ai veleni dell'hotel Champagne, lo scandalo delle nomine correntizie che ha avuto effetti devastanti sulla credibilità della magistratura. E le ha dovute fronteggiare entrambe: la prima, elaborando orientamenti sulla colpa medica, sulla insolvenza delle imprese, sui sequestri dei vaccini, sulle misure cautelari (per evitare il sovraffollamento delle carceri), consentendo - in un momento tanto drammatico per il Paese - di uniformare l'azione penale in alcuni settori, pur preservandone il principio di obbligatorietà; la seconda, esercitando il potere disciplinare sui magistrati che si erano resi partecipi delle degenerazioni correntizie in punto di nomine.
Anni difficilissimi, che pure, se raccontati dalla sua viva voce, sembrano stemperarsi in un carattere mite, dubbioso e speculativo, di cui si coglie l'ironia - che Sciascia afferma essere la principale qualità dell'intellettuale, dacché consente di osservare le cose, e in primo luogo la propria vita, con disilluso distacco; qualità che innerva impercettibilmente i suoi discorsi, quale antidoto al peso, spesso opprimente, delle responsabilità (che tanto più sono gravi quanto più innescano, nell'intellettuale, il dubbio che tutto possa essere fatto meglio: così dovrebbe essere); e forse anche questo, assieme alle sue capacità organizzative, gli ha permesso di traghettare la magistratura inquirente italiana lungo i tre anni più intensi e riottosi di tutta la sua storia: anni di gratuiti e ingenerosi attacchi, all'intera categoria; e ancor più ingenerosi, alla sua persona, da fuori e dentro la magistratura. Nei quarantadue anni di servizio ha visto cambiare la magistratura, dicevamo: l'ha vista cambiare in peggio, purtroppo.
A proposito di Sciascia, scriveva di recente Giovanni Salvi: “Abbiano appreso da Sciascia la virtù del dubbio, l’impegno per la chiarezza della scrittura, la diffidenza verso il potere, anche quello che noi stessi esercitiamo”. L'esercizio del potere coltivato nel dubbio: un'antinomia, forse. O forse no. E le parabole di alcuni illuminati percorsi professionali, nella magistratura e non solo, sono lì a comprovarlo.
“La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica
di Bruno Montanari
Sommario: 1. Per una introduzione - 2. Una parola-chiave: “legittimazione” - 3. La colpa e il ragionevole dubbio - 4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa.
1. Per una introduzione
Il testo scritto da Tomaso Epidendio su “Giustizia Insieme “, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha un titolo inquietante, che invita il lettore ad una riflessione spregiudicata e a sua volta inquieta. Partiamo da alcune parole dell’autore: “Stiamo tutti vivendo − proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura…la fondazione di una magistratura interclassista cui si accede per meriti tecnico - giuridici accertati da pubblico concorso (art. 106 Cost.), costituita come ordine istituzionale… [autonoma e indipendente e dotata di potere effettivo disponendo della polizia giudiziaria] e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione -quella alla legge, ma ‘soltanto’ alla legge -…:un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione quella a una ‘legge’ di fronte alla quale… (art.3 Cost.)”.
Epidendio usa in questo brano un termine-chiave per l’ordinamento giuridico, e non solo per il nostro novecentesco, ma “chiave” per ogni potere effettivo, che abbia inteso assumere nella storia una configurazione di “sistema”, fondata su regole stabilizzanti: il termine è “legittimazione”. Termine, che sottolinea l’esigenza di giustificare un potere che un essere umano esercita, introducendo una disuguaglianza (comando-obbedienza), su di un altro essere umano, antropologicamente pari. Ecco perché ho qualificato quel termine come “chiave” e a buon diritto Epidendio lo ricorda, data la configurazione del potere affidato alla magistratura, nel suo complesso.
Tuttavia, il sogno è finito: il tema della “soggezione alla legge” (pur nelle diverse modalità di interpretazione consentite dall’ordinamento) è nei fatti superato, per le ragioni proprie della attuale visione del mondo, passate in rassegna dall’autore. Tale tema, infatti, nella prospettiva di molti, magistrati e dottrina, non sarebbe in grado di fronteggiare efficacemente le richieste di giustizia della società contemporanea. Occorre incamminarsi, allora, in quello che ormai viene definito “diritto vivente”, che si costruisce non più tramite l’interpretazione, ma attraverso una sorta di “oltrepassamento”, secondo la felice definizione di Mario Barcellona ([1]). “Il giudice – scrive Epidendio - è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di ‘sussunzione’ del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di ‘bilanciamenti’ di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili….Da organo soggetto ‘soltanto’ alla legge’…il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante…”
È vero, per restare ancora nel testo, che non si può restare laudatores temporis acti, ma neppure è possibile assumere l’accadere come l’ineluttabilità del fato (avrebbero detto gli antichi), ma occorre ancora esercitare la libertà intellettuale propria dello spirito critico formatosi nella tradizione filosofica e culturale della Modernità (con tutti i suoi inevitabili difetti).
2. Una parola-chiave: “legittimazione”
La riflessione che intendo prospettare può sintetizzarsi nel modo seguente. La parola-chiave è appunto, come ho già ricordato, “legittimazione”. Il potere funzionale esercitato dalla Magistratura, in quanto Organo indipendente dello Stato (il quale ultimo, perciò, si definisce “di Diritto”), ha il suo fondamento in quella determinazione costituzionale che ne stabilisce sia i modi di investitura nelle funzioni, sia i modi di esercizio del relativo potere (la subordinazione alla Legge). Allora il punto è in questa considerazione che contiene un interrogativo: se si è investiti in una determinata funzione, che si esprime attraverso l’esercizio di un potere, secondo le norme dettate dalla Costituzione, come è possibile esercitare quel potere, così formalmente fondato e determinato, secondo modalità in fatto diverse, che lo trasformano da “funzionale” in meramente “effettivo”? Detto con una sintesi rozza: l’ordinamento va bene per l’investitura e acquisire il potere, ma è possibile poi mettere da parte l’ordinamento allorché quel potere viene esercitato. Con una conseguenza assai rilevante per uno Stato di Diritto: mentre il primo potere è per definizione responsabile, il secondo potere è per definizione irresponsabile. È una mera questione epistemologica: mentre l’esercizio di una funzione implica sempre un giudizio conformità; al contrario, il fatto, in quanto accadimento, non si conforma a nulla, se non al suo stesso accadere, se così si può dire secondo l’epistemologia funzionalistica ([2]).
