ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giovanni Salvi
di Andrea Apollonio
Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, lascia la magistratura per raggiunti limiti d'età. Nei suoi 42 anni di servizio, sempre nei ruoli inquirenti (ad eccezione di una prima parentesi come pretore di Monza), ha visto l'Italia, e con essa la magistratura, cambiare volto. E, in un certo senso, proprio dei radicali cambiamenti dell'Italia repubblicana, Giovanni Salvi è stato testimone, occupandosene da una posizione investigativa privilegiata: la Procura di Roma (in cui ha prestato servizio dalla metà degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta), teatro delle inchieste giudiziarie sui grandi misteri italiani: dalla strage di Ustica all'omicidio Pecorelli, passando per la morte del banchiere Roberto Calvi.
Si è anche occupato del primo radicamento di Cosa Nostra a Roma per mano di Pippo Calò con i soldi dei corleonesi, e di uno degli ultimi - e più tragici - colpi di coda delle Brigate Rosse (l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona), prima di essere eletto, nel 2002, al CSM, punto d'arrivo del suo intenso impegno tra le file della magistratura progressista ed in quella associata.
Ed è ancora uno snodo della recente storia d'Italia che lo vede protagonista, questa volta da procuratore di Catania: l'immane strage dei migranti nel canale di Sicilia del 18 aprile 2005, in cui perse la vita un numero elevatissimo e imprecisato di migranti (oltre 700, forse 1000). A partire da quella strage l'Europa si avvede del problema migratorio ed avvia una sistematica politica di accoglienza, e contrasto dell'immigrazione clandestina; ma è intanto l'ufficio all'epoca guidato da Giovanni Salvi ad assicurare alla giustizia gli scafisti.
Immagini in Super 8 e in digitale che raccontano il suo lungo percorso. Eppure, di tutto ciò di cui si è occupato, raramente parla con chi ha il privilegio di frequentarlo, e mai in termini autoreferenziali: può succedere, questo sì, che ai colleghi più giovani mostri, delle sue indagini più importanti, qualche atto giudiziario da lui redatto, magari dattiloscritto e ammantato da un fascino d'archivio (una richiesta, una memoria), e solo per dare l'idea più tangibile e concreta di qualche suo discorso. Egli, per esempio, riflette spesso coi suoi interlocutori sul concetto di prova nel processo penale, riflessioni che ha puntualmente trasfuso, via via, nell'esercizio della giurisdizione. E, da Procuratore Generale della Cassazione, poteva capitare che si presentasse in udienza, magari davanti le Sezioni Unite, accompagnando i suoi interventi con fitte memorie: e anche qui, ne emergeva l'importanza della prova, e soprattutto di saperla riconoscere e valorizzare nel processo.
Ma va detto, soprattutto, che i tre anni di Giovanni Salvi alla Procura Generale sono stati gli anni di un rapporto (mai così) costante e proficuo con le Procure generali, impostato sul confronto e, all'esito, sull'emanazione di linee guida non vincolanti, ma utili per meglio orientare gli uffici di merito.
Anni, per inciso, segnati dalla pandemia: quella legata all'emergenza sanitaria da Covid-19, che ha avuto effetti devastanti sul funzionamento della giustizia; quella legata ai veleni dell'hotel Champagne, lo scandalo delle nomine correntizie che ha avuto effetti devastanti sulla credibilità della magistratura. E le ha dovute fronteggiare entrambe: la prima, elaborando orientamenti sulla colpa medica, sulla insolvenza delle imprese, sui sequestri dei vaccini, sulle misure cautelari (per evitare il sovraffollamento delle carceri), consentendo - in un momento tanto drammatico per il Paese - di uniformare l'azione penale in alcuni settori, pur preservandone il principio di obbligatorietà; la seconda, esercitando il potere disciplinare sui magistrati che si erano resi partecipi delle degenerazioni correntizie in punto di nomine.
Anni difficilissimi, che pure, se raccontati dalla sua viva voce, sembrano stemperarsi in un carattere mite, dubbioso e speculativo, di cui si coglie l'ironia - che Sciascia afferma essere la principale qualità dell'intellettuale, dacché consente di osservare le cose, e in primo luogo la propria vita, con disilluso distacco; qualità che innerva impercettibilmente i suoi discorsi, quale antidoto al peso, spesso opprimente, delle responsabilità (che tanto più sono gravi quanto più innescano, nell'intellettuale, il dubbio che tutto possa essere fatto meglio: così dovrebbe essere); e forse anche questo, assieme alle sue capacità organizzative, gli ha permesso di traghettare la magistratura inquirente italiana lungo i tre anni più intensi e riottosi di tutta la sua storia: anni di gratuiti e ingenerosi attacchi, all'intera categoria; e ancor più ingenerosi, alla sua persona, da fuori e dentro la magistratura. Nei quarantadue anni di servizio ha visto cambiare la magistratura, dicevamo: l'ha vista cambiare in peggio, purtroppo.
A proposito di Sciascia, scriveva di recente Giovanni Salvi: “Abbiano appreso da Sciascia la virtù del dubbio, l’impegno per la chiarezza della scrittura, la diffidenza verso il potere, anche quello che noi stessi esercitiamo”. L'esercizio del potere coltivato nel dubbio: un'antinomia, forse. O forse no. E le parabole di alcuni illuminati percorsi professionali, nella magistratura e non solo, sono lì a comprovarlo.
“La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica
di Bruno Montanari
Sommario: 1. Per una introduzione - 2. Una parola-chiave: “legittimazione” - 3. La colpa e il ragionevole dubbio - 4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa.
1. Per una introduzione
Il testo scritto da Tomaso Epidendio su “Giustizia Insieme “, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha un titolo inquietante, che invita il lettore ad una riflessione spregiudicata e a sua volta inquieta. Partiamo da alcune parole dell’autore: “Stiamo tutti vivendo − proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura…la fondazione di una magistratura interclassista cui si accede per meriti tecnico - giuridici accertati da pubblico concorso (art. 106 Cost.), costituita come ordine istituzionale… [autonoma e indipendente e dotata di potere effettivo disponendo della polizia giudiziaria] e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione -quella alla legge, ma ‘soltanto’ alla legge -…:un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione quella a una ‘legge’ di fronte alla quale… (art.3 Cost.)”.
Epidendio usa in questo brano un termine-chiave per l’ordinamento giuridico, e non solo per il nostro novecentesco, ma “chiave” per ogni potere effettivo, che abbia inteso assumere nella storia una configurazione di “sistema”, fondata su regole stabilizzanti: il termine è “legittimazione”. Termine, che sottolinea l’esigenza di giustificare un potere che un essere umano esercita, introducendo una disuguaglianza (comando-obbedienza), su di un altro essere umano, antropologicamente pari. Ecco perché ho qualificato quel termine come “chiave” e a buon diritto Epidendio lo ricorda, data la configurazione del potere affidato alla magistratura, nel suo complesso.
Tuttavia, il sogno è finito: il tema della “soggezione alla legge” (pur nelle diverse modalità di interpretazione consentite dall’ordinamento) è nei fatti superato, per le ragioni proprie della attuale visione del mondo, passate in rassegna dall’autore. Tale tema, infatti, nella prospettiva di molti, magistrati e dottrina, non sarebbe in grado di fronteggiare efficacemente le richieste di giustizia della società contemporanea. Occorre incamminarsi, allora, in quello che ormai viene definito “diritto vivente”, che si costruisce non più tramite l’interpretazione, ma attraverso una sorta di “oltrepassamento”, secondo la felice definizione di Mario Barcellona ([1]). “Il giudice – scrive Epidendio - è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di ‘sussunzione’ del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di ‘bilanciamenti’ di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili….Da organo soggetto ‘soltanto’ alla legge’…il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante…”
È vero, per restare ancora nel testo, che non si può restare laudatores temporis acti, ma neppure è possibile assumere l’accadere come l’ineluttabilità del fato (avrebbero detto gli antichi), ma occorre ancora esercitare la libertà intellettuale propria dello spirito critico formatosi nella tradizione filosofica e culturale della Modernità (con tutti i suoi inevitabili difetti).
2. Una parola-chiave: “legittimazione”
La riflessione che intendo prospettare può sintetizzarsi nel modo seguente. La parola-chiave è appunto, come ho già ricordato, “legittimazione”. Il potere funzionale esercitato dalla Magistratura, in quanto Organo indipendente dello Stato (il quale ultimo, perciò, si definisce “di Diritto”), ha il suo fondamento in quella determinazione costituzionale che ne stabilisce sia i modi di investitura nelle funzioni, sia i modi di esercizio del relativo potere (la subordinazione alla Legge). Allora il punto è in questa considerazione che contiene un interrogativo: se si è investiti in una determinata funzione, che si esprime attraverso l’esercizio di un potere, secondo le norme dettate dalla Costituzione, come è possibile esercitare quel potere, così formalmente fondato e determinato, secondo modalità in fatto diverse, che lo trasformano da “funzionale” in meramente “effettivo”? Detto con una sintesi rozza: l’ordinamento va bene per l’investitura e acquisire il potere, ma è possibile poi mettere da parte l’ordinamento allorché quel potere viene esercitato. Con una conseguenza assai rilevante per uno Stato di Diritto: mentre il primo potere è per definizione responsabile, il secondo potere è per definizione irresponsabile. È una mera questione epistemologica: mentre l’esercizio di una funzione implica sempre un giudizio conformità; al contrario, il fatto, in quanto accadimento, non si conforma a nulla, se non al suo stesso accadere, se così si può dire secondo l’epistemologia funzionalistica ([2]).