Ho ritenuto di affrontare un tema così delicato seguendo il paradigma epistemologico, che garantisce da interpretazioni politico-ideologiche. Intendo applicare questo medesimo paradigma ad un altro tema, altrettanto delicato, che ancora ho trovato nel testo di Epidendio: quello della differenza tra magistratura inquirente e requirente, innescato dalla riforma del processo penale che ha trasformato l’inquisitorio (sia pure temperato) in accusatorio. Dico subito, che la differenza tra inquisitorio e accusatorio è fondamentalmente epistemologica, in quanto dipende dalla differenza concettuale tra “colpa” e “accusa”: la “colpa” è oggettiva, l’accusa è soggettiva (ma di questo più avanti). E’ una distinzione così radicale che richiede, per coerenza, la distinzione delle carriere.
3. La colpa e il ragionevole dubbio
Andiamo per ordine. Innanzitutto il tema della verità processuale, come oltrepassamento ragionevole del dubbio: un marchingegno logico ma socialmente necessario.
Entrano in gioco, come è noto, due capisaldi del processo: il complesso probatorio ed il libero convincimento del giudice. Non si tratta di formule matematiche (lato sensu) per una possibile determinazione dell’evento, ma di due sguardi (rubo l’idea ad un autorevole filosofo del ‘900, Ernst Cassirer ([3]): quello dell’investigatore e quello del giudice. Alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, intesa come rappresentazione corrispondente ad una “verità” detta, appunto, “processuale”. Fictio terminologica, per la quale assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, per cui poi si spiega l’“oltre”.
La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio, per altro necessaria; ha perciò aggirato il problema, spostandone la soluzione sul tipo di legittimazione dei soggetti processuali, sulla legittimazione dei loro “sguardi”. In breve, la “verità” del giudizio dipende dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. È questo il contesto nel quale prende forma la configurazione dei due modelli processuali: l’inquisitorio e l’accusatorio.
Prova ne sia, che in quel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero in quel bellissimo libro che è Riti e sapienza del diritto ([4]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’“inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”. Contrappunto che, come ho già sottolineato, è legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’“accusa”. Il contrappunto: la “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’“accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento, operata dal magistrato dell’istruzione.
La “colpa”, quindi, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso. Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al giudizio di Dio, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica. A ciò segue che l’attribuzione della colpa è, dal punto di vista razionale, un atto di verità. È necessario, perciò, che un tale atto sia posto in essere da un soggetto strutturalmente legittimato ad esprimerla e deve essere fondato su di un dispiegamento probatorio analogo a quello di un esame scientifico. Nell’esperienza storico-istituzionale della “Modernità”, un tale compito appartiene allo Stato, ente sovrano, guardiano ed anche creatore della giustizia. Il giudizio ricostituisce l’ordine sociale turbato solo se è giusto; ed è giusto solo se è vero. Il mezzo per affermare la colpa è l’applicazione della legge tramite la sentenza, la quale conferma e qualifica come vero ciò che è già stato già ricostruito come vero.
In definitiva, affinché la giustizia soddisfi il suo legame con la verità, occorre che il magistrato inquirente sia un ricercatore di verità. Magistrato inquirente e magistrato giudicante si presentano entrambi sulla scena processuale, sia pure in momenti differenti, come “bocca della legge”, poiché è quest’ultima - la legge – che realizza la giustizia, declinando insieme ricerca della verità e diritto. È epistemologicamente corretto, perciò, che le due figure siano indifferenziate nella loro qualificazione e configurazione ordinamentale.
4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa
Il paradigma concettuale dell’“accusa” è del tutto differente.
“Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, riposa sull’idea che la verità umana si manifesti in via argomentativa e dialettica: un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. In un tale contesto, l’offesa colpisce l’uomo e la società, prima ancora che il “cittadino” in quanto membro dello Stato. Quest’ultimo, lo Stato, assolve ad una funzione organizzativa e strumentale. Emergono allora due caratteristiche legate al modello. La prima: nella possibile tensione tra libertà individuale e difesa sociale, di principio prevale la prima. La seconda caratteristica ha per oggetto il profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa corrispondono a soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una ipotesi argomentativamente sostenibile, attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa ipotesi, attraverso altri elementi di prova.
Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari. Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.
In definitiva, nel modello accusatorio l’investigatore è sicuramente un magistrato, sia per l’indipendenza della sua investitura sia per il modello argomentativo che lo porta a rappresentare determinati eventi come “fatti” costitutivi di “elementi” di prova, per prospettarli come ipotesi per una accusa sostenibile, da sottoporre alla valutazione probatoria dell’organo giudicante. Ne segue, per coerenza epistemologica, che si tratta di due profili di magistrati, quello requirente e quello giudicante, concettualmente e strutturalmente distinti; di qui la distinzione delle carriere.
In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”.
Non v’è dubbio: il testo di Tomaso Epidendio suscita davvero l’esercizio di un pensiero “critico” (nel senso kantiano del termine) su tematiche che investono e turbano nel profondo il nostro attuale sistema istituzionale.
[1] Cfr., Norme e prassi giuridiche: giurisprudenza usurpativa e interpretazione funzionale, Mucchi ed. Modena 2022
[2] Cfr., N.Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, tr.it Laterza, Bari 1985.
[3] Cfr., I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R. Puttello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015
[4] Laterza, Bari 1981.
Quaranta anni fa. 5 luglio 1982
di Paolo Spaziani
“Telespettatori italiani, buongiorno da Barcellona”.
Così, alle 17.15 di quarant’anni fa, con la magica voce di Nando Martellini, cominciava un bellissimo sogno dove il verde-oro, allegro e brillante, sarebbe stato sopraffatto dall’azzurro, dapprima timido, indi spregiudicato, infine trionfale.
Il verde-oro era sulle bandiere festanti che sventolavano da Plaça de Catalunya al Barrio Gotico, animando la Rambla e il vicino mercato della Boqueria; nelle ragazze di Bahia, di Belo Horizonte, di Rio, che danzavano sugli spalti del vecchio Estadio de Sarrià; nelle stelle che avrebbero illuminato il prato dell’Español: Zico, Falcao, Cerezo, Socrates, Junior. Tra queste, forse ancora più brillante delle altre, quella del bellissimo Eder Aleixo de Assis (corsa e sinistro irresistibili e una storia romantica di ragazzo maudit alle spalle) che dalla strada del Minais Gerais, era diventato l’idolo delle ragazze di tutto il mondo.
L’azzurro, meno luminoso ma rasserenato da una crescente fiducia, era nei torpedoni tricolori che avevano percorso la Via Laietana e risalito la teleferica del Mont Juick; nei ventimila italiani che dalla Casa Batllot, da Parc Guell e dalla Sagrada Familia, erano confluiti ordinatamente verso il vecchio stadio, che per una volta (forse l’unica volta) avrebbe sottratto la ribalta al superbo Camp Nou; nell’entusiasmo che in cuori intorpiditi ma ancora vivi avevano ridestato qualche giorno prima Tardelli e Cabrini, battendo vittoriosamente Fillol, il portiere campione del mondo; infine, nell’aroma del virile ma raffinato tabacco che avvolgeva l’incedere di un gentiluomo friulano: nel fresco, signorile portamento con cui - giacca sulle spalle, camicia moderatamente arrotolata, cravatta e occhiali da sole, pipa fumante in bocca - era entrato sul terreno di giuoco incandescente di trentacinque gradi, detergendolo con la sua eleganza.
Dopo Bearzot, il padre, ecco i figli: Zoff, il maggiore, Gentile (ha appena ricevuto l’istruzione che dovrà marcare l’avversario più temibile, il funambolico Artur Antunes Coimbra, detto "Zico"), Scirea, Rossi (avrebbe voglia di piangere, non sa ancora che farà piangere il Brasile), Antognoni, Graziani (la spalla fedele, il silenzioso alleato di Paolino) e, infine, dopo tutti gli altri, timido, il più piccolo, che il vero papà ha perduto, ma ha trovato tanti fratelli, Beppe Bergomi (non sa ancora che dovrà giocare a 18 anni la partita del secolo senza ancora averne giocato alcuna, ma è pronto, come tutti).
Brasileiro Sampaio de Sousa Vieira de Oliveira è il capitano dei verde-oro: è il volto pulito di una nuova generazione di brasiliani: è un calciatore ma è anche colto, sa di storia e di filosofia: lo chiamano “Socrates”; è un calciatore, ma è anche laureato in medicina; è un calciatore, ma è anche un attivista dei diritti civili e politici: nella sua squadra, il Corinthians, ha fatto scrivere sulle magliette una parola sinora vietata non solo in Brasile, ma anche in Argentina, in Cile, in quasi tutto il Sud America: la parola “Democracia”.
Si giuoca a pallone, finalmente; si giuoca un calcio che, rivisto oggi, sa di tesoro perduto, di preziosi smarriti, di gioielli depositati da qualche parte, lontana, e lì dimenticati.
Ecco, nell’ordine, i tesori contenuti nello scrigno.
Dribbling secco di Conti su Eder; esterno sinistro a cercare Cabrini sull’altra fascia; traversone a rientrare in area (della serie: quando una volta ti insegnavano a crossare); colpo di testa di Paolino a spiazzare il portiere e a mettere la palla sul palo lungo: 1-0 per l'Italia.
Fraseggio a metà campo tra Cerezo e Junior, palla a Zico; non si capisce come faccia: si libera di Gentile con un dribbling rapidissimo e funambolico e di destro accarezza la palla smarcando Socrates in area; diagonale da biliardo sul primo palo a trafiggere un incolpevole Zoff: 1-1.
Rinvio di Valdir Perez sul proprio terzino; pallone a Cerezo che di piatto cerca un difensore centrale; scatto felino di Rossi a ghermire la palla tra Junior e Luizinho; collo pieno a bucare l’uscita del portiere: 2-1 per l’Italia.
Avanzata elegante di Leovigildo Junior sulla sinistra; conversione al centro ed esterno destro per Falcao: Paulo Roberto ha la palla sul destro; finge di servire Cerezo, smarcatosi sulla fascia; la finta disorienta tutta la difesa e crea il vuoto dinanzi a Zoff; Falcao torna sui suoi passi, si porta il pallone sul sinistro (quel sinistro che non sapeva di avere) e di collo esterno pareggia i conti: forse Zoff l’avrebbe presa se la coscia di Bergomi non l’avesse, quasi impercettibilmente, toccata; ma è un dettaglio: quella dell’ottavo re di Roma è una prodezza che si ricorderà finché esisterà il calcio: 2-2.
Antognoni cerca un varco sulla sinistra e crossa trovando deviazione difensiva e calcio d’angolo; sul corner di Conti, prova il gran tiro a volo, dal limite, Tardelli; per qualche strano incantesimo la palla finisce ancora tra i piedi di Paolino, che sigla la sua tripletta: 3-2 per l’Italia.
Paolino Rossi da Prato, uno dei più grandi centravanti che la storia del calcio ricordi, aveva cominciato a scrivere la propria quattro anni prima, in Argentina. Era una storia contraddittoria come quella del paese in cui veniva scritta, dove le urla disperate delle madri dei ragazzi gettati nel Rio de la Plata, poco oltre il maestoso delta del Paranà, tra Buenos Aires e Montevideo, si confondevano con i caroselli festosi dei tifosi che uscivano dagli stadi di Cordoba, di Mar del Plata, di Rosario.