Ho ritenuto di affrontare un tema così delicato seguendo il paradigma epistemologico, che garantisce da interpretazioni politico-ideologiche. Intendo applicare questo medesimo paradigma ad un altro tema, altrettanto delicato, che ancora ho trovato nel testo di Epidendio: quello della differenza tra magistratura inquirente e requirente, innescato dalla riforma del processo penale che ha trasformato l’inquisitorio (sia pure temperato) in accusatorio. Dico subito, che la differenza tra inquisitorio e accusatorio è fondamentalmente epistemologica, in quanto dipende dalla differenza concettuale tra “colpa” e “accusa”: la “colpa” è oggettiva, l’accusa è soggettiva (ma di questo più avanti). E’ una distinzione così radicale che richiede, per coerenza, la distinzione delle carriere.
3. La colpa e il ragionevole dubbio
Andiamo per ordine. Innanzitutto il tema della verità processuale, come oltrepassamento ragionevole del dubbio: un marchingegno logico ma socialmente necessario.
Entrano in gioco, come è noto, due capisaldi del processo: il complesso probatorio ed il libero convincimento del giudice. Non si tratta di formule matematiche (lato sensu) per una possibile determinazione dell’evento, ma di due sguardi (rubo l’idea ad un autorevole filosofo del ‘900, Ernst Cassirer ([3]): quello dell’investigatore e quello del giudice. Alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, intesa come rappresentazione corrispondente ad una “verità” detta, appunto, “processuale”. Fictio terminologica, per la quale assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, per cui poi si spiega l’“oltre”.
La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio, per altro necessaria; ha perciò aggirato il problema, spostandone la soluzione sul tipo di legittimazione dei soggetti processuali, sulla legittimazione dei loro “sguardi”. In breve, la “verità” del giudizio dipende dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. È questo il contesto nel quale prende forma la configurazione dei due modelli processuali: l’inquisitorio e l’accusatorio.
Prova ne sia, che in quel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero in quel bellissimo libro che è Riti e sapienza del diritto ([4]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’“inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”. Contrappunto che, come ho già sottolineato, è legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’“accusa”. Il contrappunto: la “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’“accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento, operata dal magistrato dell’istruzione.
La “colpa”, quindi, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso. Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al giudizio di Dio, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica. A ciò segue che l’attribuzione della colpa è, dal punto di vista razionale, un atto di verità. È necessario, perciò, che un tale atto sia posto in essere da un soggetto strutturalmente legittimato ad esprimerla e deve essere fondato su di un dispiegamento probatorio analogo a quello di un esame scientifico. Nell’esperienza storico-istituzionale della “Modernità”, un tale compito appartiene allo Stato, ente sovrano, guardiano ed anche creatore della giustizia. Il giudizio ricostituisce l’ordine sociale turbato solo se è giusto; ed è giusto solo se è vero. Il mezzo per affermare la colpa è l’applicazione della legge tramite la sentenza, la quale conferma e qualifica come vero ciò che è già stato già ricostruito come vero.
In definitiva, affinché la giustizia soddisfi il suo legame con la verità, occorre che il magistrato inquirente sia un ricercatore di verità. Magistrato inquirente e magistrato giudicante si presentano entrambi sulla scena processuale, sia pure in momenti differenti, come “bocca della legge”, poiché è quest’ultima - la legge – che realizza la giustizia, declinando insieme ricerca della verità e diritto. È epistemologicamente corretto, perciò, che le due figure siano indifferenziate nella loro qualificazione e configurazione ordinamentale.
4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa
Il paradigma concettuale dell’“accusa” è del tutto differente.
“Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, riposa sull’idea che la verità umana si manifesti in via argomentativa e dialettica: un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. In un tale contesto, l’offesa colpisce l’uomo e la società, prima ancora che il “cittadino” in quanto membro dello Stato. Quest’ultimo, lo Stato, assolve ad una funzione organizzativa e strumentale. Emergono allora due caratteristiche legate al modello. La prima: nella possibile tensione tra libertà individuale e difesa sociale, di principio prevale la prima. La seconda caratteristica ha per oggetto il profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa corrispondono a soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una ipotesi argomentativamente sostenibile, attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa ipotesi, attraverso altri elementi di prova.
Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari. Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.
In definitiva, nel modello accusatorio l’investigatore è sicuramente un magistrato, sia per l’indipendenza della sua investitura sia per il modello argomentativo che lo porta a rappresentare determinati eventi come “fatti” costitutivi di “elementi” di prova, per prospettarli come ipotesi per una accusa sostenibile, da sottoporre alla valutazione probatoria dell’organo giudicante. Ne segue, per coerenza epistemologica, che si tratta di due profili di magistrati, quello requirente e quello giudicante, concettualmente e strutturalmente distinti; di qui la distinzione delle carriere.
In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”.
Non v’è dubbio: il testo di Tomaso Epidendio suscita davvero l’esercizio di un pensiero “critico” (nel senso kantiano del termine) su tematiche che investono e turbano nel profondo il nostro attuale sistema istituzionale.
[1] Cfr., Norme e prassi giuridiche: giurisprudenza usurpativa e interpretazione funzionale, Mucchi ed. Modena 2022
[2] Cfr., N.Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, tr.it Laterza, Bari 1985.
[3] Cfr., I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R. Puttello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015
[4] Laterza, Bari 1981.
Quaranta anni fa. 5 luglio 1982
di Paolo Spaziani
“Telespettatori italiani, buongiorno da Barcellona”.
Così, alle 17.15 di quarant’anni fa, con la magica voce di Nando Martellini, cominciava un bellissimo sogno dove il verde-oro, allegro e brillante, sarebbe stato sopraffatto dall’azzurro, dapprima timido, indi spregiudicato, infine trionfale.
Il verde-oro era sulle bandiere festanti che sventolavano da Plaça de Catalunya al Barrio Gotico, animando la Rambla e il vicino mercato della Boqueria; nelle ragazze di Bahia, di Belo Horizonte, di Rio, che danzavano sugli spalti del vecchio Estadio de Sarrià; nelle stelle che avrebbero illuminato il prato dell’Español: Zico, Falcao, Cerezo, Socrates, Junior. Tra queste, forse ancora più brillante delle altre, quella del bellissimo Eder Aleixo de Assis (corsa e sinistro irresistibili e una storia romantica di ragazzo maudit alle spalle) che dalla strada del Minais Gerais, era diventato l’idolo delle ragazze di tutto il mondo.
L’azzurro, meno luminoso ma rasserenato da una crescente fiducia, era nei torpedoni tricolori che avevano percorso la Via Laietana e risalito la teleferica del Mont Juick; nei ventimila italiani che dalla Casa Batllot, da Parc Guell e dalla Sagrada Familia, erano confluiti ordinatamente verso il vecchio stadio, che per una volta (forse l’unica volta) avrebbe sottratto la ribalta al superbo Camp Nou; nell’entusiasmo che in cuori intorpiditi ma ancora vivi avevano ridestato qualche giorno prima Tardelli e Cabrini, battendo vittoriosamente Fillol, il portiere campione del mondo; infine, nell’aroma del virile ma raffinato tabacco che avvolgeva l’incedere di un gentiluomo friulano: nel fresco, signorile portamento con cui - giacca sulle spalle, camicia moderatamente arrotolata, cravatta e occhiali da sole, pipa fumante in bocca - era entrato sul terreno di giuoco incandescente di trentacinque gradi, detergendolo con la sua eleganza.
Dopo Bearzot, il padre, ecco i figli: Zoff, il maggiore, Gentile (ha appena ricevuto l’istruzione che dovrà marcare l’avversario più temibile, il funambolico Artur Antunes Coimbra, detto "Zico"), Scirea, Rossi (avrebbe voglia di piangere, non sa ancora che farà piangere il Brasile), Antognoni, Graziani (la spalla fedele, il silenzioso alleato di Paolino) e, infine, dopo tutti gli altri, timido, il più piccolo, che il vero papà ha perduto, ma ha trovato tanti fratelli, Beppe Bergomi (non sa ancora che dovrà giocare a 18 anni la partita del secolo senza ancora averne giocato alcuna, ma è pronto, come tutti).
Brasileiro Sampaio de Sousa Vieira de Oliveira è il capitano dei verde-oro: è il volto pulito di una nuova generazione di brasiliani: è un calciatore ma è anche colto, sa di storia e di filosofia: lo chiamano “Socrates”; è un calciatore, ma è anche laureato in medicina; è un calciatore, ma è anche un attivista dei diritti civili e politici: nella sua squadra, il Corinthians, ha fatto scrivere sulle magliette una parola sinora vietata non solo in Brasile, ma anche in Argentina, in Cile, in quasi tutto il Sud America: la parola “Democracia”.
Si giuoca a pallone, finalmente; si giuoca un calcio che, rivisto oggi, sa di tesoro perduto, di preziosi smarriti, di gioielli depositati da qualche parte, lontana, e lì dimenticati.
Ecco, nell’ordine, i tesori contenuti nello scrigno.
Dribbling secco di Conti su Eder; esterno sinistro a cercare Cabrini sull’altra fascia; traversone a rientrare in area (della serie: quando una volta ti insegnavano a crossare); colpo di testa di Paolino a spiazzare il portiere e a mettere la palla sul palo lungo: 1-0 per l'Italia.