In una piccola parentesi felice costretta dentro quell’immonda disperazione, Paolino aveva ridimensionato la Francia, aveva sconfitto l’Ungheria, aveva raccolto la classe del tocco di Causio contro l’Austria, aveva sublimato il gioco più bello del mondo nel sontuoso triangolo con Bettega in una splendida notte nel cuore di Baires.
Poi, tornato in Italia, aveva pianto anche lui per un’offesa ingiusta, un’ingiuria immeritata, che gli aveva tolto tre anni di calcio e forse più di vita.
Ma, come il Sud America risorgerà a nuova vita anche grazie alla parola “Democracia” stampata sulle maglie della nuova generazione di giocatori simboleggiata da Socrates, anche Paolino ora risorge, e diventa (ora e per sempre) Pablito, colui che ha fatto tre gol ad un Brasile che forse non è la più forte squadra di tutti i tempi solo perché, dodici anni prima, un altro Brasile aveva cinque numeri 10 e uno dei cinque si chiamava Pelè.
Paolino diventa, per la storia del calcio, “Pablito” intorno alle 18.30 del 5 luglio 1982, sul prato dell'Español, mentre il sole tramonta dietro Parc Guell, mentre il caldo afoso di Barcellona degrada in una fresca serata, mentre si illuminano le luci sulla Rambla, e tutta la Costa Brava si accende di un rosso scarlatto.
Ma la partita non è ancora finita.
Sulla tre quarti sinistra, l’israeliano Abraham Klein (che ha un figlio al fronte in Libano e ha arbitrato solo perché glielo ha chiesto lui, in una telefonata da Beirut) comanda un calcio di punizione per il Brasile. Sulla palla vanno Eder e il suo temibile sinistro. Il cross in area è perfetto (della serie: una volta sapevano crossare). Anche il colpo di testa di Oscar è preciso, all’angolino, forse addirittura imparabile.
Per gli altri, ma non per Zoff, che si getta sul pallone con il peso dei suoi 40 anni e la sua immensa classe, bloccandolo a terra prima che varchi la linea del gol.
Vi era stato, poco prima, anche un gol di Antognoni, da ricordare perché il nostro talentuoso numero 10 non potrà giocare la finale e avrebbe meritato che quel gol gli fosse assegnato, anche perché era valido; ma l’arbitro lo aveva annullato.
A quarant'anni da allora, rinchiuso lo scrigno, resta la sensazione di aver vissuto qualcosa di meraviglioso: forse perché io e mia sorella avevamo 12 e 7 anni e avevamo accompagnato nostro padre, ispettore del tesoro, ad una missione alla cartiera di Fabriano, per tutto il mese di luglio; forse perché eravamo sicuri che l'Italia avrebbe vinto tanto da scommettere con tutti i colleghi del papà un gelato al giorno alla zuppa inglese di Otello, il cui profumo ancora mi sembra di sentire mentre si spande nel parco della bella cittadina marchigiana ove si trovava il suo bar.
Dopo il fischio di Klein, mentre tutti si abbracciavano, rimanemmo incollati allo schermo del televisore che Otello aveva sistemato fuori dal bar, sui tavoli ordinatamente disposti al fresco del parco. Col cono in mano e la zuppa inglese gocciolante, prima che fosse chiuso il collegamento in Eurovisione, tra i momenti del post-partita ve ne è uno che non abbiamo mai dimenticato: il momento in cui, in mezzo al campo, quasi silenziosi tra le feste altrui, si abbracciarono Bearzot e Rossi.
Non erano un allenatore e un giocatore; erano il padre e il figlio che si trovavano nel luogo in cui si erano dati appuntamento: orgogliosi il padre per aver creduto nel figlio e il figlio per essere andato oltre le stesse attese del padre. In quel “loro” momento non c’era più il Brasile, la partita, il Mundial. Questi erano accidenti che avevano lasciato il posto alla sostanza: c’erano solo loro due, il loro reciproco affetto, il loro bene: il loro essere figli di un mondo migliore, un mondo fatto di uomini.
L’indipendenza del giudice dipendente del MEF, ossimoro di una riforma che gioca d’azzardo
di Francesco Tundo*
Sommario: 1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento. - 2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo. - 3. Il nuovo status del giudice tributario. - 3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia. - 4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione. - 4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest? - 5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini. - 5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie. - 6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento.
Il Disegno di Legge AS 2636, presentato in Senato dal Governo il 1° giugno 2022, è stato salutato dai primi commentatori con parole di grande apprezzamento e toni addirittura enfatici. Ad un esame più ponderato, tuttavia, ne sono emerse le criticità, opportunamente messe in luce dagli studiosi e dagli osservatori più attenti, così come nel corso delle audizioni informali del 28 giugno dinanzi alle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze.
È indubbio che il dibattito intorno all’assetto della Giustizia Tributaria ha subito un’intensa accelerazione, anche per il fatto che la riforma rientra fra i traguardi individuati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Prima ancora del PNRR, tuttavia, nel corso di questa legislatura si è potuto assistere ad una formidabile osmosi culturale tra Accademia, operatori del settore e iniziative parlamentari. Tanto fermento riformista è stato accompagnato da un grande protagonismo del Parlamento, ove peraltro le numerose proposte di legge presentate nel corso della legislatura, sia alla Camera che al Senato, rivelano un inedito comune sentire circa gli elementi strutturali che dovrebbero caratterizzare la Giustizia Tributaria. Un protagonismo da salutare con grande favore. Perché segna una centralità del Parlamento nella materia tributaria che, auspicabilmente, dovrebbe ulteriormente consolidarsi. E anche perché le iniziative del Parlamento scaturiscono all’esito di un lungo ed articolato débat public che conferisce ad esse maggior valore.
Anche il Governo ha dato riscontro alla necessità di un intervento. Dapprima, nel 2021, con l’istituzione di una Commissione presso i Ministeri della Giustizia e dell’Economia, la quale, come noto, non ha purtroppo prodotto una relazione unitaria. Poi con i lavori di una seconda Commissione (singolarmente definita “tecnica”, come se quella precedente avesse avuto una natura diversa), che hanno portato al Disegno di Legge qui in esame. È verosimile ritenere che l’insormontabile difficoltà di conciliare le posizioni delle due anime della Commissione precedente abbia contribuito all’esito non pienamente soddisfacente del Disegno di Legge governativo, per effetto della ricerca di una sintesi sostanzialmente impossibile.
Il fatto è che, più che questioni di tecnica giuridica, delle quali dirò in appresso, siamo al cospetto di rilevanti scelte politiche, che non possono che aver luogo in Parlamento. In un Parlamento che ha ormai acquisito una piena consapevolezza delle determinazioni da assumere, essendo altresì all’esame delle medesime Commissioni molti dei disegni di legge di iniziativa parlamentare. Sono molto chiare le opzioni, le posizioni in campo, le opinioni degli studiosi, le istanze e le “pretese” delle parti interessate. Sono persino stati smascherati gli opportunismi di chi ha intravisto, nell’imminente riforma, inaspettate opportunità professionali e ha provato a piegare l’interesse collettivo a fini di vantaggio di una sola parte.
È, insomma, il momento che gli addetti ai lavori, i tecnici, i portatori di interessi di categoria, gli “oscuri funzionari di gabinetto” dei quali così tanto diffidava Enrico Allorio[1], lascino il campo al dibattito parlamentare perché siamo innanzi ad un vero e proprio bivio nelle scelte attinenti al modello di tutela dei contribuenti dalle pretese del fisco e dunque, a pieno titolo, nell’ambito delle grandi valutazioni politiche.
2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una graduale erosione dell’area delle tutele giurisdizionali, a tutto beneficio del rafforzamento delle prerogative delle Agenzie fiscali, che oggi vanno ben oltre la loro missione originaria e si ergono persino a giudici dei loro stessi atti. Ciò concorre a far sì che il numero delle liti davanti ai giudici sia in costante diminuzione. Ma c’è di più e non sempre i numeri spiegano tutto. Il fatto è che tra l’aumento delle liti potenziali concordate direttamente con gli stessi uffici e l’esorbitanza a vario titolo delle attribuzioni delle Agenzie, il contribuente è stato surrettiziamente indotto, nel tempo, ad una percezione, per così dire, strabica dei suoi diritti, convincendosi che il modo migliore per farli valere sia di rivolgersi al medesimo ente che lo sottopone ai controlli e che contesta il suo operato. Niente di più sbagliato.
In uno Stato di diritto il cittadino deve, prima di tutto, poter contare su un giudice imparziale ed indipendente e ciò anche nella materia fiscale. Oggi, invece, corriamo il rischio che, con il pretesto del PNRR e dell’urgenza delle riforme da esso richieste, la tutela rispetto alle pretese del fisco venga definitivamente consegnata alla stessa amministrazione pubblica che spicca le contestazioni. Il progetto governativo, infatti, sembra l’ultimo miglio di un percorso che, come la macchina del tempo, ci riporta a sorpresa alla situazione del secolo scorso, quando le Commissioni Tributarie erano articolazioni interne alla stessa Amministrazione e i contribuenti non avevano alcun giudice al quale rivolgersi. E’ un prezzo troppo alto, che non ci possiamo permettere di pagare. Occorre dunque che il Parlamento ponga rimedio: è ancora possibile.
3. Il nuovo status del giudice tributario.
Il DDL 2636, più che costituire l’attesa riforma ordinamentale della Giustizia tributaria, si limita ad una revisione dello status dei giudici. Una misura indubbiamente di grande rilievo e a lungo attesa ma che attiene ad una sfera molto limitata delle possibili aree di intervento. Si tratta, insomma, di un intervento più circoscritto rispetto alle prospettive offerte dalle iniziative parlamentari che invece delineano, tutte, ipotesi di riforma di ben più ampio respiro.
Tengo a sottolineare che, a mio avviso, la Giustizia Tributaria ha dato buona prova: è noto che i giudizi, nella fase di merito davanti alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sono assai più rapidi rispetto a quelli innanzi alla Giustizia ordinaria. Non è, tuttavia, solo una questione di numeri, dato che anche la qualità delle sentenze tributarie di merito è apprezzabile e le Commissioni Tributarie si sono rese protagoniste dell’inaugurazione di filoni giurisprudenziali che talvolta sono culminati con mutamenti di indirizzo della Corte di cassazione.
Tuttavia la complessità sempre crescente del diritto tributario impone ormai un impegno a tempo pieno e dunque l’introduzione del giudice assunto a tempo indeterminato mediante concorso è da accogliere con indubbio favore.
3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia.
Proprio sul concorso che dovrebbe portare all’assunzione dei nuovi Giudici tributari s’incentra, tuttavia, un primo, evidente, inciampo del progetto governativo.
Il DDL 2636 reca una disciplina (eccessivamente) minuziosa per accedere ai ranghi dei futuri magistrati tributari e, in essa, stringenti requisiti per la partecipazione al concorso, che fanno unicamente riferimento alla laurea in giurisprudenza, così escludendo implicitamente altre competenze ed altri percorsi di studio e di laurea, e in particolare quelli in economia.
Una siffatta preclusione non è coerente con la natura del diritto tributario, il quale richiede competenze necessariamente sincretiche: oggi non si può giudicare se non si conoscono il diritto tanto quanto i bilanci e i principi contabili, l’economia aziendale, la fiscalità internazionale e così via. A chi l’ha proposta, a chi l’ha scritta e a chi la difende, occorrerebbe dare da leggere i lavori della Costituente. Ezio Vanoni, che non faceva parte della sezione competente in materia di giustizia, chiese di prendervi parte per porre in luce le esigenze attinenti alla difesa dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che a suo avviso non erano adeguatamente tutelate. Sviluppando una serie di considerazioni ancora oggi straordinariamente attuali, concluse per l’opportunità di una giurisdizione tributaria che fosse idonea a contemperare l’esigenza di rapidità del giudizio con la competenza giuridica e le cognizioni tecniche richieste al Giudice in una materia così peculiare come il diritto tributario[2].