Fraseggio a metà campo tra Cerezo e Junior, palla a Zico; non si capisce come faccia: si libera di Gentile con un dribbling rapidissimo e funambolico e di destro accarezza la palla smarcando Socrates in area; diagonale da biliardo sul primo palo a trafiggere un incolpevole Zoff: 1-1.
Rinvio di Valdir Perez sul proprio terzino; pallone a Cerezo che di piatto cerca un difensore centrale; scatto felino di Rossi a ghermire la palla tra Junior e Luizinho; collo pieno a bucare l’uscita del portiere: 2-1 per l’Italia.
Avanzata elegante di Leovigildo Junior sulla sinistra; conversione al centro ed esterno destro per Falcao: Paulo Roberto ha la palla sul destro; finge di servire Cerezo, smarcatosi sulla fascia; la finta disorienta tutta la difesa e crea il vuoto dinanzi a Zoff; Falcao torna sui suoi passi, si porta il pallone sul sinistro (quel sinistro che non sapeva di avere) e di collo esterno pareggia i conti: forse Zoff l’avrebbe presa se la coscia di Bergomi non l’avesse, quasi impercettibilmente, toccata; ma è un dettaglio: quella dell’ottavo re di Roma è una prodezza che si ricorderà finché esisterà il calcio: 2-2.
Antognoni cerca un varco sulla sinistra e crossa trovando deviazione difensiva e calcio d’angolo; sul corner di Conti, prova il gran tiro a volo, dal limite, Tardelli; per qualche strano incantesimo la palla finisce ancora tra i piedi di Paolino, che sigla la sua tripletta: 3-2 per l’Italia.
Paolino Rossi da Prato, uno dei più grandi centravanti che la storia del calcio ricordi, aveva cominciato a scrivere la propria quattro anni prima, in Argentina. Era una storia contraddittoria come quella del paese in cui veniva scritta, dove le urla disperate delle madri dei ragazzi gettati nel Rio de la Plata, poco oltre il maestoso delta del Paranà, tra Buenos Aires e Montevideo, si confondevano con i caroselli festosi dei tifosi che uscivano dagli stadi di Cordoba, di Mar del Plata, di Rosario.
In una piccola parentesi felice costretta dentro quell’immonda disperazione, Paolino aveva ridimensionato la Francia, aveva sconfitto l’Ungheria, aveva raccolto la classe del tocco di Causio contro l’Austria, aveva sublimato il gioco più bello del mondo nel sontuoso triangolo con Bettega in una splendida notte nel cuore di Baires.
Poi, tornato in Italia, aveva pianto anche lui per un’offesa ingiusta, un’ingiuria immeritata, che gli aveva tolto tre anni di calcio e forse più di vita.
Ma, come il Sud America risorgerà a nuova vita anche grazie alla parola “Democracia” stampata sulle maglie della nuova generazione di giocatori simboleggiata da Socrates, anche Paolino ora risorge, e diventa (ora e per sempre) Pablito, colui che ha fatto tre gol ad un Brasile che forse non è la più forte squadra di tutti i tempi solo perché, dodici anni prima, un altro Brasile aveva cinque numeri 10 e uno dei cinque si chiamava Pelè.
Paolino diventa, per la storia del calcio, “Pablito” intorno alle 18.30 del 5 luglio 1982, sul prato dell'Español, mentre il sole tramonta dietro Parc Guell, mentre il caldo afoso di Barcellona degrada in una fresca serata, mentre si illuminano le luci sulla Rambla, e tutta la Costa Brava si accende di un rosso scarlatto.
Ma la partita non è ancora finita.
Sulla tre quarti sinistra, l’israeliano Abraham Klein (che ha un figlio al fronte in Libano e ha arbitrato solo perché glielo ha chiesto lui, in una telefonata da Beirut) comanda un calcio di punizione per il Brasile. Sulla palla vanno Eder e il suo temibile sinistro. Il cross in area è perfetto (della serie: una volta sapevano crossare). Anche il colpo di testa di Oscar è preciso, all’angolino, forse addirittura imparabile.
Per gli altri, ma non per Zoff, che si getta sul pallone con il peso dei suoi 40 anni e la sua immensa classe, bloccandolo a terra prima che varchi la linea del gol.
Vi era stato, poco prima, anche un gol di Antognoni, da ricordare perché il nostro talentuoso numero 10 non potrà giocare la finale e avrebbe meritato che quel gol gli fosse assegnato, anche perché era valido; ma l’arbitro lo aveva annullato.
A quarant'anni da allora, rinchiuso lo scrigno, resta la sensazione di aver vissuto qualcosa di meraviglioso: forse perché io e mia sorella avevamo 12 e 7 anni e avevamo accompagnato nostro padre, ispettore del tesoro, ad una missione alla cartiera di Fabriano, per tutto il mese di luglio; forse perché eravamo sicuri che l'Italia avrebbe vinto tanto da scommettere con tutti i colleghi del papà un gelato al giorno alla zuppa inglese di Otello, il cui profumo ancora mi sembra di sentire mentre si spande nel parco della bella cittadina marchigiana ove si trovava il suo bar.
Dopo il fischio di Klein, mentre tutti si abbracciavano, rimanemmo incollati allo schermo del televisore che Otello aveva sistemato fuori dal bar, sui tavoli ordinatamente disposti al fresco del parco. Col cono in mano e la zuppa inglese gocciolante, prima che fosse chiuso il collegamento in Eurovisione, tra i momenti del post-partita ve ne è uno che non abbiamo mai dimenticato: il momento in cui, in mezzo al campo, quasi silenziosi tra le feste altrui, si abbracciarono Bearzot e Rossi.
Non erano un allenatore e un giocatore; erano il padre e il figlio che si trovavano nel luogo in cui si erano dati appuntamento: orgogliosi il padre per aver creduto nel figlio e il figlio per essere andato oltre le stesse attese del padre. In quel “loro” momento non c’era più il Brasile, la partita, il Mundial. Questi erano accidenti che avevano lasciato il posto alla sostanza: c’erano solo loro due, il loro reciproco affetto, il loro bene: il loro essere figli di un mondo migliore, un mondo fatto di uomini.
L’indipendenza del giudice dipendente del MEF, ossimoro di una riforma che gioca d’azzardo
di Francesco Tundo*
Sommario: 1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento. - 2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo. - 3. Il nuovo status del giudice tributario. - 3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia. - 4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione. - 4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest? - 5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini. - 5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie. - 6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento.
Il Disegno di Legge AS 2636, presentato in Senato dal Governo il 1° giugno 2022, è stato salutato dai primi commentatori con parole di grande apprezzamento e toni addirittura enfatici. Ad un esame più ponderato, tuttavia, ne sono emerse le criticità, opportunamente messe in luce dagli studiosi e dagli osservatori più attenti, così come nel corso delle audizioni informali del 28 giugno dinanzi alle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze.
È indubbio che il dibattito intorno all’assetto della Giustizia Tributaria ha subito un’intensa accelerazione, anche per il fatto che la riforma rientra fra i traguardi individuati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Prima ancora del PNRR, tuttavia, nel corso di questa legislatura si è potuto assistere ad una formidabile osmosi culturale tra Accademia, operatori del settore e iniziative parlamentari. Tanto fermento riformista è stato accompagnato da un grande protagonismo del Parlamento, ove peraltro le numerose proposte di legge presentate nel corso della legislatura, sia alla Camera che al Senato, rivelano un inedito comune sentire circa gli elementi strutturali che dovrebbero caratterizzare la Giustizia Tributaria. Un protagonismo da salutare con grande favore. Perché segna una centralità del Parlamento nella materia tributaria che, auspicabilmente, dovrebbe ulteriormente consolidarsi. E anche perché le iniziative del Parlamento scaturiscono all’esito di un lungo ed articolato débat public che conferisce ad esse maggior valore.
Anche il Governo ha dato riscontro alla necessità di un intervento. Dapprima, nel 2021, con l’istituzione di una Commissione presso i Ministeri della Giustizia e dell’Economia, la quale, come noto, non ha purtroppo prodotto una relazione unitaria. Poi con i lavori di una seconda Commissione (singolarmente definita “tecnica”, come se quella precedente avesse avuto una natura diversa), che hanno portato al Disegno di Legge qui in esame. È verosimile ritenere che l’insormontabile difficoltà di conciliare le posizioni delle due anime della Commissione precedente abbia contribuito all’esito non pienamente soddisfacente del Disegno di Legge governativo, per effetto della ricerca di una sintesi sostanzialmente impossibile.
Il fatto è che, più che questioni di tecnica giuridica, delle quali dirò in appresso, siamo al cospetto di rilevanti scelte politiche, che non possono che aver luogo in Parlamento. In un Parlamento che ha ormai acquisito una piena consapevolezza delle determinazioni da assumere, essendo altresì all’esame delle medesime Commissioni molti dei disegni di legge di iniziativa parlamentare. Sono molto chiare le opzioni, le posizioni in campo, le opinioni degli studiosi, le istanze e le “pretese” delle parti interessate. Sono persino stati smascherati gli opportunismi di chi ha intravisto, nell’imminente riforma, inaspettate opportunità professionali e ha provato a piegare l’interesse collettivo a fini di vantaggio di una sola parte.
È, insomma, il momento che gli addetti ai lavori, i tecnici, i portatori di interessi di categoria, gli “oscuri funzionari di gabinetto” dei quali così tanto diffidava Enrico Allorio[1], lascino il campo al dibattito parlamentare perché siamo innanzi ad un vero e proprio bivio nelle scelte attinenti al modello di tutela dei contribuenti dalle pretese del fisco e dunque, a pieno titolo, nell’ambito delle grandi valutazioni politiche.
2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una graduale erosione dell’area delle tutele giurisdizionali, a tutto beneficio del rafforzamento delle prerogative delle Agenzie fiscali, che oggi vanno ben oltre la loro missione originaria e si ergono persino a giudici dei loro stessi atti. Ciò concorre a far sì che il numero delle liti davanti ai giudici sia in costante diminuzione. Ma c’è di più e non sempre i numeri spiegano tutto. Il fatto è che tra l’aumento delle liti potenziali concordate direttamente con gli stessi uffici e l’esorbitanza a vario titolo delle attribuzioni delle Agenzie, il contribuente è stato surrettiziamente indotto, nel tempo, ad una percezione, per così dire, strabica dei suoi diritti, convincendosi che il modo migliore per farli valere sia di rivolgersi al medesimo ente che lo sottopone ai controlli e che contesta il suo operato. Niente di più sbagliato.
In uno Stato di diritto il cittadino deve, prima di tutto, poter contare su un giudice imparziale ed indipendente e ciò anche nella materia fiscale. Oggi, invece, corriamo il rischio che, con il pretesto del PNRR e dell’urgenza delle riforme da esso richieste, la tutela rispetto alle pretese del fisco venga definitivamente consegnata alla stessa amministrazione pubblica che spicca le contestazioni. Il progetto governativo, infatti, sembra l’ultimo miglio di un percorso che, come la macchina del tempo, ci riporta a sorpresa alla situazione del secolo scorso, quando le Commissioni Tributarie erano articolazioni interne alla stessa Amministrazione e i contribuenti non avevano alcun giudice al quale rivolgersi. E’ un prezzo troppo alto, che non ci possiamo permettere di pagare. Occorre dunque che il Parlamento ponga rimedio: è ancora possibile.
3. Il nuovo status del giudice tributario.
Il DDL 2636, più che costituire l’attesa riforma ordinamentale della Giustizia tributaria, si limita ad una revisione dello status dei giudici. Una misura indubbiamente di grande rilievo e a lungo attesa ma che attiene ad una sfera molto limitata delle possibili aree di intervento. Si tratta, insomma, di un intervento più circoscritto rispetto alle prospettive offerte dalle iniziative parlamentari che invece delineano, tutte, ipotesi di riforma di ben più ampio respiro.
Tengo a sottolineare che, a mio avviso, la Giustizia Tributaria ha dato buona prova: è noto che i giudizi, nella fase di merito davanti alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sono assai più rapidi rispetto a quelli innanzi alla Giustizia ordinaria. Non è, tuttavia, solo una questione di numeri, dato che anche la qualità delle sentenze tributarie di merito è apprezzabile e le Commissioni Tributarie si sono rese protagoniste dell’inaugurazione di filoni giurisprudenziali che talvolta sono culminati con mutamenti di indirizzo della Corte di cassazione.
Tuttavia la complessità sempre crescente del diritto tributario impone ormai un impegno a tempo pieno e dunque l’introduzione del giudice assunto a tempo indeterminato mediante concorso è da accogliere con indubbio favore.
3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia.
Proprio sul concorso che dovrebbe portare all’assunzione dei nuovi Giudici tributari s’incentra, tuttavia, un primo, evidente, inciampo del progetto governativo.
Il DDL 2636 reca una disciplina (eccessivamente) minuziosa per accedere ai ranghi dei futuri magistrati tributari e, in essa, stringenti requisiti per la partecipazione al concorso, che fanno unicamente riferimento alla laurea in giurisprudenza, così escludendo implicitamente altre competenze ed altri percorsi di studio e di laurea, e in particolare quelli in economia.
Una siffatta preclusione non è coerente con la natura del diritto tributario, il quale richiede competenze necessariamente sincretiche: oggi non si può giudicare se non si conoscono il diritto tanto quanto i bilanci e i principi contabili, l’economia aziendale, la fiscalità internazionale e così via. A chi l’ha proposta, a chi l’ha scritta e a chi la difende, occorrerebbe dare da leggere i lavori della Costituente. Ezio Vanoni, che non faceva parte della sezione competente in materia di giustizia, chiese di prendervi parte per porre in luce le esigenze attinenti alla difesa dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che a suo avviso non erano adeguatamente tutelate. Sviluppando una serie di considerazioni ancora oggi straordinariamente attuali, concluse per l’opportunità di una giurisdizione tributaria che fosse idonea a contemperare l’esigenza di rapidità del giudizio con la competenza giuridica e le cognizioni tecniche richieste al Giudice in una materia così peculiare come il diritto tributario[2].
Inoltre, ai propugnatori della conseguente iniziativa che, ostentando una certa sicumera, pretenderebbero l’esclusiva delle difese tecniche davanti alle Commissioni Tributarie, quasi spettassero loro per diritto divino, cercando di escludere i dottori commercialisti, gioverebbe leggere la costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima ha sempre sostenuto che il diritto di difesa garantito dall’art. 24, Cost. è diversamente modulabile dal legislatore, che può disciplinarne l’esercizio secondo valutazioni discrezionali, con il solo limite della non irrazionalità delle scelte[3].
Se l’esclusione dei laureati in economia è priva di senso, ciò vale a maggior ragione in un momento in cui i piani di studio delle Scuole di Economia offrono percorsi formativi che, in certi casi, possono essere addirittura più idonei di altri ad assicurare le conoscenze tecniche e a creare la forma mentis per l’esercizio della funzione giurisdizionale tributaria. Aprire la possibilità di partecipare al concorso a più classi di laurea avrebbe un effetto benefico sulla composizione dei futuri collegi, le cui competenze sarebbero altrettanto composite, così come le materie sulle quali essi dovranno pronunciarsi.
S’impone dunque un intervento emendativo sul punto, accompagnato in parallelo da una revisione delle materie indicate quali oggetto del relativo concorso che, oltre a non essere pienamente condivisibili (si pensi alla singolare previsione del “diritto internazionale privato” o del diritto penale tout court!), sembrano delineate più per dare una giustificazione plausibile alla circoscrizione dell’accesso ai laureati in giurisprudenza che per prefigurare una competenza professionale idonea all’esercizio della funzione giurisdizionale in materia tributaria.
4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione.
Se un indubbio passo in avanti del DDL 2636 è costituito dalla professionalizzazione del Giudice tributario, è sul terreno dell’indipendenza dei Giudici – che costituisce la più preziosa materia prima della giurisdizione – che la riforma risulta, purtroppo, molto deludente.
Il cordone ombelicale col Ministero dell’Economia è unanimemente ritenuto inopportuno e da recidere. Non è un caso che proprio in questa direzione vadano tutti i progetti di legge parlamentari, che prevedono il passaggio della Giustizia Tributaria alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia. Non è un caso, soprattutto, che non vi sia alcun sostenitore dell’opportunità della permanenza organica nel MEF dei futuri magistrati tributari di ruolo che abbia avuto il coraggio di sostenere la sua posizione a viso aperto né, oggettivamente, alcuna plausibile ragione di siffatta appartenenza organica.
I futuri magistrati, a differenza di quelli attuali, saranno selezionati con concorsi governati dal Ministero dell’Economia e, non si possono usare perifrasi, diventeranno addirittura dipendenti di quest’ultimo, il quale concorrerà persino al controllo ispettivo sulle modalità di esercizio della giurisdizione.
Insomma, siamo dinanzi ad un’opzione che determina un impoverimento della caratura giurisdizionale degli organi preposti alla tutela e, al contempo, imprime una sterzata verso un assetto burocratico-amministrativo. Esattamente il contrario degli obiettivi dichiarati. Esattamente il contrario delle aspettative di tutti, dagli studiosi ai componenti del Parlamento che hanno avanzato proposte di legge tutte in direzione opposta, alle categorie professionali. Esattamente il contrario della soluzione più logica e più coerente con il percorso di revisione costituzionale che ha connotato le commissioni tributarie lungo tutta la storia repubblicana.
Tale situazione è più gravemente compromessa nella misura in cui il DDL 2636 finisce per indebolire le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, negandogli quella funzione di di contrappeso all’ingerenza del potere politico caratteristica di tutti gli organi di autogoverno e, nel nostro caso, di argine alla pervasività del MEF.
Si tenga ad esempio conto che – ferma restando l’attuale disciplina degli artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 545 del 1992 – il DDL istituisce un “Ufficio ispettivo” presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, volto secondo la Relazione illustrativa a “garantire una vigilanza efficace sull’attività giurisdizionale svolta presso le Commissioni tributarie, disponendo ispezioni nei confronti del personale giudicante”. Tuttavia, all’istituzione di tale Ufficio non si accompagna una riserva a esso in via esclusiva delle attribuzioni in materia, e anzi la Relazione precisa che “[d]etto Ufficio può svolgere attività congiunte con il competente Ufficio Audit della Direzione della Giustizia Tributaria del Dipartimento delle Finanze, al fine di effettuare i controlli di rispettiva competenza”.
Non si vede perché istituire presso il Consiglio di Presidenza un apposito Ufficio Ispettivo senza trasferire allo stesso attribuzioni oggi di competenza del MEF, ciò che avrebbe avuto un significativo effetto di miglioramento dell’indipendenza dei giudici tributari.