Inoltre, ai propugnatori della conseguente iniziativa che, ostentando una certa sicumera, pretenderebbero l’esclusiva delle difese tecniche davanti alle Commissioni Tributarie, quasi spettassero loro per diritto divino, cercando di escludere i dottori commercialisti, gioverebbe leggere la costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima ha sempre sostenuto che il diritto di difesa garantito dall’art. 24, Cost. è diversamente modulabile dal legislatore, che può disciplinarne l’esercizio secondo valutazioni discrezionali, con il solo limite della non irrazionalità delle scelte[3].
Se l’esclusione dei laureati in economia è priva di senso, ciò vale a maggior ragione in un momento in cui i piani di studio delle Scuole di Economia offrono percorsi formativi che, in certi casi, possono essere addirittura più idonei di altri ad assicurare le conoscenze tecniche e a creare la forma mentis per l’esercizio della funzione giurisdizionale tributaria. Aprire la possibilità di partecipare al concorso a più classi di laurea avrebbe un effetto benefico sulla composizione dei futuri collegi, le cui competenze sarebbero altrettanto composite, così come le materie sulle quali essi dovranno pronunciarsi.
S’impone dunque un intervento emendativo sul punto, accompagnato in parallelo da una revisione delle materie indicate quali oggetto del relativo concorso che, oltre a non essere pienamente condivisibili (si pensi alla singolare previsione del “diritto internazionale privato” o del diritto penale tout court!), sembrano delineate più per dare una giustificazione plausibile alla circoscrizione dell’accesso ai laureati in giurisprudenza che per prefigurare una competenza professionale idonea all’esercizio della funzione giurisdizionale in materia tributaria.
4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione.
Se un indubbio passo in avanti del DDL 2636 è costituito dalla professionalizzazione del Giudice tributario, è sul terreno dell’indipendenza dei Giudici – che costituisce la più preziosa materia prima della giurisdizione – che la riforma risulta, purtroppo, molto deludente.
Il cordone ombelicale col Ministero dell’Economia è unanimemente ritenuto inopportuno e da recidere. Non è un caso che proprio in questa direzione vadano tutti i progetti di legge parlamentari, che prevedono il passaggio della Giustizia Tributaria alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia. Non è un caso, soprattutto, che non vi sia alcun sostenitore dell’opportunità della permanenza organica nel MEF dei futuri magistrati tributari di ruolo che abbia avuto il coraggio di sostenere la sua posizione a viso aperto né, oggettivamente, alcuna plausibile ragione di siffatta appartenenza organica.
I futuri magistrati, a differenza di quelli attuali, saranno selezionati con concorsi governati dal Ministero dell’Economia e, non si possono usare perifrasi, diventeranno addirittura dipendenti di quest’ultimo, il quale concorrerà persino al controllo ispettivo sulle modalità di esercizio della giurisdizione.
Insomma, siamo dinanzi ad un’opzione che determina un impoverimento della caratura giurisdizionale degli organi preposti alla tutela e, al contempo, imprime una sterzata verso un assetto burocratico-amministrativo. Esattamente il contrario degli obiettivi dichiarati. Esattamente il contrario delle aspettative di tutti, dagli studiosi ai componenti del Parlamento che hanno avanzato proposte di legge tutte in direzione opposta, alle categorie professionali. Esattamente il contrario della soluzione più logica e più coerente con il percorso di revisione costituzionale che ha connotato le commissioni tributarie lungo tutta la storia repubblicana.
Tale situazione è più gravemente compromessa nella misura in cui il DDL 2636 finisce per indebolire le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, negandogli quella funzione di di contrappeso all’ingerenza del potere politico caratteristica di tutti gli organi di autogoverno e, nel nostro caso, di argine alla pervasività del MEF.
Si tenga ad esempio conto che – ferma restando l’attuale disciplina degli artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 545 del 1992 – il DDL istituisce un “Ufficio ispettivo” presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, volto secondo la Relazione illustrativa a “garantire una vigilanza efficace sull’attività giurisdizionale svolta presso le Commissioni tributarie, disponendo ispezioni nei confronti del personale giudicante”. Tuttavia, all’istituzione di tale Ufficio non si accompagna una riserva a esso in via esclusiva delle attribuzioni in materia, e anzi la Relazione precisa che “[d]etto Ufficio può svolgere attività congiunte con il competente Ufficio Audit della Direzione della Giustizia Tributaria del Dipartimento delle Finanze, al fine di effettuare i controlli di rispettiva competenza”.
Non si vede perché istituire presso il Consiglio di Presidenza un apposito Ufficio Ispettivo senza trasferire allo stesso attribuzioni oggi di competenza del MEF, ciò che avrebbe avuto un significativo effetto di miglioramento dell’indipendenza dei giudici tributari.
Del resto, non è un lapsus calami che nel DDL governativo rimanga anche la secolare denominazione di “commissioni tributarie”, a differenza di tutte le proposte parlamentari, che optano per “tribunali” e “corti d’appello”. Queste ultime sono denominazioni più coerenti con la natura di giudici veri e propri, più volte confermata dalla Corte costituzionale, ma che oggi rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Non è una questione puramente formale, quella della denominazione, perché concorre alla “retrocessione” alla natura amministrativa degli organi giudicanti, quando invece avrebbe dovuto confortarne la definitiva consacrazione giurisdizionale.
Il problema è che tutto ciò non è il frutto della volontà parlamentare e dunque di quella “popolare”, che, infatti, propugnano una soluzione diametralmente opposta.
La ragione è nota a tutti: è il Ministero dell’Economia che non intende rinunciare al rapporto organico con chi decide le cause che riguardano le sue Agenzie fiscali. L’interesse alla tutela delle entrate pubbliche, tuttavia, non può fare premio su tutto, non può pretermettere le regole dello Stato di diritto. C’è di più: è assai evidente come su questo specifico tema vi sia un preoccupante dualismo tra Parlamento e Ministero, che merita di essere risolto al più presto.