Del resto, non è un lapsus calami che nel DDL governativo rimanga anche la secolare denominazione di “commissioni tributarie”, a differenza di tutte le proposte parlamentari, che optano per “tribunali” e “corti d’appello”. Queste ultime sono denominazioni più coerenti con la natura di giudici veri e propri, più volte confermata dalla Corte costituzionale, ma che oggi rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Non è una questione puramente formale, quella della denominazione, perché concorre alla “retrocessione” alla natura amministrativa degli organi giudicanti, quando invece avrebbe dovuto confortarne la definitiva consacrazione giurisdizionale.
Il problema è che tutto ciò non è il frutto della volontà parlamentare e dunque di quella “popolare”, che, infatti, propugnano una soluzione diametralmente opposta.
La ragione è nota a tutti: è il Ministero dell’Economia che non intende rinunciare al rapporto organico con chi decide le cause che riguardano le sue Agenzie fiscali. L’interesse alla tutela delle entrate pubbliche, tuttavia, non può fare premio su tutto, non può pretermettere le regole dello Stato di diritto. C’è di più: è assai evidente come su questo specifico tema vi sia un preoccupante dualismo tra Parlamento e Ministero, che merita di essere risolto al più presto.
Intendo essere molto chiaro: l’appartenenza organica della giurisdizione tributaria al Ministero dell’Economia e delle finanze, che è la controparte sostanziale dei contribuenti, per mezzo delle sue Agenzie, è inconciliabile con i requisiti di indipendenza, terzietà, imparzialità del Giudice ed è incompatibile con la Costituzione.
La pervicacia nel perseguire la soggezione dei Giudici al MEF mette in gioco l’incolumità di tutto l’impianto. Dirò di più: la mia sensazione è che con questa scelta si compia un vero e proprio azzardo, essendo facile prefigurare numerose questioni di legittimità costituzionale che nei prossimi anni determineranno una vasta incertezza, una vera e propria ipoteca sul futuro dei giudici tributari, che potrà minare la credibilità della giurisdizione e renderla instabile.
4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest?
Non è un caso, insomma, che le opinioni prevalenti degli studiosi, degli operatori e tutti i progetti di legge parlamentari, vadano in direzione opposta al DDL governativo e prevedano il passaggio dei futuri giudici di ruolo alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia.
In breve, il DDL 2636 prende le distanze da quel progressivo percorso di giurisdizionalizzazione della Giustizia tributaria che costituisce la cifra distintiva della sua storia, ossia quel percorso che parte da lontano e che con passaggi incrementali – in una graduale e virtuosa azione congiunta del legislatore e della Corte costituzionale – ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale e la conformità a Costituzione. Siamo a ottant’anni esatti dalla pubblicazione del “Diritto processuale tributario” di Allorio, che guardava a un primo sistema processuale che già nel 1942 si era allontanato dal contenzioso amministrativo. Da allora in avanti, e soprattutto dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, abbiamo assistito a quella che potremmo definire una “revisione progressiva”, che ha via via superato il vaglio della Corte Costituzionale e ha contemperato i limiti dell’art. 102, Cost.
Una revisione progressiva che non in pochi mesi, ma in alcune decine di anni, ha portato alla situazione attuale, con graduali interventi su un sistema che non è immodificabile purché ciò avvenga ad opera del Parlamento (cfr. Corte cost. 41/1957) e, aggiungerei, “non forzando la mano” al Parlamento.
La professionalizzazione del Giudice, insomma, è l’ultimo passo di un cammino che parte da lontano e che con un’azione congiunta, meglio, “combinata” del legislatore e della Corte costituzionale, ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale.
Ma nel momento in cui è conclamata la natura giurisdizionale delle Commissioni, e – soprattutto - i giudici sono assunti a tempo indeterminato, allora il tema dell’indipendenza del Giudice – in tutte le sue sfaccettature – diviene decisivo. Ed è proprio su questo che il DDL non raccoglie la sfida, anzi incrementa la sfera d’influenza del MEF sulla Giustizia Tributaria.
Calamandrei sosteneva che il giudice diventa strumentum regni nei regimi totalitari[4]. Non è il nostro caso, certo, ma rimane il fatto che il progetto governativo delinea un giudice sottoposto alla tutela di chi, per missione istituzionale, ha più dimestichezza con le entrate pubbliche che con i delicati equilibri tra i poteri dello Stato e tra questi e i cittadini.
Attenzione, peraltro, a dare credito alle strumentali accuse di disfattismo rivolte a chi insiste per il distacco dal MEF della giustizia tributaria: la riforma non sarebbe affatto impedita da questa misura, tutt’altro. Per passare ad un altro Ministero e rendere la riforma conforme a Costituzione è sufficiente un emendamento “prelevato” da uno qualsiasi dei molti progetti di legge che pendono in Parlamento.
5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini.
Occorre rammentare che l’obiettivo perseguito dal DDL e fissato, prima ancora, dal PNRR, è quello di alleggerire l’imponente carico di lavoro della Sezione tributaria della Corte di cassazione e il conseguente efficientamento delle tempistiche della Giustizia Tributaria
Senonché, è proprio la più efficace misura per raggiungere tale obiettivo – ossia l’istituzione per legge di una Sezione tributaria della Corte, composta anche dai nuovi Giudici tributari – a mancare nel DDL 2636. Se fosse adottata, si potrebbe consentire, tra l’altro, di diventare giudici della Cassazione (tributaria) anche ai futuri magistrati tributari di ruolo. Questo garantirebbe loro un lungo periodo di studio e preparazione sul campo prima di approdare alla Suprema Corte e sarebbe il modo migliore per assicurare un più efficace esercizio della funzione nomofilattica.
Con il DDL invece sono purtroppo destinati a diventare giudici della Sezione Tributaria della Cassazione, come accade già ora, solo magistrati che nel corso della loro lunga e qualificante esperienza non hanno mai praticato, nemmeno per un giorno, il diritto tributario, che invece richiede anni di studio e di dedizione professionale.
Se le cose rimarranno così come sono, poi, c’è anche da interrogarsi sulle conseguenze di un soffitto di cristallo così rilevante alla carriera dei futuri magistrati tributari: che tipo di appeal potrà esercitare questa professione per i più meritevoli e capaci di essi? Verosimilmente scarso, costituendo semmai una sorta di “parcheggio professionale” in attesa di un approdo presso un’altra, più gratificante, magistratura e dunque un continuo turn over, che significa un livello di qualificazione al di sotto degli standard necessari.
5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie.
Il DDL 2636 costituisce un curioso caso nel quale uno strumento processuale – mi riferisco al rinvio pregiudiziale di cui all’art. 2, comma 2, lett. g), del DDL, che inserirebbe un nuovo art. 62-bis all’interno del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – determina ripercussioni ordinamentali.
A norma dell’art. 62-bis, cit., al ricorrere di particolari condizioni, le Commissioni Tributarie di primo o secondo grado potranno, d’ufficio, investire direttamente la Corte di cassazione della “risoluzione di una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia”.
Ritengo che l’istituto, per come è stato configurato, sia meritevole di miglioramento.
Esso non richiede in alcun modo un impulso di parte, e questo potrebbe comportare una violazione dell’art. 25, Cost., nella misura in cui priva le parti del proprio Giudice naturale. Ciò, in particolare, una volta che si raffronta tale istituto con quello pensato dal legislatore processualcivilistico e inserito fra i criteri direttivi della legge delega n. 206 del 26 novembre 2021. I due strumenti risultano, sulla carta, speculari fra loro: simile è il meccanismo di funzionamento, così come le ragioni che ne giustificherebbero l’introduzione nei rispettivi sistemi processuali. Tuttavia, se si raffrontano le due disposizioni, emerge una differenza strutturale assai significativa, che rischia di compromettere l’istituto processuale tributario.
La differenza sta in ciò, che se i requisiti previsti per il rinvio pregiudiziale tributario risultano fra loro alternativi – come si evince dal fatto che il comma 1 dispone che il rinvio è esperibile se “ricorre almeno una delle seguenti condizioni” – quello previsto dalla legge delega è subordinato al ricorrere di tutte le condizioni ivi previste congiuntamente.
Che nell’ambito processualcivilistico i requisiti debbano sussistere congiuntamente si evince oltre che dal dato letterale della norma anche dalla Relazione finale della Commissione Luiso – la quale aveva appunto proposto l’introduzione del rinvio pregiudiziale – ove si legge che il rinvio opererebbe “in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto”.
Una siffatta differenza, oltre a dilatare oltremisura l’ambito di applicazione del rinvio in ambito tributario, ne tradirebbe anche la ratio.
È infatti evidente che nell’ambito processualcivilistico l’intervento della Corte di cassazione si porrà alla stregua di una extrema ratio, con riguardo a ipotesi nelle quali – data la necessaria sussistenza di tutti i requisiti richiesti dalla norma – una pronuncia di legittimità risolverebbe una questione di diritto nuova, di seria difficoltà interpretativa, nonché dal carattere “seriale”. In altri termini, il “ribaltamento” dell’ordine processuale si giustificherebbe vista l’eccezionalità e particolarità della questione sottoposta alla Suprema Corte e alle sue vaste ripercussioni per una platea assai ampia di interessati.
Viceversa, in ambito tributario, lo scollamento fra i vari requisiti priva l’istituto della sua identità originaria e finisce per tradirne la natura atteso che, più che riguardare fattispecie eccezionali, esso potrebbe trovare sempre applicazione.
Lo iato strutturale fra i due istituti è ulteriormente dilatato dal fatto che – oltre che disgiungere i requisiti previsti per esperire il rinvio – il DDL scinde il requisito previsto in maniera unitaria dalla legge n. 206 del 2021, di cui al punto 1.1. della lett. g) – secondo il quale la questione dev’essere “esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza” – in due differenti requisiti, fra loro distinti, di cui alle lett. a) e b) dell’art. 62-bis.
Dunque, anche tale scissione, se valutata unitamente al carattere alternativo dei requisiti previsti per l’esperibilità del rinvio pregiudiziale tributario, finisce per dilatarne ulteriormente l’ambito di applicabilità, atteso che basterebbe a tal fine una questione la presenza di una questione “nuova” – lett. a) – oppure esclusivamente di diritto nonché di particolare importanza “per l’oggetto o per la materia” – lett. b).
Lo spettro della disposizione è talmente ampio da poter riguardare, virtualmente, qualsivoglia controversia fiscale: pertanto, un siffatto strumento processuale potrebbe semmai portare all’ulteriore ingolfamento della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, anziché giovare alla celerità del processo – e ciò impatterebbe, a cascata, anche sul rispetto del canone della ragionevole durata del processo, essendo facile ipotizzare una ricaduta negativa sulle tempistiche per l’ottenimento della pronuncia di merito.
A ciò si aggiunga che alla pervasività delle ipotesi di rinvio si accompagna un rilevante effetto ordinamentale, costituito da una vera e propria mozione di sfiducia (preventiva) verso il nascente magistrato tributario, che peraltro porta a intravedere anche una possibile menomazione dell’autonomia del Giudice (qui inteso sia come ordine sia come Giudice individualmente considerato), che invece dovrebbe essere soggetto solo alla legge (art. 117 Cost.).
Insomma: un caso classico di eterogenesi dei fini, al quale però appare possibile porre rimedio, quantomeno “allineando” esattamente la struttura e i presupposti del rinvio pregiudiziale tributario a quello processualcivilistico.
6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
Da ultimo, mi preme soffermarmi brevemente sull’assenza, nel DDL 2636, di disposizioni transitorie che consentano di traghettare adeguatamente l’attuale assetto della Giustizia tributaria, senza gli effetti traumatici derivanti da difetti di coordinamento, nella graduale successione fra gli attuali giudici tributari e quelli che saranno assunti tramite i futuri concorsi.
È evidente che il numero dei magistrati da assumere tramite concorso non sarà sufficiente a coprire le vacanze degli attuali giudici tributari, e a ciò si aggiunga che i vertici delle Commissioni Tributarie sarebbero decapitati ipso iure a causa del limite a settant’anni fissato dal DDL per l’uscita dal servizio, determinando un grave nocumento all’ordinato svolgimento delle attività di Giustizia nel periodo transitorio. Occorre dunque apportare una certa gradualità nella fissazione dei limiti di cessazione del servizio
Ritengo inoltre che sarebbe opportuno prevedere – oltre alla riserva di posti del 15% nei primi tre bandi di concorso già dedicata dal DDL agli attuali Giudici Tributari non togati, che mi pare una misura francamente irrisoria – una procedura di interpello analoga a quella già contemplata dal DDL con riferimento ai magistrati togati, per permettere l’assorbimento nei nuovi ruoli anche dei magistrati tributari (oggi) non togati con più esperienza e più competenze.
*Ordinario di diritto tributario – Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
[1] E. Allorio, La scienza, la pratica, il buonsenso e il processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1946, I, 182 ss.
[2] V. Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di mercoledì 18 dicembre 1946, 51.
[3] Per tutte: Corte cost., ord. 20 maggio 1998, n. 210 (pres. Granata, red. Marini).
[4] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, 70.
Tutela cautelare monocratica: il Consiglio di Stato torna ad affermare l’inappellabilità del decreto cautelare reso ex art. 56 c.p.a. (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, n. 1962 del 2022)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa: la questione dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico. – 2. La vicenda e la decisione del Consiglio di Stato. – 3. L’analisi del dato normativo. – 4. L’orientamento favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico. – 5.L’orientamento opposto sposato dal Presidente della IV Sezione. – 6. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il ruolo del giudice. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: l’appellabilità del decreto cautelare monocratico.
Il decreto del Consiglio di Stato in commento si inserisce nell’ambito del dinamico dibattito in corso in seno alla giurisprudenza amministrativa sul tema dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico pronunciato ai sensi dell’art. 56 c.p.a. Invero, sebbene il secondo comma di tale articolo preveda che, in caso di richiesta cautelare connotata da estrema gravità e urgenza – tali da non consentire la dilazione sino alla camera di consiglio – il Presidente del T.A.R. (o un magistrato da lui delegato) possa provvedere con decreto motivato non impugnabile, sono molteplici le pronunce della giurisprudenza amministrativa che hanno, invece, riconosciuto uno spazio all’appellabilità di tali decreti. In particolare, decisioni in questo senso si sono accresciute durante il periodo pandemico appena trascorso, nell’ambito del quale i decreti cautelari presidenziali hanno ricoperto un ruolo di primo piano nella tutela degli interessi legittimi affermati dai vari ricorrenti[1].
Diversamente, con il decreto che si sta annotando, la Sezione Quarta del Consiglio di Stato, si pone in linea con quella giurisprudenza che, volendo superare i precedenti orientamenti di altre Sezioni, asserisce la non impugnabilità dei decreti cautelari monocratici resi ai sensi dell’art. 56 c.p.a[2]. Specificamente, in questa occasione, la Quarta Sezione fonda la dichiarazione di inammissibilità del decreto cautelare monocratico sulla base di una interpretazione strettamente letterale della norma codicistica richiamata, nonché sul principio della piena soggezione del giudice alla legge di cui all’art. 101 della Costituzione.
Nonostante la linearità del ragionamento sviluppato dal giudice, si ritiene di dover svolgere, però, delle considerazioni a margine della decisione, soprattutto in relazione all’assenza di un qualsivoglia riferimento al generale principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Ciò premesso, al fine di comprendere al meglio le questioni sollevate dalla pronuncia in commento, si impone, anzitutto, l’esigenza di ripercorrere brevemente le vicende che hanno condotto alla sua emanazione.
2. La vicenda e la decisione del Consiglio di Stato.
La vicenda origina dal ricorso presentato da un’amministrazione comunale per l’annullamento dell’ordinanza con cui il Presidente della Provincia di riferimento aveva autorizzato lo stoccaggio temporaneo e speciale di alcuni rifiuti rimpatriati dall’estero presso il territorio del Comune ricorrente. In particolare, con il medesimo atto di ricorso, il ricorrente aveva, altresì, richiesto, la concessione di misure cautelari urgenti ex art. 56 c.p.a., al fine di ottenere quantomeno la sospensione dell’efficacia dell’ordinanza e, dunque, di evitare lo stoccaggio dei 213 container di rifiuti nel sito locato entro il territorio comunale.
Il Presidente del T.A.R. competente, però, ritenendo insussistenti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza cautelare e, nello specifico, considerando del tutto generiche le ragioni di tutela della salute pubblica, dell’ambiente e dell’ordine pubblico prospettate dal ricorrente, nonché la prevalenza dell’interesse ad una rapida ed efficace definizione della vicenda mediante il trasferimento dei rifiuti, procedeva al respingimento della medesima istanza, nonché alla fissazione, per il mese successivo, della Camera di Consiglio per la trattazione in sede collegiale[3].
Di conseguenza, il ricorrente procedeva all’impugnazione del decreto così pronunciato dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, però, come preannunciato, ne dichiara l’inammissibilità.
Nel dettaglio, il Presidente della Quarta Sezione, dopo aver rilevato trattarsi dell’impugnazione di un decreto reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a. e, dunque, espressamente qualificato, dal relativo comma 2, come non impugnabile, al fine di motivare la pronuncia di inammissibilità, procede a richiamare (pressoché integralmente[4]) il decreto del Presidente della Quinta Sezione del 18 febbraio 2022, n. 798.
Invero, quest’ultimo aveva ribadito l’espressa affermazione di non impugnabilità del decreto di cui all’art. 56 c.p.a. da parte della disposizione codicistica, nonché la previsione, da parte del comma 4, dell’efficacia del decreto fino alla trattazione in sede collegiale, periodo in cui, peraltro, è sempre passibile di revoca o modifica su istanza delle parti. Il decreto richiamato, inoltre, sottolineava come anche per i decreti cautelari ante causam, concessi ai sensi dell’art. 61 c.p.a., sia prevista la non impugnabilità accompagnata dalla possibilità di riproporre l’istanza. Infine, esso invocava quanto stabilito dall’art. 62 c.p.a., a chiusura del sistema, circa la previsione dell’appellabilità delle ordinanze cautelari (e, pertanto, non dei decreti), da leggere alla luce del principio di stretta tipicità legale del sistema delle impugnazioni.
Il Presidente della Quarta Sezione procede, inoltre, ad invocare il principio di soggezione del giudice alla legge enunciato dall’art. 101 Cost. In particolare, in ragione di tale principio, egli afferma come in presenza di una preclara formulazione testuale della normativa applicabile, l’unico strumento idoneo a prospettare una differente esegesi è rappresentato dalle sentenze manipolative di accoglimento della Corte costituzionale, potendo solo questa modificare il diritto oggettivo nazionale.
In aggiunta a ciò, ai fini di completezza della parte motiva, viene sottolineato come non si rivengano nemmeno profili di abnormità dell’appellato decreto che possano implicare una non sussunzione dello stesso nelle maglie della fattispecie legale di cui all’art. 56 c.p.a.