Intendo essere molto chiaro: l’appartenenza organica della giurisdizione tributaria al Ministero dell’Economia e delle finanze, che è la controparte sostanziale dei contribuenti, per mezzo delle sue Agenzie, è inconciliabile con i requisiti di indipendenza, terzietà, imparzialità del Giudice ed è incompatibile con la Costituzione.
La pervicacia nel perseguire la soggezione dei Giudici al MEF mette in gioco l’incolumità di tutto l’impianto. Dirò di più: la mia sensazione è che con questa scelta si compia un vero e proprio azzardo, essendo facile prefigurare numerose questioni di legittimità costituzionale che nei prossimi anni determineranno una vasta incertezza, una vera e propria ipoteca sul futuro dei giudici tributari, che potrà minare la credibilità della giurisdizione e renderla instabile.
4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest?
Non è un caso, insomma, che le opinioni prevalenti degli studiosi, degli operatori e tutti i progetti di legge parlamentari, vadano in direzione opposta al DDL governativo e prevedano il passaggio dei futuri giudici di ruolo alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia.
In breve, il DDL 2636 prende le distanze da quel progressivo percorso di giurisdizionalizzazione della Giustizia tributaria che costituisce la cifra distintiva della sua storia, ossia quel percorso che parte da lontano e che con passaggi incrementali – in una graduale e virtuosa azione congiunta del legislatore e della Corte costituzionale – ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale e la conformità a Costituzione. Siamo a ottant’anni esatti dalla pubblicazione del “Diritto processuale tributario” di Allorio, che guardava a un primo sistema processuale che già nel 1942 si era allontanato dal contenzioso amministrativo. Da allora in avanti, e soprattutto dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, abbiamo assistito a quella che potremmo definire una “revisione progressiva”, che ha via via superato il vaglio della Corte Costituzionale e ha contemperato i limiti dell’art. 102, Cost.
Una revisione progressiva che non in pochi mesi, ma in alcune decine di anni, ha portato alla situazione attuale, con graduali interventi su un sistema che non è immodificabile purché ciò avvenga ad opera del Parlamento (cfr. Corte cost. 41/1957) e, aggiungerei, “non forzando la mano” al Parlamento.
La professionalizzazione del Giudice, insomma, è l’ultimo passo di un cammino che parte da lontano e che con un’azione congiunta, meglio, “combinata” del legislatore e della Corte costituzionale, ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale.
Ma nel momento in cui è conclamata la natura giurisdizionale delle Commissioni, e – soprattutto - i giudici sono assunti a tempo indeterminato, allora il tema dell’indipendenza del Giudice – in tutte le sue sfaccettature – diviene decisivo. Ed è proprio su questo che il DDL non raccoglie la sfida, anzi incrementa la sfera d’influenza del MEF sulla Giustizia Tributaria.
Calamandrei sosteneva che il giudice diventa strumentum regni nei regimi totalitari[4]. Non è il nostro caso, certo, ma rimane il fatto che il progetto governativo delinea un giudice sottoposto alla tutela di chi, per missione istituzionale, ha più dimestichezza con le entrate pubbliche che con i delicati equilibri tra i poteri dello Stato e tra questi e i cittadini.
Attenzione, peraltro, a dare credito alle strumentali accuse di disfattismo rivolte a chi insiste per il distacco dal MEF della giustizia tributaria: la riforma non sarebbe affatto impedita da questa misura, tutt’altro. Per passare ad un altro Ministero e rendere la riforma conforme a Costituzione è sufficiente un emendamento “prelevato” da uno qualsiasi dei molti progetti di legge che pendono in Parlamento.
5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini.
Occorre rammentare che l’obiettivo perseguito dal DDL e fissato, prima ancora, dal PNRR, è quello di alleggerire l’imponente carico di lavoro della Sezione tributaria della Corte di cassazione e il conseguente efficientamento delle tempistiche della Giustizia Tributaria
Senonché, è proprio la più efficace misura per raggiungere tale obiettivo – ossia l’istituzione per legge di una Sezione tributaria della Corte, composta anche dai nuovi Giudici tributari – a mancare nel DDL 2636. Se fosse adottata, si potrebbe consentire, tra l’altro, di diventare giudici della Cassazione (tributaria) anche ai futuri magistrati tributari di ruolo. Questo garantirebbe loro un lungo periodo di studio e preparazione sul campo prima di approdare alla Suprema Corte e sarebbe il modo migliore per assicurare un più efficace esercizio della funzione nomofilattica.
Con il DDL invece sono purtroppo destinati a diventare giudici della Sezione Tributaria della Cassazione, come accade già ora, solo magistrati che nel corso della loro lunga e qualificante esperienza non hanno mai praticato, nemmeno per un giorno, il diritto tributario, che invece richiede anni di studio e di dedizione professionale.
Se le cose rimarranno così come sono, poi, c’è anche da interrogarsi sulle conseguenze di un soffitto di cristallo così rilevante alla carriera dei futuri magistrati tributari: che tipo di appeal potrà esercitare questa professione per i più meritevoli e capaci di essi? Verosimilmente scarso, costituendo semmai una sorta di “parcheggio professionale” in attesa di un approdo presso un’altra, più gratificante, magistratura e dunque un continuo turn over, che significa un livello di qualificazione al di sotto degli standard necessari.
5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie.
Il DDL 2636 costituisce un curioso caso nel quale uno strumento processuale – mi riferisco al rinvio pregiudiziale di cui all’art. 2, comma 2, lett. g), del DDL, che inserirebbe un nuovo art. 62-bis all’interno del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – determina ripercussioni ordinamentali.
A norma dell’art. 62-bis, cit., al ricorrere di particolari condizioni, le Commissioni Tributarie di primo o secondo grado potranno, d’ufficio, investire direttamente la Corte di cassazione della “risoluzione di una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia”.
Ritengo che l’istituto, per come è stato configurato, sia meritevole di miglioramento.