Infine, il giudice procede alla fissazione della camera di consiglio in sede di appello (in data successiva alla camera di consiglio fissata in prime cure), ritenendo, comunque, necessaria la garanzia di esercizio dei poziori poteri cognitori di pertinenza del Collegio.
3. L’analisi del dato normativo
Onde comprendere al meglio la portata del dibattito giurisprudenziale sorto intorno al tema dell’appellabilità dei decreti cautelari monocratici, si ritiene di muovere dall’analisi della disciplina legislativa sul punto. Essa è oggi contenuta all’interno dell’articolo 56 del codice del processo amministrativo, il quale regola l’eventualità in cui la richiesta cautelare, per l’estrema gravità e urgenza della situazione, non possa attendere la fissazione della camera di consiglio. In tali casi la norma prevede, dunque, la possibilità di derogare al principio di collegialità delle decisioni nel processo amministrativo, richiedendo al Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale competente l’adozione di misure cautelari provvisorie prima della trattazione della domanda cautelare da parte del Collegio.
In realtà, tale possibilità non ha rappresentato una novità del Codice del Processo Amministrativo, essendo stata, infatti, prevista una forma di tutela cautelare monocratica già nell’ambito dell’art. 21 co. 9 L. Tar, introdotto dalla L. 21 luglio 2000, n. 205[5]. A differenza della disciplina previgente, la quale contemplava la possibilità che il Presidente del Tar provvedesse anche in assenza di contraddittorio, però, il codice del processo amministrativo ha imposto l’attuazione del contraddittorio, sebbene in una forma limitata[6]. Invero, gli unici adempimenti richiesti al ricorrente sono rappresentati dalla notifica (anche via fax) del ricorso all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati, il cui perfezionamento deve essere verificato dal Presidente o da un magistrato da lui delegato. Peraltro, qualora per cause non imputabili al ricorrente non sia possibile accertare il perfezionamento delle notificazioni, il Presidente può comunque provvedere, fatto salvo il potere di revoca. Inoltre, i soggetti a cui sia stata notificata la richiesta cautelare possono richiedere di essere sentiti dal Presidente anteriormente al decreto, fuori udienza e senza formalità[7].
In ogni caso, una volta emanato il decreto cautelare ricorrendone i presupposti[8], il procedimento cautelare si incanala in quello ordinario affinché possa trovare il suo esito definitivo nell’ordinanza collegiale. In tal senso, si spiega anche la disposizione codicistica che prevede che il decreto mantenga la sua efficacia fino alla camera di consiglio di cui all’art. 55 co. 5 c.p.a.
Quanto ai rimedi esperibili avverso il decreto presidenziale, il Codice prevede espressamente la possibilità per le parti notificate di richiederne la revoca o la modifica fintanto che esso conserva la sua efficacia. Stando alla lettera dell’art. 56, co. 4, invece, il decreto presidenziale non è impugnabile con l’appello al Consiglio di Stato. Sul punto, però, la giurisprudenza amministrativa ha sviluppato orientamenti differenti.
4. L’orientamento favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico.
Nonostante l’espressa previsione legislativa dell’inappellabilità del decreto cautelare monocratico, si sono registrate varie pronunce del Consiglio di Stato che, andando oltre il dato normativo, ne hanno ritenuto ammissibile l’impugnazione. Ciò, peraltro, a dimostrazione della centralità assunta dalla tutela cautelare nel processo amministrativo[9].
In particolare, come già evidenziato in premessa, pronunce in tal senso si sono susseguite durante il periodo pandemico in cui i procedimenti cautelari, per espressa previsione legislativa, sono stati decisi con il rito di cui all’art. 56 c.p.a. per espressa previsione dell’art. 84 del D.L. 18/2020. Al proposito è stato, peraltro, osservato come “l’apporto della giurisprudenza del Consiglio di Stato in questo senso può essere letto quale intervento di costruzione del provvedimento cautelare in risposta alle esigenze della società”[10].
Anche prima dell’insorgere della pandemia, però, si erano registrate delle pronunce di tale tenore. Specificamente, con il decreto monocratico 5971 del 2018[11], la quinta Sezione del Consiglio di Stato, facendo leva sul principio della indefettibilità della tutela cautelare nel corso di qualsiasi fase e grado del processo desumibile dall’art. 24 della Costituzione e dagli artt. 6 e 13 della CEDU, aveva accolto l’appello presentato avverso un decreto monocratico del Tar Emilia Romagna che non aveva concesso la misura cautelare richiesta dal ricorrente. In particolare, la Sezione aveva affermato che “l'appellabilità del decreto monocratico del Presidente del T.A.R. va considerata ammissibile esclusivamente quando vi siano eccezionali ragioni d'urgenza, tali da rendere irreversibile - per il caso di mancata emanazione di una misura monocratica in sede d'appello - la situazione di fatto, a causa del tempo che intercorre tra la data di emanazione del decreto appellato e la data nella quale è fissata la camera di consiglio per l'esame della domanda cautelare, da parte del T.A.R. in sede collegiale”.
Il Consiglio di Stato aveva, dunque, operato una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 56 c.p.a., volta a consentire non un appello indiscriminato dei decreti monocratici presidenziali, ma una possibilità di impugnazione, secondo ragionevolezza, nei casi in cui esso rappresenti l’unico strumento di tutela effettiva del ricorrente. Ciò al fine di garantire il principio di indefettibilità della tutela cautelare.
Sulla stessa scia di questa decisione, decreti più recenti del Consiglio di Stato hanno considerato ammissibile l’appello nei confronti di quei provvedimenti che, in casi eccezionali, siano qualificabili come “decreti meramente apparenti”, avendo soltanto la veste formale di decreti ma un contenuto sostanzialmente decisorio[12]. Nell’opinione del Consiglio di Stato, in particolare, ciò accade quando la decisione monocratica di primo grado possa potenzialmente definire in maniera irreversibile la questione oggetto del giudizio.
Ancora, all’inizio del periodo pandemico, il Presidente della III Sezione, pronunciandosi sull’appello proposto avverso un decreto presidenziale che rigettava l’istanza di sospensione cautelare dell’ordine di quarantena obbligatoria, ha asserito come “il decreto monocratico presidenziale del T.A.R., adottato ai sensi dell'art. 56 c.p.a., è appellabile nei soli casi in cui l'effetto del decreto presidenziale produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e dovendo tale bene della vita corrispondere ad un diritto costituzionalmente tutelato dell'interessato”[13].
Allo stesso modo, in una precedente occasione, il Consiglio di Stato, pur dichiarando nel caso di specie inammissibile l’appello, essendo stato escluso ogni pericolo di perdita definitiva del bene della vita direttamente tutelato dalla Costituzione, aveva implicitamente sposato la tesi per cui quando ciò accada l’appello deve essere esaminato[14].
Deve osservarsi, inoltre, come tali pronunce si pongano in linea con quella risalente giurisprudenza del Consiglio di Stato che, nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, affermò l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze dei T.A.R. aventi ad oggetto la sospensione dei provvedimenti impugnati, nonostante il silenzio della l. 1034/1971 sul punto[15]. In particolare, l’Adunanza Plenaria n. 1 del 1978 asserì come l’impugnabilità di tali ordinanze dovesse essere desunta, non tanto dalla loro veste formale, quanto invece in base alla loro natura decisoria, ovverosia alla loro capacità di produrre effetti assimilabili a quelli della sentenza. E, poiché, l’ordinanza cautelare “risolve, in contraddittorio tra le parti, una specifica controversia (eseguibilità o meno dell’atto prima dell’esaurimento del relativo giudizio di impugnazione), cioè un conflitto di pretese[16]”, la stessa va ritenuta impugnabile.
Si ritiene doveroso menzionare, altresì, la sentenza con cui la Corte costituzionale, sulla base del principio del doppio grado di giudizio, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della L. n. 1 del 1978 nella parte in cui escludeva l’appellabilità al Consiglio di Stato delle ordinanze cautelari dei T.A.R.[17]. Invero, la Consulta, da un lato, richiamando l’art. 125 Cost. aveva asserito come il principio del doppio grado di giurisdizione fosse applicabile anche al settore amministrativo e, dall’altro, sottolineato come anche il procedimento cautelare, in quanto intimamente connesso con il processo di merito, dovesse consentire la soddisfazione dell’interesse meritevole di tutela.
5. L’orientamento opposto sposato dal Presidente della IV Sezione.
Come precedentemente descritto, con l’occasione che ha dato origine al decreto che si commenta, il Presidente della IV Sezione del Consiglio di Stato avverte, invece, l’esigenza di riaffermare l’inappellabilità dei decreti monocratici cautelari. A tal fine, individua nella sottoposizione dei giudici alla legge di cui all’art. 101, co. 2, Cost. un punto essenziale della motivazione. Nello specifico, il Presidente sottolinea come soprattutto nei casi di una chiara formulazione letterale delle norme, non sia possibile da parte del giudice una esegesi differente (o, meglio, contraria), evidenziando inoltre, come l’unico strumento interpretativo idoneo a modificare il diritto oggettivo nazionale sia rappresentato dalle sentenze di accoglimento (pur se manipolative) della Corte costituzionale.