Esso non richiede in alcun modo un impulso di parte, e questo potrebbe comportare una violazione dell’art. 25, Cost., nella misura in cui priva le parti del proprio Giudice naturale. Ciò, in particolare, una volta che si raffronta tale istituto con quello pensato dal legislatore processualcivilistico e inserito fra i criteri direttivi della legge delega n. 206 del 26 novembre 2021. I due strumenti risultano, sulla carta, speculari fra loro: simile è il meccanismo di funzionamento, così come le ragioni che ne giustificherebbero l’introduzione nei rispettivi sistemi processuali. Tuttavia, se si raffrontano le due disposizioni, emerge una differenza strutturale assai significativa, che rischia di compromettere l’istituto processuale tributario.
La differenza sta in ciò, che se i requisiti previsti per il rinvio pregiudiziale tributario risultano fra loro alternativi – come si evince dal fatto che il comma 1 dispone che il rinvio è esperibile se “ricorre almeno una delle seguenti condizioni” – quello previsto dalla legge delega è subordinato al ricorrere di tutte le condizioni ivi previste congiuntamente.
Che nell’ambito processualcivilistico i requisiti debbano sussistere congiuntamente si evince oltre che dal dato letterale della norma anche dalla Relazione finale della Commissione Luiso – la quale aveva appunto proposto l’introduzione del rinvio pregiudiziale – ove si legge che il rinvio opererebbe “in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto”.
Una siffatta differenza, oltre a dilatare oltremisura l’ambito di applicazione del rinvio in ambito tributario, ne tradirebbe anche la ratio.
È infatti evidente che nell’ambito processualcivilistico l’intervento della Corte di cassazione si porrà alla stregua di una extrema ratio, con riguardo a ipotesi nelle quali – data la necessaria sussistenza di tutti i requisiti richiesti dalla norma – una pronuncia di legittimità risolverebbe una questione di diritto nuova, di seria difficoltà interpretativa, nonché dal carattere “seriale”. In altri termini, il “ribaltamento” dell’ordine processuale si giustificherebbe vista l’eccezionalità e particolarità della questione sottoposta alla Suprema Corte e alle sue vaste ripercussioni per una platea assai ampia di interessati.
Viceversa, in ambito tributario, lo scollamento fra i vari requisiti priva l’istituto della sua identità originaria e finisce per tradirne la natura atteso che, più che riguardare fattispecie eccezionali, esso potrebbe trovare sempre applicazione.
Lo iato strutturale fra i due istituti è ulteriormente dilatato dal fatto che – oltre che disgiungere i requisiti previsti per esperire il rinvio – il DDL scinde il requisito previsto in maniera unitaria dalla legge n. 206 del 2021, di cui al punto 1.1. della lett. g) – secondo il quale la questione dev’essere “esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza” – in due differenti requisiti, fra loro distinti, di cui alle lett. a) e b) dell’art. 62-bis.
Dunque, anche tale scissione, se valutata unitamente al carattere alternativo dei requisiti previsti per l’esperibilità del rinvio pregiudiziale tributario, finisce per dilatarne ulteriormente l’ambito di applicabilità, atteso che basterebbe a tal fine una questione la presenza di una questione “nuova” – lett. a) – oppure esclusivamente di diritto nonché di particolare importanza “per l’oggetto o per la materia” – lett. b).
Lo spettro della disposizione è talmente ampio da poter riguardare, virtualmente, qualsivoglia controversia fiscale: pertanto, un siffatto strumento processuale potrebbe semmai portare all’ulteriore ingolfamento della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, anziché giovare alla celerità del processo – e ciò impatterebbe, a cascata, anche sul rispetto del canone della ragionevole durata del processo, essendo facile ipotizzare una ricaduta negativa sulle tempistiche per l’ottenimento della pronuncia di merito.
A ciò si aggiunga che alla pervasività delle ipotesi di rinvio si accompagna un rilevante effetto ordinamentale, costituito da una vera e propria mozione di sfiducia (preventiva) verso il nascente magistrato tributario, che peraltro porta a intravedere anche una possibile menomazione dell’autonomia del Giudice (qui inteso sia come ordine sia come Giudice individualmente considerato), che invece dovrebbe essere soggetto solo alla legge (art. 117 Cost.).
Insomma: un caso classico di eterogenesi dei fini, al quale però appare possibile porre rimedio, quantomeno “allineando” esattamente la struttura e i presupposti del rinvio pregiudiziale tributario a quello processualcivilistico.
6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
Da ultimo, mi preme soffermarmi brevemente sull’assenza, nel DDL 2636, di disposizioni transitorie che consentano di traghettare adeguatamente l’attuale assetto della Giustizia tributaria, senza gli effetti traumatici derivanti da difetti di coordinamento, nella graduale successione fra gli attuali giudici tributari e quelli che saranno assunti tramite i futuri concorsi.
È evidente che il numero dei magistrati da assumere tramite concorso non sarà sufficiente a coprire le vacanze degli attuali giudici tributari, e a ciò si aggiunga che i vertici delle Commissioni Tributarie sarebbero decapitati ipso iure a causa del limite a settant’anni fissato dal DDL per l’uscita dal servizio, determinando un grave nocumento all’ordinato svolgimento delle attività di Giustizia nel periodo transitorio. Occorre dunque apportare una certa gradualità nella fissazione dei limiti di cessazione del servizio
Ritengo inoltre che sarebbe opportuno prevedere – oltre alla riserva di posti del 15% nei primi tre bandi di concorso già dedicata dal DDL agli attuali Giudici Tributari non togati, che mi pare una misura francamente irrisoria – una procedura di interpello analoga a quella già contemplata dal DDL con riferimento ai magistrati togati, per permettere l’assorbimento nei nuovi ruoli anche dei magistrati tributari (oggi) non togati con più esperienza e più competenze.
*Ordinario di diritto tributario – Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
[1] E. Allorio, La scienza, la pratica, il buonsenso e il processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1946, I, 182 ss.
[2] V. Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di mercoledì 18 dicembre 1946, 51.
[3] Per tutte: Corte cost., ord. 20 maggio 1998, n. 210 (pres. Granata, red. Marini).
[4] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, 70.
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