Tale decreto si inserisce, pertanto, nell’ambito delle decisioni che escludono l’appellabilità dei decreti cautelari monocratici. Queste hanno nel tempo fatto leva su diverse motivazioni, evidenziate anche da commenti della dottrina. In particolare, oltre ad aver sottolineato la chiarezza del dato normativo espresso, è stato evidenziato come tale eccezionale misura cautelare monocratica presidenziale “ha funzione strettamente interinale prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio e che il relativo «decreto» è per legge «efficace sino a detta camera di consiglio», che costituisce la giusta sede per l’esame della domanda cautelare”[18].
Inoltre, deve rilevarsi come la pronuncia di un decreto da parte del Presidente di una delle Sezioni del Consiglio di Stato possa comportare delle problematiche di ordine pratico, dovendosi considerare la possibile sovrapposizione tra la pronuncia monocratica cautelare in grado di appello e quella collegiale in primo grado.
Addirittura, più recentemente, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia ha emesso una pronuncia di non luogo a provvedere in relazione ad una impugnazione avente ad oggetto un decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a. evidenziando come non via sia luogo a provvedere sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti e non essendoci alcuna possibilità per il Presidente di esercitare poteri non previsti da disposizioni legislative[19].
Infine, attenta dottrina ha osservato la volontà del legislatore nel senso della non appellabilità dei decreti presidenziali monocratici sia emersa con chiarezza anche nella vigenza dell’art. 84 del Decreto c.d. “Cura Italia”[20]. Infatti, anche in tale caso, l’appellabilità di tali provvedimenti, inserita dapprima nello schema, è stata espunta dalla versione definitiva del decreto.
6. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il ruolo del giudice.
Deve rilevarsi come la pronuncia in commento, motivando la sua decisione esclusivamente sulla base dell’interpretazione letterale della norma e del principio di sottoposizione del giudice alla legge, evita di operare qualsivoglia riferimento al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Tale principio, però, volendo utilizzare la celebre espressione di Chiovenda, è la “vivida stella che irradia la sua luce sull'intero sistema”, volta ad assicurare “tutto quello e proprio quello" che il processo mira a garantire[21] e, come tale, non può non guidare l’attività dei giudici. Del resto, è proprio su questo principio che si fondano le teorie a sostegno dell’appellabilità dei decreti cautelari nei casi eccezionali precedentemente descritti.
In questo senso, dunque, si deve osservare come, se è pur vero che una pronuncia della Corte costituzionale potrebbe risolvere la situazione in maniera chiara, è il giudice del caso concreto a essere chiamato a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. In relazione a ciò, peraltro, essendo le richieste cautelari connotate da gravità e urgenza, è evidente come l’esperimento di un incidente di costituzionalità (con le sue relative tempistiche) vanificherebbe qualsiasi effettività della tutela per il richiedente.
Ecco, quindi, che pur concordandosi con l’affermato principio di sottoposizione del giudice alla legge e, dunque, con impossibilità per questi di andare contro l’espresso dato normativo, si ritiene che l’esigenza di effettiva tutela richiesta dal ricorrente non possa, comunque, passare in secondo piano, essendo il giudice chiamato a garantirla in ogni situazione.
Potrebbero, pertanto, essere apprezzabili le richiamate pronunce a favore dell’impugnabilità di tale tipo di decisioni, che hanno tentato di delineare dei confini per l’appellabilità dei decreti cautelari monocratici senza utilizzare un approccio netto nel senso dell’ammissibilità delle impugnazioni, ma provando a limitarle ai casi di natura decisoria dei provvedimenti, nonché di compromissione definitiva della situazione concreta. Al proposito, però, non può sottacersi l’effettivo rischio di vanificazione del principio di certezza del diritto, connessa alle differenti qualificazioni dei casi concreti da parte dei singoli giudici.
Inoltre, non può non considerarsi anche come le risalenti (e citate) pronunce dell’Adunanza Plenaria e della Corte costituzionale, volte a consentire l’appello delle ordinanze cautelari nel silenzio della legge, abbiano fondato le loro motivazioni proprio sul fatto che le disposizioni di interesse non contenevano divieti e limiti espressi all’impugnazione. Quanto all’articolo 56 c.p.a. deve, invece, ribadirsi come esso contenga una espressa previsione di inappellabilità dei decreti presidenziali monocratici. In questo senso, effettivamente, l’osservazione della pronuncia in commento circa l’impossibilità per il giudice di operare una interpretazione contra legem è più che pertinente.
7. Considerazioni conclusive.
È evidente come la questione dell’appellabilità dei decreti cautelari monocratici sia tuttora aperta nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, la quale continua a far registrare orientamenti opposti in seno alle differenti Sezioni, a prescindere dalla parentesi rappresentata dalla vigenza dell’art. 84 del D.L. 18/2020 del periodo pandemico. Ciò, del resto, conferma la perdurante sussistenza di questioni controverse nell’ambito della tutela cautelare del processo amministrativo[22].
Sarebbe, dunque, alla luce delle considerazioni sopra svolte, auspicabile un intervento del Legislatore sul punto o, quantomeno una pronuncia chiarificatrice dell’Adunanza Plenaria. Invero, l’esistenza di orientamenti così contrastanti (o, addirittura, opposti) potrebbe comportare delle diversificazioni rilevanti nella tutela degli interessi dei consociati, i quali, a seconda della Sezione competente, troverebbero forme di tutela contrapposte. È evidente come ciò possa produrre una intollerabile situazione di disparità di trattamento.
Inoltre, come già osservato, questioni problematiche sorgono anche in relazione al principio della certezza del diritto, messo a dura prova dalle differenti opinioni delle varie Sezioni del Consiglio di Stato.
[1] In particolare, si sta facendo riferimento all’art. 84 del D.L. del 17 marzo 2020, n. 18 (“Cura Italia”), il quale, per il periodo ricompreso tra l’8 marzo 2020 e il 15 aprile 2020, oltre ad aver disposto la sospensione di tutti i termini relativi al processo amministrativo, nonché il rinvio delle udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti, ha previsto che “i procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all'articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”.
[2] Tra gli altri, si menzionano i decreti presidenziali n. 6534 del 2021 e n. 798 del 2022 (quest’ultimo richiamato nella sua parte motiva dallo stesso decreto che qui si sta annotando).
[3] Tar Campania, Sez. dist. Salerno, 23 aprile 2022, n. 174.
[4] L’unica affermazione non condivisa del richiamato decreto è quella relativa alla esclusione della necessità di fissare “una inconfigurabile trattazione in sede camerale-cautelare in grado di appello”.
[5] Esso affermava che “prima della trattazione della domanda cautelare, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, contestualmente alla domanda cautelare o con separata istanza notificata alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie. Il presidente provvede con decreto motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il decreto è efficace sino alla pronuncia del collegio, cui l'istanza cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile. Le predette disposizioni si applicano anche dinanzi al Consiglio di Stato, in caso di appello contro un'ordinanza cautelare e in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata”.
[6] Sul punto, per una riflessione più approfondita, si veda R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. n. 205/200 al Codice del Processo Amministrativo, Giuffré editore, Milano, 2010, pp. 208ss.
[7] In dottrina tale contraddittorio viene qualificato come embrionale e deformalizzato (F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, II ed., Dike giuridica, Roma 2020, pp. 1541ss.).
[8] Sebbene l’articolo 56 c.p.a. menzioni espressamente soltanto il presupposto del periculum in mora, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere necessaria una ricognizione, anche se sommaria, del fumus boni iuris da parte del giudice. Diversamente opinando, si contraddirebbe il fondamentale principio di strumentalità della tutela cautelare, potendosi attribuire, seppur temporaneamente, situazioni di vantaggio non giustificate dall’esigenza di garantire l’esito della decisione finale. Sul punto A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, XIII ed., Giappichelli Editore, Torino, 2019, pp. 285 ss.
[9] In particolare, R. LEONARDI, ha affermato che “la centralità assunta dalla tutela cautelare nel processo amministrativo ha dato vita a un continuo susseguirsi di norme e di orientamenti giurisprudenziali, nazionali ed europei, che nel tempo ne hanno cambiato profondamente, e continuano a farlo, la fisionomia e i contenuti.” (R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. n. 205/200 al Codice del Processo Amministrativo, Giuffré editore, Milano, 2010, p. 3).
[10] I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[11] Cons. St., Sez. V, decreto monocratico, 7 dicembre 2018, n. 5971.
[12] In questo senso, Cons. St., Sez. III, decreto monocratico, 10 marzo 2021, n. 1224.
[13] Cons. St., Sez. III, 30 marzo 2020, n. 1553.
[14] Cons. St., Sez. III, 27 aprile 2020, n. 2294.
[15] Il dibattito giurisprudenziale era sorto a causa dell’articolo 28, co. 2, della L. 1034/1971, il quale prevedeva l’appello in Consiglio di Stato per le sentenze emesse dai T.A.R., nulla disponendo, invece, quanto alle ordinanze. Sul tema si veda, A. DE SIANO, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in Federalismi.it, 8 gennaio 2020.
[16] Cons. St., Ad. Pl., 20 gennaio 1978, n. 1.
[17] Corte costituzionale, 14 gennaio 1982, n. 8.
[18] Così, Cons. St., Sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015.
[19] C.g.a., Sez. giuris., 25 agosto 2020, n. 624. Sul punto si veda M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione del’art 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid–19, 31 marzo 2020.
[20] I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[21] G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960.
[22] Come osservato da F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell'amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio Emergenza Covid-19, 13 marzo 2020, anche le norme dettate nel periodo di emergenza in tema di tutela cautelare “non rispondono ad alcun principio e si disperdono in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento”.
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